martedì 31 dicembre 2013

Tempo di scosse e di riscosse

Due americani su tre considerano il 2013 uno degli anni peggiori della loro vita. So cosa state pensando: ma il terzo americano dove ha vissuto? In Italia i fan del 2013 si contano sulle dita della mano di capitan Uncino. Tutti si sentono più poveri, anche gli evasori.  
Più poveri e più scoraggiati. L’indignazione, a suo modo ancora una forma di speranza, ha ceduto il posto alla rabbia. Il disprezzo per i politici si è allargato all’intero establishment: banchieri, tecnocrati, giornalisti, persino scienziati. Chiunque occupi uno strapuntino riconosciuto di potere e si agiti nel rumore dei talk show.  
Ripercorrendolo a mente fredda, l’anno morente è stato prodigo di cambiamenti che un tempo si sarebbero definiti epocali. Sul Vaticano degli scandali regna un Papa già circonfuso in vita di un alone di santità. Il Caimano si è chiuso in casa a giocare con un barboncino. Il presidente del Consiglio ha meno di cinquant’anni, se non altro all’anagrafe. Il nuovo segretario del centrosinistra, comunque lo si giudichi, non offre alle telecamere uno sguardo da cane bastonato, ma sprizza energia da tutti i nei. Persino il Parlamento, origine e sfogatoio di ogni male, ha espulso branchi consistenti di dinosauri per accogliere la pattuglia di donne e di giovani più vasta della storia repubblicana.  

Eppure, se si esclude papa Francesco, nessuna di queste novità è stata percepita come un vero strappo. I giochi della politica continuano a non intercettare la vita reale e per quanto il dottor Letta si sforzi di sottolineare l’efficacia delle sue cure, il malato italiano non avverte miglioramenti nel proprio stato di salute. Si respira un desiderio inebriante, a tratti pericoloso, di leadership forti e semplificatrici. Come se i problemi di una città, di una nazione, di un continente fossero risolvibili da un deus ex machina che con un tratto di penna disarma la burocrazia, abbatte le tasse, ridimensiona lo Stato senza mettere per strada gli statali, aumenta le paghe, rilancia i consumi e nei ritagli di tempo inventa nuovi lavori al posto di quelli che la tecnologia e la concorrenza internazionale hanno ridimensionato o dissolto per sempre. 

L’altro cascame psicologico della crisi è il curioso impasto tra diffidenza e illusione. Cinismo e dabbenaggine spesso convivono nella stessa persona, pronta a mettere in dubbio la competenza di uno scienziato come a buttarsi tra le braccia del primo millantatore. Le soluzioni facili godono di un’ingannevole popolarità. Dalla moneta all’immigrazione, si pensa che tornare indietro sia il modo migliore per andare avanti. Il Duemila è iniziato da tredici anni, ma il dibattito pubblico, spesso anche quello privato, rimane inchiodato al Novecento: il comunismo, la lira, il bel tempo andato. Peccato che mentre lo si viveva non fosse poi così bello. Ho sentito miei coetanei decantare gli anni Settanta come un’epoca più sicura e tranquilla dell’attuale. Gli anni Settanta: quando si sparava per la strada e si rapivano i bambini. Ogni generazione rimpiange la sua infanzia, però se la nostalgia si trasforma in torcicollo emotivo produce depressione, paralisi e paragoni sterili, spesso storpiati dalla memoria. 

Il 2014 pubblico sarà l’anno dei Mondiali brasiliani giocati quasi da fermi per il troppo caldo, delle elezioni europee dominate sui media dai movimenti anti-europei, della resa dei conti fra Renzi e Letta, che di Craxi e Andreotti hanno ereditato il carattere, per fortuna non l’etica, ma si spera il talento politico: magari con un po’ di concretezza in più.  
Il 2014 privato potrebbe invece essere finalmente l’anno del fervore. La forza irresistibile che infonde passione e concentrazione in ciò che si fa, senza perdere più tempo a lamentarsi, invidiare, rinfacciare. Come dice quella frase da film? Andrà tutto bene, alla fine. E se non andasse bene, vorrà dire che non è ancora la fine. Buon anno di scosse e di riscosse. 

Soprattutto


Jena
Finisce un anno orribile, soprattutto per Bersani.

lunedì 30 dicembre 2013

Cattivi esempi

Episodio increscioso avvenuto lo scorso giugno. "Ad un senatore della Repubblica spetta il saluto militare, non la multa". E' la risposta del politico di Grande Sud Mario Ferrara, fermato a un posto di blocco in via Emerico Amari, agli agenti che gli contestavano la mancata esposizione del tagliando assicurativo e la revisione scaduta della sua Audi A4. "Sono un senatore ed esigo il saluto militare" diceva il politico, originario di Lercara Friddi, minacciando di chiamare con il cellulare il prefetto per metterlo a conoscenza della situazione. Probabilmente Ferrara non sapeva che il saluto militare non è più previsto per i senatori dal 1985. Secondo quanto hanno riportato i due "irriducibili" poliziotti nella relazione consegnata al superiore, quando li ha visti continuare imperterriti a redigere il verbale, Ferrara "ha cominciato a fotografarli con il suo iPhone senza nessuna spiegazione logica". Prima di andare via, gli agenti gli hanno consegnato un verbale di 200 euro.

Matteo contro tutti

La Stampa 30 dicembre 2013



L’intervista di ieri di Renzi sulla Stampa contiene cinque proposizioni che fanno capire molto bene qual è la postura del nuovo leader Pd nei confronti del governo e immaginare quali saranno le sue prossime mosse. 
Primo. Io non sono come Letta e Alfano. Renzi, senza giri di parole, marca la completa discontinuità della sua storia rispetto a quella del premier e del vicepremier. E questo nessuno lo può mettere in dubbio. Sono due mondi e due visioni della politica sideralmente opposte che hanno ben poco in comune. Non basta l’età a tenerle agganciate. Letta e Alfano sono arrivati a ricoprire vari incarichi politici, e certamente il più elevato della loro carriera, quello attuale, per nomina dall’alto, da parte di politici parecchio più anziani di loro. Renzi ci è arrivato con voti conquistati dal basso, ponendosi in aperto contrasto con chi ha mandato avanti i primi due. Renzi può far pesare voti, non generiche dichiarazioni di stima, già presi o attesi, che i coinquilini di Palazzo Chigi non hanno.  

Secondo. Il governo va facendo marchette. In effetti i giri di valzer sull’Imu e la carrettata di nomine di neo-prefetti sono opera sua (del governo).  
Le mille mance della legge di stabilità sono passate con la sua approvazione, benevola o succube nei confronti dei battaglioni parlamentari senza guida che lo sostengono.  
 
