lunedì 29 dicembre 2014

Pd, a Roma stretta sugli iscritti fantasma


GABRIELE ISMAN
La Repubblica 29 dicembre 2014
Dalle verifiche avviate dopo lo scandalo degli appalti al sistema-Buzzi emergono anche tesserati “a loro insaputa” Per la bonifica un sistema di registrazione delle adesioni in tempo reale. Il commissario Orfini: “Circoli da chiudere” 
Un nuovo sistema informatico per registrare in tempo reale le nuove adesioni al partito, presto i sub-commissariamenti di specifiche zone della città (si partirà da Ostia), verifiche telefoniche a tappeto su tutti gli 8 mila iscritti. È iniziato da un mese il commissariamento del Pd romano affidato a Matteo Orfini dopo gli arresti dell’inchiesta Mafia Capitale. Dalle prime verifiche telefoniche — circa duecento — sono emersi casi di iscritti fantasma: cittadini inconsapevoli di risultare aderenti al Pd romano, dove da 27 mila tesserati del 2009 si è arrivati agli 8 mila attuali. «Il commissariamento sarà un lavoro lungo. La mappatura di Barca finirà a maggio: noi andremo oltre. C’è molto da scavare, ma non tutto è da buttare. C’è voglia di ripartire» dice Orfini. La federazione romana del Pd sarà la prima in Italia a essere dotata di un sistema informatico dove i segretari di circolo — con adeguate password e pagine web riservate — dovranno segnalare ogni mese le nuove iscrizioni e i rinnovi. Un modo per controllare e verificare anche eventuali picchi di adesioni magari in prossimità di primarie o congressi. «Il tesseramento quest’anno è in calo perché non ci sono congressi in vista, e dunque i signori delle tessere sono meno interessati all’investimento. I capibastone vanno stroncati: per farlo non basta bonificare il malcostume che c’è stato fino a oggi. Occorre recuperare il rapporto con le persone e con i territori: spesso abbiamo lasciato che i capicorrente fossero gli unici a mantenere una relazione con i cittadini» dice Tobia Zevi, membro dell’assemblea nazionale del Pd e candidato renziano alla segreteria romana alle ultime primarie cittadine.
Ma l’operazione pulizia non si limiterà alla tracciabilità online delle iscrizioni. Il Pd Roma ha problemi economici — oltre un milione di euro di debiti a livello di federazione senza contare le passività dei singoli circoli — ma anche i commissariamenti non sono finiti. Si potrebbe partire da Ostia, molto citata nelle carte di Mafia Capitale, e da altre periferie problematiche: Orfini sta pensando di affidare il Pd di quel municipio a un parlamentare non romano, a garanzia del massimo di indipendenza. «Alcuni circoli saranno essere chiusi o accorpati » aggiunge Orfini.
Canta vittoria Roberto Morassut, ora deputato e in passato assessore con Veltroni: «Da quattro anni parlo di iscrizioni fantasma, ho scritto due libri per raccontare la decadenza del partito a Roma e ora la verità esce confermata. Al congresso dissi che la base associativa del Pd in quasi tutta Italia era molto compromessa, che i dati manifestavano profonde anomalie. Nel caso di Roma, serve una fase costituente per il Pd». Morassut lancia una proposta: «Il tesseramento 2015 deve avere basi diverse, regolando la quota tessera sulla base del reddito come sempre avvenuto nei partiti democratici e nei sindacati: le adesioni devono essere libere e individuali. I fatti che emergono stanno dimostrando che il tesseramento è stato in mano a capo tribù».



Rocca: “La riforma è utile ma il premier ha solo18 mesi per risvegliare il gigante Italia”


FEDERICO FUBINI
La Repubblica 29 dicembre 2014
«Viviamo in un mondo in cui non è precario tanto il lavoratore, sono precari i mercati dell’impresa: per questo il Jobs Act può diventare un elemento di crescita». Gianfelice Rocca, 66 anni, laurea in Fisica alla Statale di Milano e perfezionamento a Harvard, presidente di Assolombarda, guida una delle poche famiglie industriali italiane con una presa globale. Techint, il gruppo che presiede, ha ricavi per 25 miliardi di dollari da attività su cinque continenti: siderurgia, impianti per l’industria estrattiva, produzione di greggio e gas, ingegneria, sanità. È questa sua visuale che lo spinge a indicare un doppio rischio per l’Italia: «Scilla e Cariddi – dice - Da un lato l’asfissia economica e la deriva populista, dall’altro la rottura dell’euro. Ma c’è uno spazio intermedio per ricostruire quella fiducia che può diventare il nostro petrolio bianco. Il governo si muove bene, ora serve precisione nell’esecuzione».
Non è dura crederci ancora dopo un altro anno di recessione, di nuovo agli ultimi posti delle graduatorie di crescita?
«In Italia c’è un problema di competitività, è chiaro, ma non tanto nel manifatturiero. Abbiamo il quarto surplus di bilancia commerciale al mondo, difficile sostenere che in un Paese così l’industria non sia competitive. Abbiamo perso molti punti con l’ingresso nel sistema dell’euro, che è tutt’altro che ottimale. Per decenni il nostro Paese ha avuto bisogno di svalutazioni per crescere. Nell’euro questo naturalmente è impossibile e, in caso di una crisi in certi Paesi dell’area, non disponiamo degli strumenti degli Stati Uniti: lì le migrazioni interne sono venti volte superiori e l’intervento pubblico pesa fino al 30% dei bilanci degli Stati, mentre il bilancio europeo è l’1% del Pil».
Non sosterrà anche lei che le colpe della più lunga recessione italiana sono da cercare tutte fuori dal Paese?
«Ovviamente no. È come se l’euro e la crisi finanziaria avessero messo le nostre debolezze - il debito, l’inefficienza dei servizi e della macchina legale e amministrativa - sotto una lente d’ingrandimento. Ciò ha provocato un’enorme crisi di fiducia. Oggi in Italia mancano consumi per 25 miliardi a trimestre e investimenti per 30 miliardi a trimestre. E non sono rimpiazzabili da alcunché, se proprio non dal ritrovare fiducia. Non si può lavorare solo sull’export: noi esportiamo in Germania per circa 50 miliardi l’anno, quindi anche una crescita del 10% della domanda tedesca porterebbe appena altri 5 miliardi. Purtroppo questa spirale di sfiducia si autoalimenta, con una politica di bilancio europea che porta a temere il futuro, e la richiesta ai Paesi in difficoltà di aumentare le tasse».
Lei descrive una tempesta perfetta.
«Lo è. Da un lato c’è il rischio di asfissia e populismo, dall’altro la rottura dell’euro. Però a mio parere esiste uno spazio intermedio, sul quale l’Italia può lavorare. Possiamo farlo se il Paese prende in mano se stesso e le imprese fanno strada nel recupero del costo del lavoro per unità di prodotto».
Le retribuzioni in Italia non sono già più basse che in Germania?
«In termini assoluti sì, ma la produttività complessiva in Germania è talmente più alta che per ciascuna unità di prodotto alla fine lì il lavoro costa meno. Dall’avvio dell’euro, la perdita dell’Italia sulla Germania su questo parametro equivale a una svalutazione a favore della Germania del 20-30%. Per questo servono riforme abilitanti, che liberino le energie. Servono riforme a partire dalla struttura amministrativo-legale del Paese. Dobbiamo semplificare. Oggi è tutto troppo complesso, il codice fiscale e quello del lavoro sono di tremila pagine. Eppure l’incertezza del fisco e del diritto sono vastissime, come si è visto con l’Ilva».
Trova che il governo si muova nella direzione giusta?
«Noi imprenditori non siamo giudici, siamo attori. Ma mi pare che questo governo stia riposizionando il dibattito politico nel rapporto con i sindacati, gli organi intermedi, la stessa Confindustria. Questo è estremamente positivo».
Per creare fiducia basta riposizionare il dibattito?
«Naturalmente poi c’è la questione dell’esecuzione e della precisione degli interventi. Questa è un’avventura con margini di incertezza elevati, perseguita gettando il cuore oltre l’ostacolo, pensando che l’economia seguirà il posizionamento politico. È un’avventura unica, però a questo punto necessarissima. Per esempio, per chiudere l’enorme ritardo di produttività nei servizi dobbiamo alzare il tasso di digitalizzazione e arrivare a piattaforme digitali delle amministrazioni che dialoghino fra loro» 
Il Jobs Act va nel senso che lei auspica?
«La risposta a un mondo così complesso è facilitare la flessibilità e il trasferimento del lavoratore da azienda a azienda, da luogo a luogo. Il resto è illusorio: le aziende non sono più in grado di avere un mercato sicuro e continuativo. Fra Jobs Act, assicurazione sull’impiego, semplificazione, concorrenza nei servizi e digitalizzazione, possiamo trarre una spinta competitiva molto forte».
Quanto tempo ha l’Italia?
«L’Italia ha in pancia un potenziale enorme. Ma per tirarlo fuori non c’è più molto tempo: dodici-diciotto mesi in cui dobbiamo approfittare del sostegno della Bce e della spinta dal crollo del petrolio. Altrimenti sarà durissima».




