venerdì 27 ottobre 2017

Ricordo di Pietro Scoppola a 10 anni dalla morte


La repubblica 26 ottobre 2017
Dieci anni fa moriva Pietro Scoppola (1926-2007), un protagonista del dibattito culturale per oltre mezzo secolo. Uno storico poliedrico, attento alle dinamiche e alle inquietudini della società contemporanea, attratto da sfide su terreni inesplorati spesso al crocevia tra lo studio e la passione civile. Un intellettuale di riferimento dell'Italia
della seconda metà del novecento, esponente di punta del cattolicesimo democratico anche se il suo itinerario mal si combina con le tradizionali forme di appartenenze o identità: figura originale e per molti versi difficile da collocare nelle appartenenze politiche e culturali che hanno caratterizzato il lungo dopoguerra della Repubblica. La distanza dal suo mondo è molto più ampia del tempo che ci separa dalla sua scomparsa. Basta uno sguardo, anche fugace, alla politica, all'università, alla cultura dominante, al linguaggio degenerato e volgare che ci circonda: il suo mondo sembra svanito, inghiottito in pochi anni nelle dinamiche di un nuovo racconto dai confini e dagli approdi ancora indecifrabili.
Eppure a ben guardare, al di là delle apparenze che spesso ingannano, molti nodi della sua riflessione sono ancora presenti, molti spunti ancora sul tappeto e il rischio principale rimane quello di perdere di vista la dimensione storica delle trasformazioni più recenti. Un ammonimento che rimane stringente nella sua attualità. Anche nel pieno della crisi italiana, lo storico (preferiva l'espressione «studioso di storia») intravedeva (o forse auspicava) la possibilità e la necessità di non scivolare nelle semplicistiche letture del catastrofismo facile o del rimpianto diffuso per i bei tempi andati. Guardare alla lunga durata dei processi, cercare nel metodo storico nuove possibilità per comprendere i tortuosi sentieri delle società contemporanee segnate «dalla crisi profonda delle forme storiche della democrazia ». Una tensione continua che ha attraversato fasi diverse della sua vita segnando temi e questioni delle sue ricerche più vitali: dal movimento cattolico nelle sue tante forme alla presenza religiosa nell'Italia post unitaria, dalla Chiesa nel ventennio alla Carta costituzionale, dai discorsi di Cavour su Roma capitale alla proposta politica di De Gasperi, dalle dinamiche contraddittorie della democrazia alle caratteristiche del sistema politico post bellico fino alla terribile cesura politica ed esistenziale della vicenda Moro.
Dopo l'esperienza di senatore della Repubblica, aveva proposto una sintesi dell'esperienza repubblicana in un volume fortunato il cui titolo, La Repubblica dei partiti, è diventato un'espressione diffusa per riassumere il cammino di decenni segnati dalle eredità della seconda guerra mondiale e dal successivo protagonismo dei partiti di massa. Rifiutava la dizione ambigua di Seconda Repubblica preferiva il senso di un processo unitario da indagare e ricostruire nella sua lunga complessità. Contrario a concezioni finalistiche della storia, attratto dalla unicità e dal valore della persona umana. Nell'ultima fase della sua vita aveva lanciato grida di allarme sullo stato del Paese, sugli effetti della cesura apertasi con la fine degli anni Ottanta, tra il crollo del muro di Berlino e la crisi del 1992: cercare una strada per uscire dal catastrofismo senza speranze o dalle facili rassicurazioni proposte dai vincitori. Una voce inascoltata, un lascito che non si è esaurito.

Pietro Scoppola il professore della politica


La Repubblica 26 ottobre 2017
Il suo progetto era l'Ulivo e non nascose la delusione per come nasceva il Pd
Fu tra i primi sostenitori di Romano Prodi e tra gli estensori del manifesto che diede vita al nuovo partito. "Non credo alla formuletta dei riformismi"
«Sì, la politica mi ha appassionato, come disegno per il futuro, come valutazione razionale del possibile e come sofferenza per l'impossibile, come aspirazione a un'uguaglianza irrealizzabile che è tuttavia il tormento della storia umana. Mi ha interessato la politica per quello che non riesce a essere molto più per quello che è», confessava Pietro Scoppola nel libro uscito postumo cui aveva dedicato le ultime energie, Un cattolico a modo suo. La politica nella sua doppia dimensione Scoppola l'aveva incontrata da storico di figure che avevano mantenuto l'equilibrio tra tensione e realismo: Alcide De Gasperi, Aldo Moro, Giovanni Battista Montini. E da studioso impegnato in politica, cattolico più liberale che democratico, laico («laico», scriveva, «è colui per il quale le cose ci sono nella loro identità»), allergico ad apparati e mobilitazioni, specie quelle agitate in nome della fede, credente ma in-appartenente, dentro e fuori, istituzionale e movimentista.
Esterno, come si erano definiti in un'assemblea gli intellettuali che volevano cambiare la Dc, il partito- Stato dei cattolici, ma senza arruolarsi in una corrente, gli uomini della Lega democratica. Ermanno Gorrieri, Achille Ardigò, Beniamino Andreatta, Paolo Prodi, Romano Prodi, Paola Gaiotti De Biase, Luigi Pedrazzi, Nicolò Lipari, Paolo Giuntella, e poi Leopoldo Elia e un giovane professore palermitano, Sergio Mattarella: una riserva di intelligenze negli anni del terrorismo politico e mafioso che si accaniva sui loro maestri, amici, fratelli (Moro, Piersanti Mattarella, Vittorio Bachelet, Roberto Ruffilli). La vera radice dell'Ulivo e dunque del Partito democratico.
Di questo gruppo Scoppola era stato l'indubbio leader, carismatico e tormentato, da quando nel 1974 aveva guidato il gruppo dei cattolici del No nel referendum sul divorzio, contrari ad abrogare la legge. Monsignor Giovanni Benelli andò a cena a casa sua per comunicargli l'irritazione di Paolo VI, lasciandolo «preoccupato e spaventato e addolorato», come testimoniò l'amico ambasciatore Gian Franco Pompei. Si era candidato nel 1983 al Senato come indipendente nella Dc e quando il rinnovamento era fallito era tornato all'insegnamento universitario. I capelli bianchi, le sopracciglia folte, lo sguardo ironico, il professore si fermava a parlare di politica per ore con gli studenti nel corridoio dopo la lezione di storia contemporanea. «Oggi la storia si rimette in movimento, dobbiamo abbandonare tutti gli schemi che ci hanno accompagnato finora», ci accolse in aula la mattina di un lunedì qualsiasi che invece era la data spartiacque. Lunedì 9 novembre 1989, nella notte la Germania Est aveva aperto le frontiere, il muro di Berlino era venuto giù. La voce dello studioso vibrava di emozione. La democrazia occidentale aveva vinto. Ma lui aveva già capito che da quel momento sarebbe cominciata la sua crisi.
Scoppola all'inizio degli anni Novanta è tra i promotori dei referendum elettorali di Mario Segni e dell'amico Arturo Parisi. Sogna la democrazia dell'alternanza e una nuova casa politica per i democratici. Non è un cambiamento soltanto di legge elettorale: «Molte proposte di cui si discute rischiano di essere travestimenti del vecchio ordine, più`cheuna premessa di una nuova realtà. Il problema non è quello di far nascere una "seconda repubblica", bensì quello molto più complesso del passaggio da una "repubblica dei partiti" a una "repubblica dei cittadini": tanto più`arduo e difficile perché coinvolge questioni di mentalità e di cultura e non solo istituzionali».
Il suo progetto si chiama Ulivo, l'Ulivo di Romano Prodi, e poi il Partito democratico. Si impegna nella presidenza dei Cittadini per l'Ulivo, in giro per l'Italia già anziano in assemblee, convegni, dibattiti. Del Pd è uno dei padri fondatori, è nel gruppo ristretto che elabora il manifesto del nuovo partito, sua una delle relazioni introduttive nell'incontro di Orvieto del 7 ottobre 2006 che dà il via al processo costituente. «Crisi di identità e questione democratica, determinismo e libertà, paura e speranza di futuro, solitudine e amicizia, sono le dicotomie su cui il partito nuovo dovrebbe costruire la sua identità», consiglia, denunciando il ritardo del progetto rispetto al vento crescente dell'an- tipolitica (il Vaffa day grillino è di un mese prima). «È in crisi anche la democrazia americana. Ha radici profonde, ma il suo disagio è evidente e sintomatico», avverte Scoppola dodici anni prima di Trump.
Qualche mese dopo non nasconderà la delusione: «Non credo alla formuletta dei riformismi che si incontrano perché di riformismo in questo paese ce ne è stato poco per decenni. Il riformismo italiano più che una espressione di grandi e forti tradizioni politiche è stato un fatto di élites illuminate. Il Pd ha radici profonde nella storia del Paese o è una invenzione estemporanea, senza radici e perciò senza futuro?», si chiede il 17 marzo 2007. «La transizione italiana è povera di veri leader politici, di grandi disegni, di cultura », ripete nell'ultima intervista rilasciata a Repubblica, l'8 ottobre. Morirà due settimane dopo, nei giorni in cui il Pd prende vita.
Dieci anni dopo il Pd è rimasto il "partito ipotetico" di cui aveva scritto Edmondo Berselli. E la crisi della democrazia è avanzata, non solo in Italia. Oggi in politica l'intellettuale o è tutto dentro, consigliere e consulente del principe di turno, o è tutto fuori, a coltivare il narcisismo della sua purezza. Per questo è preziosa l'ultima lezione del professore, che si è sempre sentito esterno ma non estraneo: curioso degli altri, generoso con le persone, appassionato di tutto. Lo spazio della coscienza come antidoto al conformismo, all'onnipotenza della politica degli anni passati, o alla sua nullità di questi anni. Il filo tenace della responsabilità individuale, senza il quale la democrazia dei cittadini non arriverà mai.