Terzo. Non negozio con Letta sui sottosegretari. Il sindaco-segretario ci dice chiaro e tondo che non gli interessa il rimpasto, una pratica consolidatissima della prima repubblica, dopo aver accettato la quale, crollerebbe tutto il castello della sua diversità. Un altro modo per dire: le piccole intese non sono cosa mia e non mi faccio includere in giochi di palazzo destinati a durare poco. Un Renzi che fa il verso a Grillo, rigettando scambi e accordicchi con chi ha una visione diversa dalla sua.  

Quarto. Datemi una legge elettorale maggioritaria. Oggi, in effetti, una priorità assoluta: per la democrazia italiana e per il Renzi medesimo. Senza una legge elettorale che consente a chi vince di governare, continueremo a tenerci, nella migliore delle ipotesi, governi di decantazione, incaponiti nel voler durare, mentre il Paese si arrabatta declinando. Senza una legge maggioritaria i partiti non avrebbero più bisogno di un leader che faccia loro vincere le elezioni. La forza di Renzi, il suo approccio alla leadership e il suo primo messaggio, perderebbero peso. Per questo dice chiaramente (e giustamente) che ne parlerà con chiunque, a cominciare da Berlusconi, forse l’unico interessato a questo accordo, a dimostrazione che è ancora quello che prende i voti nel centrodestra.  

Quinto. A chi scalpita per andare alle elezioni, Renzi dice: «State calmi, ragazzi». 
Per interpretare le prime quattro affermazioni non servono supposizioni e dietrologie. Sono una la conseguenza dell’altra. Semmai ci si potrebbe chiedere: perché dire le prime tre con così poca grazia nei confronti di Letta e Alfano, così a brutto muso? Ma solo se non si fosse ancora capito il carattere del ragazzo («the boy», si diceva di Tony Blair), il suo parlar chiaro e la sua dichiarata ambizione. Uno che ha capito che nella melassa melliflua della politica italiana, che ha disgustato anche il più paziente dei cittadini, è meglio colpire piuttosto che tentennare, sparare e incalzare piuttosto che rassicurare.  

L’unica cosa su cui si possono nutrire dubbi è se sia realmente disposto, dopo aver ottenuto la legge elettorale, semmai gli riuscisse, ad aspettare ancora un anno e mezzo. Dovendo nel frattempo affrontare il test insidiosissimo delle Europee, con il Pd compresso tra l’esplosione dei sentimenti euroscettici, mobilitati da Berlusconi, Salvini, Vendola, Grillo, e una miriade di partitini suoi alleati nelle ristrette intese.  
Finora Renzi è parso credibile nel dire che sosterrà il governo Letta fino al 2015, affinché e purché si facciano le riforme (legge elettorale e abolizione del Senato). D’altro canto non è facile far correre la bicicletta delle intese di taglia mini come una Ferrari, infiocchettando una scelta epocale dietro l’altra dopo 20 anni di inerzia totale. E’ una sfida che rasenta l’impossibile. Il primo test è a gennaio. Se Alfano si metterà di traverso, per prendere tempo e sostenere una legge non abbastanza maggioritaria, sarà già molto chiaro che la road map delle riforme è arrivata al capolinea. 

Renzi: “Con Letta e Alfano non ho niente in comune”

Colloquio con il segretario del Pd: “Governo dalle larghe intese alle marchette”
 
«Me l’ha mai sentito dire? Io quella parola, intendo rimpasto, non l’ho mai pronunciata e mai la pronuncerò. E se proprio lo vuol sapere, anzi, mi fa anche un po’ senso». Matteo Renzi al telefono, sei del pomeriggio, giusto così, per uno scambio d’auguri. Auguri per un 2014 migliore del 2013, naturalmente. Auguri anche ad Enrico Letta, certo: pur se la letterina che il leader del Pd invia al premier è di quelle che uno preferirebbe non ricevere mai. 
Partire dal presidente del Consiglio e dall’indecifrabile rapporto tra i due «giovani leoni» del Pd può forse avere un senso perché è proprio quella vicinanza generazionale – tanto per cominciare – che Matteo Renzi rifiuta, anzi rigetta, spiegando con puntiglio il perché: «Non posso accettare – dice – l’impostazione che Enrico ha dato alla sua conferenza stampa di fine anno, quando ha detto che un salto generazionale è compiuto, facendo quasi immaginare una intesa tra lui, Alfano e me. Le cose bisogna raccontarle per come stanno. Lui, Enrico, è stato portato al governo anni fa da D’Alema, che io ho combattuto e combatto in modo trasparente; e Angelino Alfano al governo ce l’ha messo Berlusconi, quando io non ero ancora nemmeno sindaco di Firenze». 

Si interrompe per un attimo, riflette e poi riprende: «È vero che loro provengono da una generazione più giovane di quella che li ha preceduti, ma io non voglio assolutamente essere accomunato a loro, integrato in uno schema: io sono totalmente diverso, per tanti motivi. E uno di questi motivi, in particolare, non può esser sottovalutato: io ho ricevuto un mandato popolare, tre milioni di persone che mi hanno votato perché hanno condiviso quel che ho promesso che avrei poi fatto. È per questo che non si può più perder tempo: con l’anno nuovo si passa dalle chiacchiere alle cose scritte. E le prime cose scritte riguarderanno i due temi capitali: il lavoro e le riforme». 

L’idea, dunque, sarebbe quella di continuare lealmente a sostenere Letta e il suo governo: a condizione, naturalmente, che faccia quel che deve. Quindi non andrebbe interpretata come un «fine corsa» la dichiarazione di Davide Faraone (renziano e membro della segreteria pd) che ieri ha messo in agitazione i palazzi romani: «Non basta un ritocco, un “rimpasto”: o si cambia radicalmente o si muore». Renzi prova a gettare acqua sul fuoco: «Uno sfogo di pancia», spiega. E sarebbe tutto perfettamente rassicurante, se fermasse il suo commento qui. Ma non lo ferma. 

«Uno sfogo di pancia – ripete –. Non è una dichiarazione di guerra, perché le dichiarazioni di guerra le faccio io, mettendoci la faccia. Però Faraone ha detto quel che pensa il 99% degli italiani. E nel merito è difficile dargli torto... Un po’ di tempo fa Enrico mi ha spiegato che i provvedimenti che il governo avrebbe varato a fine anno erano frutto di un lungo lavoro preparatorio, che ne aveva parlato con Epifani e i partner di maggioranza... Mi chiese, insomma, di non ostacolarli: e io non ho disturbato. Ma potevano risparmiarsi e risparmiarci tante cose. E la faccenda della nomina da parte di Alfano di diciassette nuovi prefetti è soltanto la ciliegina sulla torta...». 

