Corriere della Sera 09/03/15
Paolo Giordano
Ho sempre diffidato, anche
letterariamente, di chi vedeva nella follia un accesso privilegiato
alla verità. Eppure, mentre parlavo con gli internati dell’Ospedale
psichiatrico giudiziario (Opg) di Aversa, ho avuto forte la
sensazione che guardassero dentro un abisso che competeva anche a me
— che compete a noi tutti —, con la sola differenza che su
quell’abisso loro si sporgevano pericolosamente, e senza mai
riuscire a distoglierne lo sguardo.
Ci sono efferatezze nel
passato di molti degli internati del «Filippo Saporito» —
aggressioni, violenze carnali, patricidi e matricidi — e
altrettante sono le atrocità nel passato dell’Opg stesso. Qui
entrò la commissione presieduta da Marino nel 2010 e si trovò
davanti uno scenario raccapricciante: sporcizia, sovraffollamento,
detenuti legati ai loro letti, pratiche che rasentavano le sevizie. A
vedere il vecchio letto di contenzione che viene adesso conservato
come una reliquia, con l’orrido buco al centro per le deiezioni dei
malati, non si può non domandarsi come sia stato possibile che una
misura simile fosse ancora in uso cinque anni fa. Ma sarebbe troppo
comodo accodarsi alla scia dello sdegno comune, condannare gli Opg
come luoghi isolati di sadismo sfrenato, senza rilevare la parte di
responsabilità che ognuno di noi ha avuto in tutto questo: la
convenienza di una nazione intera che, dopo avere applaudito a lungo
se stessa per la chiusura dei manicomi, ha tollerato per decenni
delle realtà perfino peggiori, in ragione della presunta
pericolosità sociale di alcuni infermi.
Oggi, al «Filippo
Saporito», si avverte soprattutto una specie di trauma al contrario.
La diffidenza del personale nei riguardi del visitatore esterno, di
colui che potrebbe giudicare, scrivere e così rinnovare la vergogna,
è quasi invincibile, è la diffidenza di chi si è sentito
maltrattato (seppure non del tutto ingiustamente) e utilizzato come
capro espiatorio. Alcuni degli internati erano stati evidentemente
«preparati» per il mio arrivo, al punto da lanciarsi in elogi
irrefrenabili e un po’ goffi dell’Opg e del suo staff, ma
l’intento dietro la «preparazione» non sembrava quello di
mascherare qualcosa (ciò che andava svelato è stato svelato,
credo), bensì l’ansia che un nuovo ciclone potesse scatenarsi.
Molti degli operatori sanitari e di custodia che lavorano nell’Opg
erano lì anche parecchi anni fa, hanno vissuto l’ospedale come un
luogo con regole a sé, poi i riflettori impietosi e infine la brusca
inversione di rotta. Non tentano di nascondere ciò che l’Opg era.
La sola giustificazione che portano, e alla quale non è così
difficile credere, è questa: «Non avevamo le risorse».
Non
che l’Opg sia diventato un posto veramente gradevole, nel
frattempo. Gli edifici sono tutti malmessi — finestre rotte,
soffitti anneriti —, i bagni delle celle si presentano come
corridoi angusti e tetri, mentre nel 9bis i servizi sono ancora in
comune: alcuni internati sono recalcitranti a utilizzare le docce, ma
a vederle non si può dare loro torto. Tutte le migliorie, mi
spiegano, dalle parti ritinteggiate ai fornelli con le piastre a
induzione per scaldare il caffè, dalla fattoria per la pet therapy
alle aule dove si svolgono i laboratori, sono state realizzate su
iniziativa spontanea del personale. Dopo la rappresaglia mediatica,
si percepisce l’ambizione di migliorare e una psichiatra si lascia
sfuggire il proprio rammarico: «Ciò che sta succedendo è un
processo evolutivo, ma al tempo stesso ci sentiamo come se ci venisse
tolta la terra da sotto i piedi, proprio mentre stavamo imparando a
fare la cosa giusta».
Ciò che sta succedendo è la chiusura
dei sei Opg ancora attivi in Italia. La data prevista è il 31 marzo
e non si attendono proroghe. I circa 700 internati verranno
ridistribuiti in base a un principio di appartenenza territoriale,
affidati al servizio sanitario e alloggiati in comunità,
case-famiglia o altri enti di accoglienza. Soltanto quelli
considerati non «dimissibili», in ragione della loro pericolosità,
saranno destinati a nuove strutture, più piccole degli Opg,
battezzate Rems. Anche le Rems, tuttavia, saranno interamente
affidate alla sanità: non penitenziari ridotti, dunque, ma luoghi di
cura. In un quadro ristretto, questo è l’arrivo di un percorso
iniziato con la denuncia della commissione Marino e la frase ormai
celebre pronunciata dall’ex-presidente Napolitano, che parlò degli
Opg come di un «estremo orrore, indegni di un paese appena civile».
In un quadro esteso, la dismissione degli Opg è solo la tappa
ulteriore di un cammino assai più lungo e faticoso, passato per gli
sviluppi controversi della psichiatria e la legge Basaglia, e la cui
immagine seminale si può attribuire già a Philippe Pinel. Nel 1792,
Pinel fece togliere le catene ai «pazzi furiosi» di Bicêtre ed
essi, invece di dare in escandescenze, camminarono incontro al loro
liberatore, per ringraziarlo.
