Corriere della Sera 19/03/15
Marco Imariso
TUNISI «Lei è italiano, vero? Mia
moglie, la prego, mi dica dov’è mia moglie». Alberto Di Porto è
sdraiato sulla prima barella a destra nel pronto soccorso al
pianterreno dell’ospedale Charles Nicol, una palazzina bassa in
fondo a una strada buia che conduce al centro della città. È un
pensionato romano di Trastevere, che aveva deciso di festeggiare il
sessantottesimo compleanno della signora Anna regalandole una
crociera. Sono partiti due giorni fa da Civitavecchia, prima tappa
Palermo. Poi, Tunisi.
«Le devo la vita, come sempre. Lei è
geriatra, si prende cura di me, che sono molto malato. È una donna
che legge. Era rimasta molto colpita dai fatti di Parigi. Quando
abbiamo sentito le prime raffiche, seguite dall’esplosione di una
granata, io mi sono affacciat0 dalle scale e ho visto della gente
vestita da poliziotti che avanzava sparando sulle persone della mia
comitiva, che erano appena entrate con me nel museo. Io non ci stavo
capendo niente. Lei, che invece non aveva visto nulla, mi ha subito
guardato. “Qui sta succedendo qualcosa di molto brutto” ha detto.
“Dobbiamo nasconderci, come hanno fatto quelli del negozio
ebraico”».
La salvezza dei coniugi Di Porto è stata l’ultimo
terrazzino della sala al primo piano, quella dei pavimenti con i
mosaici del periodo romano. «Tra due teche di vetro c’era questa
grande finestra con le ante di legno aperte. Ho cominciato a correre
mentre quelli salivano le scale sparando. Mia moglie mi diceva di non
farmi sentire che ci ammazzavano pure a noi». Un attimo prima stava
commentando con la sua signora e con alcuni compagni di crociera
torinesi la stranezza di poter camminare su opere d’arte dal valore
enorme. E pochi minuti dopo si è ritrovato a cercare di chiudere le
ante dall’esterno, «come se dietro non ci fosse nessuno, insomma»,
infilando le dita tra le fessure, aiutato da un turista giapponese a
lui sconosciuto. Il solo modo per salvare la vita, di sua moglie e di
quelli che sono riusciti a raggiungere quel balcone che
all’improvviso è diventato l’unica salvezza possibile. «Ci
siamo accucciati per terra. Siamo stati pronti di spirito, grazie a
mia moglie. Ma adesso me la sono persa, non so più dov’è».
Qualcuno
non ce l’ha fatta. L’ultima immagine rimasta negli occhi del
signor Di Porto è quella di un uomo che cade al centro della sala, e
la macchia di sangue che si allarga sotto il suo corpo. «Eravamo
cinque della mia comitiva, passeggeri della Costa Fascinosa. Poi
c’erano quattro giapponesi di non so dove, e un italiano che però
veniva dall’altra nave, la Splendida della Msc. Certo che
piangevamo, ma ci facevamo segni di stare zitti, zitti per carità».
La sparatoria è durata almeno venti minuti. Raffiche di mitra,
l’esplosione di almeno tre granate nella sale del museo. Il
silenzio che è venuto dopo è stato anche peggio. «Stavamo
sdraiati, ci tenevamo per mano. Sentivo che dentro una signora
italiana continuava a urlare il nome del marito. Carlo chiamava,
Carlo. Lui da un altro punto della sala le ha urlato di stare zitta.
Non sapevo cosa pensare, se mi chiede cosa provavo non lo so
spiegare. Speravo soltanto di sopravvivere, in un modo o
nell’altro».
All’improvviso nel cortile sono apparsi decine
di uomini delle forze speciali tunisine. «Erano tutti con il mitra
spianato. Erano dappertutto, anche sul balcone di fronte a noi. Uno
di loro mi ha fatto un cenno con la mano, per attirare la mia
attenzione. Ha portato l’indice e il medio agli occhi, e poi ha
puntato il dito a indicare dentro, come per chiedermi cosa vedessi.