Più flessibilità in uscita il governo pensa di riaprire il dossier delle pensioni


ROBERTO MANIA
Il Corriere della Sera 29 dicembre 2014
«Stiamo ragionando su come rendere più flessibile l’età del pensionamento. Ma serve cautela per gli effetti sui conti pubblici e per non incrinare la credibilità che l’Italia ha costruito proprio grazie alla riforma previdenziale », dice una fonte autorevole del governo. Dunque il capitolo delle pensioni si sta riaprendo ed è in vari modi collegato a quello del Jobs Act.
L’obiettivo è duplice: da una parte, correggere le rigidità della riforma Fornero del 2011 sull’età pensionabile per bloccare definitivamente il fenomeno degli esodati; dall’altra consentire ai giovani di subentrare ai più anziani nei posti di lavoro. Perché il mercato del lavoro si sta cristallizzando. Lo certifica l’Istat nell’ultima rilevazione (terzo trimestre del 2014) sugli occupati e disoccupati: «Continua la forte riduzione su base annua delle persone ritirate dal lavoro o non interessate a lavorare (—11,8 per cento, pari a — 429 mila unità) che in quasi nove casi su dieci coinvolge i 55-64enni, anche a motivo delle mancate uscite dall’occupazione generale dall’inasprimento dei requisiti per accedere alla pen- sione». I lavoratori maturi possono andare in quiescenza più tardi (attualmente con un minimo di 20 anni di versamenti servono 66 anni e 3 mesi per gli uomini e 63 e 9 mesi per le donne) e per i più giovani, tanto più in una fase così lunga di recessione, le opportunità diventano sempre meno.
Il primo segnale della nuova strategia del governo è arrivato con la legge di Stabilità: via le penalizzazioni (cioè il taglio dell’assegno pensionistico) per chi decide di andare in pensione dopo aver versato per 42 anni e un mese i contributi all’Inps senza aver ancora compiuto i 62 anni di età. Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha chiesto però prudenza ai ministri competenti. Nessuno osa pronunciare la parola pensioni. Lo stesso premier ieri in un’intervista al Quotidiano nazionale ha negato la possibilità di un nuovo intervento sulla previdenza. Per quanto, questa volta, l’operazione non si tradurrebbe, salvo alcuni casi, in tagli.
Il cantiere si è aperto. Si tratta di ripristinare un minimo di criteri flessibili per andare in pensione, soprattutto a tutela dei lavoratori più anziani che dovessero perdere l’occupazione e che si troverebbero senza stipendio, senza sostegno al reddito dopo un po’ e troppo lontani dalla pensione. Si ragiona su alcune opzio- ni compatibili con l’impianto generale della legge Fornero senza compromettere cioè i risparmi attesi (in un decennio circa 80 miliardi di euro). Così riprende quota la proposta di concedere ai lavoratori prossimi alla pensione (a 2-3 anni di distanza) che dovessero essere licenziati, un anticipo di una quota dell’assegno pensionistico (pari a circa 700 euro al mese) che verrebbe poi restituita in piccole rate una volta maturati i requisiti per il pensionamento. Ipotesi che nel passato aveva sostenuto anche il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti e che costerebbe non più di 4-500 milioni l’anno.
Escluso, perché troppo costoso (nell’ordine di 5 miliardi l’anno) l’introduzione di un meccanismo generale di uscita anticipata con penalizzazioni, è invece sul tavolo la proposta (che non dispiacerebbe all’Economia) del consigliere economico di Palazzo Chigi Yoram Gutgeld di consentire — come ha spiegato ieri in un’intervista a Repubblica — di ricalcolare l’assegno pensionistico esclusivamente con il metodo contributivo di quei lavoratori ultracinquantenni rimasti senza lavoro. In cambio della certezza della pensione accetterebbero una decurtazione significativa dell’importo.
Il governo ha anche allo studio un intervento per superare alcune disparità che permangono nel calcolo della pensione tra pubblici dipendenti e privati. La quota retributiva, infatti, della pensione dei dipendenti pubblici (la legge Fornero ha introdotto il contributivo pro-rata) è ancora determinata sulla base dell’ultimo stipendio e non della media, come nel privato, delle retribuzioni degli ultimi cinque anni. E qui, il governo, dovrà vedersela con le resistenze che arrivano dagli alti burocrati ministeriali che sono, appunto, dipendenti della pubblica amministrazione.
C’è poi la parte che riguarda la riforma della governance dell’Inps. Dopo la nomina di Tito Boeri a presidente, il governo punta ad approvare in tempi rapidi (in Parlamento c’è una sostanziale convergenza) la riforma del governo dell’Istituto previdenziale. Verrebbe ripristinato il Consiglio di amministrazione e ridimensionata la composizione del Consiglio di indirizzo e vigilanza dove siedono i rappresentanti delle parti sociali. Oltre a Boeri, nel futuro cda (tre i membri previsti) è candidato a entrare l’economista Mauro Marè, sostenuto dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, mentre la terza poltrona dovrebbe essere destinata a una donna.



domenica 28 dicembre 2014

Kabul addio.


Corriere della Sera 28/12/14
Andrea Nicastro
Occhi a mandorla, viso aguzzo da volpe, il colonnello Sultan Ahmad Warasi incarna lo stereotipo dello spione. E’ il responsabile dell’intelligence militare del 207esimo Corpo d’Armata afghano ad Herat. Tentenna solo sui nomi di un paio di governatori-ombra talebani, perché, si scusa, «quelli precedenti li abbiamo eliminati qualche mese fa». Per il resto sfodera solo certezze. «I talebani sono infiltrati ovunque. In città obbediscono a Wali Mahmad spostato dal Mullah Omar da Uruzghan a qui. I finanziamenti vengono da Pakistan, Iran, oppio e hashish. Il loro numero cambia con le stagioni, ma in quest’area si aggira intorno ai diecimila combattenti. Ora che gli italiani hanno smesso di pattugliare e di aiutarci nelle attività ai check point facciamo più fatica a contenerli perché ci mancano armi e attrezzature».

Rincara la dose il tenente colonnello Jamal Abdul Naser Sidiqi: «Un mio soldato è stato ucciso tre giorni fa perché gli si è inceppata l’arma davanti a un talebano. Non abbiamo metal detector per individuare le trappole esplosive né sistemi elettronici che possano bloccare i telecomandi. Il fatto è che i loro attacchi costano meno delle nostre difese. Su noi ufficiali hanno posto addirittura delle taglie: seimila dollari per un colonnello morto, diecimila per un comandante di kandak», battaglione. Come d’abitudine il colonnello batte cassa, ma sono i numeri, in fondo, a dargli ragione. L’«afghanizzazione» della guerra permette di risparmiare denaro occidentale, ci sono meno occhi elettronici, meno dirigibili, meno droni e meno intercettazioni per captare conversazioni sospette, ma per l’esercito afghano le perdite sono cresciute del 40 per cento rispetto al 2013. «La settimana scorsa sono stati uccisi tre ufficiali afghani fuori servizio — conferma il comandante del contingente italiano generale Maurizio Scardino — le killing mission , gli omicidi mirati, sono un problema reale». Con ancora meno supporto internazionale che accadrà?

Per dei militari, «ritiro» è una parola tabù, assomiglia troppo a «sconfitta». Preferiscono «ripiegamento» e nel caso afghano hanno tecnicamente ragione. Non sono i talebani a cacciare la coalizione Nato, è la politica. Siamo noi tax payer a non essere più disponibili a pagare il conto. Dopo tredici anni di combattimenti, 3.500 morti occidentali in divisa (54 italiani), la coalizione a guida americana ripiegherà entro un anno su Kabul. Il piano è che nel 2017 se ne vada dall’Afghanistan anche l’ultimo occidentale e, nel frattempo, si faccia sostanzialmente solo addestramento.

Con i soldati Nato anche le Ong umanitarie si stanno ritirando. Rapimenti e attacchi suicidi arrivano ovunque, restare è un rischio. La politica ha smesso di fingere che l’intervento internazionale abbia pacificato il Paese. Il conto dei burqa per le strade non è più il termometro sul rispetto dei diritti umani anche perché sono sempre meno i luoghi che gli occidentali, in divisa o meno, riescono ad osservare.

«Le priorità geostrategiche sono cambiate — ammette l’ambasciatore a Kabul Luciano Pezzotti —. Ora abbiamo la Libia e l’Isis di cui preoccuparci. Però sono convinto che l’assistenza a Kabul continuerà. Egitto e Pakistan, ad esempio, hanno forze armate sostenute dagli Stati Uniti, perché non anche l’Afghanistan?». A tredici anni dall’invasione gli Stati Uniti hanno speso, a seconda delle stime, da 700 a 1.500 miliardi di dollari. Tre, quattro miliardi l’anno potrebbero evitare un caos post ritiro stile iracheno. Forse.

