lunedì 31 marzo 2014

Senato, dal governo via libera al Ddl

Il Corriere della sera 31 marzo 2014
 
Il consiglio dei ministri ha dato il via libera al disegno di legge costituzionale che prevede tra l’altro la riforma del Senato, ovvero la sua trasformazione in camera non elettiva composta da rappresentanti di Regioni e Comuni. La riunione dell’esecutivo è durata poco meno di due ore ed era stata anticipata da alcune polemiche per prese di posizione critiche o contrarie all’interno della stessa maggioranza. «Mettiamo la parola fine ad un dibattito 30ennale» ha commentato a caldo il premier Matteo Renzi. «Voglio essere l’ultimo presidente del consiglio ad avere ricevuto il voto di fiducia dall’aula di Palazzo Madama» ha poi aggiundo ricordando i quattro paletti su cui si fonda la riforma: nessuna voce in capitolo della nuova assemblea sulla fiducia al governo (che l’avrà dunque solo dalla Camera dei Deputati), nessuna voce in capitolo sul bilancio (anche questo sarà prerogativa di Montecitorio), nessuna elezione diretta dei senatori (il plenum sarà composto da presidenti e consiglieri regionali e da sindaci dei principali comuni) e nessuna indennità per i membri, che avendo altri incarichi istituzionali ricevono già uno «stipendio». Il ddl costituzionale prevede anche una revisione del Titolo V della Costituzione, con il riordino della ripartizione di competenze tra Stato e Regioni; e l’abolizione del Cnel, il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro.

Caviale e champagne, quei 2 milioni spesi dai consiglieri della Lombardia

Corriere della Sera 31 marzo 2014

In tre anni si sono mangiati qualcosa come 2 milioni e 140 mila euro. Nel vero senso della parola. Dei quasi tre milioni ottenuti come rimborsi tra il 2008 e il 2011, i 64 consiglieri regionali della Lombardia ne hanno speso il 70 per cento con pochi intimi in ristoranti stellati, annaffiando i pasti con ottimi vini, in banchetti con centinaia di persone, in fugaci puntate solitarie al bar, ma anche tra gli scaffali del supermercato.
Per il folto gruppo di consiglieri delle due legislature precedenti a quella attuale, all’inizio di marzo i pm della procura di Milano Alfredo Robledo, Paolo Filippini e Antonio D’Alessio hanno chiuso le indagini, accusandoli di peculato. Rischiano il rinvio a giudizio 31 consiglieri del Pdl, 23 della Lega, 5 del Pd, due dell’Udc e uno ciascuno di Sel, Idv e Partito dei pensionati.

Se la Siria non scalda più i cuori

La Stampa 31 marzo 2014


La foto della piccola Israa al-Masri con gli enormi occhi già spenti prima di morire di fame nel campo profughi palestinese di Yarmouk, a Damasco, ha fatto il giro del pianeta. Anche quella dell’infinita coda per il pane scattata qualche settimana dopo nello stesso campo è stata ripresa da tutti i media internazionali. Ne abbiamo scritto, ne abbiamo parlato. Ma dura poco. Un gran voltastomaco globale e finisce lì. Perché la Siria non scalda i cuori. 

Secondo le maggiori organizzazioni umanitarie mondiali nessuna crisi ha sensibilizzato meno l’opinione pubblica della mattanza in corso ad appena tre ore di volo dall’Italia. Gli stati donano poco, come conferma l’Onu che ha appena lanciato il più grande appello della storia chiedendo 6,5 miliardi di dollari (finora solo il 12% dei 2,3 miliardi di dollari promessi in Kuwait dalla Conferenza dei Donatori sono stati versati). Ma i privati, solitamente assai più emotivi e generosi dei loro governanti, donano ancora meno.  

«Il 2014 potrebbe essere perfino peggio del 2013 quando, a parte lo tsunami nelle Filippine, non c’è stata “competizione” umanitaria. Adesso invece, ad aggiungersi al fatto che la Siria non commuove, stanno esplodendo altre crisi, in Centrafrica, in Sud Sudan, e siamo solo all’inizio dell’anno» osserva Jonathan Campbell, coordinatore dell’emergenza Siria per il World Food Programme (Wfp) in Giordania, dove il solo campo profughi di Zaatari ospita circa 150 mila persone, distribuisce 22 tonnellate di pane ogni mattina e costa un milione di dollari al giorno. A novembre, per le Filippine, il Wfp raccolse in poco tempo oltre il 90% degli 88 milioni di dollari stimati per l’emergenza cibo anche grazie alle donazioni online dei privati. Per la Siria non si è neppure al 39% dei fondi necessari. 

Certo, la Siria ha numeri da brivido. A tre anni dalla rivolta contro Assad iniziata pacificamente e degenerata in una feroce guerra civile siamo a almeno 140 mila morti (7 mila bambini), 3 milioni di rifugiati all’estero (l’80% dei quali dipendenti dagli aiuti) e 9,3 milioni di sfollati all’interno del paese, una catastrofe umanitaria da 40 milioni di dollari alla settimana. Come se non bastasse, da quando l’accordo Usa-Russia sulla distruzione delle armi chimiche di Damasco ha tranquillizzato le coscienze e permesso ai riflettori mediatici di puntare senza remore altrove il massacro si è addirittura intensificato.  