lunedì 16 ottobre 2017

RISULTATI ELEZIONI AUSTRIACHE

Pierluigi Castagnetti
16 ottobre 2017
I risultati delle elezioni austriache dopo quelli delle politiche in Germania pongono almeno due questioni.
La prima: il tema dei migranti sta determinando il cambiamento del paesaggio politico europeo con conseguenze che possiamo per ora solo immaginare. Le popolazioni dei vari paesi europei si stanno chiudendo su se stesse, rinunciando al loro principale connotato, quello della solidarietà. La paura e la rabbia sovrastano ogni spazio di razionalità e di responsabilità. Purtroppo non di rado evocando strumentalmente la tradizione cristiana.
La seconda: la connotazione europeista del Ppe rischia di essere cancellata. E anche qui le conseguenze possono essere devastanti soprattutto se si considera la profonda crisi elettorale e politica del Pse.
Chi se ne compiace, anche in Italia, mostra di non rendersi conto di ciò che può determinarsi a breve, nella pur inevitabile revisione dei Trattati in vista della definizione di un'Europa a più velocità.
Varrebbe la pena discutere di questo e non fermarsi al penoso dibattito più o meno da cortile su questioni personalistiche di queste settimane, consapevoli che nelle prossime elezioni politiche non sarà solo in gioco il futuro dell'Italia, ma quello dell'Europa.

“SENZA IL PD AVREMMO AVUTO UN’ITALIA DA INCUBO”.


Intervista a Giorgio Tonini
Roma 15 ottobre 2017

Ieri, al teatro Eliseo a Roma, il Partito Democratico ha festeggiato il suo decimo anniversario. Un anniversario accompagnato da polemiche. Facciamo, nei limiti di una intervista, un bilancio di questa storia decennale. Una storia di passione riformista. Con alti e bassi. Lo facciamo con Giorgio Tonini, Senatore PD e Presidente della Commissione Bilancio del Senato.

