Corriere della Sera 17/03/15
Sergio Rizzo
Chi l’aveva incrociato al ministero
delle Infrastrutture nei giorni di gennaio, quando Ercole Incalza
svuotava i cassetti, apprestandosi a lasciare la sontuosa poltrona di
capo della struttura tecnica di missione delle grandi opere pubbliche
lo descrive contrariato. Anche se in fin dei conti la scelta di
andarsene era stata sua.
Il ministro delle Infrastrutture
l’avrebbe tenuto un anno ancora. Nella legge di Stabilità
approvata a dicembre avevano infilato apposta per lui un’altra
proroga annuale. La quarta consecutiva, sebbene Incalza avesse già
superato i 70 anni, compiuti ad agosto. C’è chi dice che non si
fosse sentito adeguatamente difeso contro le critiche che
cominciavano a piovere da tutte le parti.
La verità è forse
che il suo formidabile potere su quel ministero aveva cominciato a
scricchiolare. Di sicuro, l’età e i precedenti non gli avrebbero
sbarrato la strada verso un altro prestigioso incarico: da settimane
circolava la notizia di una sua imminente nomina alla Banca europea
degli investimenti. La struttura di Bruxelles che finanzia le opere
pubbliche, nientemeno. Un salto della barricata niente male. Ora
evidentemente sfumato.
La vicenda di Incalza è un classico
tutto italiano, con la burocrazia che va a braccetto con la politica
e la politica che non sa (e non può) liberarsi di quell’abbraccio.
Una storia, la sua, che inizia nella Prima Repubblica al tempo di
quella che veniva appellata la sinistra ferroviaria, con tutto il
carico lottizzatorio insito nella definizione. E continua nella
Seconda Repubblica, dopo un passaggio ai vertici dell’Alta velocità
delle concessioni spartite a tavolino, in uno slalom fra procedimenti
giudiziari che vedono il Nostro uscirne sempre indenne.
È con
Pietro Lunardi, ministro del secondo governo Berlusconi, che si
installa di nuovo a Porta Pia, e in un ruolo chiave: capo della
struttura che deve sovrintendere alle grandi opere pubbliche. Siamo
nel 2001, è arrivata la legge obiettivo e il Paese è in pieno
inconcludente delirio costruttivista. Le inchieste giudiziarie anni
dopo aggiungeranno dettagli non marginali. Ci resta 5 anni, finché
il Cavaliere deve lasciare Palazzo Chigi a Romano Prodi e al
ministero è la volta di Antonio Di Pietro. Che lo silura senza
complimenti. «Lo mandai via», dice l’ex pm. Ricordando «se non
proprio le pressioni, quantomeno le indicazioni perché lo lasciassi
dov’era».
Niente paura: Incalza ritorna allo stesso posto con
Altero Matteoli. E resta con il governo Monti e Corrado Passera
ministro. E il governo Letta e Maurizio Lupi ministro. E il governo
Renzi e ancora Lupi ministro. Nessuno sente il campanello d’allarme
che squilla quando salta fuori che il genero di Incalza ha comprato
casa in parte «a sua insaputa» con un gentile aiutino di Diego
Anemone, quello della cricca degli appalti dei Grandi eventi.
Nessuno. Non era un segnale che avrebbe consigliato prudenza? Vale la
pena di ricordare, a questo proposito, come Lupi arginò in
parlamento l’offensiva dei grillini che lo tempestarono di
interrogazioni sul ruolo del capo della struttura di missione del suo
ministero.
E qui siamo al punto, che certo non riguarda il solo
Incalza. Quanti alti funzionari pubblici diventano inamovibili
capitalizzando un rapporto incestuoso con politici di cui hanno
custodito anche i più inconfessabili segreti? Quanti sono più
potenti degli stessi ministri, scrivono le leggi e dettano
addirittura la linea del ministero? Si dice che i ministri passano e
i burocrati restano: una regola che nessun governo ha mai
trasgredito. Non ci è riuscito, pare, neppure l’ultimo, che pure
aveva dichiarato di voler mettere in discussione l’inamovibilità
di certe posizioni.
Ci sono direttori che hanno occupato per
decenni le stesse stanze. Decenni durante i quali gli armadi si
potevano comodamente riempire di scheletri, con coloro che ne avevano
le chiavi (in copia unica, va da sé) sempre più intoccabili. Anche
in tali contesti, ovvio, prosperano inefficienze e
corruzione.
Eppure l’antidoto sarebbe facilmente applicabile.
Nessun alto funzionario pubblico, neppure il più irreprensibile e
rigoroso, dovrebbe essere messo nelle condizioni di occupare troppo a
lungo un posto di grande potere, soprattutto se le sue decisioni sono
circondate dall’opacità. Nel nostro e nel suo stesso interesse.
Come sostiene il presidente dell’autorità anticorruzione Raffaele
Cantone, la rotazione degli incarichi può risultare il sistema più
efficace non per combattere la corruzione, ma per prevenirla. Se vale
per i vigili urbani, a maggior ragione non dovrebbe valere per i
superburocrati?
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