È una storia che Matteo Renzi non riesce a mandar giù, per due diversi motivi. «Il primo mi pare evidente - dice -. Caro Angelino, ma non dovevamo abolirli i prefetti? E invece di abolirli tu ne nomini altri diciassette? La seconda la dico quasi per fatto personale: non può annunciare le nomine e aggiungere “ho fatto come Renzi: sono più le donne che gli uomini”... Io con le donne ci lavoro da sempre, in giunta, in segreteria, nei posti che contano... Non ci voglio entrare nelle nomine di Alfano. E se pensano di ingabbiarmi con un rimpasto, sbagliano alla grande. Io fatico a tenere Delrio al governo, perché ogni tanto mi dice che vorrebbe lasciare: è quello il mio problema, altro che un sottosegretario o un ministro in più. Io spero davvero che Letta colga la portata della sfida: non basta cambiare tre caselle. E da gennaio ci faremo sentire sul serio...».  

Un fiume in piena, anche perché dalla politica fiorentina alla “piazza romana” il salto si è rivelato forse più insidioso di quel che il sindaco-segretario immaginava: una partita a scacchi, dove sbagli una mossa e sei fregato: «Sfogliate le collezioni dei giornali – dice – e trovate una mia dichiarazione dove chiedo un rimpasto, per la miseria. Ne ha parlato Scelta Civica per prima, poi Cuperlo ed Epifani: io mai. Non ho alcun interesse a mettere pedine e scambiare caselle: chiedo solo che si cambino stile e velocità nel governo del Paese. Se loro sono d’accordo, si va avanti: ma devono accettare di fare le cose che non hanno fatto in questi ultimi 20 anni. Altrimenti non avrebbe senso continuare». 

Fare le cose, appunto. Renzi insiste molto su questo punto «perché è quel che ho detto durante la campagna per le primarie: il governo va avanti se fa. Alla gente che mi ha votato ora non posso dire che si va avanti anche se il governo non fa». Fare, dunque. E fare, prima di tutto, sul piano del lavoro – di nuove occasioni di lavoro – e della riforma della legge elettorale. «Vedo che ora c’è qualcuno che critica me – ironizza Renzi –. Dicono: “Ma com’è, ha cambiato idea? perché non parla più del sistema elettorale col quale si eleggono i sindaci”? È il giochino dello scaricabarile, per far confusione. Ma con me cascano male...». 
Non è che perché arriva da Firenze e non frequenta da lustri i «palazzi romani» il neo-segretario del Pd sia uno sprovveduto: «Non mi impicco a un sistema preciso – spiega – perché appena dovessi indicarlo tutti direbbero che non va bene. Ma ho spiegato chiaramente modello e metodo: dopo il voto si deve sapere subito chi ha vinto, e chi ha vinto deve governare e poterlo fare per cinque anni. Questo è il modello. Quando al metodo, l’ho detto: per me la legge elettorale si fa con tutti e parlando con tutti. Anche con Grillo e Berlusconi, certo». 

Con l’anno nuovo, sul tema legge elettorale Renzi annuncia una nuova offensiva: «Torno all’attacco degli elettori di Grillo e dei suoi parlamentari: in quel mondo lì c’è attenzione vera sull’urgenza di riformare il sistema. E a Berlusconi – aggiunge – manderò un messaggio chiaro: caro Silvio, tu te ne stai andando, ai servizi sociali o non so dove. Dai un tocco finale diverso alla tua vicenda da leader e partecipa al varo della nuova legge ed alla Grande riforma di cui il Paese ha bisogno. Vediamo cosa risponderanno gli uni e gli altri – conclude – ma io con loro ci parlo e ci parlerò». 
È da qui – e Matteo Renzi naturalmente lo sa – che nasce il grande sospetto che circonda il leader dei democratici: vuole subito una nuova legge per andare a votare. «Calma, ragazzi. Sapesse quanti mi dicono “Matteo bisogna andare subito al voto” e io rispondo calma ragazzi, calma. Bisogna tener fede a quando detto: se Letta fa, va avanti. E continuo ostinatamente a credere che sia possibile. Certo, se si fanno marchette e si passa dalle larghe intese all’assalto alla diligenza, non va bene. E per fortuna che stavolta non l’ho detto io: visto che il primo critico, in questa occasione, è stato il Capo dello Stato. E certo non si può accusare il Presidente di essere un nemico del governo-Letta». 

Napolitano, già. Il rapporto tra i due va lentamente scongelandosi, ma citare il Presidente fa tornare alla mente di Renzi una cosa che proprio non sopporta più: i rilievi al suo stile. «Sono stufo, ogni volta che scendo giù – lamenta – mi sembra di rileggere Flaiano, un marziano a Roma. I giornali hanno perfino ipotizzato che io mi sia presentato in giacca chiara agli auguri al Quirinale per farmi notare. Insopportabile. Lì ci ero stato una sola volta con Benigni. Non ci sono abituato. E quando ho visto come erano vestiti i papaveri di Stato... ho capito che avevo sbagliato giacca. Una gaffe, tutto qui». Una gaffe, va bene. Ma stia tranquillo, Renzi. Non sarà certo per questo che potrà esser rimproverato...

Il coraggio di fidarsi dei competenti

Ogni giorno che passa la storia del metodo Stamina si fa sempre più inquietante, non solo per i retroscena che ormai da dieci giorni vi raccontiamo e che mostrano un’idea della medicina molto più simile all’azzardo che alla scienza, ma anche per il livello a cui è scaduto il dibattito pubblico italiano. L’ultima parola, anche quando si tratta di decidere se una cura è efficace o inutile o pericolosa, sembra dover spettare non ai ricercatori e ai medici ma all’uomo della strada e ai giudici. Ognuno pensa di poter dire la sua e il fin troppo noto Tar del Lazio ormai stabilisce chi e come si debba curare e anche la composizione (in stile manuale Cencelli) delle commissioni scientifiche di valutazione.  
 
Sarebbe tempo che giornalisti, comici, intrattenitori televisivi, esperti improvvisati e giudici si facessero da parte per lasciar parlare chi ne ha conquistato il diritto con una vita di studio e di risultati tangibili. 
Da parte nostra possiamo solo continuare a raccontare tutto quello che finora è stato nascosto e dare voce alle persone più serie e credibili che ci sono in circolazione. 
E’ un lavoro delicato, da fare con il massimo dell’attenzione, che non solo ci mostra ancora una volta quanto i malati possano essere preda di personaggi senza scrupoli ma che è anche illuminante – come hanno ben spiegato il professor Orsina e la ricercatrice Elena Cattaneo – della confusione dell’Italia di oggi. 
Viviamo in un Paese in cui la politica e le Istituzioni sono deboli e in cui la sfiducia la fa da padrona: tutto questo crea un terreno favorevole alle incursioni di millantatori e ciarlatani di ogni genere che usano internet e le televisioni come megafono. 

