Dal mondo

 

Egitto: al Cairo il giorno della rabbia. 

Almeno 30 morti negli scontri


È di 30 morti il bilancio degli scontri in Egitto tra i sostenitori del deposto presidente Mohammed Morsi e i suoi oppositori. Lo ha riferito il ministero della Sanità egiziano. Secondo il quotidiano al-Ahram, almeno 16 delle vittime sono state uccise da colpi di arma da fuoco alla testa e al petto. Negli scontri, che hanno avuto inizio ieri al Cairo, ad Alessandria e in altre città del Paese, sono inoltre rimaste ferite 1.138 persone.
Decine di migliaia di persone hanno risposto all'appello della Fratellanza a scendere in piazza per difendere la legittimità del presidente eletto. Con un vero colpo di teatro, sul palco della manifestazione davanti alla moschea di Rabaa el Adaweya è comparsa la guida spirituale della fratellanza che i servizi di sicurezza egiziane avevano annunciato ieri di avere arrestato.
La giornata è stata subito segnata alle temute violenze in tutto il paese. Il bollettino delle vittime dava 17 morti e oltre 400 feriti in scontri in tutto l'Egitto fra pro e anti morsi in serata. La giornata si è chiusa con violenze nei pressi di piazza Tahrir e della televisione di Stato quando manifestanti pro Morsi si sono avvicinati al sit in degli oppositori del deposto presidente. Nel Sinai un militare e quattro agenti di polizia hanno perso la vita in agguati che hanno indotto la presidenza a imporre il coprifuoco a nord, mentre a El-Arish, nel nord del Sinai, manifestanti hanno cacciato le forze di sicurezza da un edificio governativo issando la loro bandiera.
Violenti scontri si sono registrati anche ad Alessandria fin dalla mattina, con colpi di arma da fuoco fra gli oppositori e i sostenitori di Morsi, costringendo l'esercito a interporsi con blindati, ma le violenze sono continuate in serata.
Al Cairo gli scontri più violenti sono avvenuti nei pressi dell’università e davanti alla sede della guardia repubblicana, dove i pro morsi erano convinti fosse trattenuto il presidente destituito agli arresti. Voci e smentite si sono susseguiti sul numero di vittime davanti alla sede della guardia repubblicana in un sostanziale black out televisivo delle immagini degli scontri. Secondo media internazionali l'esercito ha aperto il fuoco sui manifestanti pro Morsi uccidendo tre persone. Un portavoce militare ha smentito che le forze armate abbiano sparato sui manifestanti sostenendo che hanno usato colpi a salve e lacrimogeni. Successivamente una fonte della sicurezza ha smentito che ci siano state vittime nel tentativo di assalto della sede della guardia repubblicana.
Il presidente ad interim, Adly Mansour ha emesso il suo primo decreto presidenziale per sciogliere la camera alta del parlamento, con poteri legislativi dopo lo scioglimento della camera bassa, e per licenziare il capo dell'intelligence. Un annuncio giunto solo qualche minuto prima della comparsa di Badie sul palco della manifestazione.
Accolto come una star Badie ha detto alla sua piazza che il "golpe militare è nullo" ed ha fatto appello al sacrificio della propria vita per riavere Morsi alla presidenza. "Dopo il suo ritorno negozieremo su tutto", ha detto badie, guardando in alto verso gli elicotteri militari che hanno continuato a volteggiare sopra la piazza gremita di sostenitori di Morsi per dire: "Grande esercito torna agli egiziani, noi resteremo in piazza fino al ritorno del rais". In serata il fronte degli islamici ha incassato un primo significativo successo. La procura ha ordinato il rilascio di Saad el Katatni, capo del partito della Fratellanza, e di Rashad el Bayoumi, altro importante esponente della Confraternita.
La repubblica 6 luglio 2013


Egitto: il golpe dei militari, conseguenza dell'incapacità di governare dei Fratelli Musulmani

Di Janiki Cingoli


Faceva un certo effetto, mercoledì sera, vedere il liberale e Premio Nobel Mohamed ElBaradei festeggiare al fianco del Capo di Stato Maggiore e Ministro della Difesa, General Abdel Fattah al-Sisi, il colpo di stato che ha deposto il Presidente Mohamed Morsi, regolarmente eletto nelle elezioni del giugno 2012.

Uno strano colpo di stato, salutato da milioni di manifestanti in festa. Che gli stessi Stati Uniti non hanno voluto definire tale, per evitare immediate ripercussioni sul programma di aiuti militari al paese, che ammonta a 1,3 miliardi di dollari all’anno.

Le nuove proteste di Piazza Tahir di questi giorni hanno espresso, oltre alla mobilitazione dei gruppi di opposizione più tradizionali anche l’esasperazione di masse popolari sempre più vaste, schiacciate dalle privazioni e dalla mancanza di prospettive. Una nuova protesta saldatasi intorno al gruppo giovanile Tamarod (Ribellione).

Non è ben chiaro quale strada sceglieranno ora i Fratelli Musulmani, la formazione politica che aveva espresso il deposto presidente, i cui massimi dirigenti sono stati messi agli arresti. Essi hanno dichiarato che non prenderanno parte ai tentativi di formare un nuovo governo di unità nazionale, e hanno indetto una giornata di protesta contro l’intervento dell’esercito. Ma hanno fatto appello ad una protesta pacifica e disarmata (contrariamente ai salafiti, che hanno invece minacciato il ricorso alla lotta violenta e al terrorismo, in connessione anche con gruppi qaedisti).


Chi parla di fine dei Fratelli Musulmani, comunque, fa un conto sbagliato. Essi sono stati fuori legge per decenni, durante il periodo nasseriano e post nasseriano, ma hanno saputo radicarsi nella società, per poi riemergere come il primo partito dopo la caduta di Mubarak. Ora certamente hanno subito un duro colpo, e escono drammaticamente indeboliti dallo scontro con l’opposizione laica e con l’esercito.

La causa essenziale del loro fallimento è stata l’incapacità di governare, unita alla demagogia e alla bramosia di potere. Il crollo della lira egiziana ne è stato l’indice impietoso. Vano ogni tentativo di modificare il sistema di sostegno indifferenziato al prezzo dei generi di prima necessità, dai viveri alla benzina, che continua a drenare impietosamente le riserve valutarie: le proposte di sostituirlo con interventi rivolti solo agli strati più bisognosi della popolazione si bloccavano per il timore delle proteste, dopo tutte le promesse populiste fatte in campagna elettorale.

Parallelamente, si arenava il prestito di 4,3 miliardi di dollari del Fondo Monetario internazionale; il turismo, fonte essenziale di entrate, crollava di oltre il 20%, a causa delle condizioni generali di insicurezza determinatesi; la paralisi si estendeva gradualmente a larga parte del sistema produttivo.

D’altronde il governo non sarebbe stato comunque in grado di intervenire efficacemente su quella ampia sacca di privilegio e di strutture obsolete, che ingessa larga parte dell’economia egiziana: lo impediva tra l’altro il compromesso raggiunto da Morsi nell’agosto 2012 con i “giovani ufficiali”, in cambio della destituzione della vecchia guardia guidata dal Maresciallo Tantawi. Esso garantiva il mantenimento dei più corposi privilegi economici e sociali di cui l’esercito gode e di cui non vuole certo privarsi: esso controlla direttamente oltre il 30 per cento dell’economia del paese, e fruisce di un sistema di welfare, che va dalle abitazioni, ai circoli ricreativi e sportivi, alle ville e alle case di vacanza, ad un sistema sanitario riservato, privilegi che non costituiscono solo uno status symbol, ma garantiscono un livello di vita e un potere sulla società non facilmente rinunciabili.
Fu proprio quel compromesso, tuttavia, che permise a Morsi di insediarsi nella pienezza dei suoi poteri, segnando un punto di svolta. Egli a quel punto ritenne di poter fare a meno dell’alleanza con l’opposizione di Piazza Tahir, di cui aveva avuto bisogno fino a quel momento, per contenere le pressioni delle forze armate.

I Fratelli Musulmani si avviavano così verso un approccio sempre più esclusivo nella concezione e nella gestione del potere, testimoniato dal processo di elaborazione della nuova Costituzione, che veniva formulata da una assemblea costituente a forte predominanza islamica, elaborata con un approccio non inclusivo e imposta con un contestato referendum nel dicembre 2012, malgrado le massicce e anche violente manifestazioni della opposizione.

È da quel momento, probabilmente, che comincia il riavvicinamento tra l’opposizione laica e l’esercito, memore della eredità nasseriana, e l’inizio della parabola discendente di Morsi, conclusasi con la sua deposizione.

Dopo la nomina dell’incolore giurista Adly Mansour come presidente ad interim, si parla ora di Mohamed El Baradei come del nuovo possibile premier. Si tratta di una personalità certo non forte. Ma chiunque sarà, si troverà comunque di fronte agli stessi problemi, con la disperazione di quella popolazione che è scesa in piazza in questi giorni e che sarà alimentata, e non più contenuta, dalla rabbia e dal desiderio di rivalsa dei Fratelli Musulmani e dei gruppi salafiti. E dovrà anche fare i conti con quello stesso esercito che lo avrà insediato al potere, e continuerà come sempre a presidiare il suo feudo economico e sociale. Un esercito che si è sentito nuovamente costretto a intervenire, e ora si sente più forte e determinante: probabilmente non vorrà esercitare direttamente il potere, ma difficilmente rinuncerà nuovamente a controllare e a influire pesantemente sulle scelte pubbliche e di governo. Un esercito che è parte del problema, non ne è la sua soluzione.

Janiki Cingoli

Uffingtonpost del 5/07/2013

Editoriali

La Stampa 04/07/2013

Le Primavere fra ideali e povertà



maurizio molinari

Il rovesciamento del presidente egiziano Mohammed Morsi da parte di generali e opposizione lascia intendere che il vento della Primavera araba sta cambiando direzione. Fino ad ora a prevalere, nelle urne e nelle piazze, erano stati i partiti islamici capaci di esprimere la volontà della maggioranza delle popolazioni in rivolta contro despoti ed autocrati ma al Cairo a fallire è proprio questo modello: il patto fra i Fratelli Musulmani, vincitori delle elezioni politiche, e l’esercito, custode dell’identità nazionale, non ha funzionato. Nel 2011 furono l’Emiro del Qatar, Sheikh Hamad bin Khalifa Al Thani, e il presidente turco Recep Tayyp Erdogan, a spingere l’America di Barack Obama a condividere la previsione che sarebbero stati i «partiti islamici moderati» a prevalere nelle Primavere arabe.  
 
è un approccio che ha spinto a guardare con occhio diverso, e maggiore attenzione, a partiti e fazioni fondamentaliste solo in ragione delle loro vittorie nelle urne. Ma la previsione di Al Thani ed Erdogan non si è avverata al Cairo. E questo è avvenuto non per un rifiuto ideologico dell’Islam né perché i Fratelli Musulmani hanno tentato di imporre a ritmi accelerati su una società in gran parte liberale e laica modelli culturali fondamentalisti. Il fallimento di Mohammed Morsi ha origine altrove: nell’incapacità del suo governo di dare risposte, veloci ed efficaci, alla crisi economica che sta devastando la più popolosa, antica e orgogliosa nazione del mondo arabo. Ironia della sorte vuole che un partito islamico come i Fratelli Musulmani, con la stessa vocazione per il sostegno alle fasce più povere della popolazione che accomuna Hamas a Gaza e gli Hezbollah in Libano, una volta arrivato a governare l’Egitto non sia riuscito ad evitare un aumento della povertà rispetto agli ultimi anni dell’autocrazia di Hosni Mubarak. Le esitazioni sulla trattativa con il Fondo monetario internazionale per la concessione dei prestiti, l’incapacità di evitare la fuga degli investimenti stranieri da una gestione instabile del governo, il crollo inarrestabile delle riserve valutarie, la carenza di protezione nelle strade testimoniata dalle frequenti aggressioni contro le donne e l’incapacità di impedire alle tribù beduine di spadroneggiare nel Sinai hanno trasformato i 29 mesi passati dalla caduta di Mubarak in un vortice di povertà e insicurezze che ha allontanato i turisti stranieri, polverizzato le risorse nazionali e accresciuto gli stenti di una nazione abituata a guidare il mondo arabo. E’ la desolazione delle piramidi egizie la cartina tornasole del peggioramento della crisi egiziana che ha messo in luce i gravi limiti dell’azione dei governi dei Fratelli Musulmani.  
 
Generata in Tunisia nel gennaio 2011 da proteste alimentari, continuata contro Mubarak e Gheddafi nella richiesta di migliori condizioni di vita, esplosa in Siria in opposizione allo strapotere economico della famiglia degli Assad, la Primavera araba continua a nutrirsi della necessità di milioni di famiglie arabe di emanciparsi dalla povertà e dal sottosviluppo come dell’aspirazione ad una vita migliore da parte delle nuove generazioni. L’interrogativo che resta senza risposta riguarda quali saranno i leader e le forze, politiche o religiose, arabe e musulmane, capaci di rispondere a tali istanze facendo prevalere la necessità concreta di premiare i bisogni delle famiglie sulle opposte ideologie che continuano a combattersi da Tangeri a Hormuz.

Egitto, “Morsi agli arresti domiciliari”
Il governo: in corso un golpe militare


L’Egitto precipita nel caos dopo che oggi è scaduto l’ultimatum dell’esercito al presidente. Mentre gli elicotteri militari sorvolano piazza Tahrir, la tv indipendente el Hayat ha diffuso la notizia - che, al momento, non trova ancora conferme ufficiali - secondo cui il presidente Mohamed Morsi è stato posto agli arresti domiciliari dai militari nella sede della guardia repubblicana al Cairo. Le forze di sicurezza egiziane hanno imposto il divieto di espatrio al numero uno dei Fratelli Musulmani. il suo consigliere della sicurezza nazionale ha detto che il golpe militare è iniziato e che si attende che l’esercito e la polizia ricorreranno alla violenza per deporre Morsi. Anche la polizia ha fatto sapere di essere accanto all’esercito, di sostenere la legittimità del popolo, e che proteggerà i manifestanti pacifici e non permetterà nessun sopruso.  

La resistenza disperata  
Tutto meno che la resa, e nessuna sostanziale concessione alle forze di opposizione, accusate anzi di ostruzionismo: questo in sintesi il tenore del comunicato con cui il presidente Mohamed Morsi ha cercato di giocare d’anticipo sul filo di lana rispetto alla scadenza dell’ultimatum di 48 ore, impartito l’altroieri agli ambienti politici egiziani alle Forze Armate. «La Presidenza della Repubblica», si legge nella nota, pubblicata sul proprio account FaceBook, «concepisce un governo unitario di coalizione», ma «temporaneo» e «fondato sulla partecipazione nazionale», il quale «sovrintenda alle prossime elezioni parlamentari e vigili sulla fase che si prepara». Poco dopo voci non verificate hanno iniziato a parlare di arresti domiciliari per Morsi. 
Piazze piene  
Al Cairo la situazione sembra poter precipitare da un momento all’altro. Carri armati sono stati schierati fuori dalla sede della tv statale egiziana. Il personale che non sta lavorando alle dirette è stato evacuato. Le piazze della rivolta sono stracolme. La presidenza egiziana ha postato sulla sua pagina facebook un comunicato nel quale ribadisce che «violare la legittimità costituzionale minaccia la pratica della democrazia». Morsi appare sempre più isolato. Le defezioni si susseguono con il passare delle ore. L’ultimo a lasciare è stato il governatore di Giza, che fa parte della grande Cairo: ha presentato le dimissioni in seguito ai sanguinosi incidenti avvenuti davanti all’università del Cairo, che hanno provocato 18 morti secondo l’ultimo bilancio. 
“Meglio morire”  
Per Mohamed Morsi «è meglio morire» piuttosto che «essere condannato dalla storia e dalle generazioni future»: lo ha ribadito Ayman Ali, portavoce del controverso leader islamista del quale le forze di opposizione reclamano le dimissioni. Anche gli altri attori in campo usano la retorica. Il Consiglio Supremo delle Forze Armate ha scritto su Facebook che «l’esercito giura su Dio che sacrificherà anche il proprio sangue per difendere l’Egitto e il popolo dai terroristi e dagli idioti». Insomma: se i Fratelli Musulmani sono pronti a morire per il paese insomma, i soldati non sono da meno. Nel clima di attesa e di confusione la Jamaa Islamiya, movimento integralista che sostiene Morsi, prima ha affermato, tramite uno dei suoi esponenti più noti Tarek el Zumar, di essere favorevole ad un referendum su elezioni anticipate, per smentire poco dopo in un comunicato dell’organizzazione.  
Il bilancio degli scontri  
Mentre il paese tira le somme degli scontri della notte scorsa quando dopo il discorso televisivo del presidente Morsi centinaia di suoi sostenitori sono scesi in strada per “difendere con il sangue” (come aveva appena detto Morsi) la legittimità del voto, si avvicina la scadenza dell’ultimatum militare, fissata per le 16,30 di oggi. Il bilancio è di almeno 16 morti e 200 feriti e questa volta non nel remoto sud del paese ma nella capitale, davanti all’università del Cairo, dove fino a stamattina presto si sono affrontati islamisti e forze di polizia. Il movimento Tamarod (quello che ha raccolto 22 milioni di firme contro Morsi accendendo di fatto la seconda rivoluzione egiziana) ha messo su internet una sorta di clessidra, il MorsiTimer (http://morsitimer.com/), che sostituisce simbolicamente il MorsiMeter con cui nei mesi scorsi erano state valutate le promesse disattese del presidente (solo 10 dei 64 obiettivi promessi per i primi 100 giorni di mandato sono stati rispettati). In questo momento mancano poco meno di 7 ore al big bang.  
I Fratelli Musulmani al capolinea  
I Fratelli Musulmani fanno quadrato ma sono in difficoltà serissima. Pochi minuti dopo le parole di Morsi il suo gabinetto ha postato su Twitter una sconfessione scrivendo che se ne discostava e prendeva le parti del popolo. L’ennesima defezione dal presidente dopo l’abbandono di 13 tra segretari, portavoce e ministri, in fuga dalla nave che affonda. La piazza dal canto suo, festeggia a oltranza. Comunque finisca - anche se la violenza dovesse dilagare - la percezione è che gli odiati Fratelli Musulmani sono finiti. Tra gli attivisti circola la notizia secondo cui ieri il potente businesman Kheirat al Shater avrebbe confessato ai suoi il timore che se venissero estromessi oggi dal potere i Fratelli non lo riotterrebbero più per almeno mezzo secolo. In realtà parecchi nell’opposizione afferrano bene la contraddizione del trincerarsi dietro l’esercito che, per quanto lo neghi, procede, come nel caso di Mubarak, a colpi di golpe. Un inizio non promettente per chi sogna da liberal e accetta metodi non esattamente democratici. Ma, per ora, domani è un altro giorno. 




Lorenzo Biondi 
Europa   

Egitto, il suicidio della rivoluzione

Senza un accordo tra Fratelli musulmani, militari e società civile, l'esito paradossale delle proteste sarebbe la restituzione dello scettro del potere nelle mani dell'esercito Le proteste di domenica scorsa – tre milioni di persone solo al Cairo, trenta in tutto l’Egitto, probabilmente la più grande manifestazione politica di tutti i tempi – vanno chiamate col loro nome: rivoluzione. La terza ondata, dicono i ragazzi che già erano a Tahrir un anno e mezzo fa. Il rischio, però, è che questa nuova rivoluzione non ottenga l’effetto sperato. Consegnando lo scettro alle stesse forze contro cui si erano sollevate le piazze egiziane all’inizio del 2011, quei militari che hanno guidato la repressione durante la prima e la seconda ondata.
È innegabile che il governo dei Fratelli musulmani abbia tradito molte delle speranze che aveva suscitato. Il suo principale successo, forse l’unico, è stato il ruolo di mediazione che il presidente Mohamed Morsi ha svolto durante l’ultima crisi di Gaza, nel novembre 2012, come interlocutore di Hamas e del governo israeliano. Ma in patria, si sa, sono altre le cose che contano. L’economia ristagna, e il negoziato col Fondo monetario non progredisce. La collaborazione tra le forze rivoluzionarie si è interrotta subito dopo il voto dell’estate scorsa. Un malinteso spirito “maggioritario” – winner takes all – ha spinto Morsi a ignorare qualsiasi forma di dissenso interno.
Eppure, sarebbe davvero paradossale se l’esito di questa nuova fiammata restituisse il potere nelle mani dei militari (il loro piano, scaduto l’ultimatum di oggi, sarebbe quello di sciogliere il parlamento e sospendere la costituzione). L’esperimento di democrazia islamica della Fratellanza ha rivelato i suoi limiti; l’alternativa però sembra, nella migliore delle ipotesi, una democrazia “protetta”, con l’esercito che garantisce e orienta l’esito del voto. Magari con un presidente che somiglia ad Ahmed Shafik, lo sfidante di Morsi nel 2012, ufficiale d’aviazione e ministro sotto Mubarak.
L’ipotesi dello scontro frontale, il golpe dei militari contro il «martirio» degli islamisti, rischia di far naufragare prematuramente la transizione dell’Egitto verso la democrazia. Senza un equilibrio tra le tre grandi forze del paese – l’esercito, la Fratellanza e una società civile ancora poco organizzata (ma che ha individuato un portavoce di prestigio come Mohamed ElBaradei) – il trionfo della rivoluzione finirebbe per coincidere col suo suicidio.
Paolo Manzo  
Europa  

Bachelet trionfa alle primarie in Cile. La rivincita è a un passo

L'ex "presidenta" conquista il 73 per cento dei voti nella consultazione interna alla coalizione di centrosinistra e incassa l'endorsement dei comunisti di Camila Vallejo, idolo delle proteste di piazza
Bachelet trionfa alle primarie in Cile. La rivincita è a un passoHa stravinto con oltre il 73 per cento dei voti la prima battaglia, quella delle primarie dell’ex Concertación che oggi si chiama Nueva Mayoría e adesso Michelle Bachelet è già in pole position per vincere la “guerra” delle presidenziali, in programma il prossimo 17 di novembre. Cambia il nome della coalizione di centro-sinistra ma anche la sostanza visto che questa volta, a differenza di quattro anni fa, il candidato sarà socialista, la Bachelet appunto, e non un democristiano “debole” come Eduardo Frei. Inoltre non ci sarà nessuna sorpresa da sinistra come fu nel 2009 Marco Enríquez-Ominami, il socialista ribelle che si assicurò il 20 per cento dei voti, togliendoli alla Concertación ed assicurando la vittoria al destrorso Sebastián Piñera.
Certo, l’ex socialista Ominami sarà presente con il suo Partito Progressista e si candiderà, senza speranza alcuna, alla Moneda ma questa volta la dispersione di voti a sinistra sarà evitata. La vera incognita “a sinistra”, infatti, l’universitaria 25enne geografa comunista Camila Vallejo, dopo un po’ di suspence, alla fine ha fatto sapere che appoggerà Michelle. E lo farà senza se e senza ma. Anche perché quest’ultima, dopo avere inserito nel programma drastiche modifiche di un sistema educativo che si regge ancora su norme dell’epoca della dittatura di Pinochet, ha ottenuto il pieno appoggio sia del movimento guidato da Camila che del Partito comunista cileno. Una novità assoluta nel panorama politico cileno.
«L’educazione sarà un diritto sociale e non un bene di consumo», ha detto la Bachelet più volte nelle ultime settimane, parole che sono state un miele per le orecchie della Vallejo. Solo per questo questo la bella Camila, che in precedenza aveva detto «non appoggerò mai la Bachelet» ha cambiato la sua posizione, appoggiata in questo dal movimento studentesco di cui è la leader più carismatica.
Proprio per questa capacità d’inglobare gran parte del voto giovanile di protesta – che sarà decisivo per vincere il prossimo 17 novembre – oltre ad Ominami e agli altri candidati “minori”, Michelle Bachelet non dovrebbe avere soverchi problemi a farsi eleggere per la seconda volta in meno di 10 anni alla presidenza del Cile. Il suo principale avversario sarà l’ex ministro dell’Economia di Piñera, Pablo Longueira ma, dopo quattro anni di presidenza Piñera e con un gradimento crollato sotto il 30 per cento dopo il “boom” momentaneo guadagnato grazie alla visibilità offertagli dal salvataggio cinematografico dei 33 minatori di San José, la destra è oggi in enorme difficoltà.
Fallito il tentativo di incolpare la Bachelet per i ritardi nei soccorsi dopo il terribile terremoto del 27 febbraio 2010, non pervenuto il tentativo (ammesso che ci sia mai stato) di dialogare con gli studenti, scesi in sciopero i minatori scontenti per la scarsa sicurezza e aumenti salariali mai arrivati, a meno di cataclismi oggi non all’orizzonte Michelle Bachelet dovrebbe sconfiggere facilmente Longueira a novembre. Anche perché il candidato dell’Udi, l’Unione democratica indipendente, oltre ad essere un pinochettista della prima ora, non sembra possedere né il carisma né le idee della sua rivale.
La cui sfida principale sarà, una volta eletta, la riforma di quella costituzione di Pinochet che promulgata nel 1980, ancora oggi regge e regola la vita, politica e sociale, dei cileni. Anche e soprattutto per fare questa riforma storica il partito comunista appoggia in toto Michelle Bachelet. Resta da vedere se la candidata di Nueva Mayoría riuscirà a vincere la sfida più difficile per lei, che non è tornare alla Moneda ma riformare una Carta Magna “figlia” della dittatura.