Perché la Siria non scalda i cuori? Chi ci lavora fa una sintesi cruda: la Siria appare una giungla in cui non si distinguono i buoni dai cattivi, viene percepita come uno strascico delle ormai abusate primavere arabe e, diversamente dalle catastrofi naturali, induce a pensare che la popolazione se la sia un po’ cercata per cui noi, con tutti i guai che abbiamo, possiamo fare ben poco. Il risultato è sul sito di Agire (Agenzia Italiana per la Risposta alle Emergenze): «Grazie alla generosità degli italiani sono stati raccolti per le Filippine 427.000 euro»; «Grazie alla generosità degli italiani sono stati raccolti per la Siria circa 92.000 euro». 

Non c’è tempo. Oxfam (promotrice della campagna #WithSyria firmata dal guru della street art Bansky) denuncia che senza un’adeguata risposta economica i siriani, dentro e fuori al paese, resteranno presto senza cibo, acqua, riparo, medicine, istruzione. La difficoltà di raccogliere fondi ha già imposto una riduzione del 20% nella fornitura di cibo. Save the Children stima che 5 milioni di bambini siano bisognosi di assistenza mentre l’Unicef chiede 222,192,134 di dollari per non interrompere il crescente bisogno di acqua potabile, igienizzazione, scuole e materiale didattico, vaccinazioni (solo a Zaatari nascono almeno 6 bambini al giorno). Se una Siria così non scalda i cuori è forse un problema suo, ma anche dei cuori.

parole giuste...da incorniciare

«Ho giurato sulla Carta, non su Rodotà e Zagrebelsky» 

Matteo Renzi

Renzi blinda la riforma del senato

Redazione 
Europa  

«O facciamo le riforme o non ha senso che io sia al governo». Grasso «lancia avvertimenti. Ho giurato sulla Carta non su Rodotà o Zagrebelsky». Oggi la presentazione del ddl costituzionale per l'abolizione di Palazzo Madama
«Il senato non vota la fiducia. Non vota le leggi di bilancio. Non è eletto. E non ha indennità: i
rappresentati delle regioni e dei comuni sono già pagati per le loro altre funzioni». Questi i quattro cardini della riforma del senato Matteo Renzi che, dice in una intervista a Il Corriere della Sera,
su questo passaggio istituzionale si gioca tutto.
Il premier dice di essere rimasto «molto colpito» dalla presa di posizione del presidente del senato Pietro Grasso che ha chiesto un senato di eletti: «Su questa riforma ho messo tutta la mia credibilità; se non va in porto, non posso che trarne le conseguenze. Mi colpisce che la seconda carica dello stato, cui la Costituzione assegna un ruolo di terzietà, intervenga su un dibattito non con una riflessione politica e culturale, ma con una sorta di avvertimento: “Occhio che non ci sono i numeri”».
«Se Pera o Schifani avessero fatto così – aggiunge Renzi – oggi avremmo i girotondi della sinistra contro il ruolo non più imparziale del senato. L’elezione diretta del senato è stata scartata dal Pd con le primarie, dalla maggioranza e da Berlusconi nell’accordo del Nazareno. Non so se Forza Italia ora abbia cambiato idea; se è così, ce lo diranno».
«Rimettere dentro, 24 ore prima, l’elezione diretta dei senatori è un tentativo di bloccare questa riforma. E io la rilancio». Sulla riforma del senato, avverte il premier, «mi gioco tutto, non solo il governo. Io mi gioco tutta la mia storia politica. Non puoi pensare di dire agli italiani: guardate, facciamo tutte le riforma di questo mondo, ma quella della politica la facciamo solo a metà».
Renzi esclude che la riforma contenga norme per rafforzare i poteri del premier: «Ne ho parlato con Forza Italia. Ma non erano nell’accordo del Nazareno, e non le abbiamo messe». Quanto alle
critiche ricevute da Rodotà e Zagrebelsky, dice: «Non è che una cosa è sbagliata se non la dice Rodotà. Si può essere in disaccordo con i professoroni o presunti tali, con i professionisti dell’appello, senza diventare anticostituzionali. Io ho giurato sulla Costituzione, non su Rodotà o Zagrebelsky».
Renzi apre, invece, alla richiesta di Mario Monti, che aveva chiesto di inserire rappresentati della
società civile: »La proposta di Monti è dentro il pacchetto del governo».
E sulla riforma del lavoro risponde a sindacati e sinistra del Pd che bocciano il ddl perché farebbe aumentare la precarietà risponde che nel disegno di legge delega «ci saranno sia il salario minimo sia l’assegno universale di disoccupazione. Ne discuterà il Parlamento, anche delle coperture». In questo momento, ricorda il presidente del consiglio, «la vera sfida è far lavorare la gente. Oggi la gente non sta più lavorando».
«La disoccupazione– ha aggiunto – ha raggiunto percentuali enormi, atroci. Ne parlavamo con Obama, colpito dalla tenuta sociale di un paese con il 12% di disoccupazione. È vero che
noi abbiamo un welfare molto diverso da quello americano. Ma in questo scenario io credo che ci fosse bisogno di dare subito un segnale netto sul lavoro, in particolare su apprendistato e contratti a termine. Non si utilizzi questo segnale per trasmettere un’idea sbagliata. Il nostro obiettivo è rendere più conveniente assumere a tempo indeterminato piuttosto che a tempo determinato; ma non lo si raggiunge mettendo blocchi».
«Si può usare la leva fiscale, e vedremo se ci sono le condizioni. E si devono modificare in modo complessivo le regole, come faremo con il disegno di legge delega. Vedo che sta crescendo
l’attenzione degli investitori sul nostro paese. Certo, è il frutto di fenomeni macroeconomici nelle Borse di tutto il mondo, delle attese sulle nostre aziende. Ma ci sono anche grandi attese sul nostro governo: che sta portando gli interessi al livello più basso da anni; che sta portando capitali non dico a investire ma ad affacciarsi sul mercato italiano. Questo lo si deve pure alla determinazione con cui abbiamo voluto iniziare dalle riforme della politica e del lavoro».

