Corriere della Sera 27/03/15
Farina Sabaih
«Architettonicamente è il Paese più
bello al mondo. La capitale Sana’a è una Venezia selvaggia sulla
polvere, senza San Marco e senza la Giudecca. La sua bellezza non
risiede nei deperibili monumenti ma nell’incomparabile disegno».
Così negli anni Settanta Pier Paolo Pasolini descrisse lo Yemen. Se
la penisola araba è per lo più desertica (anche dal punto di vista
culturale), lo Yemen è un angolo ricco di storia, monumenti,
cultura. Tradizionale e inaccessibile, assomiglia all’Afghanistan.
Come quest’ultimo è un Paese tribale e instabile, un baluardo di
Al Qaeda che è riuscito a mobilitare un numero crescente di
combattenti e a tessere alleanze con le confederazioni tribali.
Uno
Stato strategicamente importante per l’Europa perché da Bab
el-Mandeb transitano ogni giorno 3,8 milioni di barili di petrolio
provenienti dal Golfo persico: se lo stretto che divide l’Asia
dall’Africa diventasse troppo pericoloso, le petroliere dovrebbero
circumnavigare l’Africa, con un aumento dei costi di trasporto
.
Economia
Complice del successo di Al Qaeda in Yemen è la
crisi: le istituzioni sono fragili, la disoccupazione altissima. Il
reddito medio pro capite è di soli 1.330 dollari l’anno, dei 25
milioni di abitanti oltre la metà vive con meno di due dollari al
giorno (la soglia di povertà secondo le Nazioni Unite). Con risorse
petrolifere irrisorie (133 mila barili al giorno), quello che fu il
regno della regina di Saba è il più povero tra i Paesi arabi.
Scarseggia anche l’acqua, in parte assorbita dalle coltivazioni di
qat, un arbusto le cui foglie — masticate da buona parte della
popolazione — portano a stati di euforia. L’aspettativa di vita è
di 63 anni, molti yemeniti soffrono la fame e i loro tassi di
fertilità sono tra i più alti al mondo (hanno in media quattro
figli, nel 1990-95 ne avevano sette). Nell’agosto 2014 il
presidente Mansour Hadi aveva dato avvio a un ambizioso programma di
riforme economiche che prevedeva la rimozione dei sussidi
all’energia, riforme nel servizio pubblico e welfare. Ma non è
riuscito a mettere in atto i buoni propositi.
Storia e
politica
Lo Yemen moderno è una Repubblica presidenziale (il
presidente è anche capo dell’esecutivo) con un’Assemblea
nazionale composta da membri eletti per cinque anni. È l’unica
Repubblica della penisola araba ed è nata dalla fusione, il 22
maggio 1990, tra lo Yemen del Nord e lo Yemen del Sud. Il Nord è
stato una Repubblica fin dal 26 novembre 1962 a seguito del colpo di
Stato che rovesciò la monarchia il cui sovrano era un Imam (sciita)
della setta zaidita che rivendicava legittimità religiosa e
politica. Già protettorato britannico, il Sud era una Repubblica
socialista indipendente dal 20 novembre 1967 e, legato all’Urss, ha
giocato un ruolo nella Guerra fredda. A presiedere fin dall’inizio
la Repubblica dello Yemen unificato è stato Ali Abdallah Saleh.
Sulla scia delle primavere arabe e in seguito alle proteste guidate
dalla giornalista e attivista Tawakkol Karman (Nobel per la pace
2011), nel novembre 2011 Saleh ha passato il testimone al suo vice,
Mansour Hadi. Dopodiché è iniziata la Conferenza del dialogo
nazionale, ovvero una fase di transizione politica conclusasi nel
gennaio 2014 con la decisione di trasformare lo Yemen in uno Stato
federale. Non sono state però accolte le istanze di autonomia degli
Houthi, da una decina d’anni in conflitto con l’autorità
centrale. Di conseguenza, a settembre 2014 gli Houthi hanno lasciato
la città di Saada (nel Nord) e sono scesi sulla capitale. A fine
febbraio 2015 la situazione è precipitata e il presidente Hadi ha
abbandonato la capitale per rifugiarsi ad Aden da dove mercoledì si
sarebbe allontanato a bordo di un’imbarcazione. Venticinque anni
dopo la riunificazione, lo Yemen è quindi teatro di tensioni
politiche e sociali e di ricorrenti ondate di violenza che mettono a
rischio la sua unità.
Religioni, tribù
e interferenze
esterne
Gli yemeniti sono arabi di religione musulmana. Il 50-55%
pratica l’Islam sunnita della scuola giuridica sciafeita, mentre il
40-45% è sciita di rito zaidita (alla morte di Maometto riconoscono
suoi legittimi successori cinque suoi famigliari, chiamati Imam). In
realtà le differenze dottrinali sono irrilevanti nella vita
quotidiana e a fare la differenza sono le tradizioni, la chiamata del
muezzin e la preghiera. Maggior peso hanno i legami tribali, spesso
strumentalizzati dall’ex presidente Saleh che ha governato a lungo
grazie all’amicizia con gli sheykh della famiglia Houthi (sciiti) e
della famiglia Ahmar (sunniti) cui lasciava mano libera in cambio del
loro sostegno. Morti gli anziani sheykh, la situazione è cambiata: i
loro figli si sono lasciati attrarre dagli iraniani e dai sauditi. Da
parte sua, Saleh ha spesso cambiato alleanze appoggiandosi dapprima
al partito islamico Al Islah (declinazione yemenita dei Fratelli
musulmani, e quindi sunnita), per poi schierarsi con gli Houthi sul
nascere della primavera araba e poi ribaltare tutto e schierarsi
nuovamente con Al Islah contro gli sciiti.
Non vanno inoltre
sottovalutate le ingerenze esterne. Se oggi l’Iran appoggia gli
Houthi, i sauditi hanno condizionato la storia dello Yemen: fino al
1962 hanno sostenuto il regno dell’Imam mentre l’Egitto favoriva
un esito repubblicano; nel 1991, quando Saleh appoggia l’invasione
irachena del Kuwait, Riad espelle un milione di immigrati che con le
loro rimesse tengono in piedi l’economia yemenita; nella guerra
civile del 1994 appoggiano fazioni diverse; e ieri l’aviazione
saudita ha iniziato a bombardare la capitale yemenita con il sostegno
di Bahrein e Qatar. Mentre la coalizione capeggiata dai sauditi
bombarda Sana’a, le luci si abbassano sui negoziati, in corso in
Svizzera, sul programma nucleare di Teheran. I negoziatori dei 5+1 e
il team iraniano hanno cinque giorni di tempo per giungere a un
accordo. Gli ultimi fatti in Yemen sono forse un diversivo per
concludere?
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