Medio Oriente, l’Onu accusa Israele: “Minori palestinesi detenuti torturati”

Il comitato per la difesa dei diritti dei bambini: "Violenze e maltrattamenti. Totale impunità dei soldati riconosciuti responsabili". Il ministero degli Esteri di Tel Aviv: "Dossier stilato con fonti secondarie e non verificate"

di Luca Pisapia
Il Fatto Quotidiano  2 luglio 2013
Medio Oriente, l’Onu accusa Israele: “Minori palestinesi detenuti torturati”


In un rapporto del 14 giugno il Comitato dell’Onu per la difesa dei diritti dei bambini accusa lo stato di Israele di violenze e torture sistematiche nei confronti dei minori palestinesi detenuti, usati anche come scudi umani. Il portavoce del ministero degli Esteri israeliano Ygal Palmor ha risposto che questo dossier è stato stilato “attraverso fonti secondarie, non verificate, e che non c’è stata richiesta di collaborazione”, citando poi il Rapporto dell’Unicef del marzo scorso come esempio di correttezza. Eppure, le conclusioni dell’Unicef, che ha scritto di “maltrattamenti, diffusi, sistematici e istituzionalizzati” ai danni dei minori palestinesi sono molto simili a quelle dell’Onu. E i numeri pure: si parla di almeno 7mila minori palestinesi (tra i 12 e i 17 anni, ma qualcuno anche di 9 anni) arrestati da Israele negli ultimi 10 anni.
Nel rapporto l’Onu esprime “profonda preoccupazione circa i maltrattamenti e le torture ai bambini palestinesi arrestati, processati e detenuti da parte della polizia e dei militari israeliani”. E descrive una vera e propria odissea della violenza. Innanzitutto i minori, spesso fermati nei territori occupati con l’accusa di aver lanciato pietre contro i soldati israeliani o i coloni, rischiano pene fino a 20 anni di carcere. I minori arrestati sono circa 2 al giorno e, una volta fermati, “sono ammanettati in maniera violenta e sono loro bendati gli occhi, poi vengono trasferiti in luoghi sconosciuti a genitori e parenti” scrive l’Onu. E a quel punto “le accuse nei loro confronti sono lette in ebraico, una lingua che ovviamente non conoscono, e sono loro fatte firmare confessioni scritte, anche queste in ebraico”, senza rispettare la Convenzione dei diritti del fanciullo, che Israele stesso ha ratificato nel 1991.
“Metodi violenti che sono perpetrati dal momento stesso dell’arresto, passando per la fase del trasferimento e gli interrogatori – continua l’Onu – con lo scopo di ottenere una confessione, anche in maniera del tutto arbitraria”, aggiungendo che ad ammetterlo sono stati diversi soldati israeliani. Secondo il rapporto, che utilizza i numeri del rapporto dell’Unicef del marzo scorso, oggi si trovano nei centri di detenzione militare 236 minori palestinesi: 44 dei quali con meno di 16 anni. Oltre a minacce di morte, sia nei loro confronti che di specifici membri dello loro famiglie, questi minori sono anche oggetto di “umiliazioni, come l’impedire di andare in bagno per lunghi periodi”, e di “prolungate deprivazioni di cibo e di acqua”. Poi il resoconto dell’Onu si fa scioccante quando, a proposito di ragazzini e ragazzine spesso non ancora adolescenti, è scritto che “subiscono sistematiche violenze fisiche, verbali e anche sessuali”.
Più in generale, il rapporto dice che ai bambini palestinesi nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania è negata la registrazione dell’atto di nascita, l’accesso al sistema giudiziario, a scuole decenti, e anche l’accesso all’acqua potabile. Un altro aspetto sottolineato dall’Onu è la totale impunità dei soldati israeliani riconosciuti responsabili comportamenti violenti nei confronti dei minori. Alcuni militari israeliani che sono stati ritenuti colpevoli di avere utilizzato un bambino di 9 anni per fargli aprire una valigetta, che sospettavano contenesse esplosivo, sono stati sospesi solo per tre mesi. Mentre non avrebbero ricevuto alcuna punizione molti dei soldati che utilizzano bambini come scudi umani, o legandoli sui carri armati dell’esercito, o per entrare in edifici potenzialmente pericolosi: di questi, 14 casi sono stati segnalati solo tra gennaio 2010 e marzo 2013.

La Stampa 01/07/2013
il paese ripiomba nell’incubo del febbraio 2011

L’ultimatum dell’esercito a Morsi
“48 ore per dare risposte al popolo”


AP
Gli egiziani sono tornati a protestare in piazza Tahrir


L’esercito scarica il presidente.
Obama: “Aiuti solo se cessa la violenza”. Gli attivisti chiedono elezioni anticipate. Arrestate
15 guardie del corpo del numero
due della Fratellanza musulmana


Le forze armate danno 48 ore a tutte le forze politiche per rispondere alla richieste del popolo. In caso contrario saranno obbligate a presentare una road map la cui applicazione sarà controllata «direttamente». Un immenso boato da piazza Tahrir ha accolto la lettura del comunicato diramato alla tv di stato egiziana dopo la riunione del consiglio supremo militare egiziano presieduto dal ministro della Difesa e comandate delle forze armate Abdel Fattah el Sissi. «Il popolo vuole la caduta del regime», è il grido che si è levato nel luogo-simbolo della protesta.  
In una dichiarazione letta alla televisione di stato, il comando generale dell’esercito ha ribadito la richiesta che le “domande della popolazione sianno soddisfatte” e ha concesso (a tutti i partiti) «due giorni di tempo, come ultima possibilità, per assumersi la responsabilità delle circostanze storiche che il Paese sta vivendo». Quella che finora è stata una calma tesa ha fatto salire il livello di preoccupazione anche all’estero. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha rivolto un appello «a tutte le parti» affinché diano «prova di moderazione». Poi ha precisato che gli aiuti all’Egitto arriveranno solo se sarà rispettata la legge, se il governo ascolterà l’opposizione e se non sarà usata la violenza.


TORNA LA TENSIONE
L'Egitto si infiamma ancora, folla oceanica
contro il presidente Morsi. Lui: «Non vado via»
Piazza Tahrir cuore della manifestazione per chiedere le dimissioni del presidente egiziano. Nel Paese scontri da giorni


Un manifestante a piazza Tahrir (Afp/Guercia)
Oramai una c'è una folla oceanica a piazza Tahrir al Cairo, dove decine di migliaia di persone hanno raggiunto le migliaia di altri che vi hanno trascorso la notte in vista della grande manifestazione organizzata dal movimento popolare Tmarod (ribelle) per chiedere le dimissioni del presidente Mohammed Morsi, sventolando il cartellino rosso, simbolo della necessità di cacciare il capo dello Stato. Altri manifestanti si preparano a marciare verso il palazzo presidenziale. I sostenitori di Morsi, esponente dei Fratelli Musulmani, sono invece riuniti da sabato sera davanti ad una grande moschea nella parte orientale della capitale egiziana. La manifestazione di oggi, nel primo anniversario delle elezione di Morsi, rappresenta il culmine di una campagna di opinione che è andata crescendo negli ultimi giorni, con scontri che hanno già causato sette morti (e in cui è stato ucciso un ragazzo americano). P
roteste anti-Morsi sono già cominciate anche ad Alessandria, nelle città del delta del Nilo (Menuf, Mahalla), in quelle sul Canale di Suez, a Port Said, e anche nella città natale di Morsi, Zagazig. La polizia e i soldati sono schierati vicino ai principali edifici e il ministero della Sanità ha preannunciato che gli ospedali sono in allerta. Fonti della sicurezza hanno reso noto inoltre che in tutto il Paese sono state fermate 413 persone armate che volevano infiltrarsi nelle manifestazioni. Al grido di «Morsi, vattene», in vari punti del Cairo sono partite le marce dirette a piazza Tahrir e al palazzo presidenziale. Nella capitale intanto è salito a 46 il numero delle persone armate arrestate. Terminata la giornata lavorativa e affievolita la calura, è andato via via aumentando il numero di egiziani nelle strade di tutto il Paese: gli organizzatori - che considerano la giornata un momento decisivo per le sorti del Paese- sperano che, entro la serata siano milioni le persone nelle strade. Intanto Morsi si mostra per nulla intimidito: «Ci possono essere dimostrazioni ma non si può mettere in discussione la legittimità costituzionale di un presidente eletto», ha detto il presidente egiziano in una lunga intervista al quotidiano britannico The Guardian, una delle rare concesse a un media straniero.
IL PRESIDENTE ACCUSA L'ANCIEN REGIME - «Se cambiassimo qualcuno eletto secondo la legittimità costituzionale, ci sarà qualcuno che si opporrà anche al nuovo presidente e una settimana o un mese dopo chiederanno anche a lui di dimettersi», ha detto il primo presidente dei Fratelli musulmani al Guardian. «Non c'è spazio di discussione su questo punto. Ci possono essere manifestazioni e le persone possono esprime la loro opinione ma il punto cruciale è l'applicazione della Costituzione», ha insistito. Morsi ha quindi accusato «i resti dell'ancien regime» per le violenze dei giorni scorsi, che hanno preso di mira sedi della Fratellanza. «Hanno i mezzi, che hanno ottenuto con la corruzione e li usano per pagare teppisti e così scoppia la violenza». «È stato un anno difficile, molto difficile e penso che gli anni a venire lo saranno ancora, ma spero di fare sempre il mio meglio per soddisfare i bisogni del popolo egiziano», ha concluso Morsi.                   
22 MILIONI DI FIRME - Gli organizzatori di Tamarod hanno annunciato di aver raccolto 22 milioni di firme per la destituzione di Morsi, otto milioni in più dei voti ottenuti dal presidente al voto dello scorso anno. «Sentiamo di aver raggiunto un'impasse, con il Paese che sta crollando. Questo non perché il presidente appartenga alla Fratellanza Musulmana, o perché sia una sola fazione a governare, quanto perché il regime è stato un completo fallimento», ha sintetizzato Mohammed el Baradei, uno dei leader dell'opposizione, in un messaggio video diffuso nella notte. «La gente ha votato per Morsi, ma ora dice di voler tornare alle urne», ha aggiunto l'ex capo dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (Aiea), esortando gli egiziani a scendere in strada per protestare.





Editoriali
La Stampa 30/06/2013

Perché Putin lancia la sfida a Obama

roberto toscano
La lunga sosta nell’area di transito di Sheremetyevo di Edward Snowden – responsabile delle clamorose rivelazioni del “Datagate” - ha palesemente esasperato Washington, già irritata per la sospettata complicità di Pechino con la mancata risposta delle autorità di Hong Kong alla richiesta di estradizione di quello che per il governo americano è oggi un traditore da catturare e giudicare.  
 
Il superamento della Guerra Fredda, per gli americani uno storico successo da preservare, viene oggi messo in dubbio da tutta una serie di episodi che fanno emergere un atteggiamento di aperta e spesso aggressiva sfida russa alla politica e agli interessi degli Stati Uniti. 
Mosca continua ad appoggiare e rifornire di armi Assad, collabora solo parzialmente con le sanzioni occidentali all’Iran, continua ad opporsi con molta intransigenza ai piani americani per lo schieramento di un sistema antimissile in Europa, ha bloccato, dopo denunce di maltrattamenti ai minori, le adozioni di bambini russi da parte di coppie americane. E non mancano le polemiche a livello politico-ideologico, con aspre critiche di Putin e di alti esponenti governativi alla pretesa americana di giudicare la politica interna russa e in particolare di fornire sostegno a Ong indipendenti, oggi obbligate da nuove disposizioni di legge a registrarsi come «agenti stranieri». 
No, la Guerra Fredda non sta ritornando. Mancano alcuni presupposti fondamentali: la contrapposizione di due ideologie globali; la forza militare dell’Unione Sovietica; la sua proiezione a livello mondiale ivi inclusa la capacità di stabilire alleanze «anti-imperialiste» con i rivoluzionari dei Paesi in via di sviluppo.  
Eppure quello che sta accadendo è importante, significativo e certo non superficiale. Dietro alle odierne contrapposizioni e polemiche vi sono fattori profondi che hanno a che vedere tanto con la politica interna russa che con le relazioni internazionali. Sono fattori che hanno preso corpo fin dalla prima fase della Russia post-sovietica, di quel periodo che in un diffuso sentire popolare sono gli umilianti anni di Eltsin: un periodo caratterizzato non solo dal virtuale collasso delle strutture dello Stato (con pesanti fenomeni di caos economico, miseria diffusa e insicurezza per i cittadini) ma anche dalla accettazione di una storica sconfitta, con il corollario di un passivo riconoscimento dell’egemonia americana. Mi colpì, nei colloqui che ebbi a Mosca nel 2000 con esperti di politica internazionale, il tono esasperato, quasi rabbioso, con cui – parlando di quel periodo umiliante – mi si ripeteva: «mai più». 
Alla fine degli Anni 90 Vladimir Putin si è proposto, ed è stato accettato da un’ampia maggioranza dei cittadini, come il dirigente capace di riaffermare ordine interno e dignità internazionale attraverso un progetto politico che vede queste due dimensioni come profondamente legate. L’autodefinizione usata dagli ideologi del «putinismo», democrazia sovrana, appare al riguardo molto significativa nella misura in cui lega in modo originale (e inquietante per chi ha a cuore il pluralismo e teme il nazionalismo autoritario) assetto politico interno e proiezione internazionale. Sovranità dello Stato-nazione nel mondo, ma anche del Potere nel Paese.  
Nell’ultimo secolo non sono certo mancati in Russia profondi rivolgimenti: dallo zarismo al comunismo alla democrazia pluripartitica; dalla rivoluzione del 1917 alla fine dello Stato, e del sistema, sovietico nel 1991. Ma la continuità nel modo di concepire il potere è piuttosto impressionante e si vede oggi, ad esempio, come il problema del rispetto dei diritti umani in Russia non dipendesse esclusivamente dal comunismo. 
Putin ha dato certamente priorità all’ordine interno – fra l’altro «spezzando le reni» agli oligarchi non allineati – ma nello stesso tempo deve costantemente dimostrare che, anche dopo la fine del bipolarismo Usa/Urss, la Russia conta, la Russia deve essere ascoltata, la Russia deve essere rispettata. Visto che non è probabile che l’America riconosca la Russia come interlocutore paritario, allora creare problemi all’America è il modo più efficace per ottenere comunque il riconoscimento di uno status non secondario. 
Tutto ciò ha anche una valenza di politica interna, nella misura in cui l’affermazione della «diversità russa» anche dopo l’allineamento con il capitalismo permette di mantenere un’orgogliosa rivendicazione di identità fatta di tradizione, compresa quella religiosa. Vedere in televisione Vladimir Putin con una candela in mano in occasione della celebrazione della Pasqua ortodossa dà la misura dell’importanza di questa componente. E va aggiunto che anche per chi non ha rimpianti per la fine del comunismo la fine dell’Urss, grande potenza avversaria e interlocutrice dell’America, ha lasciato la bocca amara a molti cittadini russi. Questo spiega sia la per noi incomprensibile impopolarità di Gorbaciov sia un antiamericanismo diffuso, e non solo di regime.  
Chi scrive ha trascorso a Mosca, negli Anni 70, quattro anni – anni in cui quello che colpiva era la straordinaria popolarità dell’America presso la gente comune. I primi due appartamenti sovietici dove sono entrato, quello di uno studente e quello di un’anziana babysitter, avevano ciascuna una sola immagine sulla parete: lo studente aveva una foto di Ernest Hemingway e la babysitter la copertina di una rivista americana con l’immagine di John Kennedy. Non aspettiamoci oggi di trovare nelle case russe ritratti di personalità americane.. 
Non sarà certo facile per Washington affrontare il «problema Russia». Lo potrà fare soltanto con una sua inclusione, nella questione siriana ma non solo, e un suo riconoscimento non certo incondizionali ed indulgenti verso le derive autoritarie, ma sì rispettosi di un Paese e un popolo che – indipendentemente dalla natura del regime e dei suoi vertici – non possono rassegnarsi alla marginalità. 
La Guerra Fredda non tornerà, ma a patto di evitare profezie catastrofiste, che tendono ad autorealizzarsi, e le pretese ormai oggettivamente insostenibili di egemonia unilaterale. 












Egitto

La piazza chiede le dimissioni di Morsi

INTERNAZIONALE  28 giugno 2013


Una manifestazione contro il presidente Morsi al Cairo, il 30 marzo 2013. (Mohamed Abd el Ghany, Reuters/Contrasto)
In Egitto è sempre più alta la tensione tra il governo e le forze d’opposizione, che hanno organizzato una grande manifestazione per domenica 30 giugno, per chiedere le elezioni anticipate e le dimissioni del presidente Mohamed Morsi.
L’esercito ha avvertito che potrebbe intervenire se scoppieranno violenze. Il governo è sotto accusa anche per l’uccisione di quattro sciiti il 23 giugno a Giza, attaccati da una folla di migliaia di persone.
Il governo ha contribuito ad alimentare le tensioni, fa notare Egypt Independent. Scegliendo di non rispondere alle richieste dei manifestanti, ha versato benzina sul fuoco. Ma la situazione attuale è anche frutto delle decisioni sbagliate del passato. Un esempio tra tutti, il decreto costituzionale del 21 novembre 2012 del presidente Morsi, con il quale voleva rafforzare i suoi poteri sottraendosi al controllo del potere giudiziario.
L’opposizione però, aggiunge Egypt Independent, non è in grado di presentare una valida alternativa al governo dei Fratelli musulmani e continua a fare leva sull’indignazione popolare invece di proporre riforme.
Un paese spaccato. Gli egiziani sono divisi e la maggioranza non è soddisfatta del governo di Mohamed Morsi, ma allo stesso tempo non ha fiducia nell’opposizione. Lo rivela un sondaggio dell’istituto statunitense Zogby, scrive l’agenzia Inter Press Service.
L’indagine è stata condotta tra più di cinquemila egiziani, tra aprile e maggio del 2013. Solo il 30 per cento degli intervistati ha detto di aver fiducia nei due principali partiti islamici, quello dei Fratelli musulmani e il partito salafita Al Nur.







Egitto, incendiata sede Fratelli Musulmani.
Quattro morti, uno è cittadino americano













Scontri per tutta la giornata nella seconda città del Paese e in altri centri. Una delle vittime è un insegnante statunitense. L'opposizione ha indetto per domenica una manifestazione per chiedere elezioni anticipate e le dimissioni di Morsi

IL CAIRO - E' alta la tensione in Egitto, dove oggi si sono registrate manifestazioni e scontri tra oppositori e sostenitori del presidente egiziano Mohammed Morsi in diverse località del Paese. La situazione è particolarmente critica ad Alessandria, dove tre persone sono morte e oltre 140 sono rimaste ferite: una delle vittime è un insegnante americano, rendono noto fonti mediche e della sicurezza, morto per una coltellata al petto. Si tratterebbe di Andrew Victor, 21 anni, che lavorava per il Centro culturale Usa nella città egiziana e stava facendo delle riprese video. Nel quartiere di Sidi Gaber la sede dei Fratelli musulmani è stata data alle fiamme.

In occasione della festività settimanale del venerdì, molte migliaia di persone sono tornate in strada per dimostrare rispettivamente contro oppure a favore del presidente. Si sono registrate manifestazioni anche a Il Cairo e incidenti in diverse città del Delta del Nilo.

La tensione è stata ulteriormente inasprita dall'uccisione, la notte scorsa, di un altro sostenitore di Morsi, il quinto nell'arco di meno di una settimana secondo i Fratelli Musulmani, cui fa riferimento lo stesso capo dello Stato. Ad Alessandria, seconda città del Paese, almeno 36 dimostranti sono rimasti feriti nei tumulti tra fazioni avverse, che hanno visto coinvolte anche le forze di sicurezza.

L'opposizione laica e secolarista ha organizzato per domenica una manifestazione con l'intento di reclamare elezioni anticipate e costringere Morsi a dimettersi. La situazione è diventata talmente grave
che persino l'autorevole Università di al-Azhar, forse il più importante centro d'insegnamento religioso al mondo dell'Islam sunnita, ha messo da parte la tradizionale equidistanza e l'imparzialità tra schieramenti politici per incitare alla calma l'intera popolazione egiziana. "E' necessaria la massima vigilanza onde garantire che noi non si scivoli nella guerra civile", avverte l'istituzione in un comunicato, rilanciato dai principali mass media principali.














Il Sudafrica che sogna un Mandela eterno
per continuare a vivere unito e in pace
Il Sudafrica che sogna un Mandela eterno  per continuare a vivere unito e in pace

Le grandi contraddizioni di un Paese tenuto insieme da un incantesimo, quello che la figura di Madiba getta intorno a sé, e che teme che la sua scomparsa distrugga definitivamente il patto sociale che ha tenuto insieme ricchezza e povertà estreme. Cnn e Cbs: "Viene tenuto in vita artificialmente"

dal nostro inviato PIETRO VERONESE
JOHANNESBURG -  A vedere le cose da Sandton, lussuosa zona residenziale e commerciale a nord di Johannesburg, Nelson Mandela è già morto. Secondo grandi network come Cnn e Cbs, viene tenuto in vita artificialmente. Il presidente Zuma ha annullato il viaggio in Mozambico.

A Sandton Madiba, come tutti lo chiamano con affetto qui, è irrigidito in un monumento di dimensioni e stile nordcoreani, anche se offerto in segno d'amicizia dalla Svezia. Sorride da sei metri d'altezza in uniforme da ergastolano, in mezzo a un concentrato di boutique esclusive, di gioiellerie e negozi di hi-tech, insomma del più scintillante shopping mall che l'Africa si possa concedere.

Il Sudafrica che sogna un Mandela eterno  per continuare a vivere unito e in pacePoco lontano, alle sue spalle, c'è il nuovo edificio della Borsa, costruito nel 2000; a un chilometro e mezzo di distanza in linea d'aria, ma dalla parte opposta, seminascosto in un grande avvallamento, l'agglomerato di baracche di Alexandra, uno dei più poveri della vastissima area metropolitana di Johannesburg. Non c'è forse luogo in tutto il Sudafrica che meglio illustri il patto sociale proposto dal ventennio di governo dell'African National Congress: si arricchisca chi può, all'ombra benedicente di un Mandela ridotto a un'icona ai cui piedi si combinano affari miliardari.

Il patto sociale oggi si sta sgretolando: si sono arricchiti in troppo pochi. A Sandton ci sono le concessionarie dell'Aston Martin e della MacLaren; ad Alexandra ci sono sempre le baracche. E Nelson Mandela, a 95 anni quasi compiuti, sta combattendo la sua ultima battaglia nel Mediclinic Heart Hospital di Pretoria, un ricovero che dura dall'8 giugno, con i bollettini che negli ultimi quattro giorni sono passati da "grave ma stabile" a "in condizioni critiche".


È una miscela che impasta e fa lievitare lo scontento collettivo. Se ne annuncia una manifestazione plateale per dopodomani, quando Barack Obama sbarcherà in Sudafrica per una visita di Stato di tre giorni e sarà accolto da una marcia contro l'ambasciata americana a Pretoria, al grido di "NObama!". Il principale organizzatore è la potente confederazione sindacale Cosatu, oltre due milioni di iscritti, alleata del partito di governo; accanto alla Cosatu il Partito comunista, anch'esso alleato dell'African National Congress, con dei ministri nel gabinetto presieduto dal presidente Jacob Zuma.

Obama sarà dunque al tempo stesso ospite di Stato e bersaglio della protesta orchestrata da forze legate a doppio filo al governo. Un goffo tentativo di  spostare la colpa delle promesse economiche non mantenute dall'inefficacia della politica governativa all'"imperialismo" dell'economia globalizzata.
