Ma partiamo dall’inizio: chiunque abbia una persona cara affetta da una malattia incurabile o degenerativa sa con quanta attenzione si sia portati a guardare a ogni novità scientifica, conosce l’emozione e la speranza che può ingenerare anche una sola riga di giornale o la frase di un medico. Ma sa anche, per esperienza e per testimonianza diretta, che i miracoli sono merce assai rara e che la scienza procede con una velocità che purtroppo non coincide con i nostri bisogni e i nostri desideri. 
Bisogna avere grande rispetto per i malati e per i loro amici e familiari, ma rispettare una persona significa innanzitutto non prenderla in giro, non approfittare della sua sofferenza, non speculare sul suo dolore e sulla sua pena. Rispetto significa avere il coraggio della verità ed è colpevole lasciar agire in modo indisturbato profittatori e falsi guaritori. Si può pensare di girare la testa dall’altra parte, per non esporsi e per non dover scrivere cose che deluderanno speranze, ma tutto ciò è dolorosamente complice.  

Sono convinto invece che compito di un giornale, in tempi di caos informativo e di derive emozionali, sia quello di approfondire e spiegare, ma soprattutto quello di cercare punti fermi senza inseguire sensazionalismi. Non bisogna mettere da parte la razionalità e la ragione perché si è offuscati dall’emozione della richiesta di aiuto di un malato, soprattutto se quell’implorazione di essere curato viene da un bambino o dai suoi genitori, perché questo non sarebbe di nessun aiuto. 
E’ necessario invece partire dai dati: nelle cartelle cliniche dei 36 pazienti sottoposti al metodo Stamina presso gli Spedali di Brescia, non si troverebbe – come abbiamo anticipato dieci giorni fa – alcuna traccia di miglioramento, così come nella relazione finale del comitato degli esperti si evidenziava, tra l’altro, che nelle infusioni somministrate ai pazienti di cellule staminali se ne vedono a malapena delle tracce. Per non parlare degli inquietanti e sciacalleschi scambi di mail che stanno emergendo, dai quali si capisce come i promotori del metodo non si facessero scrupoli a usare la sofferenza dei pazienti come arma di ricatto. 

Di fronte a questi comportamenti, che crescono oltre misura nell’ignoranza, bisogna avere il coraggio di chiedere insistentemente lumi ai nostri migliori medici e ai nostri ricercatori più illustri, quelli che fino ad oggi hanno dimostrato di saper fare la differenza, di aver portato avanti protocolli capaci di curare. 
Il ruolo dell’informazione deve essere di tornare a ricordare che l’esperienza conta e che le opinioni non sono tutte uguali: perché esiste ancora una differenza tra chi ha studiato una vita e ha realmente guarito dei pazienti e chi invece non ha mai aperto un libro o passato una notte in laboratorio e che con i soldi della ricerca si è comprato una Porsche. L’ultimo parere trovato su internet, per quanto affascinante o originale, non può avere lo stesso valore di quello di uno scienziato che si dedica al tema da decenni. Alla fine la domanda è semplice ed è quella che pone su queste pagine oggi il professor Paolo Bianco: ma voi vi fareste operare al cervello da un archeologo? E - aggiungo io - prima di salire in montagna chiedete consiglio alle persone del posto e alle guide o a un camionista di passaggio o a una velina che prende il sole? 

Impariamo a guardarci dagli esperti improvvisati e dai venditori di fumo e non dimentichiamo una cosa fondamentale: i fondi per la ricerca e la cura non sono infiniti, regalarli ai ciarlatani e ai truffatori significa toglierli a chi invece sta portando avanti un percorso serio capace davvero di guarire. E questa è una condanna anche per chi potrebbe essere curato.

domenica 29 dicembre 2013

Il non-medico grida al complotto E gioca sulla pelle dei suoi malati.

Corriere della Sera 
29 dicembre 2013 
 
Sulla pelle di chi sta morendo. Secondo le cartelle cliniche, fornite in sintesi dagli Spedali Civili di Brescia, non c’è alcuna prova di miglioramento nei 36 pazienti in cura con il cosiddetto «metodo Stamina». I parenti dei malati sostengono invece che sono stati riportati dati falsi e accusano i mezzi di informazione di gravi scorrettezze.

Intanto si è scoperto che Davide Vannoni non è nemmeno un medico, è solo un laureato in Lettere e Filosofia, ex imprenditore del settore marketing e call center (le sue prime attività di rilievo risalgono alla fine degli anni Novanta quando gli furono affidate consulenze dalla Regione Piemonte, firmate dal dirigente Angelo Soria, fratello di Giuliano, i due dello scandalo «Premio Grinzane Cavour»), di certo una figura carismatica, un grande imbonitore. Che ora però rischia il rinvio a giudizio per esercizio abusivo della professione medica.

Il «metodo Stamina» è finito nel mirino della magistratura e Vannoni grida al complotto: «Siamo vittime della lobby dei farmaci, della burocrazia e della politica. Tutto sulla pelle di chi sta morendo». Esattamente come si diceva ai tempi della cura anticancro del «metodo Di Bella» o, anni prima, per il «siero Bonifacio», un intruglio a base di feci e urine delle capre.

Ma chi gioca sulla pelle di chi sta morendo è proprio lui, Davide Vannoni. Lui e il suo entourage. Sconfessato dalla comunità scientifica internazionale (la rivista Nature ha svelato come la documentazione, presentata per la richiesta di brevetto per il metodo, si avvalesse di documenti «scippati» ad altri ricercatori), ma «tollerato» dalle solite indeterminatezze della politica e della giustizia, ha sempre fatto leva sulla comprensibile disperazione degli ammalati e dei loro parenti. E su alcuni media compiacenti: Giulio Golia, delle «Iene», ha confezionato una ventina di servizi uno più temerario dell’altro, un manuale della tv del dolore, senza mai farsi venire un dubbio.

C’è solo da sperare che scienza e cure compassionevoli si spartiscano ora i loro ambiti. La medicina occidentale avrà i suoi limiti, ma si può dare un calcio al controllo scientifico, approfittando della disperazione delle famiglie dei malati?




I numeri della guerra

Nel 2013 in Siria almeno 50mila persone sono morte per la guerra civile e sei milioni di persone hanno dovuto abbandonare le loro case. Nel mondo, 59 giornalisti sono stati uccisi per il loro lavoro, 22 di loro erano in Siria.
In Afghanistan sono morti 156 militari statunitensi o della coalizione occidentale e il numero dei soldati afgani uccisi è aumentato dell’80 per cento.
La spesa militare mondiale, nel 2013, è stata pari a 1.700 miliardi di dollari.
Uno sguardo statistico sull’anno che sta per finire.

Messaggio al governo!

L'accoglienza e il rispetto verso i migranti è un dovere del buon cristiano. E' questo il concetto ribadito stamane da Papa Francesco nell'Angelus celebrato in piazza San Pietro. Guardando alla santa Famiglia di Nazareth "nel momento in cui è costretta a farsi profuga, pensiamo al dramma di quei migranti e rifugiati che sono vittime del rifiuto e dello sfruttamento, della tratta delle persone e del lavoro schiavo"

Papa Francesco

Manifesti, consulenze, assunzioni «extra» Le falle nel bilancio dei democratici.