Senatore Tonini, siamo nel decennale del PD, che doveva essere una importante tappa, nell’ambito della  storia dei partiti politici italiani, ovvero la nascita di un grande partito riformista, capace di contenere in una sintesi alta le migliori culture  politiche progressiste italiane, si è rivelata un “sogno” incompiuto. La storia di questi dieci anni ne è, secondo alcuni, la riprova. Temo che abbia ragione Massimo Cacciari sull’impossibilità dell’amalgama tra gruppi dirigenti e quindi tra culture politiche. Con Renzi poi le cose si sono aggravate, tanto da portare alla  scissione.  Insomma non è un bel compleanno per il PD. Lei, invece,  pare  più ottimista sul destino del Pd. Per quali ragioni?
È vero, il decennale del Pd è stato l’occasione di un impressionante moltiplicarsi di annunci di sventura circa il destino di quello che al momento è comunque il primo partito italiano. Da destra a sinistra, passando per i grillini, sembra che si voglia una cosa sola: non solo la sconfitta, ma il fallimento del Pd. Che questo sia l’obiettivo, il sogno dei nostri avversari, è comprensibile. Anche se a me piacerebbe vivere in un paese nel quale la competizione politica, che è il sale della democrazia, fosse capace di non sconfinare nel desiderio insano di distruggere l’avversario. Meno comprensibile è che questa sia diventata la ragione di vita anche di una parte della sinistra italiana, a cominciare da quella che fino a pochi mesi fa era stata una componente importante dello stesso Pd. C’è nella sinistra, e nella sinistra italiana in particolare, una vena nichilista che ciclicamente riemerge e troppo spesso le fa preferire la distruzione alla costruzione. Questo sacro furore contro il Pd è del tutto fuori misura, fuori scala, rispetto anche ai limiti che la costruzione di quello che volevamo fosse non solo un nuovo partito, ma un partito nuovo, ha evidenziato e tuttora denuncia. Ne parleremo, in questa nostra chiacchierata. Ma intanto mi faccia dire che non so che fine avrebbe fatto l’Italia in questi anni se non avesse potuto contare sul Pd. Il Pd non doveva o non poteva nascere, secondo alcuni profeti di sventura. E invece è nato. Ha passato i suoi guai di gioventù, ma è cresciuto, ha raccolto dodici milioni di voti con Veltroni, sconfitto da Berlusconi, e undici con Renzi vincitore alle europee e sconfitto al referendum. Nel frattempo ha dato al Paese due presidenti della Repubblica della statura di Napolitano e Mattarella. E un governo, nel pieno della più difficile crisi economica dalla seconda guerra mondiale, che ha avviato un grande lavoro riformatore, che ha aggredito molti dei nodi strutturali irrisolti del Paese, guadagnandosi apprezzamento e considerazione in Europa e nel mondo. Si può dissentire e criticare, ma si deve almeno avere l’onestà intellettuale di rispettare una forza politica così. Forse il sogno originario del Pd non si è compiutamente realizzato. Ma senza il Pd avremmo avuto un’Italia da incubo.
Continuamo il nostro ragionamento, come direbbe De Mita, sul  partito. Con Veltroni, al di là delle qualità umane, e per alcuni versi, anche con Bersani, vi era la sensazione di un partito caldo. Un partito, mi passi la metafora evangelica, che si fa prossimo alla gente. Oggi il partito è tutto “piegato”, come ha scritto Bettini, sul “riformismo dall’alto”. Avrà fatto cose buone, ma il partito è apparso lontano dalla fatica quotidiana della gente. Un’altra scommessa persa?
Né Veltroni, né Bersani hanno guidato il Pd al governo. Il paragone con la stagione di Renzi è dunque improprio. Ma anche la categoria del “riformismo dall’alto” non mi pare la più appropriata per descrivere il rapporto tra il Pd è la società italiana in questi anni. Renzi è arrivato a Palazzo Chigi quasi trascinato da un’onda di popolarità che appariva incontrastabile. Un’onda poi certificata dal clamoroso 40 per cento di voti alle europee: primo partito d’Europa, perfino più della Cdu-Csu tedesca. Renzi ha governato per quasi tre anni con la preoccupazione, quasi l’ossessione della comunicazione col Paese. Eppure ad un certo punto l’incantesimo si è rotto. Forse le aspettative erano schizzate troppo in alto e di lì non potevano che cadere. Forse è stato decisivo il saldarsi delle opposizioni nel referendum costituzionale. Forse è stata sottovalutata l’esigenza di stabilire solidi legami con i corpi intermedi della società civile. Forse, e senza forse, il partito si è rivelato troppo fragile nel supportare l’azione di governo, anche perché era stato troppo a lungo trascurato. Si tratta di questioni non banali, da non trascurare, ma neppure da drammatizzare. Il Pd ha in se stesso tutte le risorse per tornare a stabilire un rapporto positivo con il Paese.
E sempre, per “finire” il “ragionamento”, sul partito: è indubbio che Veltroni aveva capacità di  ascolto anche ai mondi nuovi della cultura, dell’intelligenza, ecc., in Renzi il partito è vissuto strumentalmente come “mezzo”. Pochissime volte si è sentito il “noi”. Il risultato è un partito personalizzato. Adesso Renzi ha recuperato il noi ma la sensazione è che sia tardi. E senza il “noi”, la comunità, non si fa argine al populismo. E’ così Senatore?
Mah, l’idea di partito-comunità non mi ha mai persuaso completamente. I partiti sono anche comunità di persone che condividono valori, principi, obiettivi. Esattamente come sono luoghi di competizione per il potere, dunque di divisione, di conflitto, di lotta. L’importante è che ci sia un equilibrio tra queste due dimensioni. Per me i partiti sono innanzitutto istituzioni della società civile, indispensabili al funzionamento della democrazia, in particolare della democrazia parlamentare. Per questo devono essere pochi e grandi. O perlomeno ci devono essere, in un sistema democratico sano, due  grandi partiti in grado di farsi carico, in competizione e collaborazione tra loro, del governo del Paese. Anche svolgendo quella funzione vitale che è la selezione della classe dirigente e, in definitiva, della leadership. Da questo punto di vista quella del Pd è stata un’esperienza di successo, per quanto indebolita da una scissione che ha ignorato il valore della decisione costituente del partito: la scelta di dotarsi tutti insieme di un partito grande e plurale, nel quale linea politica e leadership sono decisi in modo aperto e democratico, per cui tutti possono vincere e tutti possono perdere, nella competizione per cariche e ruoli sempre contendibili. Non aver accettato di rinunciare ad un’impossibile golden share, da parte degli scissionisti, li ha portati ad uscire dal partito. Poi Renzi avrà i suoi limiti e avrà fatto i suoi errori. Ma non si abbandona un partito perché il leader pro tempore non ti piace. Lo si fa perché non si accetta la costituzione formale e materiale sulla quale esso si fonda. E questo è quel che è successo con una parte della componente ex-pci, quella dalemiana. Che aveva accettato il modello competitivo previsto dallo statuto formale del Pd, voluto da Veltroni, purché la costituzione materiale restasse fondata sul centralismo democratico di antica radice togliattiana. Quando Renzi ha fatto saltare questa “condizione”, che in effetti poteva giustificarsi solo in una fase fondativa, il compromesso è saltato e si è arrivati alla scissione. Che costerà molto al Pd, ma non al punto da far fallire un progetto che resta indispensabile all’Italia.
Gli “scissionisti” si stanno avvitando in un percorso massimalista. Dettato dal rancore. Però su un punto hanno ragione da vendere: quando chiedono al PD di essere più di sinistra. Indubbiamente il PD ha portato innovazione nella cultura politica italiana. E questo è stato un bene per la cultura di sinistra. Però spesso è apparso come un partito che ha sbiadito la sua radice. Insomma la tanto declamata “terza via” altro non era che una “prima via” (il mercato) un pochino più umana. Il bilancio è magro, Senatore Tonini…
La sinistra, diceva Norberto Bobbio, è lotta per l’uguaglianza. Lo è stata ieri, deve esserlo oggi e dovrà esserlo domani e sempre. Il problema è che il mondo cambia e con esso cambiano i termini di quella lotta. Dunque essere più di sinistra, come dice lei, non può significare essere più nostalgici di un mondo che non c’è più, perché è proprio chi pensa e “sente” così, che finisce, di fatto, per consegnare la sinistra alla storia, se non direttamente all’archeologia. Per me è più di sinistra chi si sforza di “capire il nuovo”, come ci ha insegnato Pierre Carniti, perché quella è la premessa indispensabile per “guidare il cambiamento” e non limitarsi a subirlo. Facciamo un esempio: qualcuno pensa che essere più di sinistra significhi opporsi alla globalizzazione e perfino all’Unione europea. Ma la globalizzazione, che certo ha contribuito a mettere in discussione conquiste sociali importanti nei paesi sviluppati, ha realizzato la più grande inclusione nello sviluppo della storia umana: una inclusione che ha interessato miliardi di persone. Dunque il problema, per chi intende lottare per l’uguaglianza, non può essere quello di opporsi alla globalizzazione, ma piuttosto quello di governarne gli effetti sulle nostre società. Proprio per questo sinistra ed europeismo sono oggi sinonimi. Naturalmente, non qualsiasi europeismo. Da questo punto di vista, il governo Renzi, lungi dallo sbiadire la sua radice di sinistra, è stato protagonista di una vera e propria svolta nella politica economica europea, imponendo una interpretazione dei trattati, a cominciare dal Fiscal Compact, che ponessero al centro  la crescita e l’occupazione.
Lei, che è di cultura degasperiana e morotea, glielo ha spiegato al suo segretario che la centralità del PD non esclude il farsi carico delle ragioni  dell’altro? Solo così si può costruire una coalizione. Ci riuscirà Renzi? E  questo cambio sarà necessario anche alla luce della nuova legge elettorale…
Un mio grande “predecessore” (intendo dire, come presidente della Commissione Bilancio del Senato…), Beniamino Andreatta, intervenendo nel dibattito sulla fiducia all’ultimo governo Andreotti, il 7 novembre 1991, in pieno disfacimento della prima Repubblica, osservava che «i problemi della finanza pubblica sono i problemi politici di un paese e le debolezze del sistema politico si traducono nei risultati contabili che oggi commentiamo un poco sbigottiti». E aggiungeva che dopo la fase virtuosa, quella del centrismo degasperiano e poi del centro-sinistra di Moro e Nenni, «dal 1972 ad oggi possiamo dire che c’è stata un’era della ingovernabilità, perché non c’è stata intesa, non c’è stata più coalizione». E allora, concludeva, «delle due l’una: o si riesce a ricostruire questo spirito di coalizione, o si creano strumenti (come la legge elettorale maggioritaria, ndr) perché si possa operare il divorzio tra le forze politiche e ci siano forze in grado di governare con maggioranze più ristrette». Renzi è un leader che si è formato nello schema della democrazia competitiva, quello che si era affermato nel paese all’inizio degli anni Novanta, soprattutto grazie alla spinta dei referendum Segni. Il paradosso è che oggi Renzi si trova a dover gestire gli effetti di un nuovo pronunciamento popolare, quello del referendum del 4 dicembre scorso, che ha ribaltato la situazione, di fatto chiudendo la stagione del maggioritario e rimettendo le forze politiche dinanzi alla necessità di riscoprire lo spirito di coalizione, la capacità di collaborare in parlamento tra forze anche molto diverse tra loro. Vedremo se sarà possibile, nella prossima legislatura. O se non dovremo riprendere la marcia verso un sistema politico di impianto maggioritario. Stavolta per la via del semipresidenzialismo alla francese. L’unico in Europa che consente, per dirla con Andreatta, «di governare con maggioranze più ristrette», cioè senza le larghe intese…

sabato 14 ottobre 2017

Buon Compleanno PD!