È questa coincidenza - il rinnovarsi di segnali allarmanti sull'umore profondo del Paese e l'ineluttabile allontanarsi di Mandela dalla vita - che può forse spiegare l'atteggiamento contraddittorio dei sudafricani."Lasciamolo andare", è giusto così, dicono in tanti; ma poi esprimono voti per il suo "pronto ristabilimento". "Guarisci, tata", scrivono in molti chiamandolo "papà" sui bigliettini che lasciano davanti all'ospedale o alla sua casa vuota di Johannesburg. Anche se è sempre più chiaro a tutti che la guarigione dai suoi malanni polmonari e dalle ricorrenti crisi respiratorie non ci sarà.

"Mi rattrista molto che non lo si voglia lasciare riposare", ha detto a Repubblica Mamphela Ramphele, in questi giorni la donna più in vista del Sudafrica, che fu la compagna di Steve Biko, martire della lotta anti-apartheid, e oggi a 65 anni, dopo una luminosa carriera accademica e alla Banca Mondiale, ha deciso di fondare un nuovo partito per combattere "la corruzione, il nepotismo e il clientelismo" di cui accusa l'African National Congress. "Ha dato al Paese tutto quello che poteva dare. Ci stiamo comportando come dei figli avidi, che non vogliono lasciar riposare il padre".

L'invito a "lasciar andare" Mandela è stato formulato, fin dall'indomani di questo suo ultimo ricovero, da un suo vecchio amico e compagno di lotta e di prigionia, Andrew Mlangeni, 86 anni. La sua intervista fece la prima pagina del Sunday Times sudafricano ed è stata poi più volte citata. La questione non è affatto banale, perché - come ha spiegato molto bene la giornalista della Bbc Pumza Fihlani - questa decisione morale è profondamente radicata nella cultura tradizionale. "Siyakukhulula tata", "ti lasciamo andare, padre", è la formula in lingua xhosa con la quale si sciolgono gli anziani ammalati dai loro vincoli terreni. Una specie di permesso di morire, una liberatoria con la quale i vivi assolvono il morente dai suoi residui obblighi. Una frase che nessuno osa ancora pronunciare per il vecchio, sofferente Madiba.














Makawize Mandela, figlia dell'ex presidente sudafricano e della prima moglie Evelyn, parla delle condizioni del padre con la Cnn. ''Qualcuno dice che dovremmo lasciarlo andare, ma nella nostra cultura, la cultura Tembu che conosco, non si lascia andare qualcuno a meno che non sia la persona a chiederlo. E questo Mandela non lo ha fatto. Solo Dio conosce la fine''. Le condizioni di salute del Premio Nobel si sono aggravate nelle ultime ore. Mandela è ricoverato in un ospedale di Pretoria da 16 giorni per la recrudescenza di una grave infezione polmonare

Per questo l'arcivescovo emerito Desmond Tutu ha scritto di essere "preoccupato perché non ci stiamo preparando, come nazione, per quando accadrà l'inevitabile". Per questo ancora due giorni fa l'onnipotente ministro della Pianificazione Trevor Manuel si è sentito in dovere di rassicurare gli investitori internazionali e le Borse che "non c'è da preoccuparsi per quando Mandela non ci sarà più".


Il Sudafrica non appare ancora pronto a "lasciarlo andare". Anche se è un uomo di 95 anni, sfinito da una vita meravigliosa, difficile, enorme, che già da 15 anni è lontano da ogni impegno pubblico, fuori da tutto. Eppure il suo incantesimo è vivo; ed è come se i sudafricani temessero che, scomparso lui, svanisca anche l'incantesimo che contro ogni profezia di sventura ha tenuto il loro Paese unito e prospero fino ad oggi.
















Bosnia-Erzegovina: La primavera di Sarajevo

Internazionale 20 giugno 2013
Luca Bonacini


Il caso della bimba che non ha potuto essere curata all’estero per un problema giuridico ha fatto nascere un movimento civile che supera le divisioni etniche. Per il paese potrebbe aprirsi una nuova stagione.
La pressione dal basso e la volontà politica dall'alto: forse questa è la soluzione per quadrare del cerchio bosniaco. Il movimento di protesta civile che si è diffuso di recente in Bosnia-Erzegovina, associato a un'evoluzione positiva della situazione nella regione, potrebbe provocare dei cambiamenti determinanti nel paesi più complesso dell'ex Jugoslavia [la Bosnia-Erzegovina è organizzata sul principio della distinzione etnica ed è composta dalla Federazione croato-musulmana e dalla Repubblica serba di Bosnia].
All'inizio di giugno alcune centinaia di cittadini di Sarajevo sono scesi in piazza per esprimere il loro malcontento nei confronti di un'aberrazione prodotta dagli accordi di Dayton [che nel 1995 hanno messo fine alla guerra con la divisione etnica della Bosnia-Erzegovina]. Il caso di una neonata malata è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Infatti la piccola Belmina Ibrisević non ha potuto andare a farsi curare in Germania perché i politici del paese non sono riusciti a mettersi d'accordo sul numero di identificazione nazionale. In assenza di questo numero non è stato possibile consegnare il passaporto.
Dal 12 febbraio nessun neonato ha potuto ottenere un numero di immatricolazione amministrativo. In segno di protesta i cittadini si sono raccolti davanti al parlamento del governo centrale e lo hanno circondato. In questo modo sono riusciti a obbligare i loro rappresentanti a consegnare il passaporto alla bambina malata attraverso una procedura d'urgenza. Ormai a Sarajevo si parla di "Beboluzione" (la rivolta dei bebè). Dall'11 giugno decine di migliaia di persone hanno bloccato il traffico a Sarajevo per chiedere la soluzione del problema dei numeri di identificazione e più in generale un'apertura del paese all'Europa.
Nonostante il divieto di manifestare, a Banja Luka [la capitale della Repubblica serba di Bosnia] sono stati gli studenti universitari a scendere in piazza per difendere i loro diritti. Gli studenti hanno protestato anche a Mostar. In un paese profondamente diviso dal punto di vista etnico, sta nascendo un movimento civico. Nel frattempo si assiste a dei cambiamenti storici tra i vicini della Bosnia-Erzegovina: la Croazia è sul punto di aderire all'Unione europea [il 1° luglio sarà membro dell'Ue], mentre i serbi rinunciano al progetto della Grande Serbia. I nazionalisti di Belgrado hanno fatto un enorme passo in avanti firmando lo storico accordo sulla normalizzazione del Kosovo.

Vatican Insaider 21/06/2013 

Brasile, la Chiesa abbraccia la protesta

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BRASILE. Le manifestazioni di piazza contro i tagli
BRASILE. Le manifestazioni di piazza contro i tagli

La nota dei vescovi: "Solidarietà ai manifestanti, ma condanna di qualunque violenza"


GIACOMO GALEAZZI
CITTA' DEL VATICANO



La Chiesa brasiliana condivide le proteste di piazza. I vescovi del paese latino americano, in una nota pubblicata ieri, si sono espressi con queste parole: "Dichiariamo la nostra solidarietà e sostegno alle manifestazioni, quando pacifiche, che hanno portato per le strade la gente di tutte le età, soprattutto giovani. Si tratta di un fenomeno che coinvolge il popolo brasiliano e risveglia una nuova coscienza. Richiede attenzione e comprensione per identificare i loro valori e confini, sempre con l'obiettivo di costruire la società giusta e fraterna che desideriamo".Per i vescovi si tratta di manifestazioni giuste, nate spontaneamente, soprattutto fra i giovani e sostenute dalla rete. E’ una reazione di risveglio di fronte a problemi non risolti e non affrontati, come "la corruzione, l'impunità e la mancanza di trasparenza".
Il messaggio dei prelati conferma la posizione della chiesa: No alla violenza! No alle manifestazioni e proteste violente e no alla violenza contro i manifestanti e contro i giovani.
L’invito della Conferenza Episcopale si rivolge a tutti perché “la soluzione dei problemi del popolo brasiliano è possibile solo con la partecipazione di tutti”. “Tutti, anche nella protesta, devono rispettare l'ordine, il bene comune, i beni di tutti e la pace, ma il grido del popolo deve essere ascoltato!”, conclude la nota
 In particolare secondo il vescovo ausiliare di Belo Horizonte Joaquim Mol, presidente della Commissione episcopale per l’educazione e la cultura “occorre identificare i valori evangelici sottostanti le manifestazioni ed esplicitarli nel loro aspetto propulsivo per un mondo migliore”.
 João Carlos Petrini, vescovo di Camaçari e presidente della commissione Vita e Famiglia sostiene che le manifestazioni “aprono la strada ai nuovi evangelizzatori” poiché evidenziano le speranze di cambiamento che trovano la loro risposta in Gesù Cristo.
 Luiz Majella Delgado, vescovo di Jataí e presidente della regione Centro Ovest, insiste affinché la parola della Chiesa arrivi alle parrocchie e alle comunità nelle messe di fine settimana.
 Intanto la vittoria contro i rincari delle tariffe dei trasporti pubblici non ferma gli indignados brasiliani. Una doppia vittoria per i manifestanti scesi nuovamente in strada per far sentire la propria voce anche contro le faraoniche spese per le opere dei Mondiali di calcio del 2014 e gli altri grandi eventi sportivi che hanno tolto risorse vitali a settori storicamente arretrati come sanità, istruzione e trasporti. Se è vero che la prima vittoria degli indignados brasiliani è stata forse la più piccola, essa ha certamente un altissimo valore simbolico. In un Paese dove il popolo non scendeva in strada dalla fine della dittatura, nel 1985, e dall'impeachment del presidente Fernando Collor de Mello, nel 1992, quei 20 centesimi - come si leggeva in un cartello esposto dai manifestanti nel primi giorni delle proteste - "sono come gli alberi del Gezi Park di Istanbul".
 Il Movimento Passe Livre, che si batte per l'abolizione del biglietto sui mezzi pubblici, ha convocato attraverso i social network nuove manifestazioni di piazza in una ottantina di grandi e piccole città del gigante sudamericano alle quali hanno già aderito su Facebook oltre un milione di persone. Il malcontento dei brasiliani non si placa dunque, come era prevedibile, solo con la riduzione di 20 centesimi del biglietto di bus, metro e treni nelle grandi metropoli come San Paolo e Rio de Janeiro, e in decine di altre città minori, che hanno risposto prontamente all'appello lanciato dalla presidente Dilma Rousseff ad «ascoltare la voce della protesta».
Appello lanciato dopo le imponenti manifestazioni di lunedì scorso che hanno visto l'occupazione simbolica del parlamento nazionale a Brasilia e assalti a colpi di molotov e bastoni ai parlamenti statali di Rio e San Paolo. La prima, simbolica vittoria sembra aver dato nuovo slancio alla protesta, che sta canalizzando il malcontento popolare in piazza anziché nelle sezioni di partito o nelle sedi dei sindacati. Un fenomeno nuovo per il Brasile, che ha colto di sorpresa anche il governo progressista di Dilma, che sta cercando di correre ai ripari. Il presidente nazionale del Partito dei lavoratori (Pt, di sinistra) di Dilma e del suo predecessore Lula, Rui Falcao, ha infatti annunciato a sorpresa che scenderà in piazza con i manifestanti a San Paolo. «Non abbiamo paura del popolo nelle strade, stiamo consigliando ai nostri iscritti di unirsi alla manifestazione», ha detto Falcao, fingendo di ignorare che il movimento di protesta rifugge da qualsiasi etichetta politica e scende in piazza anche per denunciare la corruzione dei partiti, compreso il Pt. Falcao sa di rischiare, ma non intende desistere: «Andiamo per dialogare», assicura.

La leggenda del pianista sulla piazza di Istanbul

pianista IstanbulDopo le prime note di , la signora Guler, madre di Ezgi, una bellissima studentessa appena laureata in Pedagogia all’Univesità di Istanbul, inizia a piangere in silenzio. Le lacrime bagnano la mascherina bianca ancora sulla bocca. Poi, quando suona l’ultima strofa della canzone pacifista più famosa del mondo, tre poliziotti rimasti incantati dall’apparizione del musicista italo-tedesco , mettono a terra i fucili caricati con pallottole di gomma.
ImagineDavide Martellonel bel mezzo di piazza Taksim sotto assedio
“Davide Martello rimarrà per sempre nei miei ricordi come il vero eroe della nostra protesta”, dice con gli occhi lucidi Ayge, una trentacinquenne con un master in economia, mentre il marito Damon, un afroamericano che insegna inglese in un liceo privato, annuisce con un gran sorriso: “Quest’uomo, assieme alla mamma di mia moglie e a tutte le altre madri che sono venute a sostenere i loro figli invece di supplicarli di lasciare Gezi e tornare a casa, come aveva consigliato loro Erdogan, ci hanno salvati. Davide e queste signore sono i nostri eroi ma quel che ha fatto questo giovane uomo è incredibile sotto tutti gli aspetti”. Quel che ha fatto il pianista italo-tedesco, un ragazzone nato a Costanza da genitori originari di Caltanissetta, è stato caricare il pesante pianoforte a coda sul suo furgone e guidare no stop dalla Germania alla Turchia per portare solidarietà con la sua musica ai manifestanti di Occupygezi. Sembra la trama di un film fantasy o una canzone ironica e malinconica di Paolo Conte. E infatti quando Davide era comparso con il suo pianoforte l’altra notte sembrava un miraggio. Qualcuno si domandava se oltre ai gas lacrimogeni e agli spray al peperoncino, la polizia non avesse usato anche qualche sostanza “stupefacente” o un gas sconosciuto in grado di scatenare un’allucinazione collettiva.
Altri invece si domandavano se quindici notti insonni passate in tenda e sotto la pioggia, sommate al terrore che la polizia ripetesse ciò che aveva fatto due sere prima nell’attigua piazza Taksim, non gli avessero dato al cervello. “Davide e il suo pianoforte sembravano irreali, era come se un alieno fosse sceso in mezzo a noi per portare un po’ di pace in questo mondo ingiusto e ci è riuscito. Eravamo tutti terrorizzati, compresa mia mamma che era venuta con tante altre a sostenerci, ma quando ha iniziato a suonare ci ha calmati e dopo qualche minuto ci sentivamo sollevati”, ricorda Bulent, uno studente del liceo linguistico che presta servizio volontario nella libreria allestita a Gezi dai manifestanti. Perché Davide Martello ha suonato tutta la notte, compresa una versione swingata di Bella Ciao, la colonna sonora di questi quindici giorni che hanno mostrato il lato oscuro della Turchia di Erdogan. “Dopo aver visto le immagini di queste persone pacifiche, di questi ragazzi che lottano per la libertà e per la natura, attaccate così brutalmente, ho sentito il bisogno di stargli vicino come so fare. Con la musica”.



Incidenti in diverse località. Almeno un morto, investito da un'auto. La polizia fa uso di lacrimogeni e pallottole di gomma per disperdere i manifestanti. La presidente Dima Rousseff annulla i viaggi nella regione di Salvador e in Giappone. "Non basta bloccare gli aumenti dei trasporti - affermano gli organizzatori delle manifestazioni - il governo deve rivedere tutta la politica economica e l'incremento delle tasse per finanziare i Mondiali del 2014" 
RIO DE JANEIRO - Imponente manifestazione, ieri sera, a Rio De Janeiro. Oltre 500 mila persone hanno preso parte ad un immenso corteo che ha letteralmente "occupato" la città. Nonostante la decisione delle autorità municipali di "cancellare" gli aumenti delle tariffe dei trasporti, aumenti che avevano innescato le prime proteste, la popolazione brasiliana sembra non accontentarsi delle promesse fatte dal governo. E la stessa presidente, Dima Rousseff, ha dovuto cancellare i suoi viaggi previsti nella regione di Salvador e in Giappone per cercare un dialogo con i manifestanti. Rousseff ha anche convocato una riunione del governo per fronteggiare l'emergenza delle proteste che ieri hanno portato in piazza oltre un milione di persone.

A Rio de Janeiro ci sono stati anche gravi incidenti, quando gruppi di dimostranti - isolati dalla gran massa dei manifestanti - ha dato l'assalto alle forze di polizia che hanno risposto con un nutrito lancio di lacrimogeni, con il getto degli idranti e con proiettili di gomma. Un giornalista è rimasto gravemente ferito da uno di questi proiettili. Gli incidenti sono avvenuti davanti all'immenso corteo che stava attraversando la città e per qualche minuto s'è diffuso il panico, tanto che una grande folla ha cercato di fuggire in senso contrario alla marcia della manifestazione. Solo dopo qualche tempo gli organizzatori sono stati in grado di riportare la calma e, mentre a lato della dimostrazione proseguivano gli scontri con la polizia, il corteo ha proseguito la sua marcia.

Un pulmino della rete tv SBT è stato dato alle fiamme e cinque tra giornalisti e operatori sono rimasti lievemente feriti. La polizia, che ha usato mezzi blindati, ha caricato i manifestanti che lanciavano molotov contro la sede del comune, già bersaglio di violenze nei giorni scorsi. Alcuni manifestanti sono rimasti feriti da pallottole di gomma, così come un giornalista di GloboNews. Numerosi gli episodi di saccheggio.

In tutto il paese si calcola che ieri sera oltre un milione di persone hanno manifestato nelle strade di circa ottanta città.

A Brasilia, circa 25 mila manifestanti si sono accampati sul prato di fronte al parlamento nazionale. La polizia militare ha circondato il palazzo di Planalto, sede della presidenza, ed ha usato gas lacrimogeni. Alcune frange violente hanno lanciato bombe molotov contro la sede del ministero degli Esteri, ma il principio di incendio è stato prontamente domato dai vigili del fuoco. I manifestanti hanno lanciato pietre contro le vetrate dell'edificio, mandandole in frantumi. C'è stato anche un tentativo di penetrare nella sede del ministero, ma la polizia è riuscita a respingere gli assaltatori.

A San Paolo, circa 30 mila persone hanno invaso l'Avenida Paulista, principale arteria della città. Alcuni esponenti del Partito dei lavoratori (Pt, di sinistra) della presidente Dilma Rousseff sono stati spintonati e allontanati. I manifestanti hanno anche bruciato bandiere del Pt.

A Ribeirao Preto, 330 chilometri da San Paolo, un manifestante è stato ucciso da un veicolo che è piombato contro un gruppo di persone scese in piazza.

A Belo Horizonte, sono scese in strada circa 15 mila persone: i media locali parlano di numerosi saccheggi di negozi e atti di vandalismo.

Scontri tra polizia militare e manifestanti anche a Salvador, dove si è giocata la partita Nigeria-Uruguay, valevole per la Confederations Cup. Gli agenti hanno caricato per disperdere la folla che si dirigeva verso lo stadio. Momenti di tensione e scontri tra manifestanti e forze dell'ordine si segnalano anche a Belem, Porto Alegre e Campinas.


Vogliamo tornare a casa

Oggi, alla vigilia della Giornata Mondiale del Rifugiato, 500 aquiloni sono stati fatti volare sul campo profughi di Za'atari in Giordania. Li hanno costruiti i bambini del campo. Sulla tela hanno scritto i propri messaggi al mondo: chiedono tutti di fare rientro a casa, in Siria, e che nel paese torni la Pace. MI PIACE a queste foto per amplificare il loro appello: PACE IN SIRIA! Per le ultime notizie e per sostenere i nostri interventi in favore dei bambini siriani: www.savethechildren.it/siria
Bosnia Erzegovina 



















Bambini senza identità

 
Internazionale 17 giugno 2013


Migliaia di bosniaci manifestano da giorni a Sarajevo e in altre città della Bosnia Erzegovina per chiedere che il parlamento trovi un accordo e superi uno stallo giuridico che impedisce ai nuovi nati di essere registrati all’anagrafe e quindi di avere documenti validi per l’espatrio.
La morte di una neonata. Il 16 giugno, a Sarajevo, circa duemila persone si sono riunite di fronte al parlamento della Bosnia Erzegovina, dove hanno partecipato a una veglia in ricordo di una neonata di un mese, Berina Hamidović, morta per non aver potuto ricevere cure mediche adeguate e uscire legalmente dal paese per essere ricoverata in un ospedale specializzato di Belgrado, in Serbia. Tutti i bambini bosniaci nati dal febbraio del 2013 a oggi non hanno un documento d’identità valido, e quindi anche in caso di bisogno non possono espatriare. Questo perché i parlamentari delle tre comunità del paese (croati, serbi e musulmani) non riescono a trovare un accordo sull’assegnazione di un codice d’identità personale per i nuovi nati.
A Berina Hamidović non è stato concesso il passaporto per attraversare la frontiera con la Serbia, anche se il personale medico bosniaco che l’aveva operata a Sarajevo per una malformazione alla trachea aveva raccomandato che fosse ricoverata in una clinica specializzata di Belgrado. I genitori hanno attraversato la frontiera illegalmente e sono riusciti a ricoverare la neonata nell’ospedale della capitale serba, ma la clinica ha chiesto un milione di euro alla famiglia Hamidović per sottoporla alle cure. I genitori non sono stati in grado di pagare e il sistema sanitario bosniaco non ha voluto coprire le spese. Nel frattempo le condizioni di salute della bambina sono peggiorate, racconta Le Monde.
Una situazione di stallo. A febbraio il parlamento bosniaco ha abolito la precedente procedura per la registrazione all’anagrafe dei nuovi nati, ma i parlamentari bosniaci, divisi tra le tre principali comunità del paese, non riescono a trovare un accordo sulla nuova normativa, generando l’assenza temporanea di leggi su questa materia. Da circa due settimane cittadini di tutte e tre le comunità manifestano davanti al parlamento per chiedere assistenza sanitaria e documenti d’identità per i neonati.



La Stampa 18/06/2013
svolta dopo 12 anni di conflitto

Afghanistan, inizia il processo di pace
Via ai negoziati tra America e taleban


L’annuncio di Obama in Irlanda del Nord è arrivato quasi in coincidenza con la cerimonia nell’accademia militare di Kabul, in Afghanistan, che ha visto le forze governative assumere formalmente la responsabilità della sicurezza nell’intero Paese
Il Mullah Omar: pronti a discutere sulla restituzione dei prigionieri e sulla pacificazione del Paese 

maurizio molinari 

Inizia il processo di pace in Afghanistan. I taleban aprono un ufficio di rappresentanza in Qatar, il presidente afghano Hamid Karzai invia una delegazione da Kabul per iniziare negoziati diretti ed entro 48 ore Washington prevede il primo incontro in Qatar fra rappresentanti dell’amministrazione Obama e della guerriglia, finalizzati anzitutto allo scambio di prigionieri.  

L’interlocutore di Kabul e Washington è la Commissione politica dei taleban, che «include rappresentanti di tutti i partiti e le fazioni della guerriglia» affermano fonti diplomatiche Usa. A dare il via libera ai taleban è stato il Mullah Omar, già capo del regime che venne deposto nell’autunno del 2001 a seguito dell’intervento americano in risposta all’11 settembre. Il network di Haqqani, la più feroce e combattiva espressione dei taleban, non sarà direttamente presente ai negoziati in Qatar ma gli americani sottolineano che «è rappresentato dalla Commissione politica dei taleban». 
La notizia del negoziato di pace afghano arriva contemporaneamente da Doha, Washington e Kabul ma è il presidente americano Barack Obama ad anticiparla ai leader del G8 durante la seconda giornata conclusiva dei lavori del summit. Fonti della delegazione americana al G8 spiegano che «i taleban si sono impegnati per iscritto ad evitare che in futuro l’Afghanistan possa essere usato per lanciare attacchi contro altri Paesi» e «questa è stata la premessa per arrivare all’apertura dell’ufficio a Doha, in Qatar». L’obiettivo dei negoziati, aggiungono le fonti americane, è di «arrivare all’accettazione da parte dei taleban della completa rottura con Al Qaeda, della totale rinuncia della violenza e del riconoscimento della Costituzione afghana». Nell’incontro fra delegati americani e dei taleban il primo argomento affrontato sarà «la restituzione dei prigionieri» frutto di 12 anni di guerra ovvero il più lungo conflitto combattuto dagli Stati Uniti.  
 L’annuncio di Obama in Irlanda del Nord è arrivato quasi in coincidenza con la cerimonia nell’accademia militare di Kabul, in Afghanistan, che ha visto le forze governative assumere formalmente la responsabilità della sicurezza nell’intero Paese. E’ stata una stretta di mano fra il Segretario della Nato Anders Fogh Rasmussen e il presidente Karzai a suggellare la svolta. Si tratta di sviluppi, politici e militari, destinati ad accompagnare l’ultima fase della transizione, che si concluderà con il ritiro delle truppe combattenti di Nato e Stati Uniti entro la primavera del prossimo anno. 

