Corriere della Sera 29/12/13
 
Maria Teresa Meli 
 
ROMA — Quando nel novembre scorso Antonio Misiani, fedelissimo di Bersani, nominato tesoriere dall’allora segretario, aveva detto che Matteo Renzi «tanto avrebbe trovato le casse vuote», gli uomini del sindaco l’avevano presa come una battuta. Ora dovranno ricredersi. Ai renziani è stato lasciato in eredità ben di peggio.

Se nel 2012 il bilancio del partito registrava 7 milioni di perdite nel 2013 il buco rischia di essere ancora maggiore. E questo è avvenuto quando i rimborsi elettorali erano già stati dimezzati e il disegno di legge per la loro graduale abolizione già incardinato alla Camera. Tant’è vero che si sta pensando di rispondere a questa situazione d’emergenza con una «due diligence», come si fa per le aziende. Si affiderà, cioè, a un gruppo di professionisti il compito di verificare tutti i rapporti bancari, i contratti e quant’altro. Ci vorrà un mesetto di tempo. Dopodiché probabilmente verrà messo tutto in Rete: il passato, il presente e il futuro. In modo che le spese del Pd siano trasparenti e ogni elettore possa verificarle.

Immerso nel lavoro, il nuovo tesoriere del partito, Francesco Bonifazi, fedelissimo del segretario, non si fa strappare una parola nemmeno sotto tortura. Ma le mura del palazzo del Nazareno hanno occhi e orecchie. E le prime indiscrezioni cominciano a trapelare. Gli elementi che saltano all’occhio sono fondamentalmente tre. Il primo: i dipendenti del Pd e i dirigenti politici avevano stipulato un accordo interno per il blocco delle assunzioni nell’arco del 2012-2013. Patto che non è stato rispettato quando si è trattato di piazzare al Nazareno, come quadri, otto nuovi dipendenti, nel gennaio del 2013. Guarda caso un mese prima delle elezioni. Guarda caso tutti e otto poi eletti in Parlamento. A loro, evidentemente, bisognava fornire una rete di protezione, in caso di scioglimento anticipato della legislatura.

Non finisce qui: altre assunzioni sono state fatte anche nell’agosto del 2012, sempre nell’era bersaniana. Anche questi dipendenti presi come quadri, il che significa che hanno una tutela maggiore di altri in caso di ristrutturazione dell’organico. Per chiarire la situazione dal punto di vista degli oneri finanziari, il Pd ha circa 200 dipendenti, 150 lavorano al partito, gli altri sono distaccati e il costo medio di un dipendente è di 67 mila euro lordi. Ma ecco che arriva il secondo capitolo relativo alla gestione delle spese del Nazareno. Al 31 ottobre del 2012 sono stati spesi 958 mila euro di consulenze in un anno. E sempre in quello stesso arco di tempo giù una sfilza di cifre: 446 mila euro che vanno sotto la voce «viaggi nazionali», 333 mila per «servizi generali», 230 mila per rimborsi di alberghi, 236 mila per le agenzie di stampa, 635 mila per la manutenzione. In quest’ultimo ambito rientra anche la manutenzione del sito web del partito, che ha un costo notevole: sono stati spesi 327 mila euro in un solo anno.

Ma la voce che impressiona di più è un’altra. Riguarda la propaganda: sei milioni di euro. Una cifra da capogiro, tanto più se si pensa a quali sono stati poi quattro mesi dopo i risultati per il Partito democratico di questo sforzo economico a livello elettorale. Di questa somma la metà circa è andata in inserzioni e pubblicità sui media. Mentre ben più di un milione è stato il costo delle affissioni dei manifesti. Un ritmo di spese a dir poco sostenuto, che sembrava quasi dare per scontato il fatto che in realtà, alla fine della festa, i rimborsi elettorali, in un modo o nell’altro, non sarebbero stati mai veramente cancellati. Un ritmo che non si è interrotto neanche l’anno dopo, nel 2013. Ancora è presto per avere un dato finale riguardo questa stagione che ha visto il Pd impegnato in una campagna elettorale che ha prodotto altri significativi esborsi di soldi. Ma le previsioni sono improntate al pessimismo.

Racconta qualche dipendente, ovviamente con la premessa di voler mantenere l’anonimato, che i renziani si aggirano per il palazzo del Nazareno con le mani ai capelli e che si lasciano sfuggire frasi del tipo: «Vuoi vedere che ce l’hanno fatto apposta a lasciarci queste voragini?». Processo alle intenzioni? La dietrologia in politica, si sa, ha sempre la meglio. Ma i numeri, invece, sono quelli che sono, immagazzinati in un computer o stampati nero su bianco su fogli che vengono letti e riletti quasi ogni giorno. E si giunge così al terzo e ultimo capitolo di questa storia. Riguarda il rapporto tra il Partito democratico e l’Unità . Nel corso del tempo il Pd si è impegnato, come è normale che sia, ad acquistare un certo numero di copie e di abbonamenti del quotidiano fondato da Antonio Gramsci. Ogni volta veniva stipulato un contratto. Ma di contratti ce ne sono stati diversi in questi ultimi due anni. L’ultimo porta la data del 17 ottobre del 2013, quando Pier Luigi Bersani si era già dimesso e al suo posto era stato eletto segretario Guglielmo Epifani, all’Assemblea nazionale del Pd , alla Fiera di Roma.




Benazir Bhutto

Sostenitori della leader pakistana Benazir Bhutto a Lahore, Pakistan, nel sesto anniversario della sua morte.(Internazionale)

geniale!!!!

Una scultura di ghiaccio ad Harbin, in Cina. (Internazionale)

Aiuto

 
Jena
 
“Aiuto, c’è ancora Alfano...”

sabato 28 dicembre 2013

Effetto sindaco: «fuga» da destra,
Monti e 5 Stelle verso il Pd.