L’Italia si sta dimostrando tra gli alleati americani più fedeli. Per tutto il 2015 abbiamo deciso di lasciare più uomini persino dei britannici: 500 di media contro 200, per una spesa complessiva di 160 milioni. I vantaggi dei nuovi ordini sono almeno due. Primo, uscendo poco da Camp Arena si rischiano meno imboscate. Secondo, c’è finalmente acqua calda per tutti perché dove vivevano 4 mila soldati ce ne saranno appena 750, quanto basta, con l’aiuto di 500 spagnoli, per difendersi.

Gli svantaggi sono invece evidenti nelle battute di chi sa di dover restare fino a ottobre quando è previsto che gli ultimi 70 militari lascino Herat per Kabul. «Finirà come a Saigon, scapperemo dai tetti con i talebani al piano terra». Esagerato, ma non troppo.

«Fino a che rimarranno i Mangusta — dice Agostino Iacicco, capitano pilota dei nostri elicotteri d’attacco — avremo un deterrente importante». Poi bisognerà inventarsi qualcosa. Soprattutto per superare l’estate, la tradizionale stagione dei combattimenti. Spaventa l’idea di lasciare i soldati afghani a guardarci le spalle quando l’ultimo aereo prenderà il volo. Già ora gli italiani girano per la base con la pistola nella fondina. Il timore è di «green-on-blue», verde su blu, cioè che qualche soldato afghano si metta a sparare sui colleghi occidentali come è successo già decine di volte con quasi 150 vittime compreso un generale americano.

E gli afghani? Come si preparano al ritiro Nato? Il mese scorso il vecchio mujaheddin Ismail Khan ha organizzato ad Herat un raduno con un migliaio di ex combattenti. «Dobbiamo organizzarci — li ha arringati —. Senza gli stranieri, l’esercito afghano è inefficiente. I talebani arriveranno per tagliarci la gola. Riprendiamo le armi».




Russia, la crisi travolge le banche 
Putin costretto a salvare tre istituti.


Corriere della Sera 28/12/14
Fabrizio Dragosei
Le banche sono le prime vittime della gravissima crisi che ha investito la Russia a seguito del crollo del prezzo del petrolio e delle sanzioni occidentali. Per tre istituti il governo ha già deciso interventi immediati per circa sette miliardi di dollari, visto che la situazione stava precipitando.

È l’intero settore creditizio ad avere bisogno urgentemente di ossigeno visto che la gente corre a ritirare i depositi e le banche non possono rifinanziarsi all’estero. Così il Parlamento ha approvato una norma che autorizza il governo a utilizzare il 10% del fondo strategico (qualcosa come 30-40 miliardi di dollari) per aiuti.

Ma in Russia, si sa, chi dà una mano quasi mai lo fa gratis. Adesso gli esperti si aspettano anche una ridistribuzione degli asset bancari: la Bank Trust, la prima ad essere «aiutata» con 2,4 miliardi di dollari, verrà assorbita da un’altra istituzione, la Otkritie Corporation, chiamata dallo Stato a intervenire. La Otkritie, che ha numerosi proprietari non molto conosciuti, sembra avere ottimi rapporti con i vertici: ha già «risanato» per conto dello Stato altre cinque banche.

Gli altri due istituti che avevano bisogno di sostegno immediato sono la Vtb, che dovrebbe ricevere circa 4 miliardi di dollari e la Gazprombank, controllata dal colosso del gas, alla quale andranno altri 1,3 miliardi.

 Ma in difficoltà sono tutti, a cominciare dalle grandi aziende che, secondo l’Unione Industriali, sono indebitate all’estero per 700 miliardi di dollari. La Rosneft, azienda petrolifera di Stato controllata da Igor Sechin vicinissimo a Putin, deve restituire da sola 40 miliardi di dollari e non può rifinanziarsi sui mercati internazionali. Nei giorni scorsi era alle strette e ha fatto ricorso a bond interni in rubli per oltre 11 miliardi di dollari. L’operazione ha scatenato il panico, facendo precipitare la moneta nazionale fino a 80 rubli per un dollaro e 100 per un euro. Il cambio si è poi ripreso, ma solo grazie a interventi della banca centrale e al fatto che il Cremlino ha poi obbligato le grandi aziende (che in teoria sarebbero private e indipendenti, visto che in taluni casi sono pure quotate sui mercati esteri) a dare via gli euro e i dollari in loro possesso. Così si è arrivati a fine settimana a un cambio di 54 con il dollaro. 

Ma le prospettive sono nere. Già ai primi di dicembre il ministero dell’Economia ha dovuto rivedere le stime per il prossimo anno, parlando di una riduzione del prodotto interno dello 0,2 per cento. Due giorni fa è arrivato un aggiornamento: la Russia decrescerà del 4 per cento. Ma gli esperti si aspettano una contrazione dell’economia anche peggiore, visto che il petrolio continuerà a essere venduto a poco (e l’Arabia Saudita ha detto che è pronta a tirare avanti a lungo con bassi prezzi). C’è il fondo per le emergenze, ma non è infinito. E con l’inflazione in salita saranno presto i conti delle famiglie a non tornare più.

 Certo, le cose sarebbero diverse se si riuscisse a raggiungere un’intesa sulla crisi Ucraina e l’Occidente revocasse le sanzioni. Un segnale positivo c’è stato in questi giorni con uno scambio massiccio di prigionieri tra le truppe regolari e i ribelli. A Kiev sono stati accolti come eroi dal presidente Poroshenko 154 soldati liberati, mentre i ribelli hanno accusato il governo ucraino di aver torturato e trattato male molti dei 222 miliziani rilasciati.

Nel frattempo, però, le trattative di pace a Minsk sono sospese, mentre il governo ucraino ha bloccato provvisoriamente il transito verso la Crimea annessa dalla Russia. E Putin ha approvato una nuova dottrina militare nella quale l’allargamento della Nato viene visto come una minaccia fondamentale per la sicurezza del Paese.




Del Conte: «Il doppio regime 
delle tutele durerà per poco».


Corriere della Sera 28/12/14
Rita Querzè
Inutile cercare di individuarlo tra le facce della Leopolda. Maurizio Del Conte non c’era. Nulla ha a che fare con il cerchio magico renziano. Nonostante ciò, a ottobre ha ricevuto una telefonata. Proposta: diventare consulente giuridico di Palazzo Chigi e occuparsi della stesura del Jobs act. «C’era da aspettarselo, tutti scontenti, a destra e a sinistra», allarga le braccia Del Conte, 49 anni, professore di diritto del lavoro in Bocconi. «Ma il vero problema è che troppi stanno guardando a queste nuove norme con occhiali sbagliati». E quali sarebbero quelli giusti? «Il fatto che nella maggioranza dei casi la reintegrazione venga sostituita da un indennizzo è comprensibile solo se consideriamo il rapporto di lavoro come un patto basato sulla fiducia. Non si può imporre dall’alto la convivenza tra un datore di lavoro e un dipendente. Se il rapporto di fiducia viene a cessare, allora il risarcimento può essere una soluzione più ragionevole di una ricostruzione forzosa del rapporto». Lo stesso Del Conte è consapevole del fatto che il doppio binario delle tutele — forti per chi è già assunto, allentate per chi entrerà d’ora in poi — non potrà reggere a lungo. «L’efficacia delle tutele crescenti si misurerà dalla capacità di creare più posti a tempo indeterminato e ridurre le forme di contratto atipico. Se questo accadrà, allora il doppio regime delle tutele reggerà per poco. Cinque anni o anche meno». Il giuslavorista si volge a destra, a sinistra e al centro per difendere l’impianto della legge. Il licenziamento per scarso rendimento caro a Ncd? «L’idea è del tutto arbitraria, questo sì avrebbe lasciato mani totalmente libere al datore di lavoro e al giudice». Il sistema dell’ opting out ? «Avrebbe contraddetto la delega che il governo ha ricevuto dal Parlamento dove si dice che devono esistere fattispecie di licenziamento disciplinare che prevedano la reintegrazione». Il doppio binario di tutele anche per quanto riguarda i licenziamenti collettivi? «Una scelta necessaria alla coerenza dell’impianto della legge. Visto che il licenziamento individuale di tipo economico viene ad avere un doppio binario di tutele, è logico che la stessa dicotomia si rispecchi nel licenziamento collettivo». Anche il sindacato promette battaglia. «Il sindacato rischia la marginalizzazione, questa legge in realtà gli offre un’opportunità. Se i lavoratori torneranno ad avere contratti a tempo indeterminato il lavoro della rappresentanza diventerà più facile».




