Corriere della Sera 09/03/15
Pubblichiamo i brani più significativi
del discorso che il presidente Usa ha pronunciato sabato a Selma
(Alabama) a 50 anni dalla marcia per i diritti degli afroamericani
organizzata da Martin Luther King nel 1965
È un raro onore,
nella vita, poter seguire l’esempio dei nostri eroi. E John Lewis è
uno dei miei eroi. Tuttavia, immagino che quando il giovane John
Lewis si svegliò quella mattina di cinquant’anni fa e si avviò
verso la Brown Chapel, di certo non pensava all’eroismo. C’erano
ragazzi con zaini e sacchi a pelo accorsi da ogni dove. Un dottore
spiegava gli effetti dei gas lacrimogeni, mentre i manifestanti
scrivevano su un foglietto come contattare i parenti in caso di
necessità. L’aria era carica di tensioni, dubbi e timori. I
partecipanti cercavano conforto nell’ultimo verso dell’ultimo
inno intonato assieme: «Qualunque sarà la prova, Dio ti
proteggerà;/ Poggia il capo, se sei stanco, sul Suo petto, Dio ti
proteggerà».
Ci sono luoghi in cui è stato sancito il destino
della nostra nazione. Selma è uno di questi.
Un pomeriggio di
cinquant’anni fa, gran parte della storia travagliata di questa
nazione – la vergogna della schiavitù e lo strazio della guerra
civile; il giogo della segregazione e la tirannide delle leggi
razziali; la morte di quattro bambine a Birmingham e il sogno di un
predicatore battista – si è raccolta in questo
luogo.
Dall’Alabama all’Ucraina
Gli americani che hanno
attraversato questo ponte non avevano un fisico possente, eppure
hanno saputo infondere coraggio a milioni di persone. Non erano stati
eletti a nessuna carica di governo, eppure hanno saputo guidare una
nazione. Si sono messi in marcia come cittadini americani che avevano
sopportato centinaia d’anni di brutali violenze e innumerevoli
umiliazioni quotidiane, ma non reclamavano privilegi, bensì di
essere trattati con giustizia ed uguaglianza, come era stato promesso
loro quasi un secolo prima (...). Lo spirito americano che ha spinto
giovani, uomini e donne, ad afferrare la fiaccola e attraversare
questo ponte è lo stesso spirito che ha spinto i patrioti a
scegliere la rivoluzione per sottrarsi alla tirannia. È lo stesso
istinto che ha attirato gli immigrati, dall’altra sponda degli
oceani e del Rio Grande; lo stesso istinto che ha spinto le donne a
lottare per il voto e i lavoratori a organizzarsi per combattere le
ingiustizie; lo stesso istinto che ci ha portati a piantare la
bandiera a Iwo Jima e sulla Luna.
È l’idea condivisa da
generazioni di cittadini che vedono l’America come una realtà in
continua evoluzione, per i quali amare il proprio Paese significa non
solo osannarlo o scansare verità scomode, ma saper trovare
addirittura il coraggio di causare disordini, la volontà di alzare
la voce per difendere ciò che è giusto, ribaltare lo status quo.
È
questo ciò che ci rende unici e cementa la nostra fama di Paese
delle opportunità. I ragazzi dietro la Cortina di Ferro hanno
assistito agli eventi di Selma e un giorno anche loro hanno
rovesciato un muro. I giovani di Soweto hanno sentito parlare Bob
Kennedy di quel piccolo raggio di speranza e alla fine sono riusciti
a cancellare la vergogna dell’apartheid. Dalle strade di Tunisi a
piazza Maidan in Ucraina, la nostra generazione di giovani potrà
trarre ispirazione da questo luogo, dove coloro che erano senza
potere hanno saputo cambiare la più grande potenza mondiale e
costringere i suoi governanti ad allargare gli orizzonti della
libertà (...).
Una conquista gloriosa, avrebbe detto Martin
Luther King. Quale immenso debito di riconoscenza ci lega a loro. Ma
la domanda è d’obbligo: come esprimere la nostra
riconoscenza?
Rendiamo un cattivo servizio alla causa della
giustizia insinuando che pregiudizio e discriminazione siano
immutabili, o che le divisioni razziali siano connaturate in America.
Se pensate che nulla sia cambiato nell’ultimo mezzo secolo,
chiedete a chiunque sia vissuto a Selma, o a Chicago o a Los Angeles
negli anni Cinquanta. Chiedete alle donne dirigenti d’impresa, che
allora sarebbero state relegate a mansioni di segretarie, se nulla è
cambiato. Chiedete al vostro amico gay, se è più facile vivere la
propria sessualità oggi in America rispetto a trent’anni fa.
