Corriere della Sera del 18/03/15
Sergio Rizzo
« A volte ho più rispetto dei
casalesi che dei colletti bianchi, quelli che maneggiano i soldi più
sporchi ma si comportano come se avessero sempre le mani pulite».
Chi conosce bene Raffaele Cantone ha già sentito pronunciargli
questa frase. Subito seguita da un sorriso: «Ovviamente è una
provocazione». Ma una provocazione che gli serve per dare più forza
a una dichiarazione di guerra senza quartiere alla corruzione.
Ovvero, Il male italiano, come recita il titolo del libro che esce
domani edito da Rizzoli. È una sua lunga intervista con Gianluca Di
Feo, giornalista dell’ Espresso che giovanissimo cronista del
Corriere aveva seguito le vicende di Mani pulite. Coincidenza
singolare, arriva in libreria proprio mentre le cronache sono
sconvolte da un nuovo scandalo. E sembra di leggere una profezia,
scritta ben prima degli ultimi arresti, quando il presidente
dell’Autorità anticorruzione racconta che «nella pubblica
amministrazione le carriere sono troppo spesso una proiezione degli
equilibri politici».
Un fenomeno, aggiunge, «addirittura
incentivato da alcune riforme che hanno creato burocrati part time,
come i dirigenti a contratto e quelli a chiamata diretta. Sono figure
introdotte per rispondere a un’esigenza concreta: arruolare
professionalità specifiche (…) senza bisogno di fare concorsi
dalla procedura elefantiaca. Il problema è che questi dirigenti a
tempo, di proroga in proroga, finiscono per restare al loro posto».
Come Ercole Incalza, appunto. E stare troppo a lungo sulla stessa
poltrona rischia di diventare un grosso problema.
Ecco perché
«Liberarsi dalla corruzione per cambiare il Paese», parafrasando il
sottotitolo del libro, impone alcuni accorgimenti. «Per prima cosa»,
secondo Cantone, «si dovrebbe introdurre la rotazione degli
incarichi delicati, oggetto privilegiato delle lusinghe dei
corruttori (…) Fino a pochi decenni fa era una regola: dopo un
certo numero di anni, prefetti, questori, ufficiali delle forze
dell’ordine, magistrati, ispettori fiscali, dovevano fare le
valigie e cambiare città (…) È un principio di garanzia, evita le
incrostazioni in cui nasce il malaffare, impedisce che si coagulino
rapporti stretti e definitivi con il proprio dirigente e l’ambiente
esterno. Purtroppo ogni tentativo di mettere in moto meccanismi
virtuosi si scontra con visioni corporative che contribuiscono a
immobilizzare il settore pubblico». E qui ce n’è anche per i
sindacati, vittime di una «logica corporativa che li ha resi custodi
della peggiore burocrazia». Mentre «sul fronte della lotta alla
mafia il sindacato è stato molto determinato», Cantone dice che
«nel contrasto alla corruzione non si percepisce ancora la stessa
sensibilità. Questo perché i sindacati tendono a difendere gli
interessi individuali dei lavoratori in modo assoluto. In qualche
caso si sono persino schierati dalla parte di dipendenti accusati di
furti, spesso sorpresi in flagranza di reato (…) questa linea ha
finito per favorire seppur in modo indiretto e involontario,
corruzione, illegalità e malaffare» .
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