Romano Prodi


La Repubblica 31/3/2014
MASSIMO GIANNINI

L’ex premier dice di sentirsi «un uomo felice», si chiama fuori dalla futura corsa per il Quirinale e promuove Matteo Renzi. «È la grande aspettativa di rinnovamento, ma non deve deluderla, de- ve fare in fretta ma deve soprattutto fare bene». A partire dalla battaglia che sta conducendo in Europa: «Noi dobbiamo onorare il fiscal compact, ma non possiamo accettare che ci leghino le gambe e poi ci chiedano di correre.
Se oggi, per rispettare il tetto magico del 3 per cento, ci preoccupiamo solo di comprimere il deficit e non di far crescere il Pil, ci suicidiamo». Le colpe sono un po’ di tutti: «Chi ha sentito più parlare della Commissione Ue?».
Il virus antieuropeista però preoccupa: «Solo la Germania ne è immune perché la Merkel ha difeso gli interessi nazionali ed è diventata la padrona d’Europa »
“Il Pd di Renzi è l’unico partito vivo giusta la battaglia contro i no tedeschi”
Presidente Prodi, in Europa i popoli voltano le spalle ai governi. Come dice Bauman, i palazzi della politica sono vuoti, perché il vero potere è altrove, dai mercati alle banche. Cosa sta succedendo?
«Con una diagnosi semplicistica, si potrebbe dire che la ripresa mondiale è lenta, e in Europa è ancora più lenta. In realtà il male europeo è molto più complesso. Non c’è un solo cambiamento nella storia dell’umanità che veda l’Europa protagonista. Prenda la crisi ucraina: Putin chiama Obama, anche se gli Usa non c’entrano nulla. Ma vale la famosa domanda di Kissinger: qual è il numero di telefono dell’Europa? Nessuno lo sa. Nel frattempo, l’Europa è dominata dalla paura, dagli egoismi nazionali. Ogni leader europeo guarda alle prossime elezioni, non alle prossime generazioni».
Risultato: vincono gli anti-europeisti, come nella Francia di Marine Le Pen.
«Il virus francese mi preoccupa, ma non mi sorprende. Solo la Germania è immune, perché la Merkel ha difeso soprattutto gli interessi tedeschi ed è diventata la padrona d’Europa. Ma è assurdo che un Paese con un surplus commerciale di 280 miliardi, un’inflazione zero e un modesto tasso di crescita, si rifiuti di reflazionare la sua economia, e di consentire che l’Europa faccia altrettanto, solo perché questo verrebbe vissuto dai tedeschi come una ‘elemosina’ a favore dei pigri meridionali ».
E non è così?
«Ovviamente no. Ma qui sta anche la responsabilità di noi “latinos”. Non siamo in grado di esprimere un progetto politico unitario e condiviso non “contro” la Germania, ma a favore dello sviluppo e del lavoro. Su questo non vedo proposte concrete, né in Italia né altrove. Il modello sono gli Usa, che hanno iniettato nel sistema 800 miliardi di dollari in un colpo solo. Ci vorrebbe un po’ di sano keynesismo…».
Dovremmo riscrivere i Trattati europei, smontando i famosi parametri che proprio lei una volta definì “stupidi”?
«Non ho mai pensato che si debbano rivedere i parametri. Li ho definiti ‘stupidi’, nel senso che vanno sempre tarati sui cicli dell’economia. E’ chiaro che se oggi, per rispettare il ‘tetto magico’ del 3%, ci preoccupiamo solo di comprimere il deficit e non di far crescere il Pil, ci suicidiamo. In periodi di crisi servono politiche espansive dal lato della domanda. E’ questo che l’Europa non fa. Dovrebbe mutualizzare i debiti pubblici e lanciare gli eurobond, ristabilire lo spirito solidaristico che a fine anni ‘90 ci consentì di azzerare gli spread, rafforzare le sue istituzioni rappresentative. La Bce, per quanto faccia, non potrà mai sostituirsi al Consiglio europeo. E mi dica, ha più sentito parlare della Commissione Ue?».
Grillo urla: usciamo dall’euro. Che effetto le fa, da “padre fondatore” della moneta unica?
«Questo è un Paese senza memoria. Usciamo dall’euro, facciamo come l’Argentina: follie. Dal giorno dopo avremmo Btp svalutati del 40%, tassi di interesse al 30%, Stato al collasso, banche fallite, dazi contro le nostre merci anche da parte dei paesi europei. Qualche anima bella obietta: avremmo le svalutazioni competitive! Altra follia. Una bilancia commerciale in attivo dello 0,6% del Pil è la prova che ai nostri imprenditori, non certo tutti pigri e poco competitivi, quello che oggi serve non sono le svalutazioni competitive, ma un rilancio della domanda e dei consumi interni, accompagnato da una drastica semplificazione delle regole e dalla ripresa della lotta all’evasione fiscale».
Renzi e Padoan hanno ragione a chiedere all’Europa di “cambiare verso”?
«Noi dobbiamo onorare i nostri impegni, compreso il Fiscal Compact. Ma dobbiamo pretendere dall’Europa politiche che ci consentano di rispettarli facendo ripartire l’economia. Non possiamo accettare che ci si leghino le gambe, e poi ci si chieda anche di correre. Serve un lungo e paziente dialogo, con tutti i nostri partner».
Crescita e lavoro ormai sono un mantra. Ma precariato e disoccupazione sono la malattia mortale dell’Occidente.