Michele Nicoletti

Una riflessione di qualche anno fa, ma per me ancora attuale, per fare gli auguri più affettuosi al PD e a tutte le democratiche e i democratici.
La democrazia senza aggettivi
1. L’intuizione che ha portato a definire il nuovo partito come “partito democratico”, uscendo dalla stagione della botanica e tornando alla centralità delle idee politiche, ponendo il partito nuovo sulla base dell’idea di democrazia (“la più bella idea” che la storia della politica abbia partorito), è stata fondamentale e, ne fossero o meno consapevoli gli artefici di tale scelta, questa intuizione ha collocato la nuova formazione politica nel grande alveo della tradizione del pensiero democratico. Tradizione per nulla vaga e più risalente rispetto a quelle tradizioni di pensiero a cui di solito si fa riferimento quando si traccia la genealogia del PD e si invocano – quasi in una sorta di litania – le divinità protettrici del passato, i liberaldemocratici, i socialisti, i cattolici democratici e via enumerando. Se solo si assumesse uno sguardo appena più ampio, ci si accorgerebbe che queste nobili tradizioni, prima di essere nostre progenitrici, sono state a loro volta figlie, figlie di quella tradizione di pensiero democratico che ha portato alle rivoluzioni americana e francese combattendo l’assolutismo regio e affermando la sovranità del popolo. E questa tradizione si è certo manifestata nel corso dell’’800 in forme diverse, nelle correnti sopra ricordate, ma ha saputo mantenere anche una sua forza unitaria, operante a livello carsico, ma capace via via di battersi per i diritti civili, l’abolizione della schiavitù, l’emancipazione femminile, la giustizia sociale, l’educazione di tutti, la laicità del politico e il sacro rispetto della coscienza, e di lottare contro l’imperialismo e il nazionalismo, contro i fascismi e i totalitarismi di ogni colore, e di darci poi il frutto della Costituzione, frutto unitario di una lotta unitaria dei democratici, e di un idea di ordinamento della società internazionale basato sui diritti umani e dei popoli. Chi oggi dice che il PD non ha un’identità ideale non sa che cosa dice. O meglio parla di se stesso e del proprio disorientamento e ignora le grandi correnti ideali della storia. Il semplice fatto di aver posto il partito sotto l’egida – finalmente – di una democrazia senza aggettivi (e dunque non più la democrazia liberale o la socialdemocrazia o la democrazia cristiana, ma la democrazia e basta, perché – verrebbe da dire con il Marx della questione ebraica – “la democrazia politica è cristiana”) rappresenta la consapevolezza che l’idea di democrazia è il luogo dell’inveramento delle aspirazioni dei liberali, dei democristiani, dei socialisti. La democrazia non è una tappa intermedia verso altro, ma è l’ideale verso cui essa stessa tende. La politica sottratta all’essere strumento per la realizzazione di altre mete e restituita alla sua natura originaria: autogoverno di donne e uomini che si vogliono liberi e si riconoscono uguali. In uno sforzo perenne, mai del tutto raggiunto perché sempre nuovi esseri umani si aggiungono alla nostra convivenza, ed abbiamo l’eterno compito di riconoscere anche ad essi pari opportunità. Questa lettura più larga ci aiuta a collocare le diverse tradizioni che sempre ricordiamo entro una storia comune e a concepire il PD non come la costruzione artificiale di gruppi diversi ed eterogenei, ma come la ricongiunzione dei diversi rami della tradizione democratica al ceppo originario e comune. Ciò non accade oggi per la prima volta, ma già altre volte è accaduto sia pure non nella forma del partito e solo a rileggere gli atti della Costituente respiriamo quest’aria di unità democratica, di ritrovarsi in famiglia. Per cui è del tutto corretto dire che il PD è il partito della Costituzione e di quella Costituzione in cui le tradizioni democratiche italiane arrivano alla formulazione di quella concezione “dinamica” dell’uguaglianza che si trova originalmente formulata nell’articolo 3. È questa concezione dell’uguaglianza che sta alla base delle cultura politica del Partito Democratico e che anche oggi costituisce lo spartiacque ideale tra i diversi schieramenti. Se rileggiamo la storia delle idee politiche in Europa e nel mondo alla luce di questo spartiacque, ci accorgiamo di come si possa rinvenire – pur nella pluralità – un’unità più profonda delle tradizionali distinzioni (liberaldemocratici, socialisti, cattolici democratici, eccetera) che si fonda su questa concezione inclusiva della democrazia, tesa perennemente a realizzare condizioni di uguaglianza in un mondo che non smette di generare disuguaglianze. Uguaglianza non solo sul piano orizzontale dei diversi gruppi sociali, ma anche sul piano verticale dell’uguaglianza tra governati e governati che nell’età della democrazia di massa e della professionalizzazione del politico si fa particolarmente acuta.
2. Dunque l’idea c’è, la storia c’è, vi è da chiedersi piuttosto se vi siano fra noi oggi uomini e donne all’altezza di questa storia. Storia di impegno, di sacrifici e di lotte, come ogni democratico di ogni tempo sa, perché non vi è diritto di donna o di uomo che non sia stato conquistato attraverso lotte. La politica democratica – ossia la democratizzazione della politica - non è un gioco di società. E vi è da chiedersi se il deficit maggiore oggi non risieda nella mancanza di serietà, nella mancanza di consapevolezza del senso della nostra battaglia, nel deficit di carattere. Forse ci battiamo stancamente perché ci battiamo per i diritti altrui, avendo da tempo conquistato i nostri e badando semmai a conservarli gelosamente. Ma vi può essere politica democratica se quanti avrebbero un reale interesse all’espansione della democrazia – perché sfruttati o discriminati - non stanno dalla parte dei democratici? Se non vedono nei democratici chi si fa carico delle loro aspirazioni, chi dà mostra di “sentire” ciò che essi sentono e di “soffrire” ciò che essi soffrono? La forza dei movimenti democratici stava nel coniugare gli ideali di libertà, uguaglianza, fraternità con componenti sociali che avevano interesse concreto alla realizzazione di una società fondata su queste basi. Questa ricomposizione tra interessi e valori è essenziale e per questo è urgente una forte alleanza con le componenti della società che hanno interesse a un’espansione dell’uguaglianza delle opportunità e sono disponibili a comporre questo loro interesse in un orizzonte ideale di democratizzazione della società.
Politica e speranza
3. Ma la forza dei movimenti democratici non stava, in passato, solo nella loro rappresentanza sociale progressiva, stava anche nella loro capacità di suscitare la speranza in un mondo diverso, attraverso rappresentazioni ideali della società del futuro, che apparivano desiderabili, così desiderabili da rendere sensata la lotta, e da rendere sopportabili le avversità del presente. La politica moderna e in particolare la politica democratica si è costruita in modo determinante sull’idea di un futuro diverso dal presente. Fosse il regno di Dio o la società dell’avvenire, fosse il mondo della libertà e degli scambi pacifici, in ogni rappresentazione ideale stava la forza trascinante di un futuro migliore per cui valeva la pena impegnarsi. Quest’idea che il presente non è l’unico tempo dell’essere umano, ma un altro tempo esiste per cui le donne e gli uomini non sono condannati all’eterno ritorno dell’uguale miseria, ma sono destinati a un riscatto e a una liberazione, è stato un contributo fondamentale offerto dalle tradizioni ebraiche e cristiane alla politica occidentale. La speranza della liberazione. E la povertà della nostra cultura politica sta anche nell’inaridirsi di questo orizzonte perché le tradizioni religiose oggi di fronte alla vita politica appaiono più preoccupate di difendere i propri spazi attraverso lo strumento del politico, anziché allargare lo spazio e il tempo del politico attraverso il proprio orizzonte spirituale. E invece è di questo allargamento dello sguardo e del cuore di cui la politica democratica ha bisogno. Non certo per riproporre messianismi terreni che non hanno giovato all’umanità. Ma per dispiegare anche nella storia la forza liberante di una speranza in un orizzonte che trascende il presente. E in ciò – anche – è stata certamente la forza trascinante della proposta di Barack Obama al suo popolo, proposta così fortemente nutrita della speranza di una liberazione che ha radici salde nella tradizione democratica americana, dai padri fondatori ai difensori dei diritti civili. La speranza non è certo un patrimonio esclusivo delle tradizioni religiose, essa può fondarsi e alimentarsi anche ad altre sorgenti. Ma di essa, ovunque provenga, la democrazia ha bisogno per sostenersi nel momento in cui la fiducia nel cambiamento viene messa alla prova dalla crisi, dalla stanchezza e dalla rassegnazione. È in quest’ora che il pensiero democratico ha bisogno di tutte le energie spirituali di cui può disporre. Non deve costringere le persone a mettere tra parentesi le proprie energie spirituali, ma deve riuscire a esaltarle e a comporle in un quadro comune.
4. Ma non è solo per riaprire l’orizzonte del futuro che il pensiero democratico ha bisogno di attingere a energie spirituali. La crisi economica ha mostrato i limiti non solo di un modello sregolato di capitalismo, ma anche di un’economia di mercato che ha bruciato le risorse antropologiche da cui essa pure è nata. La logica di funzionamento del sistema economico lasciata a se stesso ha logorato quei presupposti di libertà della persona e di parità di condizioni senza cui essa non avrebbe potuto svilupparsi e per questo entra in tensione con le aspirazioni democratiche, che non possono accettare un sistema che produce disuguaglianze sempre più ampie. La reazione del sistema politico democratico alla crisi economica è stata debole: come i meccanismi democratici sono stati spesso impotenti di fronte alle sregolatezze del sistema, così nel momento della crisi raramente sono riusciti ad evitare che le risorse pubbliche messe in campo non finissero nelle mani degli stessi agenti e delle stesse logiche che hanno prodotto la crisi. È su questo piano che si misura la difficoltà, per non dire l’impotenza delle democrazie: quello che dovrebbe essere il sistema politico maggiormente in grado di difendere i meno abbienti, rischia di cooperare al maggior trasferimento di risorse pubbliche (provenienti in gran parte dal lavoro) nelle mani di chi già ha. È questo compromesso tra (cattivi) attori economici e (cattivi) attori politici, che va rotto a favore di un nuovo e più avanzato compromesso tra democrazia ed economia di mercato. Per questo serve non solo una politica che intercetti gli attori sociali ed economici interessati al cambiamento (spesso inclinanti verso la rassegnata astensione), ma anche una teoria sociale capace di dare spazio in chiave dialettica ma non antagonista a quanti aspirano a una «revisione profonda e lungimirante del modello di sviluppo» in una logica di rispetto dell’ambiente e della giustizia sociale a livello nazionale, internazionale e intergenerazionale. Si tratta qui, di nuovo, di nutrire il pensiero democratico con antropologie dialogiche e solidaristiche che nel radicale rispetto della libertà della persona si oppongano però al rischio presente di reificazione dell’”altro essere umano” presente nelle prospettive individualistiche. Occorre perciò accettare la sfida del confronto antropologico anche sui terreni cruciali dell’inizio e del fine vita, così come del valore sociale delle relazioni familiari, intessendo un confronto aperto e intenso con quanti si occupano della “messa in salvo dell’umano”. Può darsi che questo confronto porti in ogni caso a divergenze sul piano delle concrete scelte da operare sul piano legislativo per operare nell’oggi quel bilanciamento di beni che la nostra Costituzione ci chiede. Ma è essenziale che in questo dialogo si renda a tutti percepibile il valore di tutti i beni in gioco, perché le mediazioni giuridiche e politiche – sempre contingenti – custodiscano la preoccupazione che nulla dell’altro bene vada interamente perduto. Coltivando il dialogo con le tradizioni morali e religiose sul piano antropologico, il movimento democratico potrà opporre all’alleanza strumentale tra trono e altare la proposta di un confronto e di una cooperazione tra credenti e non credenti che riconosca da un lato la secolarità del politico e la trascendenza del teologico e coltivi dall’altro la cooperazione dialettica tra le diverse prospettive.
5. La situazione preoccupante della democrazia italiana esige certamente che si faccia ogni sforzo per perseguire politiche di alleanza con le altre forze progressiste, ma un allargamento del fronte non basterà a rendere i democratici i protagonisti del cambiamento se non sapranno anche allargare l’orizzonte sociale e culturale della loro proposta. E se non sapranno allargare il loro cuore, la loro capacità di “sentire” ciò che gli altri soffrono. A loro spetta il dovere di testimoniare che la democrazia è in grado di farsi carico più di altre forme di governo dei grandi problemi sociali che attraversano il nostro tempo e ciò va fatto in primo luogo esprimendo la propria vicinanza a quanti vivono con maggiore difficoltà. In questa vicinanza, i democratici, se attingeranno al proprio – straordinario e intatto – patrimonio ideale, sapranno riaprire l’orizzonte della speranza e, ritrovando il senso e le energie di un nuovo impegno, potranno contribuire a costruire, assieme, nuove condizioni di vita, più umane per tutti.