Negare questo progresso – che è il nostro progresso – equivale a
negare la nostra capacità d’azione, la nostra responsabilità nel
fare ciò che è in nostro potere di fare per migliorare
l’America.
La musica della libertà
Certo, un errore più
comune è suggerire che il razzismo non esiste più(...). Basta
tenere aperti occhi, orecchie e cuori per capire che la storia
razziale di questo Paese getta ancora la sua lunga ombra su di noi.
Sappiamo che la marcia non è ancora finita, che la partita non è
ancora vinta (...). Con i nostri sforzi congiunti, possiamo tutelare
le fondamenta della nostra democrazia, in nome della quale tante
persone attraversarono questo ponte, e questo si chiama il diritto di
voto. Oggi, nel 2015, cinquant’anni dopo Selma, esistono leggi in
questo paese che ostacolano il diritto di voto dei cittadini, anzi,
nuove leggi vengono proposte in questo senso (...).
Siamo nati
dal cambiamento. Abbiamo infranto le antiche aristocrazie,
riconoscendo la nostra nobiltà non nel sangue, ma nei diritti
inalienabili concessi dal Creatore. Abbiamo stabilito quali sono i
nostri diritti e doveri tramite un sistema di governo autonomo, del
popolo, attraverso il popolo e per il popolo. Per questo siamo pronti
a misurarci e a discutere con passione e convinzione, perché
sappiamo che i nostri sforzi contano. Sappiamo che l’America è
quella che noi costruiamo giorno dopo giorno (...).
Siamo noi
gli immigrati che arrivarono da clandestini sulle navi, le folle
accalcate impazienti di respirare la libertà, i superstiti
dell’Olocausto, i dissidenti sovietici, gli orfani sudanesi. Siamo
noi i migranti pieni di speranza che attraversano il Rio Grande per
dare ai loro figli una vita migliore. Così è nato il nostro Paese.
Siamo noi gli schiavi che hanno costruito la Casa Bianca e arricchito
l’economia del sud. Siamo i braccianti e i cowboy che hanno
spalancato il West, e un’infinità di operai che hanno costruito le
ferrovie, innalzato i grattacieli e combattuto per i diritti dei
lavoratori.
Siamo noi i soldati che hanno fatto la guerra per
liberare un continente (...). Siamo i vigili del fuoco accorsi alle
Torri Gemelle l’11 settembre, siamo i volontari andati a combattere
in Iraq e in Afghanistan. Siamo noi gli omosessuali che hanno versato
il loro sangue nelle strade di San Francisco e di New York, proprio
come il sangue versato su questo ponte. Siamo noi gli inventori del
gospel, del jazz e del blues, del bluegrass e del country,
dell’hip-hop e del rock’n’roll; è questa la nostra musica, con
tutta la malinconica tristezza e la gioia scatenata della libertà
(...).
La nostra marcia
È questa l’America. Non foto di
repertorio o storia edulcorata, né tiepidi tentativi di definire
alcuni di noi come più americani degli altri. Rispettiamo il
passato, ma non lo rimpiangiamo. Non abbiamo timore del futuro, anzi,
lo anticipiamo. L’America non è qualcosa di fragile: siamo grandi
e, nelle parole di Whitman, sappiamo accogliere le moltitudini. Siamo
chiassosi, variegati e pieni di energia, sempre giovani. Ecco perché
qualcuno come John Lewis, all’età di 25 anni, si mise alla testa
di una marcia storica.
Perché Selma ci dimostra che l’America
non è il progetto di questo o di quello. Perché la parola più
potente della nostra democrazia è «noi». We The People . We Shall
Overcome . Yes We Can . Questo spirito appartiene a
tutti.
Cinquant’anni dopo quel Bloody Sunday, la nostra marcia
non è ancora finita: ma il traguardo è vicino. Duecentotrentanove
anni dopo la nascita della nostra nazione, la nostra unione non è
ancora stata perfezionata. Ma il traguardo è vicino. Il nostro
compito è reso più facile, perché qualcuno ci ha aiutato a
superare il primo miglio. Quando pensiamo che la strada sia troppo
difficile, ricordiamo questi primi viaggiatori per trarre forza dal
loro esempio, ripetendo le parole del profeta Isaia: «Quelli che
sperano nel Signore acquistano nuove forze, si alzano a volo come
aquile, corrono e non si stancano, camminano e non si
affaticano».
Onoriamo coloro che hanno camminato, e che ci
hanno permesso di correre. Oggi tocca a noi correre, affinchè i
nostri figli possano spiccare il volo. E non ci stancheremo, perché
crediamo nella grandezza di Dio e crediamo nella sacra promessa di
questo Paese.
Che Dio benedica quei combattenti per la giustizia
che ci hanno lasciato, che Dio benedica gli Stati Uniti
d’America.
(traduzione di Rita Baldassarre)
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