«Sono i temi che mi angosciano di più. A differenza delle rivoluzioni industriali del passato, le nuove tecnologie dell’informazione distruggono posti di lavoro. Il rapporto è 20 lavoratori espulsi per 1 nuovo assunto. A pagare il prezzo più alto e’ il ceto medio. Qualche giorno fa il Financial Times scriveva che l’Infor-mation Technology tra pochi anni farà sparire anche migliaia di analisti finanziari».
In Italia serve davvero più flessibilità in entrata (come prevede il decreto del governo) e in uscita (con la fine dell’articolo 18)?
«Posso dirle che lavori troppo precari non giovano all’economia, e che nelle aziende si assume e si licenzia come si vuole. Quando parli a tu per tu, gli imprenditori te lo dicono: il problema per loro non è l’articolo 18, ma semmai una contrattazione più legata alle aziende e ai territori, e una maggiore disponibilità su orari, turni, mansioni, gestione dei magazzini. Queste sono le vere riforme».
Dal Jobs Act al Fisco e alla PA, Renzi ne sta promettendo persino troppe. Non c’è da temere un effetto boomerang?
«Il nuovo governo ha obiettivamente aperto una speranza, e tutti dobbiamo crederci. Renzi ha un vantaggio: è la grande aspettativa di rinnovamento che c’è nella società italiana. Non deve deluderla. Ha in effetti lanciato molte proposte interessanti. Il problema è che ora servono norme e organizzazioni che le traducano rapidamente in atto. Se c’è tutto questo, va bene. Io sono in fiduciosa attesa».
Lei magari sì, ma le parti sociali no. Non passa giorno che Confindustria e sindacati non facciano a sportellate col governo o con Bankitalia. Come lo spiega?
«Un po’ di dialettica è fisiologica. Ma nel complesso mi pare che nel Paese, se non altro perché siamo davvero all’ultima spiaggia, c’è un forte desiderio di ritrovare l’ottimismo e di cavalcare il cambiamento. Questa per Renzi è una grande fortuna. Può sfruttare quel misto di angosce e di speranze che attraversano l’Italia. Deve fare in fretta, ma deve soprattutto fare bene. Quanto alla concertazione, è una bella cosa. Ma richiede unità nei sindacati e negli imprenditori. E invece l’Italia è sempre più frammentata. Da ex premier, mi ricordo riunioni fiume con decine di sigle sedute al tavolo. All’una la prima sigla diceva una cosa, alle due una seconda sigla la scavalcava, alle tre ne spuntava un’altra che andava oltre, alle quattro si chiudeva con un comunicato generico. Questo tipo di concertazione, onestamente, non funziona più».
Renzi taglia di 10 miliardi Il cuneo fiscale per i lavoratori. Lei lo fece già nel 2008, ma lo sparti’ anche alle imprese. E’ giusto oggi privilegiare l’Irpef?
«Noi distribuimmo, 60 alle imprese e 40 ai lavoratori. Nonostante questo, a sorpresa, il giorno dopo fu proprio Confindustria ad attaccarci. Stranezze della storia… Oggi, di fronte alla deflazione salariale, Renzi fa bene a concentrare tutti i benefici sui lavoratori. Un po’ più di potere d’acquisto per le famiglie, alla fine, sarà un vantaggio anche per le imprese».
La nuova legge elettorale e la riforma del Senato la convincono?
«Non entro nel merito. In generale, più ci si avvicina al modello dei collegi uninominali e del doppio turno, più si va verso una democrazia efficiente e funzionante».
Peccato che l’Italicum vada nella direzione opposta, per pagare un prezzo a Berlusconi. Lei che è l’unico ad averlo battuto due volte, come giudica questo patto col diavolo?
«Le riforme di sistema, elettorali e istituzionali, vanno fatte cercando il massimo dei consensi tra gli schieramenti politici. Ma diciamo che non bisogna esagerare nei modi. Di mediazioni se ne possono fare, ma la priorità resta sempre il bene del Paese».
E del Pd renziano cosa mi dice?
«Le dico solo questo: può anche darsi che il Pd abbia ancora la febbre, ma è l’unico partito vivo che c’è in Italia. Tutti gli altri sono crollati, e non esistono più forme minime di democrazia e di rappresentanza».
Quanto ancora le brucia, la vicenda dei 101 che l’hanno impallinata nella corsa al Quirinale?
«Con molta sincerità, della vicenda dei 101, che poi erano 120, non mi ha bruciato nulla. Anzi, è stata persino una cosa divertente. Ero in Mali, con gli africani che mi facevano il pollice alzato, mentre io facevo ‘pollice verso’ perché già prevedevo come sarebbe finita. Feci le mie telefonate, a Marini, D’Alema, Monti e Napolitano. Alla fine chiamai mia moglie e le dissi “vedrai, non succederà niente”. E così è andata. Ma davvero, non sono affatto amareggiato. Semmai mi brucia ciò che accadde prima, quando da Bari Berlusconi disse “al Quirinale chiunque, ma non Prodi”. Dal Pd, tranne Rosi Bindi, non replico’ nessuno. Quelli sono i momenti in cui ti senti veramente solo».
Napolitano potrebbe lasciare dopo la riforma elettorale. E di lei si sussurra: “Prodi si sta dando da fare per ritentare la scalata al Colle”. Vero o falso?
«Vorrei proprio sapere in cosa consisterebbe questo mio “darmi da fare”… Mi occupo di questioni internazionali, studio l’economia globale, giro il mondo. Sono un uomo felice. In fondo nella vita ci sono tante gare, e per quanto mi riguarda quella del Quirinale è finita. Mi creda: the game is over. I tempi poi sono cambiati: il prossimo presidente della Repubblica finirà per dover condensare il suo messaggio in un twitter».



