FILIPPO CECCARELLI
La Repubblica 23 marzo 2015
Esistono riunioni politiche che anche
senza volerlo finiscono per assomigliare a sedute di autocoscienza
famigliare in cui padri, zii, figli, fratelli e nonni se ne dicono e
se ne rinfacciano di tutti i colori senza che alcuno si senta in
colpa, quando tutti invece sono colpevoli.
Di Massimo D’Alema, che ieri ha
impresso il suo marchio incandescente sull’assemblea della
minoranza Pd raccoltasi in un luogo che si chiama — oh, guarda un
po’! — “l’Acquario”, ecco, dell’ex Leader Maximo si può
pensare tutto il male possibile, ma non che sia un uomo ignorante.
Così quando ha cercato di sfondare
Renzi aveva di sicuro in testa un celebre passo di Gramsci, di quelli
che nelle scuole di partito si mandavano a mente: «Una generazione
che deprime la generazione precedente, che non riesce a vederne le
grandezze e il significato, non può che essere meschina e senza
fiducia in se stessa, anche se assume pose gladiatorie e smania per
la grandezza». E qui il giudizio del pensatore sardo si fa così
tagliente da violare le logiche, i canoni e i tabù di classe: «È
il solito rapporto tra il grande uomo e il cameriere».
Il brano di Gramsci, poco solidale con
i camerieri, ma molto acuto e parecchio calzante alle dinamiche della
sinistra, attribuisce a colui che «rimprovera al passato di non aver
compiuto il compito del presente» un ruolo minore e perfino
disprezzabile, quello dei “costruttori di soffitte”. I palazzi
infatti li hanno edificati i padri, ma i figli li accusano di non
averli fatti a dieci o a trenta piani: «Dite di esser capaci di
costruire cattedrali — conclude Gramsci — ma non siete capaci che
di costruire soffitte ».
D’Alema ha ottenuto i suoi applausi.
Ma già Cuperlo, che per tanti anni è vissuto al centro del
dalemismo reale, si preparava a prendere le distanze non tanto dal
D’Alema di oggi, ma da quello che non ha fatto il suo dovere nel
passato. E poiché anche Cuperlo ha letto Gramsci, la sua
recriminazione vale almeno il doppio, e il suo ex capo se n’è
dispiaciuto giudicandola insensata.
Matteo Orfini, d’altra parte, che di
D’Alema pareva aver mutuato addirittura il timbro e l’eloquio,
ieri nemmeno s’è affacciato all’”Acquario”. Renzi in effetti
se l’è ben scelto come presidente del Pd e siccome il giovane
turco ha capito rapidamente cosa ci si aspetta da lui, ieri ha fatto
un tweet accusando D’Alema di aver usato “toni degni di una rissa
da bar” — là dove l’antica consuetudine gli dava la certezza
di avergli messo un dito nell’occhio.
Ora, Renzi la fa gramscianamente un po’
facile non solo con le soffitte, ma ci mette pure le cantine, il
garage, gli appartamenti, la chiostrina, i lastrici solari e le
antenne della tv. Stringi stringi, la sua migliore saggezza sta nel
dire: io non c’ero. Perciò rottama chi gli pare, come gli pare,
quando gli pare, e se ne compiace osservando i dilemmi di quella
parte del Pd che lo contrasta: «Se si chiama minoranza, c’è un
motivo ed è perché ha perso».
Non è carino dirlo. Ma non sarà né
il primo né l’ultimo a pensarlo. Si può notare semmai che in
questo genere di arroganza impetuosa e a tutto tondo, di puro potere,
Matteo ricorda Fanfani e Craxi; mentre De Mita e lo stesso D’Alema
si distinguevano piuttosto per una arroganza, o magari è superbia,
comunque di tipo intellettuale, di cui Renzi è privo.
Qualche mese fa, forse un po’
pateticamente, Camusso è sfilata contro il governo indossando una
maglietta con su scritto: «Arrogance, profumo di premier ».
Sennonché, oltre a essere arrogante, quale prodotto dell’evoluzione
della specie in un tempo di personalismo leaderistico e
post-ideologico, spesso Renzi rivendica questo suo tratto. Meglio
arrogante, dice, che vigliacco; meglio arrogante che disertore;
meglio arrogante che arrendermi e così via, in un continuo di “ce
ne faremo una ragione”, “non accettiamo lezioni” e altri
plurali che in risposta alle critiche sulla decretazione d’urgenza
fino all’uso del “Renzicottero” suonano sempre più majestatis.
Anche D’Alema, come si diceva, non è
che ai suoi tempi e anche oggi sia da considerarsi un dilettante
dell’arroganza. Esiste in proposito una vasta letteratura non priva
di auto-ammissioni e di autentiche perle, alcune perfino “postume”,
cioè elargite dopo la rottamazione. Una registrata a Napoli: “Sapete
che ho un’alta concezione di me. Ho mediato tra israeliani e
palestinesi, non sono venuto qui per mediare tra bassoliniani e
anti-bassoliniani». L’altra, accogliendo quasi paterno il ciao di
Serracchiani: «Cara, hai fatto la tua fortuna su di me».
Ecco, anche all’”Acquario” la
fortuna è capricciosa. Ma con l’ausilio di Gramsci, la
collaborazione di Cuperlo e la competenza di Orfini per una volta la
dea bendata sembra che abbia ha poco a che fare con gli inevitabili
psicodrammi del post dalemismo inter-famigliare e meta-
generazionale.
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