corriere della sera 
27 dicembre 2013
 
MILANO — Elettori infedeli, pronti al tradimento o all’abbandono. Solo il 41% rivoterebbe adesso lo stesso partito scelto a febbraio alle Politiche. Poco di più, il 55%, la stessa coalizione. Il resto, in caso di elezioni, è pronto a cambiare partito o preferire l’astensione. E chi ci guadagnerebbe, da questa situazione, è il centrosinistra, soprattutto il Pd a guida Renzi. Verso cui si indirizzano, più che per altri, le intenzioni di voto degli infedeli che non intendono confermare la scelta di febbraio. La ricerca di Lorenzo De Sio e Aldo Paparo del Cise (rilevazioni dal 16 al 22 dicembre) parla di «una grande turbolenza delle intenzioni di voto», con «una mobilità significativa». Pur nella turbolenza, il vento soffia a vantaggio del Pd: in maniera così marcata da spingere, per la prima volta, i ricercatori a non presentare i risultati delle rilevazioni sulle intenzioni di voto (comunque «ben oltre quei sei punti di “effetto Renzi” individuati da vari istituti nelle ultime settimane»). Si trovano nel centrosinistra gli elettori più fedeli: l’80% rivoterebbe la coalizione. Inoltre, un decimo di quanti si sono astenuti a febbraio dichiara che, se si votasse adesso, sceglierebbe Pd. Stessa scelta che farebbe un elettore su 4 dei montiani, il 15% di chi ha votato Cinquestelle e il 13% del centrodestra. Il Movimento di Grillo e Forza Italia registrano tassi bassi di fedeltà: meno della metà dell’elettorato confermerebbe ora la preferenza di febbraio. Altri due aspetti, per i ricercatori, accomunano le due forze ora all’opposizione: un flusso verso l’astensione superiore a un terzo del proprio elettorato e rilevanti passaggi verso il centrosinistra. Peggiori i dati del centro: un elettore su tre che a febbraio si era affidato alla coalizione di Monti cambierà scelta. C’è da essere prudenti, trattandosi di intenzioni di voto. Eppure «appare sorprendente», spiegano i ricercatori del centro diretto da Roberto D’Alimonte, che a pochi mesi dalle Politiche quote molto importanti di elettori riferiscano che cambierebbero voto: «A nostro parere è difficile non mettere i dati osservati in relazione con l’emersione nel centrosinistra della leadership di Renzi. Si sa da tempo che il sindaco ha una capacità di comunicazione che va oltre il bacino tradizionale del centrosinistra e i dati sembrano confermare questa ipotesi». Giorni fa proprio uno studio del Cise spiegava come Renzi, alle primarie, abbia conquistato gli elettori di sinistra, trovandosi ora di fronte alla vera sfida: allargare la base. Ovvero, confermare questi dati alle prossime elezioni.


Renato Benedetto

La conferenza stampa di Alma Shalabayeva

Internazionale 27 dicembre 2013


“Ho temuto per la vita di mia figlia”, ha detto Alma Shalabayeva parlando della sua vicenda in una conferenza stampa a Roma il 27 dicembre.
“Ci sentivamo sempre sotto sorveglianza, eravamo preoccupati di ricevere intimidazioni ma soprattutto avevamo timore per i nostri figli”, ha raccontato la donna, parlando degli ultimi mesi in cui era in Italia, prima di essere espulsa.
Shalabayeva ha detto che spera di rivedere presto suo marito, il dissidente kazako Mukthar Ablyazov: “Il mio desiderio è rivederlo il prima possibile, mi manca molto”.
L’arrivo in Italia. Alma Shalabayeva è arrivata a Roma il 27 dicembre con un aereo di linea, dopo che nei giorni scorsi ha ottenuto un visto Schengen per poter lasciare il Kazakistan. La donna, che ha portato con sé la figlia di sei anni Alua, è atterrata all’aeroporto di Fiumicino intorno alle 12.
Il 24 dicembre, su richiesta della donna e del governo italiano e in cambio di una cauzione, Shalabayeva ha ottenuto la libertà provvisoria e il visto Schengen per il rientro in Italia.
Il caso. La notte del 28 maggio 2013 Alma Shalabayeva, moglie dell’imprenditore e dissidente kazaco Mukhtar Ablyazov, è stata arrestata da alcuni agenti della questura di Roma, insieme alla figlia di sei anni, mentre si trovava in una villa a Casal Palocco, alla periferia di Roma. Le forze dell’ordine cercavano suo marito e hanno agito su richiesta delle autorità del Kazakistan. Ma Ablyazov non era in casa, così Shalabayeva è stata arrestata con l’accusa di possedere un passaporto falso.
Il 31 maggio la donna e la bambina sono state imbarcate su un aereo diretto in Kazakistan, messo a disposizione dal presidente kazaco Nursultan Nazarbaev, e sono state portate nella città di Almaty, dove sono rimaste agli arresti domiciliari.
Il 5 luglio una sentenza del tribunale di Roma ha condannato l’operato della questura di Roma, dichiarando che il passaporto della Repubblica Centrafricana di Alma Shalabayeva è valido. Ne è nato un caso politico che ha coinvolto il ministro dell’interno Angelino Alfano, accusato di non aver saputo gestire la vicenda.
La procura di Roma ha aperto due inchieste sulla vicenda, uno sui documenti falsi della donna e l’altro contro l’ambasciatore kazako e i funzionari dell’ambasciata. Alma Shalabayeva sarà interrogata nell’ambito della prima inchiesta.

Natale a Gaza

Una casa distrutta da un bombardamento israeliano a Gaza, il 25 dicembre. (Internazionale)

venerdì 27 dicembre 2013

Beirut, autobomba vicino al Parlamento. “Otto morti, ucciso ex ministro”

Il Fatto Quotidiano

27 dicembre 2013


L'obiettivo dell'attentato che ha colpito il centro turistico e finanziario della capitale libanese sarebbe stato l'ex titolare delle Finanze, Mohammed Shattah. Stretto Collaboratore dell’ex premier Saad Hariri, figlio di Rafik Hariri, primo ministro ucciso nel febbraio 2005. Accuse al governo siriano e a Hezbollah libanesi filo-iraniani. Ma l'Iran condanna il gesto