Passaggio di consegne a Kabul 

Internazionale 18 giugno 2013



Un’operazione congiunta contro i taliban delle forze armate afgane e Nato a Layadira, nella provincia di Kandahar, il 14 febbraio 2013. (Bryan Denton, Corbis)

Le forze armate afgane hanno preso il 18 giugno il controllo totale del paese al posto dell’Isaf, la forza internazionale sotto il comando della Nato che aveva garantito la sicurezza nel paese dopo la caduta dei taliban, alla fine del 2001.
Il processo di graduale trasferimento di autorità, cominciato nel luglio 2011, è stato completato con il passaggio sotto il controllo afgano delle ultime province ancora controllate dalla Nato, i cui ultimi centomila soldati lasceranno l’Afghanistan entro la fine del 2014. “D’ora in poi, i nostri coraggiosi soldati saranno responsabili della sicurezza del paese e condurranno loro stessi le operazioni”, ha dichiarato con soddisfazione il presidente Hamid Karzai in un discorso in occasione del passaggio di consegne.
Le province della fase finale (in particolare quelle di Helmand, Kandahar, Khost, Paktia e Kunar) sono tra le più instabili del paese. D’ora in poi l’Isaf avrà in teoria solo un ruolo di sostegno, soprattutto nel caso di gravi attacchi aerei, e di formazione per i circa 350mila militari delle forze di sicurezza afgane (soldati, polizia e paramilitari).
Tuttavia, molti osservatori dubitano della capacità delle forze afgane di garantire da sole la sicurezza del paese e di affrontare la continua offensiva dei taliban, che negli ultimi anni hanno riguadagnato terreno.
A conferma di questi timori, proprio durante la cerimonia di passaggio delle consegne, un attentato a Kabul ha ucciso tre persone. Una bomba, piazzata lungo la strada, ha colpito un convoglio che scortava un deputato di etnia hazara, Mohammed Mohaqiq, che è sopravvissuto all’esplosione.
























Turchia: Perché Erdoğan ha rotto con l’Europa

Internazionale 17 giugno 2013

Rodrigo

Quando è arrivato al potere undici anni fa, il leader dell’Akp aveva fatto dell’integrazione europea la sua priorità. Ma alcune cocenti delusioni gli hanno ben presto fatto cambiare idea.
Nel 2002 Recep Tayyip Erdoğan era in campagna per le elezioni che il suo partito avrebbe vinto qualche mese dopo. All'epoca parlava in modo concreto, della vita quotidiana, della libertà religiosa, culturale, linguistica e di espressione. L'atmosfera era popolare, piuttosto cordiale e meno nazionalista dei comizi degli altri partiti.
Prepararsi all'integrazione con l'Unione europea, diceva Erdoğan, era una fase necessaria e utile, il modo migliore per riformare il paese. Ai suoi interlocutori stranieri spiegava che il nuovo "Partito della giustizia e dello sviluppo" (Akp) si era trasformato, che aveva rotto con il suo passato islamista e antieuropeo.
Nella notte fra giovedì 6 venerdì 7 giugno, undici anni dopo, il discorso è completamente diverso. I punti di riferimento sono ottomani. Erdoğan si appella ad Allah per rendere "eterna" la "fraternità", l'"unione" e la "solidarietà" arabo-musulmana e parla dell'orgoglio nazionalista turco di fronte alle migliaia di persone, i suoi "soldati" andati ad ascoltarlo e che si dicono pronti ad andare a "schiacciare" questi "vandali".
Il primo ministro turco non ha invece detto una parola sulle rivendicazioni (contro gli eccessi autoritari del governo, contro un capitalismo sfrenato, per la libertà di espressione e di stile di vita) delle decine di migliaia di ragazzi che sono in piazza dal 31 maggio.
Non una parola sull'Europa, citata solo qualche ora dopo in occasione della conferenza stampa congiunta con il commissario europeo Stefan Füle. Sebbene aperto alle "esigenze democratiche", Erdoğan accusa l'Unione europea di "ipocrisia" e di fare ricorso a una politica di "due pesi, due misure". Si lamenta della mancanza di progressi nei negoziati di adesione, di una "situazione tragicomica", e a chi critica la sua gestione della crisi attuale ricorda che la Turchia non deve di certo prendere lezioni di democrazia da "alcuni paesi europei". Erdoğan è sincero, le sue osservazioni sono offensive e ben poco diplomatiche. L'impressione è che il primo ministro turco abbia abbandonato qualunque speranza di integrazione europea per il suo paese.
Che cosa è successo? Il contrasto tra l'uomo del 2002 e quello del 2013 è evidente. Dobbiamo esserne sorpresi? O al contrario dobbiamo vedervi la prova, come affermano i suoi più irriducibili oppositori, della "lingua biforcuta" di Erdoğan e dell'Akp, che una volta liberati dall’influenza dell’esercito grazie al sostegno dell'Ue hanno avuto mano libera per avviare una politica neo-ottomana, lontana dai valori laici, moderni e occidentali?
Fin dal 2002 il governo dell’Akp ha continuato e amplificato una serie di riforme democratiche importanti che erano state iniziate dalla precedente coalizione, che hanno stupito i suoi oppositori più irriducibili. Bruxelles è sembrata apprezzare questa politica e la Turchia ha ottenuto una data, l'ottobre 2005, per l'apertura del processo sui negoziati di adesione all'Ue. L'Akp si presenta come un partito "democratico-musulmano" sull'esempio della tradizione democristiana, la più europea delle correnti politiche dominanti. L'adesione della Turchia all'Unione europea è l'antidoto allo scontro delle civiltà, dichiara Erdoğan.
Così la piccola minoranza rappresentata dagli ambienti liberali di sinistra, europeisti convinti, è diventata il suo primo sostenitore presso i diplomatici e i giornalisti occidentali, anche se in realtà nessuno conosceva bene le idee di Erdoğan. Finalmente trovavano nell'Akp un partito che aveva il coraggio e i mezzi per decapitare il nemico comune, l'esercito (autore di quattro colpi di stato trent’anni) e di ricacciarlo nelle sue caserme. Ma questo slancio ha subito una battuta d'arresto già nel 2004-2005, molto prima che la battaglia contro i militari fosse vinta. Per due motivi.
La prima è poco nota ma fondamentale per capire chi è Erdoğan. Nel 2003 la Corte europea dei diritti dell'uomo (Cedh) ha confermato la dissoluzione da parte della Corte costituzionale turca del partito islamista Refah, giustificata perché nel contesto turco avrebbe rappresentato una minaccia per la democrazia, mentre la dissoluzione del partito comunista o autonomista era considerata contraria al diritto europeo. Erdoğan non ha capito questa differenza.
Ancora peggio, nel giugno 2004, quando la corte pronuncia la sentenza definitiva sul caso Leila Sahin, l'alta corte di Strasburgo ha confermato l'esclusione dall'università di questa ragazza per aver indossato il velo. Uno trauma per Erdoğan, le cui figlie sono dovute andare a studiare negli Stati Uniti per poter indossare il velo. Anche in questo caso il primo ministro non ha capito perché quello che è autorizzato nella maggior parte dei paesi europei, andare all'università con il velo, sia oggetto di una decisione contraria quando si tratta della Turchia.
Quando Erdoğan parla di "due pesi, due misure", ha in mente queste due decisione dell'alta corte europea. Due decisioni che hanno fatto vacillare in lui la fragile convinzione che l'Unione europea possa essere garante delle libertà religiose.

Spirale perversa 

La seconda ragione è più nota. Nel 2005 i francesi dovevano pronunciarsi sul trattato che istituiva una costituzione europea. La candidatura turca era stata duramente criticata. La Turchia era stata strumentalizzata a fini elettorali dal presidente Nicolas Sarkozy, che proponeva – insieme alla Germania – un "partenariato privilegiato", cioè una formula priva di senso per l'unico paese candidato che avesse firmato un accordo di unione doganale con l'Unione europea fin dal 1995. Se Erdoğan voleva ridare ai turchi un orgoglio, un destino nazionale, si è trovato di fronte all'esatto contrario. Questo lo ha profondamente offeso e umiliato. Così si è innescata una spirale perversa. 

La maggioranza dei leader turchi non crede più in un’Unione europea che li snobba. La Turchia ha quindi deciso di rallentare e poi di fermare, se non addirittura ostacolare, le riforme liberali e democratiche necessarie a un'integrazione troppo ipotetica. Così la Turchia rifiuta di applicare a Cipro, ormai membro dell'Unione europea e di cui continua a occupare la parte nord dell'isola, le regole dell'Unione doganale.

Dall'ottobre 2005 13 dei 33 "capitoli" sono stati aperti al negoziato, ma solo uno è stato chiuso. Dal giugno 2010 nessun nuovo "capitolo" è stato aperto, e nel luglio 2012 Ankara ha sospeso ogni contatto con l'Unione europea durante i sei mesi in cui la presidenza dell'Unione europea è stata occupata da Cipro, che Ankara continua a non riconoscere.
Nei confronti dell'Unione europea Erdoğan si trova ormai in una situazione quasi schizofrenica. Da un lato si sta rendendo conto che il sogno ottomano ha poco appeal presso i vicini arabi e che l'influenza della diplomazia turca nella regione deriva in gran parte dal solido sostegno occidentale al suo paese. Dall'altro è ormai quasi impossibile per Erdoğan riconoscere davanti alla sua opinione pubblica che l'integrazione europea rimane comunque – sia economicamente che diplomaticamente – la migliore opzione per la Turchia.



























Quando la politica regala una speranza
roberto toscano
Editoriali: La Stampa 16/06/2013

L’Iran torna a stupire. Contro tutte le previsioni della vigilia, Hassan Rohani, conservatore moderato appoggiato dai riformisti, ha ricevuto oltre il 50% del voto e risulta eletto al primo turno Presidente della Repubblica Islamica. 
In Iran evidentemente la politica non è morta: nonostante il trauma delle elezioni rubate del 2009, nonostante la repressione della massiccia protesta popolare, nonostante l’eliminazione degli unici due candidati (Rafsanjani e Mashai) che avrebbero potuto rappresentare un’alternativa al potere del Leader Supremo Khamenei. 
Come una pianta che cresce nelle fessure di una roccia arida, la volontà democratica di un popolo di grande cultura e grandi aspirazioni è riuscita comunque ad esprimersi. E’ la volontà di un popolo che nella sua grande maggioranza vuole normalità e riconoscimento internazionale, che è stanco di retorica pseudorivoluzionaria, e che è consapevole del prezzo in termini di benessere economico e del rischio di guerra derivanti dalla sterile sfida provocatoria all’America e al mondo - una sfida di cui il candidato considerato favorito, Jalili, era interprete e simbolo. 
Rohani non è un riformista. Anzi, per il suo curriculum, è quanto di più «establishment» si possa trovare nella Repubblica Islamica, e per di più è anche un religioso, uno di quei mullah che risultano ormai invisi e sospetti agli iraniani, la cui profonda religiosità si combina sempre più, alla luce della commistione fra clero e potere (anche quello corrotto), con sentimenti anticlericali. 
Ma come si spiega allora questa sorpresa? Premesso che fuori dall’Iran la sorpresa è direttamente proporzionale alla semplificazione imperante dell’immagine dell’Iran – una semplificazione secondo cui democrazia e non-democrazia sono alternative nette, senza sfumature – la domanda ci impone di affrontare due diverse componenti del panorama politico iraniano: i conservatori moderati e i riformisti. 
Rohani appartiene senza dubbio alla prima categoria, e in realtà fa riferimento alla stessa area il cui capofila è Rafsanjani. Rohani sta a Rafsanjani come Mashai sta ad Ahmadinejad, ma il regime, che ha messo fuori gioco Mashai attraverso il vaglio dei candidati esercitato dal Consiglio dei guardiani, non se la sentiva di trattare Rohani nello stesso modo, anche se evidentemente qualcuno deve averlo suggerito, dato che fino a poche ore prima delle elezioni a Teheran circolavano voci su una sua possibile esclusione. Non se la sentiva e forse non pensava che fosse necessario.  
Che i risultati delle elezioni iraniane siano imprevedibili lo dimostrano la «sorpresa Khatami» nel 1997 e la «sorpresa Ahmadinejad» del 2005, due elezioni che, a differenza di quella del 2009, non sono mai state seriamente contestate. 
Il regime iraniano si è sempre retto su un doppio riferimento: quello ai principi e quello al maslahat, al pragmatismo, a un criterio di opportunità. Evidentemente in questa fase, dopo i disastrosi anni di Ahmadinejad, tutto meno che pragmatico, l’uomo dei principi Jalili è stato sconfitto da chi incarna soprattutto il maslahat. 
Certo il tavolo avrebbe potuto essere rovesciato e il potere avrebbe potuto, come nel 2009, spostarsi su un registro non più di democrazia tarpata e falsata, ma di aperta dittatura. Qui però va rilevato un altro errore di interpretazione nelle analisi che si fanno del regime iraniano: quello di sottovalutare il costo politico del 2009 per il regime stesso, da cui si può presumere sia derivata la decisione di non ripetere quell’esperienza. L’autoritarismo del regime islamico ha evidentemente – e paradossalmente – la necessità di presentarsi sotto le spoglie di una democrazia mentre nello stesso tempo è forte il bisogno di mantenere all’interno del regime un consenso oligarchico che aumenti la cooptazione delle componenti e minimizzi le spaccature, rischiose per la sua stabilità se non per la stessa sopravvivenza.  
Rohani rappresenta infatti un’ala non certo trascurabile del regime. Una componente molto forte sia in una parte del clero sia nella struttura burocratica e produttiva, nonché negli ambienti tecnocratici e in parte intellettuali. Va anche ricordato che Rohani non solo è stato a lungo membro del Consiglio supremo di sicurezza, ma ha anche diretto per anni il Centro di Studi Strategici di Teheran, un think tank estremamente sofisticato dove negli ultimi anni si era ritirata una élite di politica estera emarginata sotto la presidenza Ahmadinejad. Di questo gruppo faceva parte anche Hossein Mousavian, membro del team negoziale iraniano sul nucleare accusato di spionaggio negli anni di Ahmadinejad e poi assolto, oggi rispettato studioso a Princeton e sofisticato fautore di un dialogo autentico con gli Stati Uniti che permetta di difendere gli interessi nazionali iraniani evitando rischi e provocazioni. Ma questa parte dello schieramento conservatore non sarebbe stata certo sufficiente a produrre questo straordinario, inatteso risultato elettorale. La chiave sta nel voto riformista, il voto di quei milioni di iraniani, appartenenti alle classi medie ma non solo, che avevano creduto in Khatami, votandolo per ben due volte, ne erano rimasti profondamente delusi, e avevano poi sperato, con Moussavi, di avere un’altra occasione di cambiamento, seppure meno esplicita e più centrista, per poi scendere in piazza nella protesta del Movimento Verde, ben presto messo brutalmente a tacere dalla repressione. 
Sarebbe stato normale che, alla luce di queste tragiche esperienze, i progressisti iraniani optassero per l’astensione. Invece una parte estremamente significativa di questa frustrata base elettorale non si è astenuta, ma ha votato per Rohani, certo non un campione del riformismo, ma comunque quanto di meglio offrisse la situazione reale.  
Cito da una mail ricevuta da Teheran due giorni prima delle elezioni, in cui un’amica, spiegando la sofferta decisione di votare per Rohani, scriveva fra l’altro: «Tutti sanno che non ci dobbiamo fare troppe illusioni. Vogliamo solamente una persona che possa evitare il peggio e la guerra e ridarci un po’ di spazio per vivere, che possa un po’ cambiare le cose, anche se si tratterà di un cambiamento di non più del 10-20 per cento. Abbiamo bisogno di aria per rimetterci in piedi ed evitare di piombare nella miseria più assoluta, nella guerra o nel talibanismo». 
Ma che cosa può cambiare con una presidenza Rohani? Non possiamo certo aspettarci una «primavera persiana», ma dallo stesso dibattito elettorale possiamo ricavare con una certa chiarezza che probabilmente il terreno su cui potremo attenderci qualche significativo mutamento di rotta è quello della politica estera, e più concretamente della questione nucleare.  
Si ripeteva spesso, e a ragione, che il tema nucleare non era un tema critico per il regime, nella misura in cui il diritto dell’Iran a disporre di una propria industria nucleare autonoma (ivi compresa la capacità di arricchire l’uranio) era notoriamente rivendicato non solo dai conservatori, ma anche dai riformisti e persino dai nemici del regime. Ma il dibattito pre-elettorale sulla questione non si è concentrato sui diritti dell’Iran, bensì su quale fosse il modo migliore di tutelarli attraverso il negoziato con i 5+1. Jalili, che rivendicava nella sua campagna il proprio ruolo di negoziatore nucleare come massima legittimazione della sua candidatura presidenziale, è stato proprio su questo punto attaccato nei dibattiti televisivi «all’americana» fra i candidati. Velayati, consigliere di politica estera di Khamenei, lo ha accusato di oltranzismo sterile («chiede cento e offre tre»; «invece di negoziare fa le prediche agli interlocutori»), e Rohani, attaccato da Jalili che gli attribuiva un inaccettabile cedimento per avere accettato di sospendere l’arricchimento dell’uranio in una fase del negoziato, ha replicato che dalla conduzione negoziale di Jalili non si è ricavato niente di positivo per gli interessi del Paese. 
Gli iraniani non hanno certo cambiato idea sui diritti del Paese, ma hanno cominciato a chiedersi (e questo non solo i riformisti ma anche i conservatori) quale sia il prezzo dell’intransigenza e di una strategia negoziale di cui non si vedono affatto gli effetti positivi.  Le sanzioni hanno evidentemente pesato, ma non nel senso di indurre l’Iran a una resa, o tanto meno di innescare un cambiamento di regime, quanto piuttosto nel rendere il regime maggiormente disposto a un negoziato serio, compresi inevitabili compromessi, sotto la spinta di un popolo che, pur sottoposto a pesanti limitazioni nelle sue scelte politiche, non è né passivo né silenzioso, come le elezioni hanno dimostrato. 
Il senso politico di queste elezioni risiede proprio nel prevalere di un realismo politico di fondo sia fra gli elettori iraniani sia nel regime, ma faremmo ora bene a non lasciarci andare ad ingiustificate euforie. La capacità repressiva del regime rimane, il Leader Supremo continuerà ad essere il vero capo dell’esecutivo, e Rohani potrà solo essere il gestore più razionale e moderato del regime, non il suo affossatore.  
La partita in Iran resta del tutto aperta. 
Ma è già, date le premesse, un grande e positivo risultato, e non è difficile capire perché nelle strade di Teheran i cittadini, soprattutto giovani, stiano celebrando. 

G8 La questione siriana domina l’incontro





























Internazionale 17 giugno 2013

La questione siriana sarà al centro del vertice del G8 in Irlanda del Nord. Il summit annuale di due giorni, al quale partecipano le otto principali potenze mondiali, comincia ufficialmente oggi alle 15,45 nel resort di Lough Erne, a Enniskillen, anche se già stamattina ci sono stati degli incontri preliminari. La città, a circa 130 chilometri da Belfast, è stata scelta dal premier britannico David Cameron per ragioni di sicurezza.
Al vertice ci si aspettano posizioni contrapposte tra Russia e Stati Uniti sulla questione siriana: il governo di Vladimir Putin da sempre appoggia le forze governative di Assad, mentre Washington, come ha dichiarato la settimana scorsa Barack Obama, appoggia i ribelli e accusa il dittatore di aver usato armi chimiche contro l’opposizione.
Gli altri paesi che parteciperanno al G8 sono Regno Unito, Germania, Francia, Giappone, Italia e Canada.
Le parole di Putin. Dopo un incontro con Cameron a Londra, Putin ha ribadito che continuerà a sostenere il regime di Assad. “Non stiamo violando alcun trattato internazionale appoggiando il governo siriano, e invitiamo tutti i nostri partner a fare lo stesso”, ha dichiarato il presidente russo.
“I ribelli siriani non uccidono solo i loro nemici, ma li fanno a pezzi e mangiano i loro organi di fronte alle telecamere”, ha aggiunto Putin riferendosi a un video diffuso alcune settimane fa dall’organizzazione umanitaria Human rights watch.
Da parte sua, Obama cercherà di rilanciare il meeting congiunto di Ginevra, nel tentativo di trovare una strada verso la pace.
Intorno all’area che ospita il G8 sono stati schierati ottomila poliziotti. Le autorità prevedono l’arrivo di circa duemila manifestanti no global. Le immagini dei preparativi, in un video del Guardian.
La posizione dell’Italia. Sulla questione siriana, Enrico Letta è d’accordo con la Germania, contraria all’idea di rifornire armi ai ribelli, a differenza del Regno Unito che si è schierato con gli Stati Uniti.

AMERICA FUORI DALL’ INCUBO
VITTORIO ZUCCONI
La Repubblica 16 giugno 2013
Dal grande monitor americano dei “cattivi” storici facili da odiare scompare un altro volto esecrabile, quellodi Mahmud Ahmadinejad.
Appare quello dall’aspetto più rassicurante di Hassan Rohani, il trionfatore delle elezioni iraniane con fama di “moderato”. Anche se dopo otto anni Ahmadinejad non poteva più essere rieletto, la travolgente partecipazione elettorale — indicata forse propagandisticamente all’80 per cento — e la sconfitta devastante dei sostenitori della linea dura è insieme un’ottima e una pessima notizia per Barack Obama e per la strategia Usa. Il tramonto dell’“Hitler della Persia”, del negazionista antisemita e bellicoso, pare togliere di scena un fanatico radicale dell’Islam sciita militante, ma l’avvento di Rohani apre un capitolo di ambiguità e di dubbi che costringeranno Washington a rivedere le certezze, e gli stereotipi, che da decenni erano stati i binari del comportamento americano.
Non sempre cambiare un nemico certo e stolido con un’entità più sfuggente è una vittoria immediata e neppure cambiare con la violenza, come fu per l’altro “grande maligno” Saddan Hussein o per Gheddafi, genera esiti fausti. Basta riandare con la memoria agli anni dell’agonia del-l’Urss, del collasso sovietico, dell’irruzione di personalità complesse e impreviste come Gorbacev ed Eltsin alla fine degli anni ‘80 e primi anni ‘90 per ricordare con quanta esitazione George Bush il Saggio, grande conoscitore di politica internazionale, accolse i cambiamenti repentini in Russia.
Un vecchio detto inglese avverte che spesso «il diavolo che conosci» è preferibile al «diavolo che non conosci» e ancora nulla di concreto può fare pensare che Rohani, un religioso in abiti clericali, stia ad Ahmadinejad come Gorbacev stava ai Brezhnev e agli Andropov. Né che sia portatore di una «perestrojka iraniana », dovendosi muovere sempre sotto lo sguardo arcigno e onnipotente del supremo leader e custode della rivoluzione integralista, l’irriducibile Ali Khamenei.
Ma Washington dovrà ammettere che, senza sganciare un solo missile, qualche cosa si è mosso spontaneamente nel corpo giovane, irrequieto, vivace di una nazione di 75 milioni tra i quali il 44 per cento ha meno di 25 anni, una proporzione inaudita per i Paesi occidentali e che già in passato aveva dato segnali chiarissimi di stanchezza e di ribellione poi represse. L’Europa, gli Stati Uniti e naturalmente Israele non potranno negare che in Iran si siano svolte elezioni generalmente non meno regolari di quelle che si svolgono anche negli stessi Usa, che il nuovo Presidente abbia piena legittimità popolare e che il tenore della sua campagna elettorale e delle sue parole sia molto diverso da quello del predecessore.
Ahmadinejad era una caricatura ideale, quasi una macchietta orribile, di tutto ciò che l’Occidente laico teme nell’Oriente fondamentalista e islamico. I suoi deliranti discorsi alle Nazioni Unite, dove sbarcava tra proteste e richieste di respingimento, sempre avvitati attorno a visioni cospirazioniste del mondo riprese dalla propaganda nazista e zarista stile «Protocolli degli Anziani di Sion», turbavano non soltanto il sempre inquieto alleato israeliano, ma ogni persona razionale. La promessa di cancellare lo «Stato Sionista» dalla faccia della Terra, concretizzate in un programma di sviluppo nucleare a coda di rondine, che poteva sfociare in centrali elettriche come in testate per missili, calzava come una mano nel guanto della bellicosità di leader politici come Netanyahu. E produceva una continua frizione tra un’America e un’Europa resistenti a tentazioni militari e Israele, deciso a impedire a ogni costo lo sviluppo di armi che previsioni e profezie di varia credibilità davano sempre come prossime al completamento.
Ora il nuovo leader politico (non mistico) della Rivoluzione Khomeinista sembra sparigliare le carte di questo Risiko insieme pericolosissimo, ma chiaro. La sua vittoria si qualifica come un successo della strategia della pressione indiretta, voluta da Usa ed Europa attraverso le sanzioni, contro quella dell’intervento militare diretto, apparentemente sostenuto da Israele e dai più radicali fra gli ideologi americani. Tutti i candidati alle elezioni in Iran avevano dovuto ammettere ciò che Ahmadinejad aveva sempre tentato di negare, che l’economia della nazione è allo stremo, che le sanzioni, insieme con il lento ma progressivo esaurimento delle riserve di petrolio, azzannano nella carne viva degli uomini e soprattutto delle donne iraniane, sempre chiamate a pagare il prezzo più alto, come aveva magnificamente raccontato il Nobel per la Pace, l’avvocata Shirin Ebadi, anche in un incontro pubblico al Festival delle Idee di Repubblica nel 2012 a Bologna.
Non è purtroppo il primo, ma c’è un segno di cambiamento.
Colui che ha trionfato si era detto incline a riaprire i centri nucleari iranani alle ispezioni internazionali, a lavorare nel mondo per riaprire i canali di comunicazione con le nazioni più diffidenti, a raccogliere quella «mano tesa» che Obama aveva aperto nel famoso discorso del Cairo e nelle campagne elettorali, quando aveva ripetuto una celebre frase di Kennedy: «È proprio con i nemici che si deve imparare a dialogare e negoziare».
E oltre le attese, c’è un elemento che può sembrare trascurabile, ma che nella psicologia dei rapporti fra gli americani e il resto del mondo ha un’importanza che non deve mai essere trascurata: Hassan Rohani ha un volto molto diverso dal predecessore. Quanto Ahmadinejad trasmetteva sensazioni e immagini sinistre da inquisitore, perfetto interprete delle parole inquietanti che pronunciava, quanto questo chierico sessantaquattrenne effonde un’aria innocua e benevola di studioso, di uomo di pensiero più che azioni e urla accaldate per le piazze. La sua apparizione sul grande podio dell’Onu non produrrà quegli spasmi di repulsione istintiva che l’altro induceva e l’America degli schermi sarà meglio disposta ad ascoltarlo.
Almeno fino a quando comincerà a parlare.