venerdì 13 ottobre 2017

Le ragioni del Partito Democratico


Giorgio Tonini
Democratica 13 ottobre 2017

Capitò a me dare la notizia, nell’aula del Senato, della scomparsa di Pietro Scoppola. Erano da poco passate le 10,30 di giovedì 25 ottobre di dieci anni fa. Scoppola era morto nella notte, dopo una lunga e logorante malattia. Ricordai che era entrato in Senato da giovanissimo funzionario e poi, in una breve pausa della sua feconda carriera di docente di storia contemporanea, era tornato come senatore democratico cristiano nella nona legislatura (1983-1987). Ricordai anche il suo impegno per le riforme, costituzionali ed elettorali, e per l’Ulivo e il Partito democratico. Concludevo
osservando: “C’è un filo di ironia della storia o – per chi crede – della Provvidenza, nel fatto che il professor Scoppola sia mancato due giorni prima dell’assemblea costituente del Partito democratico”. La costituente del Pd era stata eletta dieci giorni prima, il 14 ottobre, e si sarebbe riunita per la prima volta, per ratificare l’elezione a segretario di Walter Veltroni, il sabato successivo. Al mio annuncio, l’aula del Senato, per pochi minuti, si trasformò. Era un’aula spaccata
in due come una mela: da una parte l’Unione di centrosinistra, divisa al suo interno su tutto, ma schierata a disperata difesa del governo Prodi; dall’altra quella che allora appariva la falange berlusconiana, protesa nel tentativo di far saltare governo e legislatura, convinta di essere maggioranza nel paese. La notizia della morte di Scoppola impose un’ora (scarsa) di cessate il fuoco. E si unirono nell’omaggio all’uomo di studi, mai disgiunti da una forte passione civile e politica, personalità antitetiche tra loro come Quagliariello e Russo Spena, Salvi e Zanone, D’Onofrio e Palermi.Il testo che Democratica ha deciso di riproporre ai suoi lettori è forse il testamento politico di Scoppola. Si tratta della relazione che il professore tenne a Orvieto, il 6 ottobre del 2006: in quel seminario, arricchito anche dai contributi di Salvatore Vassallo e Roberto Gualtieri, furono gettate le fondamenta culturali e politiche del Partito democratico. Che nacque da un compromesso: tra le istanze radicalmente e talvolta astrattamente innovative del movimento ulivista e gli equilibri, anche di potere, tra e nei partiti fondatori.Scoppola vede lucidamente il compromesso e non lo demonizza. Del resto, uno dei tratti salienti della ricerca intellettuale, della vicenda politica e perfino della meditazione spirituale di Scoppola è sempre stato il suo collocarsi sulla sottilissima soglia tra conflitto
e mediazione. Il conflitto, per non degenerare in dissoluzione, deve aprirsi alla mediazione, che a sua volta deve accettare la sua insuperabile provvisorietà e strutturale insufficienza. Ciò che conta è che questa dialettica non si spenga, mai. “I partiti facciano i passi oggi possibili — conclude Scoppola la sua storica relazione — ma avvertano il rischio e la tremenda responsabilità delle parole: il rischio che le speranze cresciute in questi anni diventino nuove
delusioni”.


Le ragioni del Partito Democratico
Pietro Scoppola

Orvieto 6 ottobre 2006. La relazione del Professor Pietro Scoppola al convegno “Verso il Partito Democratico”