Europa vive, anche senza di noi. Trattatela bene

Stefano Menichini 
Europa    
La notizia buona di fine d'anno è che "Europa" rimane on line. Sarà prodotta e tenuta in rete dal Pd, con una redazione quasi completamente cambiata. Per chi rimane fuori (compreso l'ex direttore) si sospende una bella esperienza di dodici anni, con più luci che ombre. E un lavoro svolto che presto magari tornerà utile.
Anno nuovo, Europa cambia. Per sopravvivere: cambia molte cose, ma non si spegne e questo era l’obiettivo più importante alla fine di un 2014 che ci ha visto più volte sull’orlo della chiusura e che s’è già portato via molte altre testate a cominciare dai cugini dell’Unità.
È un momento davvero terribile per l’editoria, per i giornali, per quelli più piccoli e per quelli politici in particolare. La stagione nella quale siamo nati è finita per sempre, così come il sistema del finanziamento pubblico (indifendibile e irrecuperabile oggi ma sul quale, vedrete, prima o poi si tornerà a ragionare). Da oltre due anni Europa è ininterrottamente in fase di ritirata strategica, tagliando i costi, abbandonando le edicole, ridimensionando personale e stipendi. Siamo stati bravini, in questa operazione, visto che nel frattempo abbiamo conquistato credibilità e lettori sulla rete, con un’edizione online che è affermata, riconosciuta, apprezzata, e in alcuni giorni arriva a contare anche 40 mila contatti.
Proprio questo parziale successo ha salvato la vita alla testata che era finita in liquidazione, visto che il Pd il 16 novembre scorso ha deciso di rilevarla. Prima e dopo quel momento, dal partito erano venuti molti accorati riconoscimenti nei nostri confronti: si apprezzava una storia di dodici anni che, per qualità giornalistica e di analisi politica, aveva meritato di avere un futuro. Futuro che è scritto e descritto in progetti editoriali molto interessanti, promettenti, ambiziosi ancorché sostenibili, che però in questo momento passano in secondo piano.
Purtroppo negli ultimi 45 giorni non è mutato il dato essenziale che ci accompagna da tanto tempo, e in particolare da quando – aprile 2014 – il gruppo dirigente di Renzi ha preso l’impegno di trovare soci finanziatori non potendo e non volendo accollarsi iniziative editoriali: altre ricerche sono andate bene, per Europa non è stato trovato ancora nessuno.
Sicché in questa fine d’anno la situazione è che la testata è ormai di proprietà della Fondazione Eyu, promossa e posseduta dal Pd, che vuole continuare a tenere Europa digitale in vita ma ha pochissimi soldi per farlo.
Di qui la decisione assunta dal partito: da gennaio 2015 Europa verrà prodotta presso la sede del Nazareno, a opera di alcuni colleghi attualmente in forza all’ufficio stampa del Pd integrati da una estrema minoranza dei redattori che hanno fatto il giornale in questi anni. Appena possibile, ci si dice, riprenderanno gli sforzi per trovare nuovi soci e ulteriori risorse. Per ora si salvano le testate ma non coloro che hanno dato loro valore.
Europa e Donneuropa continueranno dunque a uscire, in versioni ovviamente riviste e ridotte rispetto alle attuali. E questa mi pare la cosa più importante, una soddisfazione anche per me personalmente. La scelta del direttore per la nuova fase spetterà alla nuova proprietà.
Come risulta chiaro dal quadro della situazione, non sarebbe né utile né giusto né possibile che io fossi ora della partita. Oltre tutto, la responsabilità per la sorte dei colleghi di Europa d’ora in poi cassintegrati non è certo solo o principalmente mia, ma è anche mia.
Penso che soprattutto nell’arco del 2014 (“l’anno del Pd di Renzi”) si sarebbe potuto fare di più e meglio per la sorte del giornale che tutti, a torto o a ragione, considerano “il giornale del Pd di Renzi”. Forse anche io avrei dovuto compiere scelte diverse, magari alzando la voce, pretendendo, chiedendo conto degli impegni ripetutamente, pubblicamente e privatamente assunti. Ma un po’ per carattere, un po’ per convinzione, un po’ per stile: ci siamo fidati. E visto che Europa continua a vivere, sia pure col sacrificio di chi l’ha fatta per dodici anni, non abbiamo sbagliato del tutto.
La tradizione dello scambio di auguri di fine d’anno è dunque di grande attualità, per noi.
A Europa, a Donneuropa, alle colleghe e ai colleghi che ci lavoreranno, va tutto l’incoraggiamento e l’affetto: vi consegnamo un testimone che per tanti lettori è utile e prezioso, trattatelo bene.
Noialtri che restiamo fuori, quorum ego, accettiamo volentieri auguri di buona navigazione nel mare tempestoso della crisi più drammatica che l’editoria abbia mai conosciuto. Ci sono in questa vicenda persone, famiglie, che dopo aver lavorato bene e molto, per tanti anni, devono affrontare difficoltà autentiche nella più grande incertezza nonostante le promesse di riassorbimento ricevute.
Io ho partecipato alla fondazione del giornale (lo disegnammo insieme, con Andrea Mattone, nell’estate del 2002) e per quasi dieci anni l’ho diretto. È stata l’esperienza di una vita, dalla quale ho molto più preso che dato. Ho avuto compagni di lavoro bravissimi, ed è stato bello e divertente il clima nel quale Europa è stata pensata e prodotta ogni giorno. La soddisfazione più grande è stata veder crescere giovani giornalisti e dare un’altra occasione a colleghi esperti (primo fra tutti Federico Orlando), tutto sempre in allegria: chi è andato in giornali più importanti, racconta in giro di una redazione intelligente, simpatica e solidale. È un risultato molto gratificante per chi quella redazione l’ha diretta, un piccolo grande onore che mi rende più lieve un momento triste.
Vedremo se, come, quando e dove, tutto questo lavoro svolto tornerà utile. Buon anno.

sabato 27 dicembre 2014

Con Tito Boeri all’Inps patto generazionale “L’Italia sta cambiando”


PAOLO GRISERI
La Repubblica 27 dicembre 2014
Il colloquio. Il governo ha nominato il docente della Bocconi alla presidenza dell’Istituto nazionale di previdenza “Ho accettato una delle sfide più delicate per il Paese”
Non si aspettava la nomina: «E’ arrivata all’improvviso. Al punto che sto ancora cercando di fissare un codice di comportamento nella mia nuova veste. E’ certo che fino a quando ricoprirò l’incarico non potrò continuare la mia attività di editorialista». Tito Boeri, professore alla Bocconi, Centennial professor alla Lse di Londra, direttore della fondazione Rodolfo Debenedetti e collaboratore di Repubblica, sarà il nuovo presidente dell’Inps. Lo ha deciso il Consiglio dei ministri della vigilia di Natale. Boeri sostituirà Antonio Mastrapasqua, coinvolto nello scandalo delle fatture gonfiate nella sanità del Lazio e dimessosi dalla guida dell’Inps il 1 febbraio scorso. Negli ultimi mesi l’istituto, il più grande ente previdenziale europeo, è stato retto dal commissario Tiziano Treu.
«Non è opportuno parlare di programmi prima di essersi confrontati con chi disegna il quadro normativo», premette Boeri. Ma è chiaro che la sua missione non è semplice: «Il nostro Paese è segnato da importanti cambiamenti demografici » e dunque quello delle pensioni è un terreno minato. «Lo verifico anche in queste ore», si limita a dire. Riceve mail di incoraggiamento che danno però il senso della grande attesa e anche del rischio di compiere passi falsi. Gli «importanti cambiamenti demografici» di cui parla Boeri sono quelli che finiscono per imporre una specie di patto tra generazioni sulle pensioni. Insomma, è necessario trovare qualcuno in grado di sbrecciare il muro che divide oggi giovani e anziani.
Insieme a Fabrizio e Stefano Patriarca, Boeri ne aveva parlato un anno fa in un articolo pubblicato su «La Voce.info», il sito economico di cui è stato fin dall’inizio l’ispiratore. La proposta si basava su un principio apparentemente semplice: tassare, con un sistema di aliquote progressive, quella parte dell’assegno previdenziale che arriva agli attuali pensionati non in virtù dei versamenti effettuati durante la loro vita lavorativa, ma grazie al vecchio (e ormai superato) sistema retributivo. Molti di coloro che oggi percepiscono l’assegno incassano infatti più di quel che hanno versato perché un tempo la pensione era calcolata utilizzando come base gli ultimi stipendi e non l’intera vita lavorativa. Tassando la differenza tra contributivo e retributivo per le pensioni superiori ai 2.000 euro lordi al mese, scriveva un anno fa Boeri, si incasserebbero 4,2 miliardi di euro.
Il Boeri oggi diventato presidente dell’Inps, proverà ad applicare quella ricetta? «Credo in quel che ho scritto», si limita a rispondere. Tutti capiscono che tanta prudenza si spiega con i precedenti in una materia estremamente delicata. La professoressa Elsa Fornero è universalmente riconosciuta come una profonda conoscitrice del sistema previdenziale ma le critiche che si è attirata come ministro del lavoro dimostrano che non sempre è facile far combaciare teoria e scelte politiche. Che cosa spinge uno studioso a entrare nella stanza dei bottoni? «Continuo a pensare che la mia principale attività sia quella accademica. Ho accettato questo incarico perché penso che non sia sempre giusto rimanere alla finestra a indicare ricette. So che il compito è molto delicato ma so anche che la scommessa su un equilibrato sistema previdenziale è una delle più delicate per il futuro dell’Italia».