Svolta in Iran, vince il riformista Rohani
VANNA VANNUCCINI
La repubblica 16 giugno 2013

La vittoria  della speranza. Ragione e speranza erano lo slogan di Hassan Rohani, il candidato moderato che, contro tutte le aspettative, ha vinto al primo turno con il 50,7 per cento e sostituirà Ahmadinejad alla presidenzadella Repubblica islamica.
 
TEHERAN
 
«È UNA vittoria della moderazione e del progresso sull’estremismo», ha esultato Rohani che, alludendo al negoziato sul nucleare, ha poi aggiunto: «Chiedo il riconoscimento dei diritti dell’Iran». Nel suo quartier generale l’atmosfera è stata tutta la giornata di grande eccitazione, e dopo l’annuncio della vittoria, è esplosa la gioia di Teheran: decine di migliaia di persone si sono riversate in strada per festeggiare, e i caroselli degli automobilisti hanno paralizzato la circolazione.La grande maggioranza degli iraniani ha tirato un grande sospiro di sollievo. Sperano che questo sia l’inizio di una «nuova era», come ha detto il conservatore Ahmad Tavakoli che era stato uno dei critici più decisi della politica economica di Ahmadinejad. Una nuova era per l’economia del paese, che molti esperti definiscono «simile a quella della Grecia», e per i rapporti con il resto del mondo, con cui Rohani ha promesso di voler avere «una interazione costruttiva».
Rohani era stato il negoziatore capo del dossier nucleare durante la presidenza Khatami, dal 2003 al 2005, poi si era dimesso per dissensi con le posizioni di Ahmadinejad. Il dossier nucleare resta una prerogativa del Leader Supremo, è Khamenei che decide, ma il presidente con la sua presenza sulla scena internazionale può cambiare i toni e contribuire al miglioramentodell’atmosfera. Come era accaduto appunto con Khatami. Molto dipenderà ora da quanto l’Occidente saprà dare delle risposte flessibili e contribuire al successo del nuovo presidente, ma Israele resta scettico. «Lo valuteremo dai fatti», dice il portavoce del ministero degli Esteri.
A giudicare dalle facce raggianti di tanti funzionari, al ministero degli Esteri e in altri ministeri, ancheil Leader Supremo ha buoni motivi di soddisfazione. Il sistema resta saldo, il fatto che l’80 per cento degli aventi diritto al voto siano andati alle urne gli significa che gli iraniani vogliono migliorare la Repubblica islamica ma non travolgerla. Venerdì, mentre metteva la scheda nell’urna, Khamenei aveva fatto appello a «votare per il bene del paese e del sistema». E ieri, subito dopo l’annuncio dei risultati,ha ricordato che «Rohani è il presidente di tutti».
Votando Rohani gli iraniani hanno voluto prima di tutto sconfiggere gli estremisti responsabili dei maggiori problemi degli ultimi anni, dal collasso della moneta all’aumento vertiginoso dei prezzi, dalla disoccupazione endemica all’isolamento dell’Iran nel mondo. Dopo Rohani, ma staccati di molto, ad avere il maggior numerodei voti sono stati nell’ordine il sindaco di Teheran Qalibaf e Mohsen Rezaie, conservatori entrambi ma fautori di una politica moderata, mentre il radicale Said Jalili, che veniva dato alla vigilia come il probabile vincitore, è risultato quarto e non ha aggregato nemmeno tutto il voto dei basiji che erano i suoi principali sostenitori.
Quattro anni dopo che la vittoria di un riformatore provocò lareazione durissima del regime, e mentre sono ancora in carcere tanti attivisti politici e restano agli arresti domiciliari i due candidati di allora, un altro riformatore diventa il nuovo presidente iraniano e la sua vittoria è accettata da tutti. Che cosa è successo? La storia iraniana, ci dice un filosofo, gira sempre in cerchi concentrici. Ogni tanto si torna al punto di partenza, ma qualche volta il diametro del cer-chio si allarga perché c’è un aumento di maturità. La tragedia della Siria ha avuto un ruolo determinante. Nessuno vuol finire in una situazione come quella siriana. «Sono venuto a votare perché dobbiamo risolvere da soli i nostri problemi, senza interventi dall’esterno » dicevano venerdì tante persone che votavano per Rohani. Anche il regime sa che un ulteriore aggravarsi delle difficoltà economiche potrebbe facilitare i tentativi di destabilizzazione dall’esterno. Congressmen americani ultraconservatori, nemici di Obama quanto della Repubblica islamica, non hanno smesso di finanziare minoranze baluci, curde o arabe per fomentare la ribellione etnica, e i dollari qatarioti e sauditi sono sempre disponibili a questo scopo. Lo denunciano le stesse associazioni degli espatriati, non certo amici del regime teocratico, come la Niac negli Stati Uniti. «Sono state le elezioni più democratiche del mondo, i nemici dell’Iran non potranno dubitarne, e ora spero che il presidente eletto mantenga le promesse fatte e risolva i problemi del popolo», ha scritto su Twitter l’ex presidente Rafsanjani. Fu la sua decisione di candidarsi alla presidenza, anche se poi respinta dal Consiglio dei Guardiani, a iniettare nuova energia in una popolazione che ormai sembrava sopraffatta dalla rassegnazione e dalla lotta quotidiana per la sopravvivenza.

 

Siria, diserzione di massa nell'esercito
Settanta ufficiali scappano in Turchia

 

Sei generali e 22 colonnelli accolti in un campo profughi. L'Egitto chiude l'ambasciata e rompe i rapporti con DamascoPerde i pezzi in Siria il fronte del regime di Bashar al-Assad. Sei generali e 22 colonnelli siriani hanno disertato e sono scappati in Turchia, insieme alle proprie famiglie per «cercare rifugio». In tutto 71 ufficiali hanno lasciato le fila dell'esercito regolare, insieme a due poliziotti, e sono stati trasferiti nel campo vicino ad Antiochia, lungo il confine, che ospita appunto i militari siriani disertori. È la più massiccia diserzione tra le forze leali al regime di Assad da diversi mesi a questa parte. Secondo l'agenzia di stampa Anadolu, 202 persone sono arrivate nella città di Reyhanli che si trova al confine tra i due Paesi e sono state trasferite nel campo profughi. 

ARMI CHIMICHE - E diventa sempre più difficile il lavoro diplomatico internazionale. Il presidente egiziano Mohammed Morsi ha deciso di rompere definitivamente tutti i rapporti con la Siria e di chiudere l'ambasciata siriana al Cairo. L'amministrazione del Cairo ha anche ritirato il suo rappresentante diplomatico da Damasco. Anche a Washington l'aria che tira non è amichevole. Dopo la notizia dell'uso di armi chimiche da parte dell'esercito di Assad e la promessa di aiuti ai ribelli da parte degli Usa, il segretario di Stato John Kerry ha detto che l'uso di gas e il maggior coinvolgimento di Hezbollah «minacciano di rendere impossibile il raggiungimento di una soluzione politica del conflitto». Kerry ha avuto un colloquio telefonico con il ministro degli Esteri iracheno, Hoshyar Zebari. «Il segretario ha riaffermato che gli Stati Uniti continuano a lavorare in modo aggressivo per una soluzione politica con l'obiettivo di un secondo incontro di Ginevra - si legge nella dichiarazione del Dipartimento di Stato - ma anche che l'uso delle armi chimiche e il sempre maggior coinvolgimento di Hezbollah dimostrano la mancanza di impegno da parte del regime per i negoziati e minacciano di allontanare un accordo politico».

F-16 E PATRIOT IN GIORDANIA - Il Pentagono ha poi deciso di lasciare i caccia F-16 e i missili Patriot in Giordania anche dopo la fine delle esercitazioni congiunte previste a fine giugno, a pochi chilometri dal confine con la Siria. Il segretario americano alla Difesa, Chuck Hagel, «ha approvato la richiesta proveniente dal Regno di Giordania di mantenere in loco gli F-16 e i missili Patriot anche dopo la conclusione dell'esercitazione 'Eager Lion' della prossima settimana», ha detto il portavoce del Pentagono. Una decisione che irrita la Russia, che denuncia il tentativo di «rinforzare una no-fly zone sulla Siria». Lo ha detto il ministro degli Esteri Sergei Lavrov, durante una conferenza stampa a Mosca con il ministro Emma Bonino dopo un incontro bilaterale. «Non bisogna essere degli esperti per dire che una no-fly zone violerebbe le leggi internazionali - ha detto Lavrov -. Ci sono indiscrezioni sui media occidentali circa serie considerazioni di creare una no-fly zone sulla Siria attraverso il dispiegamento di missili anti-aereo Patriot e di jet F-16 in Giordania».
corriere della sera 16 giugno 2013


La Stampa 15/06/2013

Putin sfida le esitazioni di Barack

maurizio molinari

Con la decisione di armare i ribelli Barack Obama vuole impedire a Bashar Assad di riconquistare Aleppo, annientare l’opposizione e restare al potere di una Siria trasformata in atollo iraniano. Se lo scorso anno il Presidente americano aveva messo il veto sugli aiuti militari ai ribelli ed ora cambia idea, chiedendo alla Cia di consegnarli in fretta, è perché allora Assad barcollava mentre adesso vede concretamente la possibilità di imporsi nello scontro militare. L’affluire di migliaia di Hezbollah libanesi, soldati del regime e miliziani del Baath attorno ad Aleppo è l’avvisaglia della battaglia forse decisiva nella guerra civile che dura da oltre due anni ed ha superato le 90 mila vittime. 
Dallo scorso luglio l’antica perla dell’Impero Ottomano sulla Via della Seta è per il 60 per cento in mano agli insorti. Si tratta della città più popolosa della Siria, nodo strategico della dorsale sunnita. Assad vuole riprenderla ripetendo in grande stile la tattica con cui ha espugnato l’assai più piccola ma altrettanto strategica Qusayr: accerchiamento asfissiante con le truppe regolari e i miliziani, massicci bombardamenti da cielo e terra, offensiva frontale della fanteria di Hezbollah, che non prende prigionieri. 
Le analisi militari che Pentagono e intelligence hanno recapitato nella «war room» della Casa Bianca non danno troppe speranze ai ribelli, male armati e ancor peggio organizzati. C’è però una finestra di tempo per scongiurare la restaurazione di Assad perché i 190 kmq di quartieri densamente popolati Aleppo suggeriscono che la battaglia sarà più lunga e cruenta di quanto avvenuto nei 35 kmq di una Qusayr semideserta. Questa finestra di tempo era l’«ultima opportunità per evitare un altro Ruanda, una nuova Bosnia», come ha detto Bill Clinton memore degli errori compiuti alla Casa Bianca, e Obama ha deciso di sfruttarla facendo propri i suggerimenti dei suoi consiglieri liberal neo-interpreti dell’interventismo umanitario degli Anni Novanta: Susan Rice, Samantha Power e John Kerry. Il superamento della «linea rossa» dell’uso dei gas contro i civili come motivo per armare i ribelli si richiama proprio ai precedenti dei Balcani: l’America si muove per proteggere i civili quando il dittatore di turno è determinato a compiere le stragi più orrende.  
Ma quella di Obama è una scelta venata dall’incertezza sulle armi da fornire perché il Presidente che ha posto fine alla guerra in Iraq e farà altrettanto con quella in Afghanistan si oppone ad un coinvolgimento dell’America in un altro conflitto. E’ frenato dall’altra anima dell’amministrazione: la realpolitik di Chuck Hagel e Tom Donilon che lo ammoniscono sui rischi che le armi Usa possano finire al Fronte Nusra, affiliato ad Al Qaeda. Obama non vuole inviare soldati, limita i tipi di armamenti da consegnare ed esita sulla «no fly zone» invocata con forza dal repubblicano John McCain perché implicherebbe massicci bombardamenti sulle difese anti-aeree di Damasco, frutto di 40 anni di cooperazione militare russa. 
La scommessa di Obama è di far leva sulla necessità di proteggere i civili dai gas di Assad per dar vita ad una coalizione internazionale a sostegno dei ribelli - composta da europei, turchi e arabi sunniti - a partire dal summit del G8 che lunedì si apre in Irlanda del Nord. La presenza in Siria, secondo insistenti indiscrezioni, di consiglieri francesi e britannici che addestrano i ribelli all’uso delle armi saudite e qatarine arrivate attraverso Giordania e Turchia lascia intendere che la cooperazione militare è più avanzata di quanto si possa immaginare. Ma ad ostacolare il tentativo di Obama di salvare Aleppo c’è il più determinato degli alleati di Assad: la Russia di Vladimir Putin ironizza sui gas inesistenti, paragona queste «bugie» e quelle «dette da George W. Bush sulle armi di distruzione in Iraq» e lascia intendere che al G8 ripeterà senza remore il veto pro-Damasco già più volte espresso all’Onu. 
L’energia con cui Mosca protegge Assad svela un progetto strategico ambizioso. «Putin sta dimostrando al Medio Oriente che difende i suoi alleati mentre Obama li liquida, come fatto con l’egiziano Mubarak» riassume un alto diplomatico arabo a Washington, secondo il quale il Cremlino sfrutta la crisi siriana per tornare protagonista in una regione dove ha continuamente perso terreno sin dalla fine della Guerra Fredda. D’altra parte Teheran, regista politico-militare del sostegno ad Assad, ha un obiettivo da potenza regionale: sconfiggere i ribelli per consegnare la Siria di un Raiss indebolito nelle mani di Hezbollah e farne il tassello di un’alleanza filo-sciita che inizia a Beirut, passa per Damasco, continua nella Baghdad governata da Nuri al-Maliki e termina proprio in Iran. Sostenendo Assad, Putin si candida interlocutore privilegiato di questa potenziale alleanza, destinata a mettere sulla difensiva alleati e interessi di Washington dal Canale di Suez agli Stretti di Hormuz.

































Iran al voto. Chi sono i due favoriti
 
   

Iran al voto. Chi sono i due favoriti

Urne aperte nella Repubblica islamica per le elezioni presidenziali, i due più votati andranno al ballottaggio. Sfida tra l'ex sindaco di Teheran Ghalibaf, che piace ai pasdaran, e il veterano Rowhani, appoggiato dai riformisti 
Dopo tre settimane di una campagna che è decollata solamente venerdì scorso, l’elettorato iraniano si sta recando alle urne stamattina per partecipare alle undicesime elezioni presidenziali della Repubblica islamica. L’apprensione su un calo significativo dell’affluenza, a causa della disaffezione causata dalla forte crisi politica che ha attanagliato il paese mediorientale dall’indomani delle precedenti, assai controverse, presidenziali del 2009 ha provocato un ultimo appello singolare da parte della Guida Suprema Ali Khamenei, che ha chiesto anche a «coloro che non sono favorevoli al regime islamico ma che hanno a cuore la propria nazione» di scegliersi il successore a Mahmoud Ahmadinejad.
I quasi cinquanta milioni di aventi diritto iraniani si troveranno di fronte a una rosa di sei nominativi. Alle bocciature clamorose, da parte del Consiglio dei Guardiani, dei due candidati più in vista, l’ex presidente Akbar Hashemi Rafsanjani e il braccio destro di Ahmadinejad, Esfandiar Rahim Mashai, hanno fatto seguito i ritiri di due tra gli otto candidati che hanno fatto parte della lista finale.
Nonostante la mancanza di un aperto sostegno per altri candidati, Haddad ha chiesto ai propri seguaci di sostenere un altro candidato conservatore, mentre Aref ha accolto il parere dell’ex presidente riformista Mohammad Khatami, che ha dichiarato il proprio sostegno per Hassan Rowhani, l’ex caponegoziatore nucleare assai vicino a Rafsanjani, unico chierico in corsa.
Secondo una serie di sondaggi effettuati all’estero e dall’interno dell’Iran, il voto di oggi sembra diretto verso un ballottaggio tra Rowhani e l’attuale sindaco di Teheran, Mohammad Bagher Ghalibaf. Veterano della guerra contro l’Iraq degli anni Ottanta, già capo della polizia e conservatore tout court sebbene meno incline alla retorica infiammante che ha reso celebre Ahmadinejad, il cinquantaduenne Ghalibaf è stato nominato nel 2006 primo cittadino della caotica capitale iraniana, costruendosi una reputazione di burocrate capace di sbrigare l’amministrazione cittadina con successo e pure abile di costruirsi una rete di contatti internazionali che includerebbero pure Luciano Benetton, da lui aiutato per approntare la rete di negozi d’abbigliamento in Iran. L’immagine di manager iperattivo votato alla risoluzione dei problemi quotidiani e poco incline a perdersi nei meandri della politica ha valso il sostegno, secondo sondaggi pubblicati dal sito Usa ipos.me e dal sito d’informazioni di Teheran Alef, del 20-25% degli interpellati.
A contendere a Ghalibaf la prima posizione vi è però Rowhani, il cui sostegno sarebbe in rapido aumento dopo gli endorsement ufficiali da parte degli ex presidenti Rafsanjani e Khatami. 64 anni, da oltre trenta alleato fidato di Rafsanjani in parlamento e al governo, Rowhani è fautore di un linea moderata scandita dalla promessa di risolvere la crisi nucleare con l’Occidente e di risollevare la malandata economia nazionale. Rowhani ha visto accrescere l’entusiasmo popolare, e soprattutto giovanile, nei suoi ultimi appuntamenti elettorali a Teheran e a Mashad, ed è quotato di una forbice tra il 20 e il 31%.
A seguire vi sono il falco ed attuale caponegoziatore Said Jalili, che non supererebbe il 13%, e Ali Akbar Velayati, l’ex ministro degli esteri che ha clamorosamente bocciato la politica nucleare di Jalili durante l’ultimo dibattito televisivo. A scanso di pur possibili rovesciamenti di fronte, la sfida per la successione ad Ahmadinejad verrà quindi decisa la settimana prossima, quando le anime riformiste e conservatrici del regime islamico si sfideranno per porre i sigilli definitivi a otto anni all’insegna di crisi interne ed esterne.
 

Siria

Gli Stati Uniti pronti a fornire armi ai ribelli

Internazionale 14 giugno 2013


Soldati dell’esercito governativo siriano nella città di Qusayr, il 5 giugno 2013. (Mohammed Azakir, Reuters/Contrasto)

Gli Stati Uniti forniranno armi ai ribelli siriani. Lo ha annunciato la Casa Bianca. Il presidente Barack Obama ha preso questa decisione dopo che l’intelligence ha raccolto le prove sull’uso di armi chimiche da parte del regime di Assad.
L’annuncio di Washington è arrivato a poche ora da quello dell’Alto commissariato dell’Onu per i diritti umani, che ha rivelato che dall’inizio del conflitto siriano sono morte 93mila persone, di cui 6.500 bambini.
L’amministrazione non ha detto in che modo darà un aiuto militare all’opposizione, ma secondo il New York Times Washington potrebbe fornire armi di piccole dimensioni, munizioni e missili anticarro.
La spedizione sarà gestita dalla Cia, scrive il Washington Post, e le armi verranno mandate per via aerea in Turchia e in Giordania e poi trasportate via terra in Siria.
Al momento è escluso l’invio di truppe di terra, come l’ipotesi di creare una no fly zone nel territorio siriano.
Ben Rhodes, consulente di Obama per la sicurezza nazionale, ha confermato che secondo l’intelligence statunitense “il regime di Assad ha usato diverse volte armi chimiche, in particolare il gas sarin, contro l’opposizione”. Il comunicato completo della Casa Bianca si può leggere sul sito del Guardian.

Secondo le autorità, tra le 100 e le 150 persone sono morte a causa degli agenti tossici. “L’uso di armi chimiche viola i trattati internazionali e supera una linea rossa che esisteva da decenni nella comunità mondiale”, ha aggiunto Rhodes.


   

Iran e Turchia, la fragilità di due giganti

Israele non ha grande interesse perché cresca l’instabilità regionale


Paesi grandi, estesi, popolosi, l’Iran e la Turchia. Per numero di abitanti sono al diciassettesimo e al diciottesimo posto nel mondo. La nazione guida del pianeta sciita e la nazione più forte di quello sunnita. Due giganti della regione mediorientale. Spicca, insieme a loro, uno dei più piccoli tra i paesi della regione, ma molto potente: Israele. Sono loro tre i protagonisti principali nell’attuale “partita” mediorientale, con tutti gli altri paesi dell’area alle prese con situazioni interne irrisolte, con gravissime crisi economiche e, nel caso della Siria, con una guerra civile in corso e novantamila morti, o nel caso dell’Iraq con un conflitto etnico-religioso senza fine. Certo, ci sono anche i paesi del Golfo, ma sono saldamente ed egoisticamente rintanati nel loro benessere petrolifero. Paesi arabi, dunque, privi di leve per incidere, alcuni, sul loro stesso futuro, e tutti insieme su quello della regione, lasciando il compito di player influenti a Iran, Turchia e Israele.

Questo scenario va avanti da tempo, ma con le primavere arabe si era ulteriormente consolidato. La novità di questi ultimi tempi è il conflitto tra Turchia e Iran, che sta rimettendo tutto di nuovo in discussione. Conflitto “freddo”, certo, anzi per lo più agito attraverso forze “proxy” (per procura) in un paese terzo, la Siria. Inaspettatamente, la dinamica di questa tensione ha finito per riverberarsi nelle rispettive situazioni interne e pressoché contemporaneamente. Sia in Iran sia in Turchia c’è un intenso fermento che espone i due colossi regionali alle stesse sfide che hanno scosso i paesi arabi (anche se molti esperti e non, nel caso turco, avvertono che non si tratta di una “primavera”). E sia a Teheran sia ad Ankara le leadership che hanno guidato i due paesi nell’ultimo decennio sono “scadute”. In Iran Mahmoud Ahmadinejad è fuori, avendo già svolto due mandati, e oggi si vota in Iran per il suo successore. Ad Ankara, Recep Tayyp Erdogan è tutt’altro che solido alla guida della Turchia. È di ieri la notizia che Fethullah Gulen, il teologo musulmano che dall’America muove pedine importanti in Turchia, ha “scomunicato” Erdogan, condannando il pugno di ferro della polizia con i manifestanti del parco Gezi e lanciando una profezia.

Ha affermato, Gulen in un video, che «se qualcuno è cieco abbastanza da non vedere, l’incendio divamperà».