domenica 30 marzo 2014

Gli italiani e il vento antieuropeo: uno su due chiede più unione.


Corriere della Sera 30 marzo 2014

Il risultato elettorale del Front National di Marine Le Pen alle elezioni francesi di domenica scorsa rappresenta una conferma di quanto i sondaggi stavano evidenziando da tempo: nell’opinione pubblica soffia un crescente vento di anti-europeismo, alimentato dalla crisi economica, dai vincoli comunitari e dalle severe misure imposte dall’Ue agli stati membri e da un’immagine arcigna e tecnocratica che sembra prevalere tra i cittadini europei. Le elezioni del 25 maggio saranno un vero e proprio banco di prova per il futuro dell’Europa. A tale proposito la metà degli italiani ritiene che la tendenza antieuropeista riguarderà sicuramente (13%) o molto probabilmente (37%) anche il nostro paese. Si tratta di un’opinione molto trasversale, dato che la pensa così all’incirca la metà degli elettori di tutti gli schieramenti, con l’eccezione dei centristi. Quali sono i leader italiani che esprimono le posizioni più critiche nei confronti dell’Europa? Innanzitutto il segretario della Lega Nord Matteo Salvini (26%), strenuo oppositore dell’Ue e dell’euro che aveva provocatoriamente definito «un crimine contro l’umanità». A poca distanza lo segue Beppe Grillo (23%), poi Matteo Renzi (15%) e Silvio Berlusconi (12%). Il premier prevale tra degli elettori del Pd e del centrosinistra, con il 31% delle citazioni, e ottiene un risultato più elevato tra le donne, le casalinghe e le persone meno istruite. Pur non assumendo posizioni radicali nei confronti dell’Ue, Renzi ha fatto registrare un cambio di strategia comunicativa in confronto ai suoi predecessori i quali, peraltro, erano stati accolti dai partner europei con grandissimo favore, perché risultavano credibili e soprattutto rassicuranti riguardo al rispetto degli accordi comunitari. Renzi non si sottrae agli impegni presi dal nostro paese, ma fa la voce grossa, usa frasi ad effetto («basta compiti a casa, l’Italia sa perfettamente cosa deve fare e lo farà da sola, per il futuro dei nostri figli») che danno orgoglio agli italiani e soprattutto risultano in grande sintonia con quella parte del paese che non mette in discussione l’appartenenza all’Ue ma auspica un profondo cambiamento di atteggiamento (e di regole). Insomma, Monti e Letta hanno riassegnato prestigio all’Italia, Renzi vuole apparire meno docile e remissivo. L’Europa si trova in mezzo a un guado, gli atteggiamenti nei confronti del processo di integrazione degli stati membri appaiono spesso ambivalenti. Nonostante la fiducia nell’Ue sia diminuita significativamente dalla crisi greca in poi (dal 78% al 58%) e malgrado sia largamente diffusa l’insoddisfazione nei confronti delle politiche europee e della moneta unica, la nostra permanenza nell’Ue e il mantenimento dell’euro non sono messi in discussione. Anzi, la maggioranza degli italiani (54%) vorrebbe più unione tra i paesi europei, il 29% al contrario preferirebbe meno unione e il 14% si dichiara soddisfatto della situazione attuale. I più favorevoli ad un ulteriore integrazione tra i paesi sono i giovani, gli studenti, i ceti medi impiegatizi, le persone più istruite e gli elettori del centrosinistra e, sorprendentemente, del Movimento 5 Stelle; al contrario si osservano divergenze di opinioni all’interno degli elettorati centristi e del centrodestra. Ma la percezione espressa degli intervistati rispetto agli atteggiamenti degli italiani riguardo al processo di unione tra i paesi, appare molto più contrastata: il 43% pensa che i nostri connazionali desidererebbero più unione, ma il 38% ritiene che ne vorrebbero meno. Insomma, i rispondenti sembrano dire in larga misura: noi auspichiamo più integrazione ma gli italiani no. E il risultato elettorale francese sembra essere alla base di questa percezione. L’Europa continua a rappresentare un valore importante per la maggioranza degli italiani ma, accanto ad una minoranza che mette in discussione la nostra appartenenza, emerge una sempre più diffusa domanda di cambiamento di un’entità vissuta come severa (per le misure talora draconiane imposte agli stati membri), focalizzata sui temi economici e distante dalle questioni che riguardano la vita dei cittadini come il lavoro, la sanità, l’istruzione, la giustizia, il welfare, l’ambiente, l’immigrazione. La campagna elettorale per l’elezione del parlamento europeo è solo agli inizi. Come di consueto, una parte rilevante degli elettori esprimerà il proprio voto pensando più alla politica nazionale che al parlamento comunitario. E per molti partiti sembrano essere elezioni decisive per il loro futuro nazionale. Tuttavia mai come in questa tornata elettorale si ha l’impressione di essere di fronte ad una sorta di referendum pro o contro l’Europa. E sarà forte la tentazione da parte dei partiti e dei leader di inseguire i malumori dei cittadini