Io mi sono girato, ho guardato. C’erano almeno due persone immobili
a terra, e sangue dappertutto. Vedevo le gambe di alcuni uomini che
camminavano su e giù per la sala. Mi sono girato e con la mano sul
mio collo gli ho fatto il gesto della gola tagliata, per fargli
capire che c’erano dei morti. Lui mi ha fatto cenno con la mano di
stare giù. Dopo cinque minuti, guardi, io non so cos’è l’inferno,
ma credo che somigli molto a quello che è successo».
I
militari tunisini hanno cominciato a sparare attraverso tutte le
finestre della sala dei mosaici. «Dall’alto, dal basso, da dentro,
dalle scale, non la smettevano più. Una granata ci è scoppiata
vicino, sentivo che dentro crollava tutto, gente che urlava, e poi
più niente». La porta finestra si apre. Siete feriti? chiede un
uomo coperto da casco e maschera. No, nessuno. Li fa uscire. I
giapponesi sfilano a mani alzate, come degli ostaggi. Veloci, veloci
urla il militare, via. Il signor Alberto non ce la fa. Un soldato lo
carica sulle spalle. «Ho visto un’altra persona immobile in una
pozza di sangue. Ho sentito un agente dire che c’erano tanti
feriti, e tanti morti. Ricordo che Anna era con me, voleva salire
sull’ambulanza. L’ho persa di vista in quel momento».
Il
museo del Bardo doveva essere il suo giardino segreto, il momento più
bello della vacanza. Alberto Di Porto ha 71 anni, è un ex
rappresentante di commercio laureato in archeologia, che da tempo
aspettava di visitare quello che è viene considerato come il Louvre
di Tunisi. «Saremo arrivati intorno alle 12.30. Sul pullman eravamo
45, poi c’erano quelli della Splendida che fa le nostre stesse
tappe, solo che loro sono partiti dalla Liguria. Nel tragitto dal
porto al museo ho chiacchierato con i nostri compagni di crociera, sa
io ho un figlio che lavora a Torino, mentre la femmina fa l’avvocato
a Roma. Persone simpatiche, eravamo di buon umore, stava andando
tutto bene, bel tempo, bella gente a bordo».
Al pront0 soccorso
del Charles Nicol ci sono gatti che girano liberamente tra le
barelle, ma anche tanti medici di buona volontà con il camice bianco
macchiato di sangue che hanno sulla faccia i segni della giornata più
terribile della loro vita. Quasi tutti i turisti sono scesi dalla
nave lasciando soldi, telefono e passaporto a bordo, la nuova
partenza era prevista per metà pomeriggio. In Direzione generale
chiediamo se è possibile avere i nomi delle persone decedute. No, su
alcuni corpi c’è da fare prima l’esame del Dna. «Sono
sfigurati» dice il primario.
Torniamo dal signor Di Porto. A
preoccupare non è l’anca lussata durante la fuga, forse
addirittura cadendo dalla barella, ma lo stato di salute generale, i
tre by-pass, il cuore che non vuole smettere di battere
all’impazzata, e soprattutto una forma grave di diabete. «Non mi
ricordo i nomi dei farmaci, è mia moglia che li tiene, sa tutto
lei». Decidono di trasferirlo in rianimazione, dove se non altro
hanno dell’insulina. Di Porto è di origine ebraica, come molti
altri passeggeri della Fascinosa. «Ma non credo che lo sapessero, mi
sembra impossibile. Noi avremmo fatto decine di crociere». Mentre la
barella viene trasportata verso l’ascensore, ci chiede se ci sono
vittime italiane. Abbassiamo lo sguardo. Il signor Di Porto fa una
smorfia di dolore. «Questo nostro mondo, sta diventando un posto
inutilmente stupido e cattivo».
Un medico lo interrompe. Gli
chiede le generalità. Sorride. Hanno rintracciato la signora Anna.
Sta arrivando all’ospedale.
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