La mossa di Berlusconi per trattare sul Colle “Non direi no a Prodi” E chiama il premier


FRANCESCO BEI
La Repubblica 27 dicembre 2014
Telefonata di auguri dopo il Cdm della vigilia di Natale Santanchè rassegnata: “Ormai posso votare per chiunque” 
Dentro Forza Italia la chiamano la “teoria Minzolini”, essendo stato l’ex direttore del Tg1 il primo a proporla rompendo un tabù. È quella che postula «l’accordo con il diavolo» in persona, l’unico che potrebbe portare alla tanta agognata (da Berlusconi) pacificazione nazionale. Un diavolo con le fattezze bonarie di Romano Prodi. «Pensaci presidente — gli ha ripetuto più volte Minzolini — solo Prodi riuscirebbe a tenere testa a Renzi». La novità è che il ragionamento ha iniziato a far breccia nella testa del leader forzista. E non è un caso se, prima di Natale, nell’intervista a Repubblica, Berlusconi abbia messo in chiaro di non avere nomi da proporre e di non avere nemmeno pregiudiziali nei confronti di nessuno. È stato il primo passo.
Certo, l’antica ostilità nei confronti del Professore è dura a morire, ma il pragmatismo dell’ex Cavaliere è proverbiale. E in cambio di un eventuale disco verde alla candidatura di Prodi al Quirinale sarebbe lunga la lista dei desideri da esaudire. Primo tra tutti quel «riconoscimento politico» che Berlusconi, ancora nella condizione psicologica del condannato ai servizi sociali, ritiene sia suo diritto esigere. Su Prodi, fanno sapere ora dal cerchio magico, «certamente non c’è un veto». E anche questa è una novità non da poco. L’inimmaginabile diventa possibile? Tra il dire e il fare c’è ancora di mezzo un lunghissimo mese di trattative, ma forse anche di questo hanno parlato Renzi e Berlusconi nello scambio telefonico di auguri avuto la sera del 24 dicembre, dopo il Consiglio dei ministri.
Intanto i due schieramenti si guardano con curiosità. «Prodi al Quirinale? È un tema — ammette il senatore Pd Massimo Mucchetti — su cui un pezzo di mondo berlusconiano sta ragionamento seriamente». Per averne una riprova basta ascoltare Daniela Santanché. Che proprio a Romano Prodi pensava quando la scorsa settimana, ad Agorà, si è spinta fino a immaginare un voto favorevole all’arcinemico: «Ho votato Napolitano per spirito di servizio nei confronti del movimento politico. Votato Napolitano posso votare chicchessia se questa fosse la decisione di una squadra alla quale appartengo».
Certo, dalle parti di Renzi questa strana alleanza prodiana che mette insieme falchi berlusconiani come Minzolini e Santanché, insieme a esponenti della minoranza interna come Mucchetti e Pippo Civati, è vista al momento con sospetto. Di tutto il premier ha bisogno tranne che di un candidato che plana sul Colle più alto a dispetto del segretario del Pd. Ma intanto il ghiaccio che ha tenuto bloccati i rapporti tra Berlusconi e Prodi ha iniziato a sciogliersi. Come fa notare un berlusconiano della cerchia stretta, «per il Cavaliere rimettere in piedi un pilastro della seconda Repubblica come Prodi avrebbe il non secondario effetto di restaurare anche l’altro pilastro su cui si è retto il ventennio, ovvero se stesso» . Simul stabunt , appunto. Oltretutto, di recente, ci ha pensato la Crimea a metterli sulla stessa sponda del fiume. L’opinione di Berlusconi su Putin e la guerra in Ucraina è nota. Anche il Professore condivide la critica alle sanzioni occidentali contro Mosca, definite di recente «un suicidio collettivo». Ed è stato Prodi a volare al Cremlino lo scorso 18 dicembre, su invito di Putin, per un colloquio a quattr’occhi con lo zar. Un privilegio riservato a pochi, tanto più che il Professore non ha formalmente alcun incarico. Uniti oggi sulla Russia e domani sul Quirinale? «Berlusconi — confida un amico — non spera più nella grazia. Ma nella pace. E la pace la possono fare solo due nemici".

Scandalo di fine anno in Israele, cambiano gli equilibri a destra

Lorenzo Biondi 
Europa  
Accuse di tangenti contro il partito del ministro degli esteri Lieberman. La caccia ai suoi voti è già aperta, potrebbe cambiare il segno della prossima coalizione di governo.
La linea di difesa di Yisrael Beiteinu (oggi Lieberman ha commentato l’indagine con un post su Facebook) è quella della giustizia a orologeria: «Non c’è elezione senza indagine contro Yisrael Beiteinu». In effetti il 14 dicembre 2012, a pochi mesi dalle elezioni del 2013, Lieberman era stato costretto alle dimissioni da ministro dopo l’apertura di un fascicolo a suo carico, con accuse simili a quelle mosse oggi contro i suoi colleghi di partito. Lieberman fu prosciolto un anno dopo.
Si vedrà stavolta quale esito avrà l’indagine, ma le conseguenze politiche potrebbero essere immediate. Sondaggi aggiornati ancora non ce ne sono, ma tutti gli esperti prevedono che Yisrael Beiteinu, un partito di destra laica, perda qualche punto percentuale a favore dei suoi principali rivali: il Likud di Benjamin Netanyahu e la destra religiosa della Patria ebraica, guidata da Naftali Bennett.
Lo spostamento di voti a destra potrebbe non essere irrilevante. Il sistema di voto israeliano è proporzionare (con una soglia di sbarramento minima), i governi sono sempre di coalizione. Secondo le cronache politiche dalle parti del Labor si stavano facendo i conti su un’ipotetica coalizione di governo che lasciasse Netanyahu all’opposizione: un coacervo che tenesse insieme l’alleanza di centro-sinistra tra il Labor e Tzipi Livni, i centristi di Yair Lapid, l’ex alleato di Netanyahu Moshe Kahlon e lo stesso Lieberman. Uno strano aggregato, visto che su molte questioni Lieberman è certamente più “a destra” del Likud: in politica estera è falco, anzi falchissimo, molto più dello stesso Netanyahu (basti ricordare che, durante l’ultima guerra di Gaza, Lieberman ruppe l’alleanza elettorale con Netanyahu dopo il rifiuto del premier di ri-occupare militarmente la Striscia).
Un calo di Lieberman complicherebbe questa prospettiva. Se il principale beneficiario dell’inchiesta fosse Bennett (oggi all’opposizione) si rafforzerebbe l’ipotesi di un governo di destra-destra, in cui Netanyahu sarebbe una delle voci più “moderate”. Se invece “Bibi” conservasse il suo ruolo di pivot della politica israeliana, starebbe a lui la scelta: potrebbe guardare all’ultra-destra, ma anche costruire una coalizione ampia, aperta al centro e al centro-sinistra.
Tutte ipotesi, per ora, da cui però può dipendere la ripresa del processo di pace e la realizzazione dei “due Stati”. La campagna elettorale è appena all’inizio.

CONTRATTO E LAVORO 
UN MEZZO STRAPPO SALUTARE.


Corriere della Sera 27/12/14
Dario Di Vico
Una cosa va detta subito: al di là delle opposte valutazioni politiche di queste ore il Jobs act non appare come «la» riforma del lavoro, casomai ne è il primo atto. E non solo perché mancano almeno altri importanti decreti attuativi ma perché le amnesie che il governo ha mostrato su altri due capitoli (le partite Iva e Garanzia Giovani) dimostrano che Matteo Renzi e i suoi non hanno ancora maturato una visione complessiva dei mutamenti che stanno attraversando l’economia e dei riflessi immediati che hanno sul lavoro moderno. 
Il cammino è lungo, bisogna operare in corsa e nel mondo politico-sindacale non c’è quella serenità di giudizio di cui ci sarebbe bisogno ma nonostante tutto ciò si può fare sicuramente di più.

In materia di pensioni la legge Fornero era stata più radicale e aveva spiazzato il sindacato, sul Jobs act abbiamo assistito a una guerriglia parlamentare e a uno sciopero generale che sono serviti entrambi a poco e hanno solo contribuito ad aumentare la confusione. Il risultato comunque è che grazie a un «mezzo strappo» le imprese hanno più strumenti di prima per gestire le assunzioni e creare i presupposti di una loro politica del lavoro attenta alla redditività, ma al tempo stesso capace di fare dei propri dipendenti un elemento del successo aziendale. Non sto raccontando favole: càpita già così in molte nostre imprese (oserei dire le migliori) e sono diverse le multinazionali che mostrano di credere nel lavoro italiano.