I sacerdoti del non si può.


Ernesto Galli della Loggia
Corriere della sera 30 marzo 2014

Ancora una volta il Partito democratico è chiamato a scegliere. D’altra parte, se ci si pensa, è proprio questo il significato più generale dell’arrivo sulla scena di una figura come quella di Matteo Renzi: mettere il Pd con le spalle al muro, obbligare la cultura postcomunista a fare apertamente e fino in fondo una scelta a favore di una politica realmente riformatrice. Politica riformatrice progressista, naturalmente, considerando la natura e la storia dei democratici. Ma che in Italia — a causa della latitanza storica di una vera destra liberale: vedasi il fallimento di Berlusconi e di tutti quelli per vent’anni intorno a lui — non può non avere, necessariamente, anche caratteri e contenuti diciamo così non specificamente progressisti, non specificamente di sinistra, bensì dettati dalla necessità di dare spazio a efficienza, merito, razionalità, economicità: dunque, in un senso molto lato, anche caratteri e contenuti liberali. Insomma, così come nella prima Repubblica la Democrazia cristiana svolse un ruolo di supplenza verso la destra, accogliendone molte istanze e punti di vista, e così costruì la propria egemonia, la stessa occasione e lo stesso compito sembrerebbero oggi toccare al Pd. Ma per ragioni ben note la storia ha dato al Pd un interlocutore particolare che la Dc non aveva: il ceto degli intellettuali. I quali, inclini in genere a un certo radicalismo, non impazziscono certo per la categoria delle riforme in quanto tale, specie poi quando queste non sono in armonia con il loro punto di vista o ancor di più quando contrastano con i loro feticci ideologici. Ed ecco infatti un nutrito e autorevolissimo gruppo di essi (da Gustavo Zagrebelsky a Stefano Rodotà, da Roberta De Monticelli a Salvatore Settis) scendere in campo venerdì scorso con un vibrante appello pubblicato sul Fatto Quotidiano contro le riforme costituzionali proposte dal Pd di Renzi. Altro che riforme: si tratterebbe nei fatti, scrivono i nostri, di «un progetto di stravolgere la nostra Costituzione da parte di un Parlamento esplicitamente delegittimato (...) per creare un sistema autoritario che dà al presidente del Consiglio poteri padronali». Con il monocameralismo, ma in realtà «grazie all’attuazione del piano che era di Berlusconi», nascerebbe «l’Italia di Matteo Renzi e di Silvio Berlusconi», «una democrazia plebiscitaria (...) che nessun cittadino che ha rispetto per la sua libertà politica e civile può desiderare». Questo il tono e questi gli argomenti. Che per la loro qualità non meritano commenti ma solo un’osservazione: che razza di Paese è quello in cui le migliori energie intellettuali non esitano a tradurre la loro legittima passione politica in pura faziosità, ignorando decenni (decenni!) di studi, di discussioni, di lavori di commissioni parlamentari, che hanno messo a fuoco in maniera approfonditissima i limiti del nostro impianto costituzionale di governo? E dunque la necessità di modificarlo spesso proprio nel senso che oggi si discute? È ammissibile che tuttora si possa sostenere che avere anche in Italia un capo dell’esecutivo dotato dei poteri che hanno tanti suoi omologhi in Europa, o una sola Camera rappresenti l’anticamera del fascismo? In verità la scelta a cui l’appello degli intellettuali radicali chiama il Partito democratico è una scelta cruciale per la sua identità di partito riformista, ma fin qui sempre rimandata: e cioè tracciare sulla propria sinistra una netta linea di confine e di deciso contrasto ideologico-culturale. Per decenni il Partito comunista unì a una pratica in larga misura socialdemocratica una benevola tolleranza nei confronti del più multiforme estremismo teorico, verso rivoluzionarismi di varia foggia e conio, verso le critiche radicaleggianti di ogni tipo all’ordine borghese. Si poteva essere iscritti al Pci e insieme essere luxemburghiani, filomaoisti, marcusiani, stalinisti. Fino a un certo punto si potè perfino guardare con qualche simpatia alla lotta armata: fino a quando cioè il Partito comunista stesso — resosi conto del pericolo mortale che ne veniva a lui e alla Repubblica — decise di reagire con brutale fermezza. Ma fu l’unica volta. Per il resto questa benevola tolleranza non solo appariva politicamente innocua (tanto a governare erano sempre gli altri) dando per