Sono grato a Romano Prodi per avermi chiesto di aprire questo seminario.
I. Nella sua lettera di invito Prodi indica chiaramente le ragioni che ispirano la proposta di dar vita a un partito democratico: caduti i motivi che in una lunga stagione storica hanno diviso le forze democratiche e riformatrici, occorre, in un sistema bipolare “trasparente e moderno”, dar vita a un soggetto capace di raccogliere la domanda di unità e di cambiamento che sale dal Paese. L’obiettivo è quello di condurre in porto “quel processo politico che dopo anni di sforzi ed esperimenti, ha
portato, anche attraverso le primarie del 16 ottobre 2005, alla decisione di proporre la lista unitaria dell’Ulivo alla Camera”.
Il cenno alle primarie indica la volontà di una apertura a realtà popolari, ad associazioni e a personalità che hanno lavorato per l’Ulivo e poi per il Partito democratico. Ma è esplicito nella lettera il richiamo ai partiti che hanno dato voce e rappresentanza alle tradizioni riformatrici e sono parte fondamentale e costitutiva della Repubblica e dello Stato democratico. Perciò – dice Prodi – “dobbiamo immaginare un percorso in cui le scelte e le decisioni dei partiti (nei loro organi decisionali fino ai congressi) si incontrino e convergano con una platea di soggetti più ampia e meno o diversamente strutturata”.
I partiti sono perciò i principali protagonisti del processo verso il partito democratico che Romano Prodi propone. E’ inevitabile che sia così come era inevitabile -se è consentito un paradossale richiamo storico- che i sovrani assoluti, i detentori del potere, quando erano costretti dagli eventi, concedessero le costituzioni. L’alternativa era solo la rivoluzione i cui esiti, peraltro, come la storia insegna, sono stati sempre ricondotti entro un equilibrio fra vecchi e nuovi poteri.
Voglio dire insomma che nella proposta di Prodi non c’è un azzeramento dell’esistente, non c’è e non ci poteva essere uno scioglimento preventivo dei partiti. I partiti sono e rimangono protagonisti della transizione.
Ho richiamato questo dato della decisiva rilevanza dei partiti solo perché di qui nascono le difficoltà, le tensioni con cui dobbiamo misurarci. Dice Prodi nella sua lettera: “in tutte le obiezioni che vengono mosse al progetto [….] c’è qualcosa di vero”. Ma noi, prosegue, dobbiamo tener conto di tutti i dubbi e non farci bloccare. Effettivamente le polemiche intorno alla proposta di un partito democratico sono tante e così piene di equivoci da esigere il massimo di chiarezza e onestà intellettuale. Tener conto di quei dubbi significa anzitutto capirne le ragioni.
La prima domanda da porsi è quella più radicale: il partito non è ormai una forma vuota ed anzi rifiutata per la partecipazione alla vita politica? Non rischia di servire solo per consentire alle oligarchie di sopravvivere, come è avvenuto in altri campi, in economia, nella finanza, quando attraverso fusioni, incorporazioni, od operazioni straordinarie sul capitale, capi deboli o azionisti di minoranza hanno preteso di conservare il loro potere? Le reazioni di molti all’idea del partito democratico sono il segno di problemi reali, di verità da non nascondere.
E allora appena riconosciuto realisticamente il ruolo prevalente e, per restare nel paradosso storico, il carattere octroyé del partito democratico, bisogna porre al giusto livello le condizioni perché l’operazione sia possibile e al tempo stesso credibile ed efficace. La centralità del ruolo dei partiti non poteva non provocare le reazioni identitarie, a sinistra come al centro. A sinistra si teme di perdere un’identità che ha radici profonde nella nostra storia e che ha indubbiamente contribuito a fare del nostro Paese una democrazia veramente popolare, ha sostenuto rivendicazioni fondamentali di libertà e di giustizia. Ma la sinistra, nel partito democratico, può guardare al futuro.
I cattolici democratici non possono accettare il pur cortese invito a ritrovarsi in Europa nella casa socialista, come se fossero dei nostalgici o degli sconfitti. Consentitemi un rinvio alla prefazione scritta “a quattro mani” con Beppe Tognon alla seconda edizione dell’intervista su La Democrazia dei cristiani.
Quello che è avvenuto in Francia, con figure di grande prestigio come un Delors, non può avvenire in Italia per tre ragioni che si riassumono in tre parole: per la forza maggiore nel nostro Paese della tradizione politica cattolico democratica, per la debolezza della tradizione socialdemocratica e per il peso dell’eredità comunista nella nostra storia. E quando dico peso, dico importanza, forza di condizionamento della nostra società e della vita politica, in positivo e in negativo.
E per un’ulteriore ragione alla quale tutti i democratici dovrebbero essere sensibili: perché spingerebbe irrimediabilmente verso una destra senza storia la Chiesa italiana vanificando lo sforzo di due generazioni di democratici cristiani da De Gasperi a Moro che hanno lavorato con passione, con sofferenza, ma con frutto per tenere la Chiesa agganciata alla democrazia, per l’ “istituzione della democrazia nel mondo cristiano” per dirla con Tocqueville. E’stato più difficile che altrove per la Chiesa italiana adattarsi ad uno schema bipolare: evitiamo di favorire il riflusso verso destra di questa Chiesa.
Non è un caso che si sia affidata, di nuovo, a Romano Prodi, la guida del governo non solo per la sua indiscussa competenza, ma anche, io credo, perché nella sua formazione non è certo assente il cattolicesimo democratico. Il problema della collocazione europea, dovrebbe essere semplicemente rinviato a dopo la nascita del partito, quando i suoi aderenti potranno far sentire la loro voce.
Non penso che i problemi cosiddetti eticamente sensibili rappresentino un ostacolo insuperabile purché siano assunti come problemi da risolvere e non come pretesto per dividersi e purché si sappia collocarli in una dimensione pienamente consapevole della complessità del rapporto oggi esistente fra la scienza e una tecnologia che ha ambizioni di onnipotenza.
Dunque i partiti del centro sinistra facciano i passi possibili sulla via dell’unità: unità di liste, unità di gruppi, momenti assembleari aperti alla partecipazione di non iscritti ai partiti, assemblee costituenti a livello territoriale. Naturalmente l’esito dipenderà dalla regia e c’è da augurarsi che la regia sia illuminata ed aperta a questi sviluppi e perciò sia affidata ad un organismo sufficientemente libero e indipendente dalle logiche di partito. C’è da augurarsi che una costituente  del partito democratico, se ad essa si arriverà, sia formata sulla base di una partecipazione larga ed aperta.
Una questione pregiudiziale è quella della riforma elettorale. Abbiamo una legge elettorale che esaspera il potere dei gruppi dirigenti dei partiti, che taglia ogni legame fra gli elettori e gli eletti e che è funzionale ad una partitocrazia….. senza veri partiti. Bisogna dirlo chiaramente: senza riforma elettorale il partito democratico non può mettere radici; ma la determinazione dei partiti su questo tema, dopo l’appello di Prodi per una riforma, appare assai incerta.
Altro elemento qualificante del nuovo partito dovrebbe essere a mio avviso l’applicazione del famoso artico 49 della Costituzione anche alla vita interna dei partiti. Ai molti che in questi anni hanno con generosità aiutato Prodi e l’Ulivo. alle numerose associazioni che si battono per il nuovo partito, a tutti quanti hanno creduto e sperato nell’Ulivo e ora nel Partito democratico io direi: prendiamo atto dei passi oggi possibili, ma teniamo viva una idea, una speranza più impegnativa e giochiamola non contro il processo ma oltre, oltre questo processo oggi possibile, quando scelte più impegnative saranno necessarie. Teniamo viva l’idea di un vero partito nuovo.
II. Ma quale partito nuovo? Quale è il suo retroterra sociale e culturale? A quali riserve si può attingere? Come fare per metterle in circolo? Storicamente i partiti nascono per rappresentare interessi e valori emergenti che non hanno spazio nella realtà sociale e politica e vogliono conquistarlo: così il partito liberale, così il partito socialista, così il partito popolare e poi i comunisti, la Democrazia cristiana, e più tardi gli ambientalisti, i verdi.
Cosa di nuovo dovrebbe rappresentare il partito democratico, a quali interessi, a quali valori, a quali domande dovrebbe rispondere? Certo c’è un problema di difesa, di conservazione, con i necessari aggiornamenti, delle conquiste del periodo precedente alle quali hanno contribuito in forme diverse socialisti e cattolici: intendo la difesa del Welfare dalla sfida della globalizzazione. Ma questa è una funzione di sostanziale, legittima conservazione delle conquiste conseguite, una funzione che da sola non può innervare culturalmente un partito nuovo.
Dobbiamo chiederci quali sono le domande inevase che giustificano la nascita di un partito nuovo: sono le domande, i problemi che il secolo scorso ha lasciati irrisolti, legati tutti a un intreccio di beni e interessi materiali e immateriali. Dobbiamo scavare nella eredità del vecchio secolo per guardare al futuro.