Viene da domandarsi perché, se
certe idee circolano nella medicina da oltre duecento anni, ci
abbiamo impiegato tanto, perché fino a ieri i detenuti psichiatrici
del nostro Paese fossero la categoria più radicalmente privata di
diritti, perfino di quelli fondamentali che assicurano la dignità
dell’essere umano. La risposta era già in grado di fornirla
Foucault, quando scrisse: «Quanto al malato mentale, egli
rappresenta il residuo di tutti i residui, il residuo di tutte le
discipline, inassimilabile a tutte quelle che si possono trovare in
una società». In questa prospettiva, gli scempi perpetrati ad
Aversa come in altri Opg della penisola non erano un abuso esclusivo
di chi in quelle strutture operava, bensì la deiezione di un Paese
intero, esso sì, ancora incatenato a un letto di contenzione fatto
di paura.
Oggi sono molte le aree nelle quali la reclusione in
Opg viene già evitata. E il numero esiguo di coloro che sono ancora
internati potrebbe far pensare a un cambiamento marginale, più che
altro simbolico. Eppure, è soprattutto così che una civiltà
perfeziona se stessa: attraverso la destituzione di simboli che ormai
appaiono sorpassati, deteriori.
Più che il passato
sconcertante, occorre adesso considerare il futuro prossimo, che in
questo «processo evolutivo» porta con sé preoccupazioni legittime
da parte di molti. Da parte della popolazione, innanzitutto. La
follia spaventa oggi come duecento anni fa. Se poi si accompagna ad
azioni criminali, come omicidi o violenze sessuali ( un uomo che ha
mangiato sua madre ), essa scatena suggestioni incontrollate, finisce
per abitare il dominio del terrore. Ma al percorso di reintegro dei
malati, accelerato dalla politica sull’onda dello sdegno, non si è
accompagnata alcuna iniziativa di sensibilizzazione. È facile
prevedere che, quando diverrà chiaro a tutti che all’interno delle
Rems non vi sarà per legge alcun personale di custodia o vigilanza,
si scatenerà un malcontento diffuso, se non addirittura una
paranoia. Un’orda di pazzi violenti a piede libero , sarà il
messaggio recepito da alcuni in assenza di un’informazione
adeguata.
Al contrario, per gli attivisti di «StopOpg» e per
molti psichiatri, l’istituzione delle Rems rappresenta una misura
contraddittoria ed eccessiva. Essi ne denunciano l’inutilità,
nonché il rischio che le Rems si tramutino presto in dei micro-Opg.
Non vi è evidenza, sostengono, che i soggetti psichiatrici siano più
inclini degli altri a ripetere le loro azioni criminose e forse è il
concetto stesso di «pericolosità sociale» a essere errato: secondo
Debuyst si tratterebbe soltanto di un retaggio antico, di una
«malattia infantile della criminologia».
C’è poi il
fardello che cade improvviso sul personale sanitario, investito di
responsabilità nuove, come il mantenere un livello di sicurezza e
ordine fra internati, senza l’ausilio dei secondini. Ad Aversa
qualcosa di simile avviene già oggi, ma soltanto in zone specifiche
dell’Opg, con pazienti considerati più «gestibili» e comunque
con la possibilità di un intervento tempestivo da parte delle
guardie. Come regolarsi nelle nuove Rems? Si dovrà assumere una
vigilanza privata almeno per l’esterno? E dentro? I responsabili
dei nuovi centri stanno affrontando un’infinità di dettagli
scomodi, oltre a una burocrazia titanica che promette ritardi.
Andrebbero evitate le sbarre alle finestre, per esempio (la Rems non
deve ricordare un penitenziario), ma su chi ricadrà la colpa quando
in un accesso di delirio il primo degli internati riuscirà a
buttarsi di sotto?
Il nuovo assetto, più frammentato, sarà in
generale meno controllabile di prima. Molti pazienti verranno
affidati a enti privati, ad associazioni accreditate di vario genere,
religiose e non, e per questi diverranno istantaneamente una fonte di
profitto, con tutti i rischi ovvi che ne conseguono. In Italia, è
difficile non essere attraversati da un fremito di inquietudine ogni
volta che si sente parlare di «comunità» e «associazioni».
Qualcuno scommette poi che la criminalità organizzata, quella
tutt’altro che inferma mentalmente, stia già preparando dei
dossier ad hoc per i suoi, con i giusti precedenti, le giuste
perizie, per accedere in caso di necessità alle nuove strutture
piuttosto che al carcere.
E infine, ci sono le ansie dei
detenuti. Al «Filippo Saporito» ho cercato di capire quale
chiarezza gli internati avessero dei cambiamenti in atto, del destino
che li attende. Per lo più è emersa una grande confusione, qualcuno
parlava frettolosamente di ritorno a casa, un altro ha evocato pieno
di angoscia luoghi in cui si fanno «esperimenti sulle persone». Ho
chiesto a M. se a casa sua, in Abruzzo, ci fosse qualcuno ad
attenderlo. «Andrò a stare da mia madre», ha detto. Aveva una
fiducia struggente in quel ricongiungimento. «La tua famiglia viene
a trovarti spesso? — No, perché abitano lontano. — Ma qualcuno è
mai venuto? — Le mie sorelle, una volta». Una volta. In nove
mesi.
È questa, molto spesso, la realtà dei «residui dei
residui»: un abbandono radicale che comincia in seno alla famiglia e
si estende alla comunità, alla società tutta, lo stesso abbandono
che ha perpetuato l’esistenza degli Opg, di piccoli inferni locali
come quello di Aversa, proprio nel centro storico, a un passo dalle
vie dei negozi e dei locali notturni. Non ci saranno molte famiglie
pronte a riprendersi i loro folli, perciò quell’accoglienza viene
richiesta a tutti noi in quanto cittadini. A partire dal 31 marzo
vedremo sotto una luce nuova che tipo di Paese siamo, quale livello
di maturità abbiamo raggiunto, con quanto coraggio siamo disposti a
guardare dritto dentro l’abisso.
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