Corriere della Sera 04/06/14
Alla notizia della lettera con cui la
compagnia degli Emirati arabi Etihad ha confermato l’interesse ad
acquisire Alitalia, Maurizio Lupi ha tirato un respiro di sollievo:
«Oggi è un giorno decisivo per la nostra compagnia di bandiera».
Siamo sollevati con il ministro delle Infrastrutture. C’è però da
dire che se siamo arrivati a questo punto, è anche per colpa di chi
nel 2008 impedì il passaggio dell’Alitalia all’Air France. Per
chi ha la memoria corta, ricordiamo la risoluta opposizione
orchestrata in campagna elettorale a quella operazione da Silvio
Berlusconi, senza che nel coro del suo partito si udisse una sola
stonatura. Lo stesso Lupi, ora esultante di fronte alla prospettiva
dei 600 milioni di investimenti promessi dagli emiri, la bollò come
«un regalo ai francesi», che allora di milioni ne avrebbero
investiti 1.140. Facendo pure digerire il boccone amaro ai loro soci
olandesi della Klm, che erano stati già scottati dieci anni prima
dall’indecisione dei nostri politici, al punto da scappar via
dall’Italia a gambe levate.
Sorvoliamo pure sul fatto che la
fusione con Air France ci avrebbe fatto risparmiare un numero
imprecisato di miliardi. Ma almeno una piccola autocritica, accanto
all’esultanza, sarebbe stata doverosa.
Ancora di più,
tuttavia, avremmo apprezzato il mea culpa dei sindacati. Perché se
il Cavaliere e i suoi contrastarono la cessione ai francesi per puro
calcolo elettorale, chi tecnicamente la fece saltare furono loro. Con
in testa la Cgil.
Forse pensavano che, messo alle strette, ci
avrebbe pensato ancora una volta Pantalone a tenere in piedi una
baracca che faceva acqua da tutte le parti dopo due decenni di
scorribande dei partiti e di scelte manageriali sbagliate con la
fattiva collaborazione sindacale. Senza pensare che in quel modo non
si sarebbe potuto andare avanti all’infinito: prima o poi la resa
dei conti sarebbe arrivata. Ma nelle vicende dell’Alitalia la
lungimiranza non è mai stata il loro forte.
Per non parlare dei
«patrioti» chiamati da Berlusconi a far rinascere dalle ceneri la
nuova Alitalia, con la vecchia precipitata nel gorgo infinito (e
dorato) della liquidazione. Una cordata nella quale l’interesse per
il business del trasporto aereo era assai meno prevalente rispetto a
quello per ritorni di altro genere, ai quali tipicamente aspira chi
fa un investimento al solo scopo di compiacere un governo . Non certo
la migliore fra le iniziative fortissimamente sostenute dal futuro
ministro delle Infrastrutture Corrado Passera, al tempo
amministratore delegato di Banca Intesa. Come purtroppo si è visto
in seguito. Una composizione azionaria raffazzonata, dove spuntarono
concessionari pubblici e imprenditori in affari con lo Stato, in
larga misura disinteressata al progetto, non poteva che produrre una
strategia effimera e di retroguardia: puntare gran parte del successo
sul monopolio della rotta Milano-Roma proprio quando l’alta
velocità ferroviaria era già sulla rampa di lancio.
Non basta.
Perché mentre ci si apprestava a «salvare» la compagnia di
bandiera garantendo sette-anni-sette di cassa integrazione agli
esodati, sgravi pubblici alle assunzioni, zero debiti e zero
concorrenza sulla Linate-Fiumicino, si erano già poste le premesse
perché in ogni caso la nuova Alitalia finisse nelle braccia dell’Air
France. Che non a caso, della cordata patriottica era azionista di
riferimento.
Ma quando finalmente sembrava arrivato il momento
di passare di nuovo la mano a Parigi, ecco un nuovo sussulto di
italianità che ha lasciato i «patrioti» con il cerino in mano.
Perché a quel punto per Air France l’operazione non era più
conveniente.
E siamo a oggi. Per aver voluto difendere
strenuamente l’italianità della nostra compagnia dai francesi la
venderemo agli arabi. Con il consueto strascico di altra cassa
integrazione pagata, a quanto pare, dai viaggiatori con una tassa
supplementare sui biglietti. Ma con una differenza: che i sindacati
questa volta dovranno ingoiare un boccone decisamente più amaro di
quello che gli sarebbe toccato sei anni fa. Ci sta, visto com’è
andata. Ma ci starebbe ancora meglio se i responsabili di questo
fallimento politico, sindacale e imprenditoriale chiedessero una
volta tanto scusa agli italiani.
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