Si può ipotizzare un “regime change” nei due paesi, tale da rimescolare tutte le carte sul tavolo mediorientale? Una simile prospettiva c’è, anche se non è alle porte. A Teheran, potrebbe anche andar bene per il candidato riformista Hassan Rohani. Se avvenisse il “miracolo” ci sarebbe sicuramente un cambiamento dei toni e del linguggio, ma riuscirebbe a imprimere un corso davvero riformatore? Il suo raggio di manovra sarebbe costantemente limitato dal potere vero che resta nelle mani del leader supremo, l’ayatollah Ali Khamenei, 73 anni, fiero di non aver mai messo piede fuori dell’Iran. Tanto che, non senza qualche ragione, Abdolassan Bani Sadr, dall’esilio parigino, sostiene che una grande astensione sarebbe un segnale politico più forte, dal momento che il voto di oggi è svuotato dalla leadership di Khamenei.

Ad Ankara l’eventuale crisi di Erdogan sarebbe comunque ricomposta all’interno del suo partito, che detiene le leve del potere turco.

Eppure, anche se si vogliono minimizzare gli effetti reali del voto iraniano e della rivolta anti-Erdogan, quel che succede sia a Teheran sia ad Ankara fa pensare, quanto meno, che il disordine nella regione non risparmia nessuno, neppure i due paesi non arabi che ritenevano di trarre profitto dalla conflittualità etnico-religiosa che divampa in tutto il mondo islamico: l’uno (l’Iran) accendendola e alimentandola – prima in Libano e in Iraq e poi in Siria – e l’altro (la Turchia) cavalcandola, anche assumendo un inedito netto profilo anti-israeliano, nella convinzione di poter compensare con una rilevante leadership regionale la difficoltà a farsi accettare a pieno titolo nell’Unione europea e “rivendendosi” presso la propria opinione pubblica la conquistata primazia regionale.

La tragedia siriana, non trovando sbocco, ha finito per contagiare la Turchia stessa, con l’ondata di profughi e alimentando l’irrequietezza delle minoranze riconducibili allo sciismo, come gli aleviti, in un contesto nel quale il problema delle minoranze, così come quello di una reale applicazione della democrazia, non è mai stato davvero risolto. Contemporaneamente in Iran, il venir meno di una sponda in Turchia, con cui per un lungo periodo ha intrattenuto rapporti buoni, ha ulteriormente inasprito il suo isolamento nel mondo, con effetti devastanti sull’economia del paese e sulla vita degli iraniani.

L’instabilità, dunque, è generale in Medio Oriente, ma questa non è necessariamente una buona notizia per Israele. Circondata da paesi ostili, ha sempre calcolato le proprie mosse in rapporto a uno scacchiere composto da pedine che si muovevano in modo prevedibile. Un “ambiente” nel quale le minacce immediate e reali erano sempre le stesse. Ma il fatto stesso che in una situazione così confusa possa accrescere ulteriormente il suo potere Hezbollah, che già tiene in pugno Bashar el Assad, non è una buona notizia per Bibi Netanyhau. Ma neppure per l’Europa e per l’America. Dove ancora prevale una “scuola” diplomatica e politica che sa ragionare solo sugli scenari prevedibili e puntando di volta in volta sui personaggi che meglio interpretano gli interessi occidentali. Erdogan, nella sua peculiarità è uno di questi. Ma perfino Ahmadinejad (e Assad), mostruosi quanto possano essere, minacciosi quanto possano apparire, sono comunque personaggi “prevedibili”.

Adesso che anche i due giganti regionali entrano in una fase complicata e incerta, bisognerà cominciare a costruire ragionamenti meno legati ai nostri interessi e più calati all’interno delle dinamiche di quei paesi, assecondando tutti gli sforzi di quelle società civili diretti verso la conquista di una piena democrazia.






































Il pianista italiano che incanta Taksim

Il pianista italiano che incanta Taksim

Europa 14 giugno 2013

La musica di Davide Martello è diventata la colonna sonora delle manifestazioni per Gezi Park a Istanbul
Cosa una musica può fare, lo si è capito stanotte in piazza Taksim a Istanbul. Davide Martello si è piantato con il suo pianoforte di fronte al mausoleo di Ataturk cinto dalla polizia in assetto antisommossa e ha cominciato ad andare su è giù sulla tastiera del suo pianoforte. Prima decine, poi centinaia, infine un paio di migliaia di persone si sono assembrate intorno a lui, cantando canzoni dei Beatles, Hallelujah nella versione che ne ha fatto Jeff Buckley, O sole mio.
La tensione che aleggiava sulla piazza, ormai arrivata al suo 17esimo giorno di rivolta, si è sciolta nell’eleganza di una scala in do maggiore, una Bella ciao jazzata e applauditissima. Alla fine anche i poliziotti, che all’inizio guardavano in cagnesco i manifestanti accovacciati proprio intorno a loro, si sono lasciati andare, levandosi i caschi, l’armatura usata per proteggersi il torace e lasciando a terra i loro scudi di protezione.

http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=74puWpBBXSQ 

guarda il video



12/06/2013 - La Stampa

Cina, scomparso regista indipendente che aveva realizzato un documentario sulle condizioni dei campi di lavoro


Du Bin
Du Bin aveva appena pubblicato anche un libro su Tiananmen. Non si hanno più sue notizie
dai giorni prima dell’anniversario

ilaria maria sala
hong kong
Ormai dato per “scomparso” a Pechino il regista indipendente Du Bin, di 41 anni: non si hanno sue notizie da appena qualche giorno prima l’anniversario di Tiananmen, il 4 giugno, e si teme per la sua incolumità.  
Du Bin, infatti, non ha dato notizia di sé dal 31 maggio: secondo l’articolo 83 del nuovo codice penale cinese, se è stato fermato per motivi legati alla “sicurezza pubblica” la polizia non ha il dovere di notificare la famiglia. Se invece fosse stato fermato per motivi che non riguardano la sicurezza di Stato, allora la legge cinese prevede una notificazione entro 48 ore. Il lungo silenzio dunque porta i suoi familiari, amici e sostenitori a temere per lui. 
L’inquietudine sulla sua sorte è infatti aumentata dalle recenti attività professionali di Du, che è anche giornalista e fotoreporter (in passato ha lavorato per il New York Times): proprio la settimana scorsa questi aveva pubblicato un libro, a Hong Kong, dal titolo “Il Massacro di Tiananmen”, e in maggio aveva rilasciato un documentario – di nuovo a Hong Kong, dove non vige la censura che c’è in Cina - sul campo di lavoro femminile di Masanjia, dove dettagliava alcuni degli abusi subiti dalle prigioniere nel corso degli anni. Le donne, intervistate da Du Bin dopo il loro rilascio, raccontavano di torture, percosse, trattamenti inumani e degradanti: molte di loro sono seguaci del gruppo spirituale Falun Gong, messo fuorilegge in Cina.  
La sorella di Du, Du Jirong, ha cercato ripetute volte di avere conferma dalla polizia che il fratello sia detenuto, ma fin’ora non ha ricevuto alcuna risposta. A casa del fratello però è stato rinvenuto un avviso che intimava a Du Bin di presentarsi alla polizia.  
Il gruppo francese “Giornalisti Senza Frontiere” ha pubblicato oggi un comunicato http://fr.rsf.org/chine-le-realisateur-d-un-documentaire-10-06-2013,44744.html in cui chiede l’immediata liberazione di Du Bin, e che lamenta l’indurirsi delle misure repressive da quando è entrato in carica il nuovo Presidente cinese, Xi Jinping.


La Stampa 11/06/2013

Idranti e lacrimogeni a Taksim
Il prefetto: “I social media aizzano”


marta ottaviani

Sale di nuovo la tensione a Istanbul. Questa mattina alle 7 italiane la polizia ha fatto irruzione in Piazza Taksim, nel centro della città e uno dei simboli della rivolta. Decine di poliziotti in tenuta antisommossa hanno scortato idranti che avevano il compito di ripulire la piazza e togliere le barricate. Subito dal primo momento sono andati scena scontri con alcuni gruppi di manifestanti dal volto coperto, che hanno tirato molotov contro le forze dell’ordine. Gezi parki, l’area verde al centro della rivolta non è stata toccata minimamente, in compenso nella zone vicine a Taksim, soprattutto ad Harbiye e Tarlabasi, sono andati in scena scontri violenti.

“Il nostro intento - ha assicurato il prefetto di Istanbul, Avni Mutlu - era quello di pulire la piazza e le zone limitrofe. Posso garantire personalmente che non sarà fatto nulla ai ragazzi di Gezi Parki”. Il prefetto ha poi ringraziato quei manifestanti “che hanno mostrato buon senso e sono rimasti all’interno dei confini del parco” e chiesto di “isolare provocatori e frange estreme”, dicendo che lo spettacolo di piazza Taksim di questa mattina “ha sconvolto la popolazione e mezzo Taksim in una cattiva luce agli occhi del mondo”. Ma la polemica è alle stelle. Alcuni manifestanti hanno infatti accusato la polizia di aver infiltrato persone apposta per lanciare molotov e creare tensione. Il prefetto dal canto suo, se l’è presa con i social media, dove “ci sono alcune persone interessate ad alzare il livello dello scontro”.

Lo sgombero di Taksim arriva proprio il giorno prima in cui il premier turco islamico-moderato Recep Tayyip Erdogan avrebbe dovuto incontrare una delegazione di manifestanti. Il premier ha detto oggi che i piani per la distruzione del Gezi Park andranno avanti. «Segheremo gli alberi di quel parco, saranno ripiantati in un altro posto» ha spiegato davanti al gruppo parlamentare del suo partito. Le proteste sono nate dalla salvaguardia di Gezi Parki, un’area verde nel centro di Istanbul, ma ben presto sono diventate un atto di accusa contro il premier e il suo governo in tutto il Paese, con la gente che ne critica la deriva autoritaria. Nel fine settimana il primo ministro aveva detto che la pazienza dell’esecutivo stava finendo e che avrebbero usato un linguaggio “che i manifestanti avrebbero capito”. Le proteste vanno avanti ormai da quasi due settimane e fino a questo momento il bilancio è di 4 morti, centinaia di feriti e decine di arrestati. 

AFGHANISTAN, ATTACCO ALL'AEROPORTO  

10/6/13

I talebani per la prima volta attaccano con un comando suicida il luogo più blindato della capitale. Battaglia per cinque ore


Kabul - L'attacco fortemente simbolico: è la prima volta che avviene un attentato così imponente all'aeroporto nella scia di una campagna di primavera che recita: “possiamo colpire dove e quando vogliamo" anche nello scalo da cui Karzai è appana partito alla volta del Qatar.

Stamattina, verso le 04:30 ora locale (le 7 in Italia), all'aeroporto militare di Kabul due kamikaze si sono fatti saltare in aria mentre almeno altri cinque, da un edificio in costruzione, hanno iniziato a sparare con dei lanciagranate sulle forze di sicurezza accorse sul posto. L'obiettivo era il Command centre, situato allo scalo, della missione Nato. Nell'attentato sono morti un poliziotto e due civili.
Subito dopo la prima esplosione, si sono alzati in volo i Black Hawk, gli elicotteri da combattimento dell'esercito Usa che hanno circondato la zona dall'aria. Sul posto, sono invece intervenute le forze speciali afgane di esercito e polizia, che in poco più di un'ora hanno messo fine all'attacco, uccidendo tutti gli attentatori. L'aeroporto nel frattempo è stato chiuso. Tutti i voli previsti cancellati.

Gli attentatori sarebbero arrivati a bordo di un furgone: 10-12 guerriglieri che avrebbero condotto l'attacco dal quartiere di Qasaba. Una zona residenziale, costruita negli anni dell'occupazione sovietica del Paese (1879-1989), adesso piena di nuovi edifici in costruzione, dai cui piani alti si domina lo scalo militare. In passato l'aeroporto era già stato oggetto di lanci di razzi, da parte dei talebani, dalle vicine montagne. Ma mai era avvenuto un attacco così diretto.


 

SUDAFRICA

Nelson Mandela ricoverato in ospedale

«Condizioni preoccupanti ma stabili»


L'ex presidente sudafricano, Nelson Mandela, è stato ricoverato in ospedale in «condizioni preoccupanti, ma stabili». Lo riferisce una nota della presidenza.
Il premio Nobel per la pace, 94 anni, è stato ricoverato di nuovo per un'infezione polmonare, riferisce la nota della presidenza. «Questa mattina il suo stato è peggiorato ed è stato trasferito in un ospedale di Pretoria. Le sue condizioni sono preoccupanti, ma stabili», si legge in un comunicato del presidente sudafricano Jacob Zuma.

 

Tibet: due monaci in prigione

Dopo aver pregato per 'immolato'. Condanna a tre anni

(ANSA) 07 giugno

PECHINO, 07 GIU - Due monaci buddhisti tibetani sono stati condannati a 3 anni di prigione per aver pregato per un tibetano che si e' dato fuoco per protesta contro la politica cinese. Lo ha denunciato la Campagna internazionale per il Tibet, precisando che sono le prime condanne inflitte per aver detto delle preghiere e che il fatto e' avvenuto nella provincia del Qinghai. Le immolazioni, nella Regione autonoma del Tibet e nelle altre aree a popolazione tibetana della Cina, sono state 119 negli ultimi 3 anni.

Esteri  la Stampa 06/06/2013 

Siria, ora gli scontri lambiscono Israele

Il giorno dopo la riconquista siriana di Qusayr, gli scontri tra i ribelli e le forze del regime sono arrivati fino alle Alture del Golan, vicino al confine con Israele


L’esercito riprende il controllo del valico di Quneitra, feriti due soldati delll’Onu. Appello al Qaeda:  «Tutti uniti contro Assad e gli Usa»
Il giorno dopo la riconquista siriana di Qusayr, gli scontri tra i ribelli e le forze del regime sono arrivati fino alle Alture del Golan, vicino al confine con Israele. L’esercito siriano ha ripreso il controllo del valico di Quneitra, che era stato conquistato dai ribelli. L’omonima città fantasma, in territorio siriano, è stata teatro di feroci combattimenti. 
 Si trova nella zona demilitarizzata creata dall’Onu che separa il confine tra Israele e Siria, e controllata dai caschi blu dell’Undof che vigilano sull’applicazione degli accordi di pace tra Siria e Israele. Dopo la sconfitta nella guerra dei sei giorni, la città fu abbandonata. 
Due soldati delle Nazioni Unite, la cui nazionalità non è stata resa nota, sono rimasti feriti in un bombardamento di artiglieria pesante proprio nel Golan. Non è ancora chiaro se il bombardamento sia legato alla riconquista siriana di Quneitra, ma nella giornata di oggi l’Austria ha annunciato alle Nazioni Unite di voler ritirare i propri caschi blu dalle alture. Vienna aveva un mese fa preannunciato che avrebbe ritirato le truppe se l’Unione europea, come poi è avvenuto, avesse revocato l’embargo sulle armi per l’opposizione siriana. «Non possiamo mantenere la nostra partecipazione alla missione per ragioni militari», ha detto oggi il cancelliere Werner Fayman. 
I lealisti hanno ripreso il controllo del quartiere di Jalediya, nella città centrale di Homs, una delle roccaforti dei ribelli. Lo hanno annunciato fonti ufficiali. Le truppe di governo continuano a guadagnare terreno nella regione attorno a Qusayr: insieme ai miliziani di Hezbollah sono a caccia dei ribelli fuggiti nei villaggi circostanti, al termine dei 17 giorni di sanguinoso assedio; e come era stato annunciato, adesso le forze del regime incalzano alla conquista dei quartieri di Homs che erano ancora in mano ai ribelli. 
Oggi la Russia ha fatto sapere che sarà il ministro degli Esteri di Damasco a guidare la delegazione ufficiale siriana alla cosiddetta Ginevra2. Il capo della diplomazia del Cremlino, Serghei Lavrov, ha anche messo in guardia dal fatto che l’uso delle armi in Siria possa essere strumentalizzato per giustificare un intervento militare.

Tienanmen, la censura selettiva di Pechino:
oscurati sul web anche i numeri "sensibili"

Oggi l'anniversario della strage: piazza presidiata, chiuso il cimitero dove sono sepolte le vittime. Ma sono state anche bandite dai motori di ricerca e dai social le cifre, le parole e le parole relative ai numeri che ricordano quel giorno. E su internet la satira si scatena

PECHINO - Una censura profonda, con un unico obiettivo: evitare che nell'anniversario della strage di Tienanmen - quando il regime inviò i carri armati per reprimere le manifestazioni nel cuore della capitale - i cittadini cinesi possano semplicemente ricordare e riflettere. Anche sul web. Così la macchina del governo cinese ha stretto i controlli sui numeri e le cifre contenute nei messaggi in rete, per evitare che ci sia qualsiasi richiamo all'anniversario. Così se su Sina Weibo, il più diffuso sistema di microblog cinese, da sempre è bandita la data 4 giugno e 4 giugno 1989, oggi vengono bandite anche '64' (giugno 4), 24 (è il 24mo anniversario della strage). Ma anche il 35, perché il 4 giugno in internet viene chiamato anche il 35 maggio. Bandite non solo le cifre, ma anche le lettere o le parole relative ai numeri. E via dal web anche le operazioni aritmetiche relative a questi numeri, come '63+1' o '65-1'. E il più sottile 'otto otto', perché moltiplicando i due numeri si ottiene 64. Ma non finisce qui: la mannaia della censura si è abbattuta anche su parole come 'oggi', 'domani', 'giorno speciale', 'quel giorno', 'quell'anno'. Cancellate anche immagini con candele, e naturalmente la parola 'candela'. A quasi un quarto di secolo da quell'evento, l'anniversario resta una data molto sensibile per il regime cinese, che cerca di impedire ogni discussione pubblica o commemorazione di quei fatti.
Inevitabile che si scateni la satira, soprattutto nelle immagini, diffuse principalmente al di fuori dei circuiti internet cinesi. Una delle più cliccate è quella che sostituisce, nella famosa simbolo di Tienanmen dove un uomo è fermo dinanzi ai carri armati, i tank cinesi con le papere gonfiabili come quella gigante opera dell'artista concettuale olandese Florentijn Hofman, vista sia nella baia di Hong Kong, dopo essere passata da Osaka, Sidney, San Paolo e Amsterdam. Carri armati e uomo, sostituiti in un'altra immagine da costruzioni con i mattoncini Lego.
Naturalmente la polizia cinese ha vietato oggi l'accesso a un cimitero dove sono sepolte le vittime della sanguinosa repressione del movimento democratico. Si tratta di una delle misure prese dalle autorità per impedire la celebrazione del 24 anniversario della repressione del 4 giugno 1989. I poliziotti dispiegati all'esterno del cimitero di Wanan, nella parte ovest di Pechino, hanno bloccato l'ingresso principale e hanno chiesto ai giornalisti dell'afp di andare via. Chiuse anche alcune uscite delle stazioni della metropolitana, mentre l'accesso a Tienanmen è presidiato da un massiccio schieramento di agenti in divisa e in borghese.
"Tutto il gioco in questo paese si è ridotto ad accendere o spegnere una candela", ha ironicamente commentato l'intellettuale dissidente ai Weiwei sul suo blog. Ancora oggi, le stime dei morti del massacro di Tienanmen è incerto. Il governo cinese allora parlò inizialmente di 200 civili e 100 soldati morti, ma poi abbassò il numero di militari uccisi ad "alcune dozzine". La Cia stimò invece 400-800 vittime. La Croce rossa parlò di 2.600 morti e 30 mila feriti. Organizzazioni non governative come Amnesty International hanno denunciato che, ai morti per l'intervento, vanno inoltre aggiunti i giustiziati per "ribellione", "incendio di veicoli militari", ferimento o uccisione di soldati e reati simili. L'immaginario collettivo ricorda la rivolta con il simbolo di quello che negli anni è stato identificato come il "rivoltoso sconosciuto": uno studente che, da solo e completamente disarmato, si parò davanti a una colonna di carri armati per fermarli. Le fotografie che lo ritraggono sono popolari nel mondo intero e sono per molti un simbolo di lotta contro la tirannia.

 

Siria

Il rapporto dell’Onu sui crimini di guerra

Internazionale 4 giugno 2013
In Siria si commettono crimini di guerra. Lo afferma un rapporto della commissione d’inchiesta internazionale indipendente sulla Siria delle Nazioni Unite, secondo cui dall’inizio del conflitto sia l’esercito governativo sia i ribelli hanno compiuto massacri, fatto ricorso alla tortura e alle armi chimiche.
Le indagini rivelano che è stato soprattutto il regime siriano a usare armi illegali. Per avere dei risultati definitivi, però, la commissione ha bisogno di inviare una spedizione nel paese per prelevare dei campioni sul campo. Per questo ha chiesto l’autorizzazione di Damasco.
Il rapporto, documenta il periodo tra il 15 gennaio e il 15 maggio 2013.
Quattro attacchi. Secondo l’Onu, ci sono stati almeno quattro attacchi in cui è stato usato del gas tossico: a Khan al Asal, vicino ad Aleppo, il 19 marzo, a Uteiba, nei pressi di Damasco, il 19 marzo, a Sheikh Maqsud, un quartiere di Aleppo, il 13 aprile, e a Saraqib, nella regione di Idlib, il 29 aprile. In questi casi è stato violato lo Statuto di Roma, il trattato istitutivo della corte penale internazionale, fanno notare gli esperti.
“Un costo in vite umane sempre più alto si accompagna a una crescente circolazione delle armi in Siria”, ha fatto sapere la commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite. Un messaggio che sembra rivolto all’Unione europea, che recentemente ha deciso di togliere l’embargo sulle armi dirette ai ribelli siriani, e alla Russia, che ha promesso di inviare nuovi missili ad Assad. Il resoconto di Al Jazeera.
Il 27 maggio, un reportage di Le Monde ha documentato l’uso di gas tossici da parte del regime di Assad. Fino a oggi, secondo l’Onu, il conflitto siriano ha provocato più di 80mila morti.


Sudafrica, ucciso in una sparatoria
il sindacalista che difendeva i minatori


Sale nuovamente la tensione nella miniera di platino Marikana in Sudafrica

Aggredito con un collega a Marikana da un commando di uomini armati

Un responsabile del sindacato minatori sudafricano Num è stato ucciso ed un altro ferito in un attacco di uomini armati a Marikana, teatro nell’agosto scorso di violenti incidenti in cui la polizia uccise 34 minatori. «Uno dei nostri membri è stato attaccato a colpi di arma da fuoco in un nostro ufficio nella miniera Lonmin della Western Platinum», ha detto un portavoce della Num aggiungendo che l’uomo è morto in seguito alle ferite riportate. L’altro è ricoverato in ospedale.  

La Stampa 04062013
 Turchia, fine di un’epoca

Bernard Guetta:  giornalista francese esperto di politica internazionale

Internazionale 3 giugno 2013


Le rivoluzioni arabe e le manifestazioni in Turchia sono fenomeni molto diversi. Non stiamo assistendo a una “primavera di Istanbul”, ma l’esplosione del malcontento nei confronti della maggioranza islamica costantemente al potere dal 2002 rappresenta comunque un segnale inquietante per il governo.

Non si tratta della crisi di un regime, perché la Turchia è una repubblica parlamentare e nessuno contesta la regolarità delle tre elezioni che hanno permesso al Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp), di assumere e mantenere il controllo del paese. Inoltre l’economia turca è in pieno boom, e la crescita del paese è paragonabile a quella della Cina. In dieci anni il reddito medio è triplicato, e la fiducia nel futuro è talmente alta che i figli dell’emigrazione del dopoguerra partono dalla Germania, dalla Francia e dall’Olanda per tornare in patria, dove riescono a trovare lavoro più facilmente che nei paesi dell’Unione europea grazie alle loro competenze e al loro multilinguismo.

In Turchia, infatti, la disoccupazione dei giovani diplomati non è affatto un’emergenza, diversamente da quanto accadeva (e accade ancora) nei paesi arabi, dove è stata una delle principali cause delle rivoluzioni. Ma allora perché il progetto di un centro commerciale in un parco di Istanbul ha provocato una reazione così forte in tutto il paese?

La risposta è semplice: la Turchia (quella delle città, ma non solo) è un paese infinitamente più moderno e progressista di quanto non lo sia l’Akp del primo ministro Recep Tayyip Erdoğan. Prodotto dell’islamismo, il partito ha saputo ottenere il sostegno della maggioranza della popolazione mettendo da parte ogni tentazione teocratica e accettando la laicità scolpita nella costituzione da Kemal Atatürk negli anni venti, quando il governo ha addirittura vietato il velo nelle amministrazioni e nelle scuole. Contemporaneamente l’Akp ha cavalcato l’aspirazione nazionale di entrare a far parte del’Unione europea e in questo modo, oltre alle classi sociali più basse, ha conquistato anche gli industriali, sedotti dal suo liberalismo economico, e una parte della classe media rivolta all’Europa, che nel partito ha visto un mezzo per sbarazzarsi del potere politico dell’esercito.