Sono almeno otto i morti e 70 i feriti provocati dalla forte esplosione avvenuta alle 9.40 locali (le 8.40 in Italia) in piazza Starco, nel centro di Beirut vicino all’albergo Four Seasons e non lontano dalla sede del Parlamento. La deflagrazione è stata causata da un kamikaze alla guida di un’autobomba. L’obiettivo dell’attentato sarebbe l’ex ministro delle Finanze libanese ed esponente del movimento al Mustaqbal (Il Futuro), Mohammed Shattah, che è rimasto ucciso mentre si trovava a bordo della sua auto, diretto a una riunione a casa del capo dell’opposizione parlamentare Saad Hariri in un palazzo poco lontano dal luogo dell’esplosione. E’ rimasto ucciso anche l’autista di Shattah. Proprio Hariri ha accusato implicitamente il governo siriano e gli Hezbollah libanesi filo-iraniani di essere dietro all’attentato. Ma l’Iran ha condannato subito l’attacco: “I nemici del Libano stanno prendendo di mira tutti”, ha detto il vice ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amir-Abdollahiyan
L’ex ministro 62enne era uno stretto collaboratore dell’ex premier Saad Hariri, figlio di Rafik Hariri, primo ministro ucciso in un attentato il 14 febbraio 2005, non lontano dal luogo dove stamani è avvenuto l’attentato kamikaze. La bomba ha mandato in frantumi i vetri fino all’ottavo piano del palazzo Starco che dà il nome alla piazza e ospita numerosi servizi tra cui un grande teatro. Sul posto corpi in fiamme, via vai di ambulanze, mentre le schegge sono schizzate fino a oltre 500 metri dal luogo della deflagrazione. Questo lo scenario tra le strade della capitale libanese dopo l’attacco che non è stato ancora rivendicato.
Attualmente Shatah era leader dell’opposizione parlamentare vicina all’Arabia Saudita e ostile agli Hezbollah e all’intero asse filo-iraniano in Libano e nella regione. L’uomo aveva ricoperto la carica di ambasciatore libanese negli Stati Uniti e consigliere dell’ex premier Fouad Siniora. Ultimamente l’ex ministro era stato incaricato di gestire a Beirut le relazioni politiche e con i media per conto di Hariri, da tempo residente all’estero per timore di esser ucciso nel suo Paese. Pochi minuti prima di morire, Shatah aveva scritto sul suo profilo Twitter un commento molto duro nei confronti del regime siriano e degli Hezbollah, alleati dell’Iran. Una riunione d’emergenza dell’Alta Commissione per i grandi rischi e i disastri è stata convocata al Gran Serraglio, sede del governo di Beirut, su decisione del premier dimissionario Najib Miqati che ha condannato duramente l’attentato kamikaze. “Il Libano e la sua gente devono poter vivere in pace”, è scritto nel comunicato del primo ministro, che ha rassegnato le dimissioni alla fine dello scorso marzo. Miqati ha inoltre condannato tutte le azioni che portano solo “ulteriore caos e danni per il Paese”. Oltre all’Iran, anche l’organizzazione Hezbollah ha condannano l’attentato kamikaze. Mentre il governo siriano, che Hariri ha implicitamente accusato insieme a quello di Teheran di avere qualche responsabilità, respinge ogni accusa.
L’ultimo attentato che ha colpito il Libano risale a poco più di un mese fa, il 19 novembre, quando in un doppio attacco suicida contro l’ambasciata dell’Iran a Beirut morirono 25 persone e 146 rimasero ferite. L’attentato è stato rivendicato da un gruppo jihadista libanese che si ritiene legato ad Al Qaida, le Brigate Abdullah Azzam. Tra le vittime l’addetto culturale dell’ambasciata, Ibrahim Ansari, tre addetti alla sicurezza della sede diplomatica e la guardia del corpo dell’ambasciatore iraniano in Libano.

In attesa del nuovo anno

Riccardo Imberti

In questi giorni di festività natalizie, oltre all'esagerazione alimentare delle tavolate familiari, complice anche il maltempo, che ci ha costretti a vivere barricati in casa,  abbiamo assistito a vicende politiche preoccupanti. 
Tempo fa, mi confidava una amico parlamentare, che con il decreto milleproroghe, (termine inspiegabile al resto del mondo), era consuetudine che tutti ci mettano del loro. Il parlamentare, che per pudore o per svista non  è riuscito a "sistemare" con il patto di stabilità, questioni legate al suo territorio o interessi delle lobbies che rappresenta,  trova il modo di presentarle dentro questo decreto. Per queste ragioni abbiamo assistito  a proposte a dir poco indecenti. Talmente indecenti che  il consiglio dei ministri, ha dovuto correre ai ripari e modificare questioni di non poco conto. Alcune in particolare: abolire la vergognosa penalizzazione dei comuni contrari alle slot machine, blindare i conti del comune di Roma, sciogliere il nodo degli affitti d’oro dei palazzi della politica dopo i pasticci dell’ultima settimana, prorogare il divieto degli incroci tra stampa e tv,  prorogare il blocco degli sfratti e  quella dei pagamenti fiscali per le zone alluvionate della Sardegna. 
Tutto questo conferma ogni giorno di più che stiamo vivendo alla giornata,  con una maggioranza risicata che non rende possibile scelte necessarie e coraggiose  per il risanamanto del debito pubblico, per il rilancio dell'economia, per il lavoro e l'occupazione. 
Fonti governative ci dicono che è in atto la ripresa, ma i dati sull'occupazione, aggiunti alle ore di cassa integrazione utilizzate nel 2013, non sono affatto rassicuranti.
Ma oltre a queste priorità, vi sono cose che si possono fare e sono altrettanto necessarie. Una per tutte, la riduzione dei costi della politica e dei privilegi della casta. Mi risulta che a tutt'oggi godano ancora della scorta i coniugi Mastella, gli ex ministri Cirino Pomicino, Oliviero Diliberto e Claudio Scajola e gli ex presidenti della Camera Marcello Pera e Fausto Bertinotti. 
Cominciamo da qui Onorevole Letta?
Buon anno.

Egitto e Turchia, la parabola triste dell’islam politico

Lorenzo Biondi 
Europa  

Il partito di Erdogan sconvolto dalla "Tangentopoli turca" e dalle lotte intestine. Al Cairo il governo mette fuori legge la Fratellanza musulmana. È la fine di un ciclo politico  

