Corriere della Sera 31/03/15
Antonio Armellini
Il premier britannico David Cameron ha
incontrato la regina Elisabetta II a Buckingham Palace per informarla
dello scioglimento del Parlamento in vista delle elezioni del 7
maggio. Si tratta di una formalità che mette fine ai cinque anni di
governo di coalizione di conservatori e liberali. «Fra 38 giorni
affronterete una scelta difficile», ha poi detto pubblicamente il
leader conservatore, dando il via ufficiale alla campagna elettorale,
tra le più imprevedibili del Paese, con i sondaggi che danno un
testa a testa tra i due maggiori sfidanti, lo stesso Cameron e il
laburista Ed Miliband. Il governo resta in carica per l’ordinaria
amministrazione, mentre il Parlamento ha chiuso i battenti. La prima
seduta della nuova legislatura il 18 maggio; il 27 il discorso della
Corona nella Camera dei Comuni.
Resisterà l’Unione Europea
sino al 2020? Se il Regno Unito dovesse decidere di uscirne,
l’impatto ne potrebbe modificare profondamente la natura e
innescare una disgregazione difficilmente arrestabile. L’esito
delle elezioni del 7 maggio è tuttora apertissimo: il tema
dell’immigrazione alimenta l’euroscetticismo di una parte
consistente dell’opinione pubblica, che accusa Bruxelles di aprire
le porte a flussi incontrollabili e reclama modifiche radicali su
welfare e occupazione. È un nodo delicato per tutti, ma soprattutto
per i conservatori: impegnandosi in caso di vittoria a indire un
referendum sul «Brexit» — l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue
— nel 2017, David Cameron ha fatto una scommessa che rischia di
costare cara non solo a lui.
Se dovesse prevalere a maggio,
Cameron dovrà spuntare da Bruxelles argomenti atti a favorire un
ripudio convincente del «Brexit»: solo così potrebbe cercare di
mantenere il controllo del suo partito. Un successo di stretta misura
gli permetterebbe forse di sopravvivere, in una sorta di libertà
vigilata marcato a vista dagli euroscettici al suo interno. Se
dovessero prevalere i no, la sua caduta sarebbe scontata. In entrambi
i casi il partito sarebbe sottoposto a forti tensioni e la sirena
dell’Ukip (United Kingdom Independence Party, Partito per
l’indipendenza del Regno Unito) di Nigel Farage potrebbe attirare
buona parte della consistente fronda euroscettica verso un nuovo
partito antieuropeo alla destra dei tories.
I laburisti si sono
dichiarati contrari al referendum e, se dovessero vincere loro, il
problema cesserebbe di esistere. C’è chi come Jon Snow (colonna
storica di Channel 4 News e uno dei rarissimi federalisti dichiarati
del Paese) teme che la grande stampa tory aprirebbe un fuoco di fila
per costringere il governo ad andare comunque al referendum. Ma
l’impegno europeo del Labour rimane convinto, ancorché non
unanime: ci penserebbero i liberaldemocratici di Nick Clegg, del cui
appoggio Ed Miliband avrebbe quasi certamente bisogno, a prevenire
derive negative.
L’idea di dare vita ad una entità
politicamente integrata capace di fare sentire la voce dell’Europa
è stata all’origine del discorso europeo, ma non è entrata a far
parte della visione della Gran Bretagna la quale, coerentemente,
continua a tenersene lontana. Se per gli euroscettici della destra
tory, come Bernard Jenkin, il termine stesso di «unione politica»
induce al sospetto, per il leader storico degli europeisti del
partito, Kenneth Clarke, esso può solo significare una libera
associazione di Stati sovrani, senza strutture federali che potranno
essere forse possibili in un futuro lontano, ma in ogni caso senza la
Gran Bretagna. L’ambasciatore italiano, Pasquale Quito Terracciano,
è un osservatore attento e disincantato della scena britannica: egli
ritiene che — differenze sull’euro a parte — l’Europa di
Cameron offra più di un punto di contatto con quella cui pensa
Matteo Renzi. Se fosse così — e ha probabilmente ragione —
sarebbe la conferma che il percorso europeo dell’Italia di oggi è
sempre più lontano da quello che ne ha caratterizzato azione e
influenza per decenni.