In passato l’Akp e la Turchia hanno vissuto una luna di miele, ma ora le cose sono cambiate. Gli “islamo-conservatori”, infatti, hanno accettato la democrazia e la separazione tra religione e stato, ma non hanno rinunciato al loro conservatorismo estremo e all’autoritarismo incarnato dall’attuale primo ministro. Il dialogo e la consultazione sono concetti sconosciuti a Erdoğan, convinto di poter fare ciò che vuole perché eletto dal popolo. L’Akp pensa ancora che la sua missione sia quella di restituire alla religione il ruolo che ha perduto e di ripristinare le vecchie usanze combattendo l’aborto, il consumo di alcol e l’interdizione del velo.

Questo approccio però non rispecchia i desideri di una società giovane, europea e in gran parte laica. La vicenda del parco sacrificato al cemento ha scatenato lo scontro, mostrando improvvisamente una rabbia collettiva che unisce i giovani e tutte le opposizioni nella lotta contro l’autoritarismo, il puritanesimo e lo strapotere del denaro.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Iraq, è stato un maggio di sangue:

più di 1.000 morti, record dal 2008

Il bilancio tiene conto di civili, poliziotti e militari, ma non di terroristi e insorti. La provincia di Baghdad la più colpita. L'allarme delle Nazioni Unite ai leader iracheni: "Agire in fretta". Smantellata cellula di al Qaeda, produceva e contrabbandava armi chimiche

BAGHDAD - Maggio in Iraq è stato il mese più sanguinoso dal 2008. Secondo le Nazioni Unite, 1.045 persone sono state uccise e 2.397 ferite in 560 casi di attentati o attacchi di insorti. Un'ondata di violenza inaudita che non si registrava dall'aprile del 2008, quando erano morte oltre 700 persone e le truppe Usa erano ancora sul terreno.

La provincia di Baghdad risulta la più colpita, con 532 morti e 1.285 feriti. A rendere così drammatico il bilancio, che include vittime civili, poliziotti e militari, ma non terroristi o insorti, hanno contribuito le violenze esplose lo scorso dicembre con le proteste della comunità sunnita contro il governo sciita di Nouri al-Maliki.

Nella maggior parte dei casi responsabili degli attentati sono i miliziani di al-Qaida e altri gruppi terroristici sunniti. Ma una serie di attcchi alle moschee sunnite nelle ultime settimane, in cui sono morte oltre 100 persone, dimostrano che anche gli sciiti stanno imboccando la strada della violenza. Un segnale poco incoraggiante per un Paese che ancora non riesce a tornare alla normalità dopo anni di guerra e dimostra quanto sia fragile la pace raggiunta.

Il rappresentante speciale delle Nazioni Unite in Iraq, Martin Koppler, ha fatto appello a tutti i leader politici iracheni perché "agiscano in fretta per fermare questo spargimento di sangue insopportabile". Per far fronte alla drammatica situazione, le autorità hanno imposto il blocco completo delle licenze temporanee per le automobili a Baghdad, nella speranza di limitare l'utilizzo di macchine imbottite di esplosivo e hanno chiuso al traffico alcune strade della Capitale.

Armi chimiche per attentati in Europa e Usa. Il ministero della Difesa iracheno ha inoltre annunciato che le forze di polizia hanno smantellato un gruppo di al Qaeda che stava fabbricando armi chimiche per attentati in Europa e in Nord america. Il gruppo, composto da cinque persone, era formato da due cellule, una delle quali si occupava di produrre i veleni, mentre l'altra forniva le istruzioni e coordinava il lavoro per contrabbandare le armi chimiche all'estero.

 

Usa, Francia e Israele avevano chiesto alla Russia di bloccare la fornitura

Siria, Assad: «Arrivati i missili dalla Russia»

Il presidente: «Arrivato il primo carico di S-300. Presto altra fornitura». Israele: «Pronti a intervenire»

La Siria ha ricevuto il primo carico relativo a un avanzato sistema di difesa aerea russo e riceverà presto i restanti missili S-300. Lo ha detto lo stesso presidente siriano Bashar al-Assad, citato da un quotidiano libanese. «La Siria ha ricevuto il primo carico di razzi anti-aereo russi S-300», ha detto Assad, secondo il giornale al-Akhbar, in un'intervista video al canale tv al-Manar - emittente del movimento sciita libanese Hezbollah. La Russia aveva reso noto che avrebbe consegnato il sistema missilistico al governo siriano nonostante le obiezioni occidentali, affermando che l'iniziativa avrebbe contribuito a stabilizzare la regione. Usa, Francia e Israele avevano chiesto alla Russia di bloccare la fornitura.
ISRAELE: PRONTI A RISPOSTA - Secondo le autorità israeliane, i missili S-300 potrebbero raggiungere il territorio dello Stato ebraico e minacciare anche i voli da e per Tel Aviv. Martedì il ministro della Difesa israeliano, Moshe Yaalon, ha definito una minaccia il piano di Mosca di fornire questo tipo di armi alla Siria e aveva suggerito che Israele sarebbe pronto a usare la forza per fermare la consegna.
CONFERENZA INTERNAZIONALE - Mosca, alleata del governo di Assad, sembra aver assunto una posizione sempre più provocatoria dopo che la Ue, nei giorni scorsi, ha abbandonato l'embargo sulle armi, aprendo così alla possibilità di rifornire i ribelli che cercano di abbattere il regime. Secondo il giornale libanese, Assad pensa di partecipare alla conferenza internazionale sulla Siria, patrocinata da Stati Uniti e Russia per una soluzione politica al conflitto siriano, anche se non è molto convinto della sua utilità, e dice che comunque continuerà a combattere contro la guerriglia. Per la conferenza, ha però sottolineato il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, «non c’è ancora una data stabilita».
HEZBOLLAH - Il presidente Assad ha anche sottolineato i legami tra le proprie forze e i militanti Hezbollah che combattono apertamente sia sul territorio siriano che al confine tra Siria e Libano. «Siria e Hezbollah fanno parte dello stesso asse», ha detto Assad, rispondendo alle critiche della comunità internazionale. Una presenza condannata dal Dipartimento di Stato americano, che ne ha chiesto il ritiro immediato in quanto «estremamente pericolosa».

Premiato a Cannes film palestinese "Omar"

il regista Hani Abu Assad sposta il racconto dell'occupazione dall'iconografia più tradizionale al territorio invisibile dell'animamartiri però. Così sparano a un soldato israeliano e lo ammazzano provocando soltanto repressione.

Gli israeliani gli stanno addosso e arrestano Omar, lo torturano con violenza, sigarette sui genitali, coltelli, lui resiste ma si fa scappare un «io non confesserò mai» al compagno di cella che ovviamente è il capo degli israeliani. A quel punto per non restare tutta la vita in galera ha una sola possibilità: uscire e consegnargli colui che credono essere l'assassino del soldato ma facendo il doppio gioco. Omar ha un punto debole, Nadia, la ragazza che ama più di ogni cosa, e l'amore in quella realtà è molto pericoloso.
Hany Abu Assad, rivelato da Paradise Now, fa parte di quella generazione di cineasti palestinesi che cercano di confrontarsi col conflitto mediorientale da prospettive eccentriche e mai scontate Accadeva nel primo suo film, Paradise Now appunto, in cui due amici passano la sera insieme prima di compiere un attentato suicida a Tel Aviv, finendo per rigettare il fondamentalismo, e accade in questo Omar (Certain Regard, si è guadagnato il premio della giuria) dove il racconto dell'occupazione si sposta dall'iconografia più «tradizionale», al territorio invisibile dell'anima. 
Cosa è il quotidiano di vive nel recinto di un muro, con gli slogan gridati nelle orecchie, qualcuno che dispone della tua vita e la necessità di mostrarsi eroi? Basta meno per diventare pazzi, e difatti Omar impazzisce. L'amata sedotta con i versi lo lascia per Ahmjad perché lui è un traditore - come è riuscito infatti a farsi liberare dagli israeliani? E poi è pure incinta dell'altro, che tiene gli occhi bassi e a sua volta ha tradito ma chi tradisce chi sembra essere una specie di catena senza scampo. A questa strategia della paranoia è dedicato il film, rivelata attraverso il progressivo spaesamento del personaggio Omar, la cui vita finirà per essere 
manipolata dagli israeliani che gli mettono sotto la pelle persino una sonda che ne segue i movimenti. È questa forma di controllo, subdolo, quasi introiettato, manipolato dal fondamentalismo, sembra diventare per Assad una delle ragioni primarie della sconfitta palestinese.
Almeno in quel progetto politico di leggerezza rivoluzionaria che negli anni si è appesantito di ideologie del controllo - un po' come Omar che non riesce più a saltare dall'altra parte sul muro. La Palestina aperta di sensibilità avanzata degli anni settanta non c'è più distrutta da Israele che ne ha ammazzato i suoi leader e dalle divisioni interni, fino al trionfo di un pensiero macho dell'onore da difendere, che impedisce di guardare oltre. Se Omar perde la sua donna è perché non ha la capacità di una visione oltre le apparenze della verità. Quella che fa comodo per far credere al paradiso, o a qualcosa di simile, poco rivoluzionaria, molto pericolosa. Nena News
il Manifesto 28 maggio 2013







Nasrallah: "Hezbollah combatte in Siria.
Se cade Assad, Israele invaderà il Libano"

Il leader della milizia sciita conferma quanto già rilevato sul campo: la presenza della guerriglia libanese al fianco delle truppe regolari siriane contro gli "estremisti islamici"

BEIRUT - Il leader del gruppo libanese Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha detto che i suoi militanti non resteranno inattivi mentre il suo alleato, la Siria, è sotto attacco. Nasrallah ha dichiarato che i membri di Hezbollah stanno combattendo in Siria contro estremisti islamici che costituiscono un pericolo per il Libano. E' la prima volta che il leader conferma pubblicamente che i suoi uomini stanno combattendo in Siria. Ha detto che decine di migliaia di estremisti islamici da tutto il mondo sono stati mandati in Siria per combattere il regime, ma Hezbollah invia "pochi" combattenti ed è accusata di intervenire nel conflitto.
Nasrallah ha detto di avere "contattato il presidente siriano Assad e membri dell'opposizione per trovare una soluzione, ma Assad ha accettato, mentre l'opposizione ha detto no". "I Takfiri (cioè I 'fanatici religiosi', ndr) sono la componente prevalente nell'opposizione", ha sostenuto Nasrallah, accusando gli Usa di sostenerli. "Parte dell'opposizione all'estero ha una visione ed è pronta al dialogo, mentre altri lavorano agli ordini del Pentagono". Hezbollah "non può rimanere fermo", ma deve aiutare la Siria che è il suo "principale sostenitore": "se la Siria cade nelle mani dei fanatici religiosi (gli insorti Takfiri) e degli Usa, Israele entrerà in Libano".

Attacco a Kabul, gravissima una funzionaria italiana

La donna è una dipendente dell'Organizzazione internazionale per le Migrazioni. Nell'attacco dei talebani finora hanno perso la vita tre persone































































Sono “molto critiche” le condizioni della funzionaria italiana ferita negli attacchi di stamattina nel centro di Kabul. Dopo la Farnesina, che in primo tempo aveva invece parlato di una situazione non grave, lo ha confermato il coordinamento italiano di Emergency, nel cui ospedale nella capitale afgana la donna è stata trasportata e ricoverata.

«A noi risulta che le condizioni della ferita italiana sono molto critiche», ha dichiarato a Tgcom24 un componente del coordinamento ufficio umanitario di Emergency, Rossella Miccio, «Non presenta ferite da armi da fuoco ma ustioni».

La funzionaria è una dipendente dell’Oim, l’Organizzazione internazionale per le Migrazioni, ha annunciato da Ginevra un portavoce dell’organizzazione. Feriti anche «tre nepalesi incaricati della sicurezza hanno riportato ferite lievi causate da lanci di granate”, ha dichiarato il portavoce dell’organnizzazione Chris Lom, che non ha saputo dire se fosse proprio l’Oim l’obiettivo dell’attacco.

Il centro di Kabul è stato colpito da un attacco senza precedenti da un anno a questa parte. Un gruppo di ribelli talebani ha fatto esplodere un’autobomba prima di asserragliarsi – armi in pugno – in una zona dove si trovano le sedi di organizzazioni internazionali, tra cui appunto l’Oim. Le autorità hanno finora segnalato la morte di tre ribelli, un kamikaze e due uomini armati uccisi dalle forze governative. Si ritiene che siano sei o sette i ribelli ancora barricati.

Sì di Assad alla conferenza per la pace


Damasco accetta di sedere al tavolo di Ginevra per una soluzione politica
E l’opposizione siriana rimane divisa

Millimetro dopo millimetro, fra mosse tattiche e segnali di fumo diplomatici, si iniziano a intravedere i possibili contorni della Conferenza di pace che Usa e Russia hanno deciso di convocare a Ginevra in giugno per porre fine al bagno di sangue siriano.

Il governo di Damasco, ha annunciato oggi Mosca, in linea di principio è pronto a partecipare a “Ginevra 2”. L’opposizione, sempre divisa, si orienta a sua volta a essere presente. D’altronde non ci sono alternative, a meno di lasciare spazio all’avversario. A Istanbul la Coalizione nazionale siriana, formata prevalentemente da forze islamiche e considerata da diversi paesi occidentali e islamici la componente principale dell’opposizione, è riunita fino a domani per decidere come procedere. La Coalizione per ora esprime riserve, e chiede che la conferenza di Ginevra parta con un mandato negoziale che preveda come preliminare a una fase di transizione l’uscita di scena di Assad. Il presidente siriano però negli ultimi giorni ha nuovamente escluso di lasciare prima delle presidenziali del 2014, sfidando l’opposizione al confronto nelle urne.

«Finiremo con l’andare a Ginevra», ha previsto senza entusiasmo oggi a Istanbul un delegato. Una opinione condivisa da Burhan Ghaliun, considerato uno dei favoriti nell’elezione del nuovo presidente, domani, in sostituzione del dimissionario Moaz al Khatib. A conferma delle sempre forti divisioni interne non ha raccolto consensi a Istanbul la proposta di piano per una transizione da portare a Ginevra avanzata dal moderato al Khatib.

Il presidente uscente ieri ha offerto un salvacondotto a Assad se lascerà il Paese cedendo il potere al vicepresidente Faruk al Shara o al premier Wael al Halki, che dovrebbero gestire per 100 giorni la prima fase di transizione. Quella di al Khatib «è solo una sua personale opinione», è sbottato Louay al Safi, candidato alla presidenza con l’attuale leader ad interim George Sabra e l’attivista Ahmed Tumeh Kheder. La linea intransigente in vista di Ginevra della Coalizione è criticata da Randa Kassis, uno dei leader dell’opposizione laica, presidente del Movimento della società pluralista. «Non si può andare a un negoziato dicendo all’altra parte discuto solo la tua uscita o la tua morte», avverte, sottolineando che Assad «è ancora forte». Per Kassis la Coalizione è condizionata dall’esigenza di non essere scavalcata dai capi militari che combattono sul terreno.

Il segretario di stato Usa John Kerry e il capo della diplomazia russa Sergei Lavrov si vedranno lunedì a Parigi per aggiungere nuovi tasselli al precario mosaico di Ginevra. Mentre l’Iran oggi ha avvertito attraverso il suo ambasciatore ad Ankara Alireza Bikdeli che se «l’opportunità storica» di Ginevra 2 fallirà, la Siria rischia di diventare un «nuovo Afghanistan». Sempre lunedì a Bruxelles i ministri degli Esteri Ue parleranno dell’embargo sulle armi all’opposizione. Oxfam ha diffidato l’Europa dal revocarlo: sarebbe «irresponsabile», ha avvertito, «avrebbe «conseguenze devastanti» per la popolazione civile.

Sul terreno intanto si combatte sempre la “madre di tutte le battaglie” attorno alla città strategica di Qusayr, fra Damasco, la “regione alawita” e il Libano. I ribelli sono in difficoltà davanti ai governativi appoggiati dagli Hezbollah. La riconquista di Qusayr sarebbe una dimostrazione di forza di Damasco prima di Ginevra 2. Mentre i ribelli hanno denunciato oggi per l’ennesima volta l’uso di armi chimiche da parte del regime che, a loro dire, avrebbe attaccato con i gas la cittadina di Adra, nella periferia di Damasco, causando 4 morti e 50 intossicati. Denuncia che non è possibile verificare con fonti indipendenti.

la Stampa 24 maggio 2013



L’Iraq rischia una nuova guerra

22 maggio 2013 La Stampa

Il 21 maggio sono morte 40 persone in una serie di attentati contro aree a maggioranza sciita in Iraq. Il giorno precedente le vittime erano state almeno 70. Si calcola che nelle ultime due settimane siano morte almeno 300 persone in tutto il paese. Il conflitto tra le comunità sciita e sunnita, alimentato dalla crisi siriana, rischia di portare il paese a livelli di violenza che non si vedevano dal 2008. In risposta agli attentati degli ultimi giorni, il 22 maggio il presidente iracheno Nuri Al Maliki ha sostituito i vertici delle forze di sicurezza irachene e licenziato 14 alti funzionari.
“A dieci anni dall’invasione statunitense del paese, sciiti, sunniti e curdi non sono riusciti ancora a trovare una soluzione politica stabile e condivisa per amministrare il paese. La violenza è fuori controllo”, scrive Reuters.
Il rischio di una nuova guerra. “È stata una primavera violenta in Iraq, secondo le Nazioni Unite sono morte 712 persone solo ad aprile, che è stato il mese più cruento dal 2008. Anche se nessuno rivendica gli attentati e le bombe, la preoccupazione è che la guerra civile in Siria abbia riacceso il conflitto tra sciiti e sunniti anche in Libano e in Iraq”, commenta Time. Ma le bombe in Iraq hanno soprattutto un valore politico e denunciano l’incapacità del governo sciita di trovare un accordo con la comunità sunnita. A tutto ciò si aggiungono le tensioni tra le autorità di Baghdad e la regione autonoma del Kurdistan iracheno, nel nord del paese.  Secondo il quotidiano panarabo Al Hayat le proteste contro il governo di Al Maliki potrebbero finire in due modi: “O con la formazione di nuove province autonome o con una guerra”.
Le ambiguità di Al Maliki sulla Siria. Per Foreign Policy uno dei problemi del paese è il realismo politico del primo ministro Nuri Al Maliki che in politica estera ha posizioni ambigue, soprattutto verso il regime di Bashar Al Assad. “Dopo la fine dell’occupazione statunitense, l’Iraq ha cercato di ritagliarsi un ruolo strategico nella regione, bilanciando politica estera e questioni interne. Il suo rapporto con la Siria e con l’Iran non è slegato alle questioni di politica interna”. Al Maliki teme che se in Siria dovessero vincere le forze dell’opposizione il conflitto potrebbe spostarsi anche fuori dei confini siriani e coinvolgere anche il suo paese. “Armare i ribelli siriani è come dichiarare guerra all’Iraq, perché in qualche modo quelle armi arriverebbero in Iraq”, ha dichiarato il ministro dei trasporti iracheno a febbraio del 2013.


Immigrazione Usa, primo sì alla legge di Obama

In Commissione Senato passa il progetto di riforma, a giugno il voto in aula poi l'esame dei depatati. Su questa legge il presidente ha basato molto della sua campagna per la rielezione, ottenendo il consenso della comunità ispanica. Undici milioni di immigrati illegali potranno chiedere la cittadinanza

Il presidente della commissione del Senato Patrick Leahy (D) con Chuck Schumer (D) e Dianne Feinstein (D) prima del voto (ap)
TAG Usa immigrazione,  Riforma immigrazione,  senato usa,  barack obama WASHINGTON - La riforma dell'immigrazione ha superato negli Stati Uniti il primo grande ostacolo dell'iter legislativo con l'approvazione a grande maggioranza del testo da parte della Commissione Giustizia del Senato di Washington. Un voto che apre la strada all'esame del provvedimento in aula. Il Senato dovrebbe iniziare il dibattito sul testo a partire dai primi di giugno. I 18 membri della Commissione hanno approvato con 13 voti a favore e 5 contrari il testo del progetto di legge.
La legge spiana la strada verso la regolarizzazione di 11,5 milioni di clandestini residenti negli Stati Uniti, in maggioranza messicani, a condizione di pagare una multa, di non pesare sui servizi sociali e di non essere responsabili di reati gravi. Al termine di 13 anni potranno chiedere la naturalizzazione. Obama ha puntato molto su questa riforma durante la campagna per la rielezione alla Casa Bianca, e ha ottenuto il 70% del voto della comunità ispanica, ritenuto decisivo per la sconfitta di Romney.
Tre dei 10 senatori repubblicani presenti in commissione giustizia si sono uniti ai democratici nell'approvare il testo, versione emendata del progetto presentato ad aprile da di otto senatori dei due partiti. Dopo il voto nell'aula del Senato, che potrebbe arrivare a giugno, il testo passerà alla Camera dei rappresentanti, a maggioranza repubblicana, che discuterà la riforma per poi votarla entro l'estate.




Gerusalemme, Israele caccia l'Unesco
Ieri a sorpresa le autorità israeliane hanno cancellato la visita del team Onu, accusando l'ANP di voler politicizzare la missione, trasformandola in un'inchiesta.

di Emma Mancini

Gerusalemme, 21 maggio 2013, Nena News
La visita della delegazione dell'Unesco a Gerusalemme non è nemmeno iniziata. Ieri, poco prima dell'arrivo del team delle Nazioni Unite nella Città Santa, Israele ha stracciato l'accordo stretto qualche settimana fa con cui permetteva l'ingresso della missione dell'agenzia culturale e scientifica dell'ONU.
La missione aveva come obiettivo un'indagine sullo stato di conservazione e mantenimento dei sitistorici, religiosi e archeologici di Gerusalemme, indagine che avrebbe dovuto concludersi con una serie di raccomandazioni sulle modalità di preservazione della città. Il rapporto finale sarebbe stato presentato il primo giugno prossimo al meeting annuale del World Heritage Committee.
Ma niente da fare. Con una decisione come al solito unilaterale, le autorità israeliane hanno bloccato la visita del team Unesco, accusando la controparte palestinese di voler politicizzare l'evento. "I palestinesi non hanno rispettato gli accordi - ha detto un funzionario del Ministero degli Esteri israeliano - La visita avrebbe dovuto essere professionale, ma loro hanno preso misure per politicizzarla. Il ministro degli Esteri palestinese, Riad Maliki, ha detto di considerare la visita 'una commissione di inchiesta' e che avrebbe discusso di questioni politiche".
Quella che avrebbe dovuto iniziare ieri era la prima missione Unesco a Gerusalemme dal 2004. A premere perché l'agenzia Onu verificasse la situazione della Città Santa erano stati il governo giordano e l'Autorità Nazionale Palestinese, preoccupati per le politiche israeliane di "giudaizzazione" della città, a scapito della sua storia araba, cristina e musulmana. Politiche che hanno come target non solo i siti storici di Gerusalemme, ma anche la sua vita attuale, i suoi quartieri palestinesi e l'intera Gerusalemme Est, che da decenni subisce una dura colonizzazione da parte israeliana.
Dopo il riconoscimento della Palestina come Stato membro dell'Unesco nel 2011, Israele aveva aspramente attaccato l'agenzia delle Nazioni Unite, tagliando i fondi (insieme all'alleato statunitense) e minacciando di prendere misure volte a sospendere le relazioni diplomatiche con l'ente. In ogni caso l'Unesco non si arrende e promette: "La visita non è cancellata. È solo posposta". 
Nena News

Guatemala, annullata la condanna per genocidio a Rios Montt


AP
Rios Montt era stato giudicato colpevole il 10 maggio scorso della morte di oltre 1.770 membri dell’etnia Maya Ixil durante il suo governo (1982-83).
Il dittatore colpevole della morte di oltre 1700 Maya: ma la Corte costituzionale blocca la sentenza
La massima corte del Guatemala ha annullato ieri sera la condanna per genocidio inflitta all’ex dittatore Efrain Rios Montt e riaperto il processo a suo carico.
Rios Montt era stato giudicato colpevole il 10 maggio scorso della morte di oltre 1.770 membri dell’etnia Maya Ixil durante il suo governo (1982-83). Ma la Corte costituzionale del Paese centramericano ha bocciato la sentenza per alcune irregolarità formali e riportato lo stato del procedimento al 19 aprile, data in cui ci fu una disputa tra due giudici impegnati nel processo.  Al momento non è chiaro quando il procedimento contro l’ex dittatore guatemalteco dovrebbe ripartire.
la Stampa 21 maggio 2013




La Russia manda nuove armi a Damasco



La Russia ha fornito al regime siriano dei nuovi missili cruise antinave. Una mossa che mostra ancora una volta il suo appoggio al presidente Bashar al Assad. La rivelazione arriva dalle pagine del New York Times, che cita fonti militari statunitensi.

