Corriere della Sera 08/03/15
Intervista di Paolo Valentino
« Spero che in Libia la forza
della disperazione faccia il miracolo: se sono tutti a Rabat è
perché sono disperati. L’Isis è diventato tragico fattore
unificante nella politica mondiale. Per la prima volta, tutte le
grandi potenze hanno la stessa paura, anche se non la stessa
politica, Cina, Russia, Europa, Usa. Mi auguro che a Rabat i Paesi
che hanno influenza — e includo anche Egitto, Algeria, Turchia e
Qatar — siano finalmente d’accordo nell’attivare ognuno le
proprie leve e canali».
L’ha vissuta sin dall’inizio, la
crisi libica, Romano Prodi. Fu lui, da presidente della Commissione
europea, a invitare a Bruxelles un Gheddafi «stanco di fare il
trouble maker e di creare tensione nella regione sub-sahariana». Uno
sdoganamento «all’inizio molto criticato nel mondo anglosassone»,
che poi però fu il primo a correre verso il colonnello, annusando
buoni affari. Il fragile equilibrio che ne seguì, con Gheddafi
fattore di relativa stabilità all’esterno e dittatore spietato
all’interno, venne però spazzato via dalla guerra, sull’onda
delle primavere arabe.
«Con la morte di Gheddafi — spiega
Prodi, ricevendomi nella sede della sua “Fondazione per la
collaborazione fra i popoli” — i mercenari privi di paga si sono
presi quello che c’era: una montagna di armi. In questo quadro
caotico, è caduto l’intervento militare Nato, privo però di ogni
idea forte sul dopo, a parte la vaga ipotesi di elezioni. Da allora,
ci sono state solo rotture progressive, fino ai governi contrapposti
di Tobruk e Tripoli, con la complicazione nell’ultimo anno
dell’Isis, forse non così forte numericamente, ma potentissimo
quando si muove in un ambiente pieno di ambiguità. Ora è un
incessante bagno di sangue. Ma c’è per fortuna la convinzione
generale che un intervento esterno sul terreno sia impossibile, per
la natura frammentata dello scontro e perché avrebbe l’effetto di
unire tutti contro l’invasore. Rischieremmo un secondo
Iraq».
Presidente Prodi, perché la mediazione dell’Onu si è
rivelata insufficiente?
«L’handicap della mediazione è stato il
ritardo con cui venne lanciata. La situazione era già deteriorata.
Avremmo dovuto forzare di più le parti».
E l’Europa?
«Non
c’è stata. Non ha avuto una politica, in Libia come altrove. È
stata divisa, sempre. Devo aggiungere, per esperienza personale, che
quando è in ballo il Mediterraneo, è difficile attirare
l’attenzione dei Paesi del Nord. Quand’ero alla Commissione,
hanno sempre bocciato ogni mia proposta, come la Banca per il
Mediterraneo o le università miste. Dopo l’allargamento a Est,
l’unica vera esportazione di democrazia della Storia, avevamo
l’impegno di dare una risposta anche a Sud. Quell’impegno non è
stato onorato. Oggi ne paghiamo il prezzo».
L’ipotesi del suo
ruolo come mediatore resta attuale?
«Nell’estate 2014 ci sono
state nuove richieste libiche, dirette al governo italiano, per una
mia mediazione. Ma anche in questo caso, come già nel 2011, non c’è
stato alcun riscontro. Ho incontrato il presidente Renzi a Palazzo
Chigi il 15 dicembre e l’unico discorso personale ha riguardato
l’ipotesi, avanzata da lui, di una mia candidatura a segretario
generale dell’Onu. Io l’ho ringraziato per l’onore, ma gli ho
spiegato che a 77 anni, quanti ne avrò alla scadenza di Ban Ki-moon,
non è facile ricoprire quella carica. Inoltre, c’è un forte
supporto politico per altri candidati. Quella di una mia mediazione
in Libia, mi sembra un’ipotesi superata dai fatti».
Parliamo
dell’Ucraina. È ottimista che l’accordo di Minsk possa essere
rispettato?
«Mi sembra vada meglio del primo. Penso che nessuno
abbia ora interesse a rompere il filo della diplomazia».