Il tema della Germania attraversa il
dibattito con toni contrapposti che lasciano incuriositi e perplessi.
Peccando forse di troppo ottimismo, Cameron vede in Angela Merkel un
alleato fondamentale, che non vorrà mai rinunciare al contrappeso
offerto da Londra al debordare delle ambizioni francesi. Sul fronte
opposto Sir Bill Cash, veterano tory di mille battaglie anti-europee,
sostiene che l’unione politica dell’Europa porterebbe ad una
nuova egemonia tedesca sul continente e la Gran Bretagna non si
piegherà mai a un simile disegno. Al di là dell’iperbole, si
coglie in questi discorsi l’eco di sbiadite nostalgie di potenza e,
al tempo stesso, l’immagine della Germania come avversario storico
da contenere, con una forza che non è facile ritrovare altrove.
Il
sistema imprenditoriale britannico è tutto schierato per il sì e si
prepara alla campagna per il referendum, contrapponendo allo spettro
del dirigismo brussellese l’imperativo di non tagliare i ponti con
un blocco economico fra i più importanti del mondo. Le possibilità
di successo, osserva Lord Adair Turner — il potente ex presidente
della Financial Services Authority — dipenderanno in buona misura
dalla capacità di associare a quella dell’industria le voci di
altri settori strategici della pubblica opinione. A questo scopo,
aggiunge, potrebbe tornare assai utile l’esito del recente
referendum scozzese.
Alec Salmond, il leader indipendentista
dello Scottish National Party, ha ribadito che in caso di «Brexit»
la Scozia chiederebbe di aderire all’Unione Europea. La secessione
sarebbe inevitabile e il Regno Unito non esisterebbe più.
L’Inghilterra, con la coda gallese e nord-irlandese, rimarrebbe una
media potenza ma dovrebbe abdicare ad un ruolo politico di primo
piano, a partire da quello di membro permanente del Consiglio di
Sicurezza, per il quale verrebbe a cadere ogni giustificazione.
Al
pari di altre conseguenze legate al «pasticcio» del referendum,
anche questa non è stata chiaramente percepita da un’opinione
pubblica in parte scettica sulla possibilità di una vera
separazione, e in parte indifferente e male informata. Confrontata
con l’imminente realtà di un simile scenario — concorda il
Direttore del think tank europeista Cer (Centre for European
Research), Charles Grant — potrebbe risvegliarsi e votare per il
sì.
Il «Brexit» produrrebbe i suoi effetti ben aldilà del
Regno Unito. Assorbire il contraccolpo sarebbe per l’Ue un
esercizio tecnicamente possibile, ma politicamente dirompente.
Nell’Europa a Ventotto, Londra rappresenta un riferimento
essenziale per quanti auspicano un’Unione impostata sulla libertà
del mercato e non una federazione tendenzialmente sovranazionale. Se
tale riferimento dovesse venire meno, uno dei cardini del dibattito
europeo ne risulterebbe fortemente impoverito. Parlare di
integrazione differenziata — l’unica via di crescita possibile —
sarebbe più difficile e l’intero impianto dell’Ue rischierebbe
di diventare prigioniero di rigidità che potrebbero mettere a dura
prova le sue regole fondamentali. Sarebbe una manna inaspettata per i
movimenti antieuropei di vario segno che vanno crescendo in Europa e
la fine dell’Unione, così come è stata sin qui concepita,
rischierebbe di farsi un’ipotesi concreta.
Accadrà tutto ciò?
Probabilmente no, perché il referendum potrebbe non tenersi e, se si
tenesse, il «Brexit» uscirne sconfitto. Dare per scontata una
conclusione del genere sin da ora potrebbe rivelarsi però un errore
fatale.
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