Il 2015 che si sta per aprire è cruciale per il nostro sistema industriale, da una parte siamo chiamati a triplicare il numero delle nostre imprese che esportano stabilmente, dall’altra sul mercato interno dovremo trovare il modo di aggregare le piccole imprese, rafforzare la specializzazione dei distretti, integrare le filiere, riprendere una riflessione sulla qualità di un terziario troppo spesso considerato residuale. 


Personalmente non credo che il governo abbia con il Jobs act fotocopiato i documenti della Confindustria, anzi penso che l’elaborazione sulla flexsecurity sia partita da alcuni esponenti riformisti come gli Ichino, i Sacconi, i Boeri e poi sia riuscita ad aprire una breccia in un campo industriale che si era attardato a ragionare solo o prevalentemente in termini di costo del lavoro. 

Ma ora la parola deve passare alle imprese, non perché — come ha detto qualche ministro — «sono caduti gli alibi» ma semplicemente perché senza nuove idee, progetti, soluzioni innovative di business l’occupazione non potrà crescere.

 Nel frattempo però il cantiere della riforma del lavoro non può chiudere. La vicenda delle partite Iva non è limitata alle sole emergenze degli esosi contributi previdenziali e di un regime dei minimi fiscali che non incentiva a crescere, occorre una riflessione più ampia sul contributo che il lavoro autonomo moderno può dare allo sviluppo.

In molte professioni cadono i muri tra occupazione dipendente e freelance, le nuove imprese quasi sempre partono da un professore universitario, da un neoingegnere o da una giovane biologa.
Vogliamo coinvolgerli nella rinascita del Paese o lasciarli emigrare?

 L’ultimo impegno riguarda i giovani disoccupati. Il premier Matteo Renzi nelle sue numerose interviste non ha mai pronunciato l’espressione «Garanzia Giovani». Non deve essere casuale.




Giornali e fondazioni festival e università: 
ecco tutti gli orfani di Tito Boeri.


Corriere della Sera 27/12/14
daniele manca

Non era certo in cerca di lavoro Tito Boeri quando ha ricevuto la proposta di diventare presidente dell’Inps. Ha dovuto decidere nel giro di poche ore sulla proposta di Palazzo Chigi di andare a presiedere l’Inps.
Attorno agli studi e all’attività del prorettore alla Ricerca dell’Università Bocconi, nonché Centennial professor alla London School of economics, si muovono non poche iniziative. Che probabilmente in queste ore si sentiranno già orfane del sì che Boeri ha detto a Matteo Renzi. La strada che seguirà non potrà che essere quella di sospendere gli altri suoi incarichi. Per questioni di opportunità e non solo. Principale fondatore del sito lavoce.info, uno dei luoghi dove il dibattito economico e il controllo sull’azione di governo è stato più attivo e incisivo, Boeri era considerato anche il motore nella produzione di articoli e ricerche dei vari contributors e suoi. L’ultimo suo pezzo è di martedì scorso. Elencava tutte le ombre di una legge di Stabilità che per strada si è persa buona parte dei tagli alle Regioni e ai Ministeri, non ha interrotto il flusso di mance e mancette e che pecca di orizzonti troppo brevi nell’impostazione di alcune misure. Che Renzi abbia voluto prendere a bordo anche una voce tutt’altro che condiscendente nei confronti di misure non proprio lineari? Di sicuro l’ex senior economist dell’Ocse (quella dell’attuale ministro Pier Carlo Padoan) ha forti capacità di influenza e orientamento del pensiero economico. È direttore scientifico della Fondazione Rodolfo Debenedetti, padre di Franco e Carlo De Benedetti che presiede l’istituzione (oltre a essere editore del gruppo Espresso del quale Boeri è anche editorialista). Fondazione che studia le politiche del lavoro e del welfare in Europa. E sempre il docente della Bocconi è il direttore scientifico del Festival dell’economia di Trento diventato uno degli appuntamenti di divulgazione più seguiti nel nostro Paese. Più che attento ai conflitti di interesse per cultura e convinzione, l’indipendente Boeri ora riceverà consigli piuttosto che darne. E toccherà a lui decidere.




Il superboss degli scafisti 
che porta i migranti in Italia.


Corriere della Sera 27/12/14
corriere.it
Il 13 settembre dello scorso anno uno degli scafisti sorpresi a trasportare esseri umani nelle acque del Mediterraneo ricevette una chiamata dall’Egitto. L’avevano appena bloccato dopo il trasbordo di 199 migranti dalla nave più grande a una più piccola, per farli arrivare clandestinamente in Italia. La motovedetta della Guardia di Finanza lo stava scortando verso il porto di Catania, a bordo della «nave madre» senza nazionalità e con il nome cancellato, quando il telefonino del «capitano» squillò. Era il suo capo, che dall’Egitto chiedeva notizie e dava indicazioni per limitare i danni.

«Quando ti hanno fermato che cosa ti hanno detto?», chiese. «Hanno detto che volevano vedere i documenti», rispose il capitano. «Ma voi siete scappati?»: «Non abbiamo fatto niente per farli insospettire...».

Il destino della nave e del capitano dipendeva dalle dichiarazioni dei migranti: «Se qualcuno ha testimoniato non ci lasciano andare — spiegò ancora il capitano —. Vedi per un avvocato e sistema tutto». L’altro lo rassicurò: «L’avvocato ti arriverà direttamente, gli sto mandando dei soldi». Due ore dopo il capo richiamò e ordinò: «Vi possono far fare il confronto, ti prego fai attenzione... Ti scongiuro, tu e i ragazzi non li conoscete... Voi siete venuti con il coso dalla Siria...». In realtà arrivavano dall’Egitto, e loro erano scafisti, non migranti. Sfruttatori della disperazione altrui, non vittime della propria. Ma la linea difensiva doveva essere netta: «Dovete negare che li conoscete, così non succederà un grosso problema per voi e per loro».

La terza telefonata giunse dopo un’altra ora: «L’avvocato dovrebbe essere all’interno del porto, gli ho trasferito i soldi da due ore».

Queste conversazioni furono intercettate perché quello sbarco era già il terzo in poche settimane sulle coste della Sicilia orientale, e gli investigatori del Servizio centrale operativo della polizia avevano messo sotto controllo alcuni numeri indicati dai migranti. Così poterono ascoltare il colloquio tra il «capitano» e il suo referente dall’altra parte del mare, l’organizzatore delle traversate sulla rotta Alessandria-Siracusa, o Catania. Una persona rimasta sconosciuta fino a poco tempo fa, quando i poliziotti e la Procura di Catania sono riusciti ad attribuirgli nome, cognome, indirizzo grazie alla collaborazione delle autorità del Cairo.

Si chiama Ahmed Mohamed Farrag Hanafi, ha compiuto 32 anni a luglio, e ufficialmente risiede nel governatorato di Kafr El Sheik, nel Nord del Paese. Da pochi giorni è ricercato in Egitto e altrove per i reati di associazione per delinquere finalizzata all’ingresso illegale in Italia di profughi siriani ed egiziani. Per gli inquirenti italiani e per quelli della sua nazione di appartenenza è il principale trafficante di uomini sulla direttrice alternativa a quella che dalla Libia porta a Lampedusa. Responsabile dei tre sbarchi dello scorso anno (almeno 360 tra uomini, donne e bambini) su cui sono scattate le indagini, e forse di molti altri, «poiché — scrive il giudice nell’ordine di arresto trasmesso per rogatoria in Egitto — si ha motivo di ritenere che nemmeno i reiterati arresti di scafisti, i sequestri di ben due “navi madri” e l’arresto del relativo equipaggio (tra cui quello del capitano intercettato al telefono con lui, ndr ) e di alcuni basisti operanti in territorio nazionale abbiano impedito alla stessa associazione di continuare a lucrare, ignominiosamente, sui cosiddetti “viaggi della speranza”». E ancora: «Le modalità e le circostanze dei fatti-reato comprovano la spiccata pericolosità criminale di Hanafi e consentono di ritenere probabile, già nell’immediato futuro, la reiterazione di analoghi comportamenti delittuosi».