Lei si
è detto rattristato dall’assenza dell’Ue a Minsk.
«Molto».
Ma
se l’Alto Rappresentante per la politica estera si fosse chiamato
Tony Blair, Joschka Fischer oppure Romano Prodi, sarebbe stato
escluso dal vertice bielorusso?
«È chiaro che qualcuno con forza
politica e rapporto personale consolidato con chi sedeva a Minsk
poteva avere più possibilità di esserci. È ben noto che la
politica si nutre di rapporti personali. Federica Mogherini ha tempo
e possibilità di costruirli».
Ci spiega la proposta sulla
gestione comune del gas in Ucraina?
«Ne ho parlato con Putin,
Gentiloni, Mogherini e col ministro degli Esteri tedesco. Qual è
l’interesse comune a Russia, Europa e Ucraina? La sicurezza di
vendite e forniture di gas. Ora che Mosca, per ragioni di
convenienza, ha rinunciato al South Stream, ho proposto di fare una
società con quote paritarie, tra Russia, Ue e Kiev. Servirebbe a
gestire in comune trasporto e distribuzione del gas senza spendere
nulla. Se Mosca e l’Europa sono d’accordo, l’Ucraina è
obbligata a starci».
Il gas come il carbone e l’acciaio della
Ceca, che nel Dopoguerra chiuse la rivalità tra Francia e
Germania?
«Esattamente. I tubi sono lì. Ognuno consegue i propri
obiettivi, le tensioni calano. Ci sono reazioni positive».
Trova
opportuna la visita di Renzi a Mosca?
«Certo. Quando si rimprovera
all’Italia una posizione morbida sulle sanzioni alla Russia,
occorre ricordare che c’è una regola generale sull’equa
distribuzione dei sacrifici. Queste sanzioni non sono eque. Le
esportazioni americane verso la Russia sono aumentate. Il danno
subito dall’economia Usa è pari a zero. Se un Paese agisce
diversamente in base alla propria situazione oggettiva, non possiamo
chiamarla viltà».
Lei ha detto che dopo la fine della Guerra
Fredda, Russia ed Europa hanno sprecato l’occasione di costruire un
ordine globale cooperativo. Di chi sono le responsabilità?
«La
questione è controversa. Era stato promesso, in modo ufficiale o
ufficioso, che non si sarebbe portata la Nato ai confini della
Russia. Diversa fu la decisione riguardo ai Paesi Baltici. Ma nel
2008, ci fu la proposta di far entrare Georgia e Ucraina
nell’Alleanza. Al vertice di Bucarest, insieme con Germania e
Francia, io votai contro. Fu l’ultimo atto del mio governo. Era una
questione di buon senso. Ma da quel momento, la Nato è ridiventata
un’ossessione per i russi. In verità era già cominciato con
l’Iraq. Me lo disse Putin, una notte nel 2003, nell’immediata
vigilia del conflitto: “Dobbiamo far di tutto per evitare la
guerra, perché dopo l’Iraq verrà la Georgia e poi l’Ucraina”.
Ma perché lo dici a me, gli chiesi, io sono presidente della
Commissione, non ho competenze di politica estera. Proprio per
questo, rispose, voglio un consiglio. Ma era troppo tardi. Ricordo
però con chiarezza che Putin era sconvolto. Allora si aprì una
ferita non ancora richiusa. Ora però ci sono sufficienti interessi
comuni per farlo».
Ma come trovare l’equilibrio tra interessi
e valori nei rapporti con Mosca? Si possono ignorare autoritarismo e
violazioni del diritto internazionale da parte di Putin?
«Una
politica di apertura aiuta la democrazia. Mercato aperto e scambi
culturali sono il modo migliore per far avanzare valori democratici e
diritti umani. È la paura che ci rende insegnanti e non dialoganti.
Probabilmente la fragilità dei sistemi democratici giustifica le
nostre paure. Ma solo una democrazia dialogante può contaminare
positivamente i sistemi autoritari. Una democrazia che si vuole
maestra, con la bacchetta e magari il fucile, rischia di essere
controproducente. D’altra parte, dialogare con San Francesco è
facile. Il problema è parlare con il lupo».
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