Il Sole 24 ore 28 febbraio 2015
La politica è spesso mobilitazione di
pregiudizi. Un esempio è la denuncia fatta dalla presidente della
Camera dei deputati dell’«uomo solo al comando» (cioè Matteo
Renzi) che starebbe minacciando la democrazia italiana. Viene
mobilitato il pregiudizio che la leadership coincida con la tirannia,
da un politico (Laura Boldrini) che proviene da un partito (Sel) in
cui, lì davvero, c'è un uomo solo al comando (Nichi Vendola).
Oppure si consideri la discussione sulla riforma elettorale in
discussione, l’Italicum, che intende promuovere una competizione
tra due partiti e i loro leader. Quella riforma viene denunciata
perché promuove l’«uomo solo al comando» (chissà perché le
donne non sono mai considerate) da politici, come Matteo Salvini o
Renato Brunetta o Luigi Di Maio o Giorgia Meloni, che fanno parte di
partiti che sono strettamente personali, come Lega o Forza Italia o 5
Stelle o Fratelli d’Italia. Oppure si guardi al più generale
dibattito sulla riforma istituzionale. Non passa giorno che qualcuno
non denunci, come ha fatto l’ex presidente della Corte
costituzionale Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica del 25 febbraio), i
cambiamenti istituzionali in corso di approvazione in quanto
destinati a smantellare la nostra democrazia costituzionale,
«comprimendo la rappresentanza e schiacciando le minoranze, nella
logica vincitore-vinti».
Il pregiudizio negativo nei confronti
del leader può avere in alcuni casi (la generazione più anziana)
una giustificazione ideologica. L’ascesa del leader mobilita il
ricordo del capo che parlava dal balcone di Palazzo Venezia.
Tuttavia, nella maggioranza dei casi quel pregiudizio riflette la
difesa di posizioni di potere. Per addomesticare le sue drammatiche
divisioni post-belliche, la democrazia repubblicana ha costruito un
sistema istituzionale a potere diffuso (tra le due camere del
Parlamento, tra una molteplicità di partiti, all’interno dei più
grandi di questi ultimi, tra le burocrazie statali, tra le agenzie e
le imprese a partecipazione pubblica), così da prevenire ogni
decisione che non godesse di un consenso vastissimo. Quella
democrazia ha creato anche una predisposizione diffusa nel Paese,
ovvero che la decisione è un vizio da evitare e non già una virtù
da coltivare. Per decenni, l’Italia ha così acquisito un carattere
oligarchico dalla testa ai piedi. Il funzionamento del Parlamento è
stato l’emblema di questa logica: le decisioni venivano prese
consensualmente, coinvolgendo tutte le forze politiche, anche a costo
di non prenderle affatto. Naturalmente, un sistema che non ha
capacità decisionale affida ad altri il compito di prendere
decisioni al suo posto. Nel nostro caso, furono spesso gli Stati
Uniti e le istituzioni comunitarie ad assumersi questo compito. Ma
soprattutto un sistema consensuale è inevitabilmente irresponsabile.
Se l’Italia ha ancora una questione meridionale irrisolta (anzi,
peggiorata), di chi è la responsabilità?
Le oligarchie sono spaventate
dall’arrivo dei leader. Di qui la resistenza accanita contro il
leader, nel nostro caso Matteo Renzi, ridotto a «uomo solo al
comando». Ma si tratta di una resistenza inefficace. Non solo perché
l’Italia è cambiata e ci si è accorti che senza la buona
leadership è impossibile risolvere problemi collettivi, innovare
un’organizzazione e motivarne i membri. Ma perché è cambiata
anche la Repubblica sotto la spinta dei processi di integrazione
politica e monetaria. Articoli come quello di Gustavo Zagrebelski o
interventi come quello di Laura Boldrini sarebbero impensabili nelle
altre grandi democrazie europee. A nessuno verrebbe in mente, in
Germania, di denunciare il cancelliere Angela Merkel come «una donna
sola al comando», o, nel Regno Unito, il premier David Cameron come
«il despota del partito conservatore». Le grandi democrazie non
funzionano senza leader. I leader producono beni collettivi.
Naturalmente, nessuna grande democrazia è priva di meccanismi per
controllare quei leader, sia a livello delle istituzioni che
all’interno dei partiti. Tant’è che esse hanno governi e partiti
“con” il leader, e non già “del” leader (una distinzione che
sembra sfuggire anche a non pochi politologi). Non occorre avere due
camere che abbiano gli stessi poteri per tenere sotto controllo il
potere esecutivo. Anzi. Così come è errato assumere che spetti al
potere legislativo vigilare sul potere esecutivo. Nei parlamentarismi
maturi, il governo è tenuto sotto controllo dall’opposizione. Il
Parlamento è il luogo dove governo e opposizione si scontrano in
nome dei rispettivi elettorati e non delle proprie oligarchie.
Attraverso quel confronto gli elettori possono maturare le loro
opinioni. Le democrazie moderne sono democrazie elettorali di massa.
Non già quei regimi di ottimati che suscitano la nostalgia dei
difensori del parlamentarismo assemblearista.
I cambiamenti istituzionali in corso
hanno certamente i loro difetti. Tuttavia, se approvati, possono
rendere l’Italia più simile alle grandi democrazie guidate, o con
il leader, dell’Europa. Invece di mobilitare pregiudizi, sarebbe
meglio guardare come esse funzionano. Per questo è necessario che
l’Italicum preveda il ballottaggio tra i primi due partiti, così
come è necessario che il bicameralismo simmetrico venga sostituito
da un monocameralismo politico. Entrambi i cambiamenti possono creare
le condizioni per rafforzare la capacità decisionale del governo
(introducendo in futuro anche il voto di sfiducia costruttiva) e la
capacità di controllo dell’opposizione (prevedendo in futuro anche
l’istituzionalizzazione del governo-ombra.
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