Oggi il presidente russo Vladimir Putin ha tenuto un incontro con il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, che si è detto “preoccupato per la crescente violenza in Siria” e ha indicato la diplomazia come “l’unica soluzione possibile per uscire dalla crisi”.

Nel frattempo, le Nazioni Unite continuano i loro sforzi per organizzare una conferenza di pace internazionale sulla crisi siriana, che ha causato più di 70mila morti.

Come sono fatti i nuovi missili. Mosca ha già fornito armi al regime siriano, ma secondo il New York Times i nuovi missili, chiamati Yakhont, sono più potenti e sofisticati: sono radiocomandati e progettati per la difesa da terra.

Mosca vuole dare ad Assad un mezzo per tenere lontane le forze navali occidentali dalle coste siriane. L’obiettivo è evitare un intervento occidentale in Siria, fa notare il corrispondente della Bbc Jonathan Marcus, ma potrebbe anche esserci il rischio che queste armi finiscano nelle mani dell’organizzazione libanese Hezbollah, alleata del regime.

L’internazionale 18 maggio 2013


 

La catastrofe palestinese
L’Internazionale  15 maggio 2013

Migliaia di palestinesi hanno manifestato il 15 maggio nei territori occupati in occasione del sessantacinquesimo anniversario della creazione dello stato d’Israele, una giornata che in Palestina è chiamata Nakba: la catastrofe.
Il 14 maggio 1948, alla vigilia della scadenza del mandato britannico sulla Palestina e del riconoscimento ufficiale da parte delle Nazioni Unite, veniva unilateralmente dichiarata la nascita dello stato di Israele, che da allora celebra ogni anno la festa nazionale di Yom Ha’atzmaut.
Per i palestinesi, invece, l’evento rappresenta l’inizio dell’occupazione militare dei loro territori: per molte famiglie ha coinciso con la perdita della propria casa e della terra e la fuga verso i campi profughi del paese e negli stati vicini come il Libano e la Giordania.
Una vita da rifugiati. A Hebron e a Ramallah, in Cisgiordania, il 15 maggio ci sono stati scontri violenti tra i palestinesi che manifestavano e le forze di sicurezza israeliane. A Ramallah, durante la protesta, le persone hanno innalzato dei cartelli con il nome dei villaggi palestinesi che sono stati cancellati dagli insediamenti israeliani, racconta Reuters.
Secondo un rapporto delle autorità di Ramallah, 5,3 milioni di palestinesi, circa la metà dell’intera popolazione, sono rifugiati in Siria, Libano, Giordania, Cisgiordania e a Gaza. Solo la Giordania, che ha firmato un trattato di pace con Israele, ha concesso la cittadinanza ai palestinesi arrivati nel 1948. Molti di loro vivono in campi affollati e privi dei servizi fondamentali.
Una pace quasi impossibile. In occasione della Nakba, Saeb Erekat, uno dei delegati palestinesi ai negoziati di pace con Israele, ha dichiarato che la violenza settaria in Siria e Iraq coinvolge anche i rifugiati palestinesi e che la pace in tutto il Medio Oriente non è possibile se Israele “rifiuterà di assumere le sue responsabilità sulla questione dei profughi”.
L’Autorità Nazionale Palestinese chiede il riconoscimento di uno stato autonomo palestinese che comprenda la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e Gerusalemme est. Il partito islamico Hamas rifiuta, invece, di riconoscere Israele e chiede che i profughi palestinesi possano tornare nei loro territori.





Qual è il prezzo del “made in Bangladesh”?

L’Internazionale    16 maggio 2013
Il 24 aprile 2013 nel crollo dello stabilimento tessile Rana Plaza a Savar, fuori Dhaka, la capitale del Bangladesh, sono morte 1.127 persone. È stato il più grave incidente nella storia di questo settore industriale. In che condizioni lavorano gli operai in Bangladesh? E quali responsabilità hanno le aziende occidentali?

Secondo la Banca mondiale, nel 2010 il Bangladesh è stato il paese in cui gli operai guadagnavano di meno al mondo. Lo stipendio medio di un operaio bangladese equivale a meno di 30 euro al mese, anche se alcuni stabilimenti pagano qualcosa di più per attirare manodopera.
Da una ricerca fatta da War on want, un’organizzazione non profit del Regno Unito, gli operai sono maltrattati dai datori di lavoro. Le operaie incinte in genere sono costrette a lavorare fino all’ultima settimana prima del parto e, se non perdono il posto dopo la nascita del figlio, la metà delle volte non ottengono i cento giorni di maternità previsti dalla legge.
I sindacati, che potrebbero avere un ruolo importante nella riforma del lavoro nel paese, non sono visti di buon occhio o non sono forti abbastanza da ottenere condizioni e misure di sicurezza migliori.
L’industria dell’abbigliamento in Bangladesh vale 18 miliardi di dollari. Nel 2010 le fabbriche di vestiti nel paese erano cinquemila, solo la Cina ne aveva di più.
Quasi tutti i vestiti prodotti in Bangladesh sono esportati: il settore dell’abbigliamento rappresenta il 75 per cento delle esportazioni nazionali.
La questione della sicurezza
L’edificio di otto piani del Rana Plaza era stato costruito senza rispettare le procedure previste. Ospitava cinque fabbriche di vestiti che impiegavano almeno tremila persone. Il peso che i piani dovevano sorreggere era sei volte superiore a quello previsto (stando a un esame fatto dall’Asian disaster preparedness center) e nei giorni prima del crollo si erano create enormi crepe sui muri. Nonostante questo, gli operai sono stati costretti a continuare a lavorare.
Per Scott Nova, dell’associazione statunitense Worker’s rights consortium, la spesa per rendere gli stabilimenti in Bangladesh più sicuri (cioè con uscite di sicurezza e antincendio, luci di emergenza, impianti elettrici a norma) sarebbe di tre miliardi di dollari. Cioè 8 centesimi per ogni capo d’abbigliamento prodotto.
Per le grandi aziende, che in media hanno il cinque per cento della loro produzione in Bangladesh, si tratterebbe di rinunciare a circa lo 0,4 per cento dei ricavi totali. E chi compra una maglietta si troverebbe a pagare un paio di centesimi in più.
Nei giorni scorsi il Bangladesh ha annunciato che collaborerà con l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di promuovere la giustizia sociale e i diritti del lavoro, per definire regole e criteri minimi che salvaguardino i lavoratori. Ma molti mettono in dubbio l’efficacia di iniziative simili.
Nel frattempo alcune aziende europee, tra cui H&M, Benetton e Inditex (proprietario di Zara), hanno firmato un accordo per garantire condizioni di lavoro e di salario migliori nelle fabbriche che producono per loro. L’accordo prevede che le aziende s’impegnino a far compiere ispezioni indipendenti sulla sicurezza e a rendere pubblici i risultati, a coprire i costi per eventuali messe a norma, a non impegnarsi con fornitori che non rispettino degli standard prestabiliti e a coinvolgere lavoratori e sindacati nel miglioramento delle condizioni di lavoro.
(Anna Franchin)






Il processo che fa tremare i carnefici del Guatemala

L'ex dittatore guatemalteco Efraín Ríos Montt condannato a ottant'anni di carcere per il genocidio dei Maya Ixil. Il prossimo imputato potrebbe essere l'attuale presidente Pérez Molina, generale dell'esercito ai tempi della strage In tribunale. L'ex dittatore guatemalteco Rios Montt si difende dall'accusa di genocidio
SAN PAOLO DEL BRASILE – La condanna a ottant’anni di carcere dell’ex dittatore guatemalteco Efraín Ríos Montt – emessa venerdì scorso da un tribunale del paese centro-americano per il genocidio perpetrato durante suoi i 17 mesi di potere assoluto contro gli indigeni dell’etnia Maya Ixil – è solo il primo atto di una vicenda di cui sentiremo ancora parlare a lungo. Se infatti l’ex pastore evangelico convertitosi ai crimini contro l’umanità a giugno compirà 87 anni ed è certo che i suoi avvocati faranno di tutto per evitargli il carcere con una serie interminabile di appelli, a tremare per questa sentenza storica sono molti altri militari d’alto grado che all’epoca sterminarono quasi il sei per cento dell’etnia Maya Ixil. E tra loro addirittura Otto Pérez Molina, il 62enne ex generale che oggi guida il Guatemala.
A detta di molti difensori dei diritti umani, infatti, lui sarebbe un “torturatore” ed un “genocida” né più né meno di Ríos Montt. Del resto sulla testa dell’attuale presidente del Guatemala pende una spada di Damocle non indifferente: è stato denunciato il 5 luglio 2011 alle Nazioni Unite per questi crimini infamanti da un gruppo di attivisti statunitensi assieme a Waqib Kej – l’associazione che difende i diritti degli indigeni discendenti dei Maya che in Guatemala sono circa quattro milioni –consegnando una lettera dettagliata a Juan Méndez, il responsabile Onu sulla tortura. E non solo per loro ma anche per molte altre ong che si battono contro l’impunità degli anni della guerra fredda, Pérez Molina sarebbe stato coinvolto nelle «pratiche sistematiche di torture e genocidio» durante la dittatura con annessa guerra civile che tra il 1960 e il 1996 ha fatto in Guatemala 200mila tra morti e desaparecidos.
Lui ha sempre negato tutto. Peccato solo che, nel settembre del 1982 e, dunque, in piena dittatura di Ríos Montt, l’allora maggiore dell’esercito Pérez Molina sia stato filmato da un documentarista finlandese, tal Mikael Wahlforss, mentre si aggirava nel distretto militare di Nebaj, una regione Maya dove i massacri erano all’ordine del giorno, mentre cammina tra una fila interminabile di cadaveri mentre alcuni militari prendono a calci i corpi senza vita di questi poveretti.
«Prima li abbiamo portati al maggiore Pérez Molina perché li interrogasse – testimonia un soldato – dopo averli sentiti non gli hanno detto più nulla ed eccoli qui», continua il militare mentre indica la macabra fila. Nessuno, nel documentario che inchioda apparentemente l’attuale presidente del Guatemala, spiega come sono stati uccisi. Dal canto suo Molina, intervistato da Wahlforss, rivela tranquillamente che si trattava di «guerriglieri comunisti».
Nonostante questo curriculum Pérez Molina ha stravinto le elezioni dell’autunno 2011 e dal gennaio dello scorso anno guida uno dei paesi più violenti dell’America latina, al punto che il tasso di 47 omicidi l’anno ogni centomila abitanti ha portato l’Onu a definire il fenomeno violenza in Guatemala una «epidemia». E allora bene si capisce perché Pérez Molina, leader del Partido Patriota, di destra, non ha esultato affatto dopo la condanna a ottant’anni contro Ríos Montt. C’è da capirlo. Quando scadrà il suo mandato presidenziale, tra tre anni, l’immunità che oggi lo protegge, la stessa che per decenni ha “salvato” Ríos Montt, finirà. E se il Guatemala sceglierà di percorrere la stessa strada dell’Argentina, dove i torturatori dell’ultima dittatura sono finiti quasi tutti in galera, la posizione di Pérez Molina potrebbe, usando un eufemismo, “complicarsi”.
europa quotidiano 15 maggio 2013



L’internazionale 13 maggio 2013

A Teheran comincia la battaglia

di Bernard Guetta
giornalista francese esperto di politica internazionale.













































































 
 
Anche se a molti potrebbe sembrare strano, si vota anche in Iran. Nel fine settimana due pesi massimi – un conservatore e un liberale – sono entrati in lizza per il primo turno delle presidenziali che si terranno il 14 giugno.
Tutte le candidature, già molto numerose, devono ancora essere approvate dal clero – la Guida suprema e il Consiglio dei guardiani della costituzione – che adesso ha dieci giorni di tempo per pronunciarsi. Questo aspetto limita fortemente la libertà di uno scrutinio i cui risultati non saranno necessariamente più genuini di quelli del 2009, quando i brogli hanno favorito il presidente uscente Mahmoud Ahmadinejad (all’epoca appoggiato dalla Guida) a scapito di un candidato riformatore. Non si tratterà, insomma, di elezioni irreprensibili, ma il risultato del voto avrà comunque un’importanza capitale. Per due motivi.
Il primo è che il programma nucleare di Teheran e la crisi siriana rendono l’Iran una doppia minaccia per la stabilità internazionale. Se il governo non interromperà la sua marcia verso l’atomica, gli Stati Uniti potrebbero decidersi ad agire, se non bombardando i laboratori sotterranei iraniani almeno autorizzando l’intervento israeliano. Le conseguenti tensioni nella regione e l’aumento del prezzo del petrolio avrebbero forti ripercussioni a livello mondiale, in un momento in cui l’Iran gioca un ruolo fondamentale nella crisi siriana consentendo al regime di Bashar al Assad di tenere testa a un’insurrezione che l’occidente continua a rifiutarsi di armare.
Il secondo motivo dell’importanza del voto è che lo svolgimento e i risultati delle presidenziali espliciteranno i rapporti di forza e le dinamiche  in atto a Teheran, al momento ancora difficili da valutare: come si è evoluta la società iraniana dopo le grandi manifestazioni di protesta per le elezioni truccate del 2009, soffocate dalla repressione ma anticipatrici della primavera araba ed espressione delle aspirazioni democratiche di un paese giovane, moderno e stanco della teocrazia? Le conseguenze delle sanzioni hanno esteso il malcontento della gioventù urbana alle masse popolari rimaste fuori dal movimento verde del 2009? La Guida suprema ha ancora i mezzi per controllare la  campagna elettorale ora che ha perso l’appoggio di Ahmadinejad, il presidente uscente a cui la costituzione vieta di candidarsi per un terzo mandato? La campagna elettorale prefigura un’evoluzione della politica estera iraniana?
Allo stato attuale non conosciamo le risposte a questi interrogativi, ma è comunque significativo che un fine conoscitore della scena iraniana come Akbar Hachémi Rafsandjani, ex presidente che ha voltato le spalle ai conservatori, abbia deciso di candidarsi contro quello che sembra essere il candidato della Guida, Saïd Jalili. Fare pronostici è ancora prematuro, ma di sicuro assisteremo a una dura battaglia.
(Traduzione di Andrea Sparacino)





Guatemala

Il dittatore Ríos Montt condannato
11 maggio 2013 l'internazionale

L”11 maggio una corte formata da tre giudici ha condannato l’ex dittatore guatemalteco Efraín Ríos Montt, 86 anni, a ottant’anni di carcere per genocidio. È la prima volta che un dittatore viene giudicato per i crimini commessi durante il suo mandato da un tribunale nazionale e non da una corte internazionale. Ríos Montt è stato condannato a cinquant’anni di carcere per genocidio e a trenta per crimini contro l’umanità. Invece l’ex capo dei servizi segreti José Mauricio Rodríguez Sánchez è stato assolto. L’ex dittatore ha già detto che ricorrerà in appello.
Nel procedimento cominciato il 19 marzo, Montt e Rodríguez Sánchez sono stati accusati di essere i mandanti di numerosi massacri avvenuti nell’area conosciuta come Triángulo Ixil, nel nordest del paese, dove furono uccisi 1.771 indigeni. Secondo i dati raccolti grazie alle esumazioni, quasi la metà dei morti erano bambini tra zero e dodici anni. L’accusa sostiene che Montt voleva eliminare gli indigeni perché sospettava che fiancheggiassero gruppi dell’opposizione.
Efraín Ríos Montt, 86 anni, ha governato in Guatemala solo per sedici mesi, dal 23 marzo 1982, quando è andato al potere con un colpo di stato militare, all’agosto del 1984. Ma il suo ruolo politico nel paese centroamericano è durato per tre decenni, cioè fino al gennaio del 2012, quando si è ritirato dalla vita politica.
“Io non ero il capo di un battaglione, ero il capo dello stato”, ha detto Ríos Montt il 10 maggio, in un discorso in sua difesa. L’ex dittatore ha insistito sulla tesi secondo cui non era al corrente delle singole azioni dell’esercito.
Di cosa è stato accusato. “Il breve mandato di Montt è passato alla storia come un periodo di repressione indiscriminata contro la popolazione civile, che secondo il dittatore sosteneva i gruppi sovversivi di sinistra. Secondo i rapporti delle organizzazioni umanitarie, durante il suo mandato almeno diecimila persone, in maggioranza indigeni, sono state vittime di omicidi extragiudiziali. I loro corpi sono stati gettati in fosse comuni o lasciati alla mercè degli avvoltoi. Migliaia di contadini sono stati costretti a trasferirsi nei campi profughi oltre il confine messicano. In tutto ci furono circa centomila profughi e 448 villaggi furono letteralmente cancellati”, scrive El País.
“Il periodo di governo di Ríos Montt è stato uno dei più cruenti della guerra civile (1960-1996): durante quel periodo secondo l’Onu sono morte o scomparse 200mila persone”, racconta El Faro.
Come Erode. Lo scrittore nicaraguense Sergio Ramírez traccia un profilo del dittatore e racconta quello che dopo trent’anni il processo ha portato alla luce: “I testimoni durante raccontano atrocità su atrocità, con la voce che ancora trema. Molti di quelli che non riuscirono a salvarsi erano bambini. Ríos Montt conosceva troppo bene i testi sacri per non accorgersi che il suo progetto di sterminio somiglia a quello di Erode. I bambini di etnia ixil avevano un nome in codice ‘cioccolato’, e l’ordine era di non lasciare nemmeno un ‘cioccolato’ vivo”.




Una finta soluzione per la Siria
 
Bernard Guetta, giornalista francese esperto di politica internazionale. Ha una rubrica quotidiana su Radio France Inter e collabora con Libération

9 maggio 2013  da  L’Internazionale

Probabilmente l’accordo non cambia la situazione sul campo, ma è comunque sintomatico. Nella notte tra martedì e mercoledì il segretario di stato americano John Kerry e il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov, che si sono incontrati a Mosca, hanno raggiunto un’intesa e hanno chiesto al governo siriano e ai ribelli di negoziare una soluzione politica partecipando a una conferenza internazionale da organizzare “al più presto”.
I ribelli hanno accolto l’invito con freddezza, ricordando che l’uscita di scena di Bashar al Assad è una premessa essenziale per qualsiasi negoziato con il regime. Il governo, ostile a ogni compromesso con gli insorti che considera nient’altro che “terroristi”, non ha ancora commentato la proposta. Dunque è poco probabile che assisteremo alla conferenza ipotizzata da Washington e Mosca in quella che è la prima iniziativa comune tra i due paesi rispetto al conflitto siriano. Tuttavia l’improvvisa convergenza di intenti tra la diplomazia russa e quella statunitense testimonia un importante sviluppo nelle rispettive posizioni.
Nonostante lo abbia negato ripetutamente, la Russia spera che Bashar al Assad resti al potere, per questioni di politica interna e perché Vladimir Putin si sente minacciato dalla possibilità che un movimento popolare riesca ancora una volta a sconfiggere una dittatura. Attraverso la vendita di armi e ricorrendo al veto su ogni forma di condanna del regime siriano da parte del Consiglio di sicurezza dell’Onu, la Russia ha continuato a sostenere Bashar al Assad. Ora però Mosca, pur rifiutando la tesi secondo cui la caduta del regime dev’essere una condizione preliminare e non la conseguenza del negoziato, ha smesso di incoraggiare al Assad a restare al potere. In un certo senso sembra che la Russia non creda più nella possibilità di salvare il dittatore.
Dal canto loro gli Stati Uniti non sembrano più intenzionati ad armare l’insurrezione per paura di rafforzare le correnti jihadiste, e in fondo non credono che i ribelli abbiano la forza per rovesciare il regime. Per questo motivo Washington e Mosca vorrebbero favorire una soluzione di transizione, e hanno scelto di comune accordo di fare pressione rispettivamente sui ribelli e sul governo per avviare il negoziato.
In futuro i due schieramenti dovranno fare i conti con le minacce e i ricatti dei due paesi il cui appoggio è per loro indispensabile. In ogni caso né i ribelli né il regime si lasceranno comandare dai rispettivi alleati, e ammettendo che la conferenza internazionale abbia luogo non è chiaro quali potrebbero essere i risultati concreti.
In linea teorica si potrebbe trovare un accordo su un referendum o un’elezione generale su tutto il territorio siriano, ma in realtà una votazione non farebbe altro che mostrare le divisioni del paese e riproporre la spaccatura confessionale, che a sua volta produrrebbe presto una scossa in tutta la regione. L’unica speranza di preservare l’unità siriana è armare gli insorti in modo che riescano a rovesciare il regime. Il problema è che la Russia continua a non volerlo, e gli occidentali, per motivi diversi, hanno ormai abbandonato l’idea.
(Traduzione di Andrea Sparacino)

 





Esteri
06/05/2013

Siria, Assad: se Israele attaccherà
di nuovo risponderemo subito


Raid di Israele In Siria

Damasco: altre aggressioni saranno considerate una “dichiarazione
di guerra”. Mosca preoccupata
damasco
Eventuali ulteriori aggressioni israeliane in territorio siriano saranno considerate una “dichiarazione di guerra’’ e Damasco risponderà immediatamente, senza alcun preavviso. Lo ha dichiarato il presidente Bashar al Assad, secondo quanto scrive il quotidiano del Kuwait ’Alrai’.

’’Assad - si legge - ha fatto sapere agli americani, tramite i russi, che in caso di un altro attacco israeliano considererà quest’azione una dichiarazione di guerra’’ e, per questo, ’’è stato dato ordine di schierare batterie di moderni missili terra-terra e terra-aria russi, pronti ad aprire il fuoco senza consultare nuovamente la presidenza’’. Intanto, in un’intervista a Radio israele, il deputato Tzachi Hanegbi, considerato vicinissimo al primo ministro Benjamin Netanyahu, ha chiarito che non e’ nelle intenzioni di Israele attaccare la Siria nel tentativo di indebolire il regime di fronte alle forze dissidenti presenti nel Paese. Lo Stato ebraico, ha detto Hanegbi, vuole evitare “un aumento della tensione con la Siria e precisare che la sua attività è solo mirata contro Hezbollah, non contro il regime di Damasco’’.

Mosca si è detta oggi «molto preoccupata» dai raid israeliani condotti vicino a Damasco. «Stiamo precisando e analizzando tutte le circostanze legate alle informazioni molto preoccupanti sui raid condotti da Israele il 4 e 5 maggio nella periferia di Damasco», ha dichiarato il portavoce del ministero degli esteri russi Aleksandr Lukashevich.

Le autorità israeliane avrebbero fatto pervenire «attraverso canali diplomatici» un messaggio segreto al presidente siriano Bashar al-Assad, garantendogli di «non voler essere coinvolte nella guerra civile in Siria»: è quanto scrive oggi il quotidiano `Yedioth Ahronoth´, il più diffuso del Paese, senza peraltro indicare le proprie fonti. Dagli ambienti governativi non è giunta alcuna conferma di tali indiscrezioni, che tuttavia non sono nemmeno state smentite.

Anzi, un anonimo funzionario ha lasciato capire che di comunicare con Assad in realtà non vi sarebbe alcun bisogno. «Date le affermazioni rilasciate pubblicamente dalle principali personalità israeliane per rassicurare Assad, è chiarissimo qual è il segnale a lui destinato», ha notato. Più esplicito è stato invece il deputato Tzachi Hanegbi, esponente del Likud, veterano della politica israeliana ed esperto di problemi di sicurezza, più volte ministro ma soprattutto intimo del premier Benjamin Netanyahu, di cui è risaputo raccolga abitualmente le confidenze.

Intervistato dalla radio pubblica, Hanegbi ha sottolineato che questi punta a «evitare un’intensificazione della tensione con la Siria, chiarendo che, in caso di iniziative militari da parte d’Israele, queste sono soltanto contro Hezbollah, e non contro il regime» di Assad. Il parlamentare ha ricordato come lo Stato ebraico si sia ben guardato dal rivendicare formalmente i due recentissimi raid aerei in territorio siriano, spiegando che ciò aveva come obiettivo il permettere al leader di Damasco di salvare la faccia. Non solo: mentre ieri avveniva la seconda incursione, Netanyahu intraprendeva come previsto una visita ufficiale in Cina, con l’intento di fornire l’impressione che tutto proceda all’insegna della più assoluta normalità. Certo, ha concluso Hanegbi, nel caso in cui la Siria tentasse davvero la ritorsione minacciata, allora «risponderemmo duramente».

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