Le modalità operative dell’organizzazione sono sempre le stesse, ricostruite dagli investigatori grazie alle testimonianze dei profughi e ai riscontri (intercettazioni comprese): «I migranti, nei loro Paesi di origine, contattano il cosiddetto “mediatore” a cui versano un anticipo del totale del costo del viaggio (fra i 3.000 e i 4.000 euro, ndr ). Il saldo della somma pattuita viene versato all’arrivo nel luogo di destinazione da familiari o conoscenti; le persone intenzionate a espatriare illegalmente vengono poi raggruppate nei punti di raccolta sulle coste egiziane da dove, a piccoli nuclei, vengono imbarcate su natanti di più ridotte dimensioni manovrati da “scafisti” (pagati poco più di 1.000 euro a viaggio, ndr ) che, raggiunto il mare aperto, incrociano altre imbarcazioni più grandi (pescherecci) ove vengono trasbordati. La navigazione, a questo punto, avviene sulla cosiddetta “nave madre”, che traina la piccola imbarcazione di origine , detta anche “barchino” o “nave figlia”. Giunti in alto mare, a tot miglia marine in direzione delle coste siracusane o delle province limitrofe, ma comunque sempre in acque internazionali, i migranti vengono nuovamente trasbordati sull’imbarcazione trainata dove ai comandi si rimettono gli “scafisti” che, utilizzando il Gps e inserendo le coordinate fornite, tramite un telefono satellitare, da complici sulla terra ferma, puntano verso le coste siracusane, ove avviene lo sbarco. Una volta sbarcati, gli scafisti non rintracciati dalle forze dell’ordine vengono assistiti in luoghi sicuri e fatti ripartire dopo qualche giorno dai referenti dell’organizzazione, anche in vista di un possibile reimpiego. Qualora rintracciati dalle forze di polizia, l’organizzazione tramite le proprie “sentinelle” si occupa di assicurarne l’assistenza legale».

È esattamente ciò che Hanafi ha fatto in favore dello scafista bloccato a Catania il 13 settembre 2013, trovando l’avvocato «le cui spettanze professionali venivano infine saldate dal cassiere dell’organizzazione»; un po’ come accade con le associazioni mafiose o camorristiche, nei confronti dei loro affiliati. Questo elemento è diventato uno dei pilastri delle accuse nei suoi confronti, trasformando Hanafi nel principale ricercato egiziano per traffico di essere umani.

Quel segnale di Renzi alla minoranza.


Corriere della Sera 27/12/14
corriere.it
L’avevano dipinta come la tassa che Matteo Renzi doveva pagare all’Europa. Poi avevano spiegato che era l’osso che doveva mollare al Nuovo centrodestra per una pacifica coesistenza dentro il governo. Alla fine, non si è rivelata vera né l’una né l’altra versione dei fatti, e il premier si è mostrato come il deus ex machina che non si fa imporre la linea dall’Europa o dall’alleato minore.

Di più, dopo aver sconfitto l’oltranzismo della Cgil, che era ciò che più gli premeva, il presidente del Consiglio è andato incontro alle richieste della parte dialogante della «sua» minoranza interna, di quella minoranza, cioè, su cui fa affidamento quando, nel segreto dell’urna, si tratterà di votare il capo della Stato. Insomma, dicendo di «sì» al capogruppo Roberto Speranza e al presidente della Commissione Lavoro di Montecitorio Cesare Damiano, che gli chiedevano di abbandonare la linea dura di Sacconi e degli altri Ncd, Renzi ha scavato un altro profondo solco nella minoranza del Partito democratico, isolando ulteriormente i Fassina e i Cuperlo, ossia coloro i quali — il premier ne è convinto — gli daranno comunque del filo da torcere nelle votazioni presidenziali. Di più: ha allargato il divario già esistente tra la Cisl, che ha lavorato a favore della soluzione finale raggiunta sui decreti del Jobs Act e la Cgil, che con Camusso, per dirla con le parole del premier, «ha deciso di adottare una linea di opposizione politica a questo governo».

Ma giungere a questo risultato non è stato semplice. Il 23 dicembre, fino a tarda notte, sul campo da gioco, Renzi si è presentato, come sempre in questi casi, con due posizioni. Quella più «oltranzista» di Filippo Taddei e quella più aperturista del ministro Poletti. Questo per vedere fin dove si poteva tirare la corda. Nell’altra metà campo, in tandem, Damiano e Speranza. Il primo a spiegare a Taddei e Poletti, prima, e al ministro Boschi, poi, che mettere nei decreti l’ opting out e la possibilità di licenziamento per scarso rendimento sarebbe stato «un eccesso di delega non rispettoso del Parlamento».

La partita è arrivata ai supplementari il 24 dicembre mattina. Sul campo da gioco Speranza non si è risparmiato. Ha spiegato al premier quello che avrebbe significato mettere l’ opting out nei decreti, come chiedeva il Nuovo centrodestra: «Vorrebbe dire negare l’accordo raggiunto nella Direzione del Pd e anche quello votato dal Parlamento. Così sarebbe come infliggere uno schiaffo a quelli del partito che sono rimasti nell’aula di Montecitorio votando quell’intesa e dare ragione a chi invece è uscito dall’aula». Tanto per intendersi, ai vari Cuperlo, Fassina, etc.

È un ragionamento, questo, che ha lasciato tutt’altro che insensibile un politico abile come Renzi. Il quale, poi, si è maggiormente convinto di quella posizione, quando ha visto che nelle ultime ore anche la Cisl premeva in quella stessa direzione. Non solo, pure il più alto Colle, sempre attento al rispetto delle decisioni del Parlamento, era stato coinvolto. E l’eco del discorso fatto sia da Damiano che da Speranza sull’«eccesso di delega» era giunto sino al Quirinale.

Il premier è noto per la rapidità delle decisioni che, alle volte, sorprendono anche i suoi più stretti collaboratori. Questa volta hanno sorpreso gli alleati del Ncd. «Si arrabbieranno, ma una crisi di governo, minacce a parte, non è all’ordine del giorno», ha rassicurato il premier spiegando ai fedelissimi la decisione di lasciare Alfano e il suo partito a bocca asciutta. Anzi, le critiche di Sacconi e De Girolamo ai decreti riveduti e corretti gli hanno fatto gioco: «A me vanno anche bene queste polemiche».

Perché, ancora una volta dimostrano, che, alla fine della festa, è il premier a dire l’ultima parola sui provvedimenti varati dal Consiglio dei ministri. Tanto il Nuovo centrodestra, sostengono i renziani, per paura delle elezioni, non giocherà mai brutti scherzi. Nemmeno al momento di eleggere il successore di Napolitano