Provo a indicare alcuni di questi nodi. Non posso fare a meno di riprendere alcune idee già enunciate a Chianciano nel convegno dei Popolari il 27 scorso. Il secolo scorso è stato dominato dalla domanda assillante su come rispondere alla sfida di una modernità che metteva in crisi tutte le vecchie identità tradizionali. Gran parte del ‘900 è stato attraversato dalla nostalgia per la “coesione sociale”, una nostalgia che ha condizionato le diverse ideologie.
I totalitarismi di destra hanno tentato di rispondere a loro modo, rifiutando la pluralità, la complessità, attraverso la sacralizzazione della nazione, dello stato, della razza. Anche il comunismo si è posto lo stesso problema; la sua risposta è stata abissalmente diversa nella prospettiva del futuro da costruire -un futuro di libertà e di uguaglianza – ma è stata tuttavia travolta, dagli strumenti di governo e di repressione adottati. Questo scarto totale fra obiettivi ideali e realizzazione storica ha messo radicalmente in crisi tutta l’ideologia ispiratrice del comunismo. In definitiva la democrazia ha vinto: in Italia un ruolo importante per la sua vittoria lo hanno certamente avuto la tradizione liberal democratica e liberal socialista; i cattolici democratici, e i comunisti italiani, con la loro diversità, pur sulla base di un aspro conflitto hanno saputo dare alla democrazia un vasto consenso di popolo. Ma la domanda da cui quei movimenti totalitari erano nati–quella esigenza di coesione sociale e in definitiva di nuova identità collettiva- non è stata compiutamente accolta: le identità cui la democrazia ha dato luogo, sulla scia del modello americano, sono risultate legate prevalentemente alle dinamiche della produzione e dei consumi.
In Italia la rinascita democratica è stata segnata per giunta dalla fragilità di una comune identità democratica in favore di identità di partito. In fondo, si potrebbe dire che anche la contestazione del ’68 – pur nell’enorme differenza di strumenti e di esiti – è stata animata, in forme contraddittorie e talvolta impazzite, da quel problema di identità. Si pensi ad alcuni temi del movimento: l’infelicità prodotta dall’individualismo, il rifiuto del materialismo, il desiderio di ritrovare un contatto con la natura, l’angoscia per l’isolamento, per l’alienazione prodotta da una società sempre più anonima.
Ma anche per il ’68 come per i totalitarismi “tutto era politica”; la politica invadeva la vita quotidiana. Proprio i movimenti di contestazione degli anni ’60 e ’70, e più di recente il movimento cosiddetto “no-global”, hanno mostrato che se la democrazia è riuscita ad integrare le masse popolari nello Stato, se ha prodotto maggiore benessere, se ha distribuito in modo più equo la ricchezza, non ha risposto fino in fondo alle domande, alle paure provocate dalla «modernità».
La politica non ha dato e non poteva dare queste risposte. Quando la politica manifesta il suo limite, essa viene travolta da spinte opposte e distruttive: da risposte antidemocratiche o da risposte antipolitiche, che diventano a loro volta antidemocratiche.
Risposte antidemocratiche, come nel caso dei movimenti rivoluzionari o dei fondamentalismi di oggi.
Risposte antipolitiche, come abbiamo potuto vedere proprio nel nostro paese, anche se i segnali in questa direzione si moltiplicano in altre aree geografiche. Ma le posizioni antipolitiche, che teorizzano un mondo privo di conflitti (e dunque privo di politica), si trovano di fronte all’insanabile contraddizione rappresentata dal fatto che si appellano alla politica – come con la famosa «discesa in campo» del 1994 – per produrre la fine della politica stessa.
Si promette cioè di giungere a una situazione in cui una buona amministrazione sostituirà una volta per tutte la politica, ma nello stesso tempo si produce un’estremizzazione dello scontro frontale, la demonizzazione dell’avversario, l’esasperazione dei toni per chiamare alla mobilitazione contro i  nemici della libertà individuale. In altre parole, ci si propone di cancellare la dimensione politica con l’uso estremo delle armi fornite dalla politica stessa.
III. Il tema della identità si salda con quella che definirei la questione democratica. In sostanza il secolo XX ha segnato il fallimento delle ideologie di liberazione dell’uomo legate al mito dell’uomo nuovo costruito dal potere politico o dalla Stato. Ma ha segnato anche il fallimento del mito di una democrazia spontaneamente capace di assicurare le risposte giuste alle sfide della modernità, di diffondersi, di conquistare terre e popoli nuovi e di autoriprodursi. Già nel suo libro del 1984 Il futuro della democrazia Bobbio osservava che una delle promesse della democrazia era quella di alimentare autonomamente e spontaneamente lo spirito democratico, ma che questa promessa non era stata mantenuta: insomma la democrazia spontaneamente non si alimenta; la democrazia non è autosufficiente.
Quella intuizione di Bobbio è stata ripresa e approfondita in una ampia letteratura che è impossibile qui richiamare. La democrazia è in crisi sotto l’effetto della società dei due terzi; è spesso schiava degli interessi costituti, degli interessi forti, più che interprete delle speranze dei deboli. E’ in crisi la democrazia americana: si riprenderà perché ha radici profonde, ma il suo disagio è evidente e sintomatico.
La democrazia stenta a rappresentare e a fare sintesi di fronte ad una realtà sempre più complessa e contraddittoria; nel suo recentissimo libro Forme di Stato e forme di governo Giuliano Amato stabilisce un parallelo fra la sfida alla democrazia rappresentata all’inizio del secolo dai totalitarismi e le nuove sfide del nostro tempo che nascono da una esasperata complessità sociale.
La crisi della democrazia è anche problema di classi dirigenti. Il passaggio di secolo ha reso visibile la mancanza di grandi figure politiche. La figura di Papa Wojtyla è stata di gran lunga quella dominante. Nessun politico nel mondo ha dominato la scena del passaggio di millennio.
Il vecchio secolo ci ha consegnato dunque un problema irrisolto di selezione delle classi dirigenti e di leadership. Ci sono ottimi professionisti sulla scena, ci sono ancora politici che credono in quello che fanno, ma non possiamo negare che nel momento in cui la complessità dei problemi richiederebbe il massimo di apertura a nuove competenze e a nuove generazioni, abbiamo, almeno in Italia, il massimo di autoreferenzialità del sistema politico.
La forma partito che abbiamo ereditato dal secolo scorso non è più idonea a selezionare una classe politica all’altezza delle nuove sfide ed è per questo che dobbiamo tenere ben presente la domanda di partenza: quale è il retroterra sociale e culturale del partito democratico? A quali riserve si può attingere? come fare per metterle in circolo?
La questione democratica comprende per noi italiani quella della riforma costituzionale. La nostra Costituzione “contesa” alla fine del secolo scorso è stata poi “aggredita”, per riprendere un titolo di Leopoldo Elia, dalla riforma imposta dalla destra nella passata legislatura, ma ha ritrovato il suo radicamento nel recente referendum popolare: il referendum ha confermato e rafforzato quello che in altra sede mi è sembrato di poter definire il triplice radicamento della Costituzione: nella storia  d’Italia e in una Resistenza intesa sempre più come vicenda di popolo e non come una guerra civile di minoranze; un radicamento nella grande tradizione del costituzionalismo europeo; un radicamento nella coscienza religiosa del Paese per avere, nel primo comma dell’articolo 7, dato una definitiva risposta alla questione storica della presenza del Papato in Italia.
Il rinnovato radicamento non esclude anzi esige una riforma, sulla quale giustamente il Presidente Napolitano ha richiamato ripetutamente l’attenzione, una riforma calibrata sulle nuove esigenze, ma fedele alla tradizione parlamentare e quindi non plebiscitaria, non presidenzialista, non tale da tradurre la spinta alle autonomie in un rischio per la unità nazionale. La giusta esigenza di cercare un ampio consenso intorno alla riforma non può tradursi in cedimento di fronte a principi e valori che il voto popolare del giugno 2006 ha solennemente consacrato.
Connessa al tema della riforma è la questione della identità e della unità nazionale che esige un ripensamento della idea di cittadinanza.
Oggi non c’è un soggetto sociale, classi o ceti ben determinati da integrare: la realtà è frammentata. Da una parte, è necessario evitare che i soggetti deboli (le nuove povertà) siano espulsi o messi ai margini del sistema; dall’altra, è necessario produrre una nuova integrazione per gli immigrati, che non hanno accesso al benessere prodotto dal nostro modello di sviluppo; infine bisogna ricreare le condizioni per una corretta mobilità sociale fondata sull’impegno e sul merito. È necessario produrre un’integrazione che dia senso dell’appartenenza comune, senso dei diritti e dei doveri, delle regole, della partecipazione attiva e del confronto, che sono tra le eredità più positive lasciateci dal mondo cattolico e dal movimento dei lavoratori.
Centrale è dunque la questione della cittadinanza, cioè della piena appartenenza alla comunità
politica, che è anche una comunità di culture plurali che si riconoscono reciprocamente, di storie
plurali ognuna delle quali trova un posto e un ruolo rispetto alle altre, in cui non ci sono ghetti o