C’era una volta l’irresistibile ascesa dell’islam politico. Da una parte la Turchia delle tre vittorie elettorali di Recep Tayyip Erdogan. Dall’altra l’Egitto dei Fratelli musulmani, usciti trionfanti dalla rivoluzione del 2011. È una casualità, ma nelle ultime ore entrambe quelle vicende hanno subito un contraccolpo da cui difficilmente potranno riprendersi in modo indolore.
In Turchia il partito di governo, l’Akp, è al centro di una grossa inchiesta per corruzione, che è arrivata a lambire persino il premier Erdogan. Dietro l’inchiesta si nasconde anche uno scontro di potere tra le diverse fazioni dell’islam politico turco: quella più vicina al primo ministro e quella legata a Fetullah Gülen, finanziere e filantropo auto-esiliatosi negli Stati Uniti. Ciascuno dei due gruppi, nel tempo, ha “colonizzato” interi settori degli apparati dello Stato, sottraendone il controllo alle élite kemaliste. Fino al paradosso di questi giorni: alcuni magistrati (vicini a Gülen) dispongono l’arresto di diversi uomini politici e la polizia (recentemente riconquistata da Erdogan) si rifiuta di attuarli.
Lo scontro politico diventa scontro istituzionale. E rischia di mettere a rischio le conquiste dell’ultimo decennio, il faticoso percorso della democrazia turca per liberarsi dall’ingombrante tutela dei militari.
Esercito contro islamisti: in Egitto stesso dualismo, tutt’altro copione. Ieri il governo egiziano – controllato dai militari – ha messo fuori legge la Fratellanza musulmana, il partito che appena un anno e mezzo fa, con Mohamed Morsi, aveva conquistato tredici milioni di voti, prima della nuova ondata rivoluzionaria della scorsa estate. Il decreto prevede che il semplice sostegno verbale agli Ikhwan, i Fratelli, o il possesso di letteratura “apologetica” possa essere punito con pene che arrivano ai cinque anni di carcere.
L’occasione per il giro di vite l’ha fornita un attentato di martedì scorso nella città di Mansoura, sul delta del Nilo, in cui sono morte 14 persone. La Fratellanza non ha rivendicato l’esplosione (a differenza di un gruppo estremista, Ansar Beit al Maqdis), ma le altre forze politiche – incluso il partito del premio Nobel Mohamed ElBaradei – hanno subito puntato il dito contro gli islamisti. E il ministero dell’interno non ci ha pensato su due volte, inserendo la Fratellanza nella lista delle organizzazione terroristiche. In Egitto chi fornisce sostegno logistico e militare a un gruppo terrorista rischia la condanna a morte.
L’anno di governo dei Fratelli musulmani è stato fallimentare sotto molti punti di vista: sul piano delle libertà non sono riusciti a scendere a compromessi con le forze laiche; sul piano dell’economia si sono susseguiti gli insuccessi. Ma il loro ritorno alla clandestinità è la chiusura di una stagione. La Fratellanza era illegale durante il regime di Hosni Mubarak (anche se, negli ultimi anni, era “tollerata”); poi la stagione rivoluzionaria e la prese del potere; adesso il ritorno alla macchia. Coi militari nuovamente in controllo della scena politica, in attesa che l’uomo forte Abdel Fattah al Sisi decida di farsi incoronare presidente dal popolo egiziano. E col rischio che gli Ikwhan proseguano sulla strada della resistenza armata.
Storie diverse, quelle di Egitto e Turchia. Ma in entrambi i casi il 2013 è stato annus horribilis degli islamisti di governo. Al Cairo come ad Ankara, la loro crisi rischia di minare profondamente la stabilità dei due regimi.

I mortaretti di Grillo

Mario Lavia 
Europa  

Il leader Cinquestelle parla di impeachment ma è chiaro che non sa di cosa parla. Perché si imbarca in una campagna prevedibilmente fallimentare?
Quando Beppe Grillo dalla sua villa sopra Genova lancia strali contro il presidente della repubblica ipotizzando l’impeachment, è chiaro che non sa di cosa parla e che non conosce la materia: chissà cosa intende per messa in stato d’accusa, chissà se ha preso in considerazione che nessuna forza politica lo segue, chissà se conosce l’unico – e infelice – precedente di Cossiga.
Non merita, questo mortaretto di fine anno, una discussione di merito: perché un merito non c’è. È propaganda.
Ed è questo l’aspetto su cui riflettere. Perché Grillo si imbarca in una campagna prevedibilmente fallimentare? L’impressione è che il comico genovese abbia avvertito la necessità di spostare il target delle sue sparate, avendo sempre di più difficoltà a sviluppare il teorema di un “superinciucio” che non esiste nemmeno sotto la forma di convergenza parlamentare, si sia impappinato sulla mitica narrazione del pdmenoelle, abbia constatato che non funziona tanto neanche la storiella del Renzi berluschino.
Può anche darsi che Grillo maneggi con difficoltà le sue armi sul crinale Nazareno-palazzo Chigi, hai visto mai che la svolta generazionale un qualche problema comincia a crearglielo, e perciò se la prende con il meno giovane – anagraficamente – di tutti, volgarmente cianciando di giardinetti e pensionamenti, vellicando l’umor nero di tanti italiani.
Roba già vista, nel bel mezzo di grandi crisi come questa. Erano i primi anni Venti, giusto?

mercoledì 25 dicembre 2013

Buon Natale

«Fermiamoci davanti al Bambino di Betlemme. Lasciamo che il nostro cuore si commuova, non abbiamo paura di questo, non abbiamo paura che il nostro cuore si commuova, ne abbiamo bisogno! Lasciamolo riscaldare dalla tenerezza di Dio; abbiamo bisogno delle sue carezze. Le carezze di Dio non fanno ferite, le carezze di Dio ci danno pace e forza. Dio è grande nell’amore... Dio è pace: chiediamogli che ci aiuti a costruirla ogni giorno, nella nostra vita, nelle nostre famiglie, nelle nostre città e nazioni, nel mondo intero. Lasciamoci commuovere dalla bontà di Dio».

Papa Francesco

Come nella Montagna incantata

Mario Lavia 

Europa  

Questa generazione ha fretta, fretta di concludere, ha bisogno di certezze, di scadenze: di qui l’idea di Renzi e Letta di un “contratto” dettagliato entro gennaio con tanto di date da rispettare
Guardando ieri Enrico Letta alla sua prima conferenza stampa di fine anno inevitabilmente è venuto il ricordo della stessa occasione di un anno fa – c’era Mario Monti che annunciava la sua “salita in campo” – o quella di due anni fa – sempre con Monti ma in veste di salvatore della patria dopo lo sfascio berlusconiano. Un anno, due anni: pare un’altra era.
Poi sempre ieri si è visto Matteo Renzi nel suo incontro tutto fiorentino con i giornalisti, quel Renzi che guida il Pd da quindici giorni: e anche in questo caso sembra molto di più, perché ha già detto e fatto un sacco di cose, ricevuto critiche e elogi da riempire una stagione politica.
Come nel gran romanzo di Thomas Mann, un giorno pare un anno e un anno un giorno. Quello della Montagna incantata è lo strano effetto ottico-temporale che attraversa questa fase politica: abbiamo tutti la sensazione simultanea che il tempo sfugga dalle dita e all’opposto che non passi mai.
Accade forse perché questa generazione (molto fine l’uso di questo concetto da parte di Letta) ha fretta, fretta di concludere, ha bisogno di certezze, di scadenze, di cronoprogrammi: di qui l’idea di Renzi e Letta di un “contratto” dettagliato entro gennaio con tanto di date da rispettare. Una visione un po’ manageriale che sarebbe benvenuta qualora trovasse attuazione vera, altro che quella padronale del ventennio, tanto lesta nell’azzeccare i garbugli quanto vacua nel realizzare le cose.
Già, i due ragazzi hanno fretta di fare i conti con l’Italia. Sanno, Renzi e Letta, che dovranno essere anche molto duttili – il tutto e subito semplicemente non esiste oggi come non esisteva nel Sessantotto – e dunque del job act si può ipotizzare la messa in campo di qualcosa e non di tutto e così dei cento interventi riformatori annunciati ieri dal presidente del consiglio.
Ma essere duttili non vuol dire rinviare. A fine gennaio ognuno farà le sue valutazioni. Il paese che davvero è stremato chiede una sola cosa, ormai: di avere qualche certezza più sul quando, che sul cosa fare. Perché agli italiani non si può più raccontare che è passato un giorno quando invece è trascorso un anno.