Da mille anni nessuno parlava così


La Stampa, 23 dicembre 2014
di ENZO BIANCHI
Nei tempi recenti nessun papa ha mai parlato come papa Francesco. Nel discorso per gli auguri natalizi alla curia ha detto con parresia quello che pensa e lo ha fatto di fronte alle persone che devono collaborare con lui nel ministero di comunione, tralasciando linguaggi allusivi e stile diplomatico. Questo suo discorso echeggia quel che san Bernardo – monaco però, non papa – osava dire nell’XI secolo al papa e alla sua corte: parole che pochi altri seppero scrivere o proclamare a correzione dei vizi ecclesiastici nei momenti in cui si faceva urgente una riforma della chiesa “in capite et in corpore”. Ma più ancora echeggia il salmo 101, in cui il capo, la guida del popolo di Dio promette al Signore non solo di camminare con cuore integro, ma anche di allontanare chi accanto a lui, al suo servizio, alla sua corte, “ha il cuore tortuoso, l’occhio sprezzante e orgoglioso, chi denigra in segreto il suo prossimo, chi dice menzogne”. Papa Francesco conosce bene la psicologia degli “uomini religiosi”, presenti un tempo tra gli scribi e i farisei, oggi tra i cristiani “in ogni curia, comunità, congregazione, movimento ecclesiale”, soprattutto là dove si dovrebbe esercitare il servizio dell’autorità.
Non solo i padri del deserto dei primi secoli erano soliti stilare “cataloghi” di vizi e peccati “capitali”: ancora le generazioni di cristiani come la mia, formatesi prima del Vaticano II, avevano a disposizione prontuari di peccati “in pensieri, parole, opere e omissioni” per prepararsi al sacramento della confessione, così da compiere un esame di coscienza personale sulla propria inadeguatezza rispetto alle esigenze poste dai dieci comandamenti e, più in profondità, dal Vangelo stesso. È a qualcosa di simile – forte anche dell’analoga tradizione loyolana – che ha pensato papa Francesco nel suo discorso alla curia romana in occasione del Natale. Così ha esposto con parresia un dettagliato elenco di ben quindici “malattie dell’anima”, dalla patologia del “sentirsi immortale o indispensabile”, fino a quella “del profitto mondano e degli esibizionismi”.
Certo in questo catalogo delle malattie degli uomini religiosi emerge l’acconsentire a una tentazione-chiave, quella del potere, tentazione posta dal demonio anche a Gesù Cristo e da lui respinta e vinta. Sì, la sete insaziabile di potere rende colui che vi cede capace di diffamare e calunniare gli altri sui giornali e sui blog tramite giornalisti compiacenti, abili persino a odiare su commissione. Papa Francesco non inventa nulla, semplicemente legge la quotidianità che rende deforme e sfigura la chiesa quale corpo del Signore. È un’analisi tagliente, frutto senza dubbio anche dell’esperienza quotidiana vissuta da papa Francesco in questi ventuno mesi di pontificato, una disamina rivolta non tanto al passato e agli scandali che hanno preceduto la sua elezione, quanto piuttosto a un perdurante presente. Ed è significativo che l’antidoto universale per tutte queste patologie papa Francesco lo offra inquadrando il suo discorso – ricco di citazioni bibliche e di rimandi alla sua esortazione Evangelii gaudium, a riprova del radicamento nella parola di Dio e della progettualità del suo parlare e operare – proprio nella comprensione della chiesa come “corpo mistico di Cristo”. Ora, l’immagine del corpo composto di molte membra come metafora di una comunità appartiene alla tradizione classica prima ancora che al Nuovo Testamento, ma la connotazione precisa che delinea il papa a quanti lo aiutano nel governare la “chiesa di Roma che presiede nella carità” è l’intima comunione di questo corpo dinamico e di ogni singolo membro con il Signore: “la curia, come la chiesa, non può vivere senza avere un rapporto vitale, autentico e saldo con Cristo”.
Ogni cristiano, ma soprattutto ogni persona munita di autorità o impegnata in un ministero pastorale, è invitato a chiedersi “sono un uomo di Dio o sono un amministratore di Satana?”. Non esiste alternativa: perché se è vero che tutti siamo tentati e tutti cadiamo, resta vero che la frattura è tra chi cade e cerca di rialzarsi confessando di essere peccatore e chi invece accetta di cadere fino ad essere un corrotto, magari esibendo se stesso come persona giusta ed esemplare di fronte agli altri.
Questo obiettivo, ben più arduo di qualsiasi riforma funzionale è indubbiamente innovativo e, al contempo, profondamente radicato nella più autentica tradizione cristiana: riportare un apparato burocratico ecclesiastico alla sua vera natura di corpo comunitario a servizio della chiesa universale. Si dirà che le malattie sono così numerose, gravi e diffuse da rendere improba una pronta guarigione e che il tempo della convalescenza non sarebbe comunque immune da ricadute, ma sappiamo bene come condizione preliminare a qualsiasi terapia efficace è una diagnosi accurata e in questo le parole di papa Francesco sono estremamente appropriate.
Sì, ci sono nella curia romana molte persone la cui vita cristiana è una testimonianza di fede, di qualità evangelica, di servizio leale e amoroso al papa e alla chiesa, e ci possono anche essere persone con una doppia vita “nascosta e sovente dissoluta”, altre “vigliacche” che sparlano del fratello, altre ancora “meschine, infelici” perché hanno perso la memoria del loro Signore” e “guardano appassionatamente la propria immagine e non vedono l’immagine di Dio impressa sul volto degli altri”. Tuttavia papa Francesco non perde la speranza di vedere la curia riformarsi, convertirsi da “un’orchestra che produce chiasso” disarmonico e che provoca “autodistruzione o fuoco amico” in autentica comunità di discepoli del Signore Gesù, in una comunione di peccatori perdonati, capaci seguire l’invito di san Paolo ai cristiani di Efeso a vivere “secondo la verità nella carità, cercando di crescere in ogni cosa verso di lui, che è il capo, Cristo, dal quale tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità” (Ef 4,15-16).
L’ho scritto e lo riscrivo: papa Francesco si fa eco del vangelo e la sua passione per il vangelo lo porta a misurare la vita della chiesa e di ogni membro sulla fedeltà al vangelo, sulla coerenza cristiana. Ma nessuna illusione: più il papa percorre questa strada e più scatenerà le forze demoniache operanti nella storia e il risultato per i veri credenti sarà l’apparire della croce di Cristo. Non è vero che nella chiesa si starà meglio, è vero il contrario: la chiesa infatti può solo seguire Gesù anche nel rigetto sofferto e nella persecuzione e non potrà ottenere successi mondani se incarna il messaggio del suo Signore.

mercoledì 24 dicembre 2014

buona notizia!!!

All'Inps arriva Tito Boeri, economista internazionale e commentatore. Docente della Bocconi, è stato consulente del Fondo monetario e della Banca mondiale. E' uno dei fondatori della rivista online Lavoce.info e editorialista di Repubblica.

Quel pool di epurati che lavora al piano B “Venti voti decisivi per l’elezione al Colle”


La Repubbica 24 dicembre 2014
TOMMASO CIRIACO
Anche Luigi Di Maio, a nome del M5S, prova a sondare Palazzo Chigi Toninelli: “Possiamo pure incontrarci, ma niente candidati imposti dall’alto”
Venti voti per il Quirinale. Preziosi, a portata di mano, forse decisivi. Per gli ex grillini è il momento della verità. In tutto sono ventisei, tra Camera e Senato, e sono destinati ad aumentare. A gennaio proveranno a costruire finalmente un gruppo, ma intanto aprono alla rosa di nomi di Matteo Renzi. Non sono gli unici, in realtà, a voler giocare la partita del Colle. Anche Luigi Di Maio, a nome del Movimento, prova a sondare Palazzo Chigi. E nel corso di alcune cene riservate con Roberto Giachetti tenta di pianificare la sfida quirinalizia.
Ecco, proprio dal vicepresidente della Camera grillino bisogna partire. Da tempo coltiva un filo diretto con Giachetti. I vertici del Movimento, sottovoce, non fanno mistero che i due si confrontino abitualmente, lontano da occhi indiscreti. Questo dialogo, in passato, ha sbloccato anche la partita della nomina dei giudici costituzionali. E in futuro non è escluso che coinvolga direttamente il premier: «Luigi parla con Renzi? Mica sono solo io ad avere il numero di cellulare di Renzi...», ammicca Massimo Artini, altra figura chiave di questa storia.
È proprio lui, uno degli epurati del grillismo, a lavorare senza sosta al “progetto Quirinale”. Artini, un moderato buttato fuori senza troppi complimenti dal blog di Grillo, cerca di fare gruppo alla Camera con gli espulsi Tommaso Currò, Paola Pinna e Alessio Tacconi. Parla con il Pd (ieri si è intrattenuto a lungo con il vicecapogruppo dem Ettore Rosato) e progetta il futuro con il senatore Maurizio Romani, un altro degli espulsi. Artini, in realtà, è amico anche di Renzi. Come il premier è toscano, con il premier è stato compagno di classe. Per adesso non si sbilancia, ma si dice pronto a ragionare: «Ascolteremo la rosa di nomi del Pd, poi daremo un giudizio». Ma chi sono questi ex pentastellati pronti al confronto?
Ad eccezione del dimissionario Giuseppe Vacciano — e di Marino Mastrangeli — gli altri quindici senatori epurati sono tutti potenziali interlocutori del Pd. Due di loro, Fabiola Anitori e Lorenzo Battista, orbitano già nell’area della maggioranza. Un altro, Luis Orellana, si confronta da tempo con i dem. Assieme a Romani compongono il “Movimento X” Maria Mussini, Laura Bignami e Bartolomeo Pepe. Quest’ultimo, vicinissimo ai Verdi di Angelo Bonelli, spiega: «Se il Pd indica un Presidente di spessore, è normale che lo voto. Ma lo farà?». Ci spera un’altra senatrice, Alessandra Bencini: «Certo non vogliamo commettere di nuovo l’errore che abbiamo compiuto con Prodi, quando invece di votarlo insistemmo troppo su Rodotà».
I rapporti tra i senatori ex M5S, a dire il vero, non sono dei migliori. Nei mesi scorsi le tensioni hanno dilaniato la pattuglia. Ora però il clima è cambiato: «A differenza di alcune settimane fa — giura Francesco Campanella — la situazione è migliore. Vogliamo partecipare al gioco della nomina del nuovo Presidente. Coordinandoci anche con i colleghi ex M5S della Camera». L’ottimismo del senatore siciliano è condiviso da Adele Gambaro: «Faremo fronte comune, ci muoveremo come se fossimo un gruppo. Non saremo certo noi a proporre un nome, ma appoggeremo un alto profilo. Preclusioni su un nome politico? Vedremo, ma direi proprio di no».
Veti su un nome del Pd, a dire il vero, non ne pone neanche Danilo Toninelli. Braccio destro di Di Maio, ieri ha mostrato qualche segnale di nervosismo: «Ci potremo incontrare, ma solo se faranno i nomi pubblicamente e con debito anticipo. Se invece pensano di calare candidature dall’alto — con un sms inviato pochi minuti prima del voto — si andranno a schiantare». Il Movimento, in ogni caso, affiderà la scelta su un’eventuale rosa di nomi proposta dai dem alle quirinarie interne.
Tra il gruppo degli espulsi e i vertici del direttorio pentastellato si muovono infine alcune decine di parlamentari a disagio. Una ventina, fra loro, non escludono di rompere. Sono dissidenti storici come il deputato Aris Prodani e il senatore Francesco Molinari. E anche i parlamentari toscani più vicini ad Artini sono pronti allo strappo. Aspettano solo un segnale. Potrebbe essere il nuovo regolamento varato ieri dalla Casaleggio associati. Quello dei nuovi super poteri affidati a Grillo.