isole di esclusione o di autoesclusione.
IV. Ma la questione democratica con le sue varie implicazioni è solo un aspetto della eredità del XX secolo. Quella crisi di identità prodotta dalla modernità che ha dominato il secolo scorso assume oggi forme ancor più incisive e allarmanti. Il secolo XX ci ha consegnato un modello di società, un modello di sviluppo (mi riferisco al modello nostro occidentale) in cui il futuro è rigidamente preordinato, in cui non c’è futuro libero.
Sappiamo con certezza scientifica che il nostro modello di sviluppo se non subirà modifiche radicali, renderà in un tempo che con qualche approssimazione è stato già calcolato, il pianeta invivibile. Il problema enorme, che tuttavia un partito che guardi al futuro non può non aver presente come orizzonte culturale, è quello della libertà delle future generazioni oggi chiuse, e per questo senza speranza e fiducia nel futuro, in un ferreo determinismo. Il secolo scorso che si aprì nel clima ingenuo di una sconfinata fiducia nella possibilità della scienza di operare per la liberazione dell’uomo, ci consegna in eredità la drammatica coscienza di un progresso tecnologico che sfugge alla possibilità di ogni controllo.
Abbiamo bisogno di cercare e inventare nuovi modelli di sviluppo: gioverebbe forse a questo fine prestare attenzione alle voci che ci vengono da lontane civiltà asiatiche che propongono di sostituire al prodotto interno lordo, come indice di progresso, l’indice della complessiva felicità nazionale. E’ cresciuta la dimensione reale e la coscienza dell’ insostenibile rapporto fra il Nord e il Sud del pianeta, un rapporto che, così come sta oggi, non può durare. Il rapporto attuale fra popolazione e risorse nelle diverse aree del pianeta non è sostenibile: il fenomeno delle immigrazioni sarà sempre più massiccio senza interventi che vadano alle radici del problema. Su questi temi pesa l’eredità di una lunga storia dei processi di colonizzazione e decolonizzazione che chiamano direttamente in causa l’Europa.
Il fattore religioso è riemerso sulla scena mondiale in primo piano, ma ha assunto anche, specie nell’Islam, forme fondamentaliste che rappresentano una sfida imprevedibile e inquietante alla democrazia e ai valori liberali: proprio a questi valori il fondamentalismo islamico attribuisce la responsabilità della crisi del tessuto etico religioso della società occidentale verso la quale concentra perciò la sua polemica e il suo attacco.
Guai ai corti circuiti e alle semplificazioni culturali, ma il fatto che il secolo si sia aperto con la tragedia dell’11 settembre non è certo casuale. La risposta non può essere la rinuncia alla libertà religiosa e alla laicità dello Stato ma dobbiamo forse ripensare la laicità in termini che non escludano anzi valorizzino l’apporto delle esperienze religiose alla formazione del tessuto etico della società. Se non vogliamo che del fattore religioso, del cristianesimo, si impadroniscano i teocon, con l’effetto di favorire uno scontro di civiltà in cui di fatto i valori di libertà cui essi si appellano, quando parlano di Occidente, sarebbero radicalmente
compromessi.
Il terrorismo ha avuto una sua prima vittoria nel porre in crisi, con il Patriot Act i principi stessi dell’habeas corpus, fondamento del liberalismo. Dahrendorf segnalava pochi giorni fa come uno scandalo la “nuova teoria” enunciata dal primo ministro inglese Blair, secondo cui la sicurezza sarebbe la prima delle libertà, una sicurezza della quale lo Stato definisce le condizioni anche limitando la libertà dei cittadini.
Così al senso di dipendenza e di frustrazione prodotto da un determinismo frutto del sistema economico e dalla rincorsa tecnologica si aggiunge un secondo motivo di insicurezza tutto interno alle responsabilità politiche e religiose: la crisi nel rapporto tra i popoli e le religioni. La libertà dal determinismo, la liberazione dalla paura e la riscoperta della speranza come spazio vitale necessario alle nuove generazioni non sono certo obiettivi facili, alla portata soltanto di un partito politico, sono tuttavia elemento essenziale di una cultura che un partito democratico deve coltivare. Tutto si inquadra in una visione europeistica e internazionalistica che non deve essere un punto del programma del nuovo partito ma una sua connotazione essenziale.
Ma l’incertezza che assilla le nuove generazioni ha altri aspetti che sono parte essenziale di una nuova domanda di politica. Si pensi alla possibilità e alla stabilità del lavoro, alle garanzie per la vecchiaia e per la malattia, insomma a quello che il welfare aveva conquistato e la globalizzazione ha messo in discussione. Qui il rischio è quello di una difesa quantitativa che si risolva in un progressivo arretramento senza un salto di qualità.
Quello che l’individuo della società preindustriale trovava nella grande famiglia patriarcale di un tempo e che l’individuo isolato e la famiglia nucleare della società industriale ha cercato e trovato, almeno in parte, nello Stato sociale, deve essere ricuperato sul terreno di un tessuto sociale nuovo che alla solitudine dell’uomo moderno risponda con un tessuto libero di amicizie. L’amicizia contro la solitudine, l’amicizia come l’etimologia suggerisce che nasce dall’amore e non l’amicizia politica anticamera di corruzione.
La riforma del Welfare in altre parole non è questione di quantità o di tagli, ma di riconversione qualitativa nel senso di un coinvolgimento di tutto il tessuto sociale su valori di convivenza. Solidarietà, amicizia appunto. Non si tratta solo di vecchiaia o di malattia: si tratta anche di socializzazione di giovani e giovanissimi. Si pensi ai bambini e ai ragazzi la cui socializzazione è affidata oggi alla vita di banda nelle strade, a rumorose sale da gioco, alla pratica non dello sport ma del fanatismo sportivo, alla televisione. Perché non pensare ad una funzione più ampia della scuola e ad una valorizzazione, con opportuni incentivi, di tutte le iniziative esistenti nel quadro di una applicazione larga, non gelosa, del principio di sussidiarietà.
Ecco: crisi di identità e questione democratica, determinismo e libertà, paura e speranza di futuro, solitudine e amicizia, sono queste alcune delle dicotomie sulle quali un partito nuovo dovrebbe costruire la sua identità e il suo progetto. I miei sono solo esempi: il discorso avrebbe bisogno di ben altri sviluppi e ben altre competenze.
Ma questi accenni sono sufficienti per comprendere che un partito che si muova in un simile orizzonte culturale esige una struttura del tutto nuova, tutta da inventare, una nuova forma partito. Non si tratta di mettere insieme pezzi di classi dirigente portatori di tradizioni culturali di partito, spesso ossificate, ma pezzi di popolo, milioni di cittadini personalmente coinvolti ciascuno con la sua storia, la sua cultura, la sua sensibilità.
L’apporto delle diverse culture e tradizioni democratiche è essenziale purché non si scambi questa feconda integrazione solo con un incontro e una intesa dei gruppi dirigenti dei partiti. Le sfide per la democrazia oggi riguardano la possibilità di restituire fiducia nella capacità costruttiva della politica, nell’utopia democratica, di restituire a quest’ultima nuovo vigore.
V. Ripeto: i gruppi dirigenti dei partiti e i partiti si incontrino e diano vita per quanto possibile a un nuovo soggetto unitario ma avvertano il rischio e la tremenda responsabilità delle parole: il rischio che le speranze cresciute in questi anni, che negli ultimi mesi i partiti stessi hanno acceso e diffuso e che hanno dato vita ad un significativo protagonismo femminile, ad una mobilitazione di popolo che ha coinvolto milioni di donne, di uomini e di giovani diventino nuove delusioni. Non si può ripetere all’infinito che il paese è maturo per un partito democratico, che c’è una diffusa domanda di base, senza compiere poi atti conseguenti, seri ed efficaci.
I partiti facciano i passi oggi possibili, ma lascino aperta una grande finestra verso il futuro. E teniamo noi tutti, cittadini della Repubblica. viva dentro e fuori i partiti una prospettiva più ampia, un disegno più ambizioso, una tensione ideale che superi le singole appartenenze, che non guardi più alle componenti come realtà separate e non comunicanti, ma piuttosto esalti i valori
comuni. Valori comuni da cercare proprio nella nostra Costituzione. Si discusse alla Costituente se la nuova Costituzione dovesse avere un presupposto ideologico e un punto di incontro fu trovato nell’idea della dignità della persona umana. Era una idea di matrice cristiana che laicamente declinata ispirò largamente il testo costituzionale.
Mi chiedo se quella intuizione che ha fondato non solo tutte le tradizionali libertà ma il principio di uguaglianza e il rifiuto della guerra non possa diventare principio animatore della vita associata, non possa ispirare una laicità e una libertà di coscienza e di religione che non neghino, anzi valorizzano, l’apporto delle esperienze religiose alla vita sociale, non possa animare non solo le iniziative statali di welfare, ma uno spirito di solidarietà (di amicizia) in tutto il tessuto sociale, non possa sollecitare la ricerca di nuovi modelli di sviluppo. Il partito democratico può trovare in questo patrimonio di valori la sua stella polare.