giunta l’idea di un partito aperto che sapeva rendersi amici gli strati intellettuali ma, cosa più importante, consentiva pure di fare regolarmente il pieno dei voti a sinistra. Il Partito democratico dovrebbe capire che per lui però le cose stanno in modo affatto diverso. Oggi specialmente, quando è al governo in una situazione di crisi grave del Paese e con una responsabilità mai così preponderante e diretta. È questa una responsabilità che dovrebbe implicare alcune ovvie incompatibilità. Tra le quali, per l’appunto, l’incompatibilità tra una linea riformatrice di governo e il sinistrismo radicaleggiante caro a non pochi intellettuali, sempre pronto, peraltro, all’agitazione piazzaiola o a divenire carburante per qualche formazione goscista. Un sinistrismo che dovrebbe obbligare il Pd, se non vuole alla fine restarne vittima, come altre volte gli è capitato, a fare muro esplicitamente, a uscire allo scoperto senza mezzi termini, e magari a contrattaccare; non già a tacere. Come invece tace singolarmente, ad esempio, l’Unità di ieri, la quale, invece che spendersi in qualche difesa delle riforme costituzionali del governo preferisce occuparsi di riservare una gelida accoglienza alle ragionevolissime critiche mosse dal governatore Visco ai vari corporativismi italiani (inclusi quelli dei sindacati), lasciandone il commento ai sarcasmi caricaturali di Staino. Ma non è così, non è con questa mancanza di chiarezza, mi pare, che ci si può inoltrare in quel cammino sul quale tanta parte dell’opinione pubblica oggi aspetta di vedere avanzare il partito di maggioranza.



auguri


La luna e la barricata. I 99 anni di Pietro Ingrao

sabato 29 marzo 2014

un anno fa...


Un bersaglio troppo mobile

Stefano Menichini
 

In attesa del test europeo, Renzi conferma di avere il controllo pieno del Pd. Dissensi e malumori appaiono marginali. La centralità del Pd conviene a tutti, e il premier-segretario è troppo rapido per tutti.
I tempi difficili arriveranno. I risultati di amministrative ed europee saranno cruciali, associati alla leadership del presidente del consiglio e segretario del Pd. Fino a quel momento bisogna però prendere atto che Matteo Renzi mantiene sul proprio partito un controllo assoluto. E che c’è una palese sproporzione fra il peso che malumori o dissensi hanno sui media, e l’impatto che invece hanno sugli equilibri interni, sulle decisioni assunte, sui comportamenti al governo e in parlamento.
Lascia perfino perplessi, che obiezioni magari ragionevoli sulle singole scelte di Renzi e del suo governo siano veicolate nel Pd da una minoranza che non riesce a incidere. E questo vale non solo per l’ambito di partito, dove i rapporti di forza usciti dalle primarie sono impietosi, ma fino ad adesso anche per gruppi parlamentari che abbiamo descritto riottosi al limite della sedizione.
Alla luce di quello che Renzi è riuscito a fare negli ultimi quattro mesi, fanno sorridere le analisi di chi lo pronosticava in difficoltà nel suo stesso partito fin dai primi giorni dopo le primarie. Come è potuto accadere, al netto degli errori degli avversari?
Banalmente – come s’è sentito ripetere durante la direzione di ieri – l’intero Pd, al centro e in periferia, avverte che Renzi l’ha condotto finalmente al centro della scena, motore di una stagione avvertita dagli italiani come vigilia di cambiamento: una posizione che nessuno – per orgoglio, convinzione o semplice calcolo – vuole indebolire.
Renzi per primo sa benissimo che non tutti, neanche tra i suoi sostenitori, sono convinti al cento per cento di tutte le iniziative che lui da premier affastella giorno dopo giorno, una sopra l’altra in modo che risulti impossibile sfilarne una, pena il crollo dell’intero catasta. Del resto neanche Renzi s’è mai legato a un contenuto specifico: per lui i singoli capitoli possono essere ritoccati, corretti, aggiustati. Ciò a cui non è disposto a rinunciare è il messaggio d’insieme; la dimensione, la diffusione e la rapidità del cambiamento; la coerenza con l’impegno a non lasciare nulla com’era prima.
Sicché, quando qualche bene intenzionato si alza per obiettare sull’Italicum, trova Renzi già lanciato sul Jobs Act. Il giorno dopo, a chi critica il Jobs Act, si risponde col testo finalmente scritto della riforma del senato. E via così, inseguendo un bersaglio incomparabilmente più mobile di qualsiasi cacciatore.

venerdì 28 marzo 2014

tetto agli stipendi per i manager. Dal 1° aprile limite a 311mila euro

Dall'1 aprile i compensi dei manager delle società non quotate, direttamente o indirettamente controllate dal Tesoro, sono soggetti immediatamente al tetto definito in base allo stipendio del presidente della Corte di Cassazione. Lo rende noto il Mef specificando che i limiti non riguardano le Enel, Eni, Finmeccanica, né Ferrovie, Cdp e Poste.

Cuneo fiscale

Taglieremo «il cuneo fiscale non con un’operazione in burocratese puro ma tagliando a quelli che dicono meno abbienti ma che prendono 1300 euro e una volta erano ceto medio. È un pezzo di popolazione cui cerchiamo di restituire un po’ di fiato. Facciamolo un lavoro su queste cose, perché gli ottanta euro sono un pezzo fondamentale che demagogicamente ma anche realisticamente possiamo presentare così: stiamo togliendo a chi in questi anni ha pagato poco e restituiamo a chi ha pagato troppo» 
Renzi

Buon lavoro!!!

Il portavoce del Pd Lorenzo Guerini e la governatrice del Friuli Venezia-Giulia Debora Serracchiani reggeranno da oggi il partito, fino a dopo le elezioni europee, anche se sarà poi l'assemblea nazionale a nominarli formalmente vice segretari

Renzi tra Mare Nostrum e Atlantico

Guido Moltedo 
Europa  

Un'Italia leader nel Mediterraneo. Obama appoggia l'ambizione di Renzi. Che giocherà questa carta nel semestre di presidenza dell'Unione europea
Non sarà una superpower, l’Italia, ma è una superpotenza culturale, dice Matteo Renzi. Barack Obama l’osserva, sorride, e pregusta la sua visita al Colosseo. Prima si era parlato dell’Expo e della partecipazione americana alla grande fiera milanese, e Obama aveva fatto una battuta sui suoi collaboratori che si sono già prenotati per dare una mano per la realizzazione del padiglione statunitense, immaginando un soggiorno ambrosiano di shopping e di buoni ristoranti. Perché questa è l’Italia, il paese del buon cibo, della moda, del buon gusto, è il paese che si racconta in America.
Renzi coglie la battuta di Obama, la prende anzi sul serio, proprio per rilanciare quell’immagine del bel paese: fanno bene i suoi collaboratori a sognarla così, l’Italia. È questo il paese che Renzi disegna nel suo futuro di presidente del consiglio, il paese con lo stile di vita che fa tendenza in Occidente, e non solo, ma anche il paese con le caratteristiche adatte allo sviluppo dell’economia della conoscenza. E che deve lavorare tanto, molto di più di quanto non abbia fatto finora, per giocarsi al meglio queste sue carte, che nessun altro paese ha.
Ma l’Italia è tale anche perché la sua è una lunga civiltà, una civiltà che lascia segni come il Colosseo, e si è sviluppata nel Mediterraneo. Il Mare Nostrum. Renzi lo dice in latino, come ama ripetere spesso, e lo traduce in inglese per l’ospite: Our sea. Obama annuisce. E segue interessato il presidente del consiglio quando ritaglia per l’Italia un ruolo cruciale nel Mediterraneo. Già in un’intervista ieri, al Corriere della Sera, aveva elogiato Renzi per aver iniziato la sua premiership con una visita in Tunisia, «segno che vuole rafforzare la leadership che l’Italia già esercita nel Mediterraneo», «una leadership benvenuta».
Il presidente del consiglio ripete, nella conferenza stampa che segue il vertice con Obama, quello che è diventato un mantra: «L’Europa non consideri il Mediterraneo una frontiera ma il cuore dell’azione politica». L’aveva detto a Angela Merkel e François Hollande, lo ripete a Obama.
Poi sia Renzi sia Obama fanno riferimento alle primavere arabe, che oggi sembrano appassite, e al sostegno che ancora va dato alle nuove generazioni di quei paesi perché continuino a sperare e a battersi per i diritti, per la democrazia.
Nel mondo di Renzi c’è un’Europa, e dunque un’Italia, che non viva nella paura di nuovi sbarchi ma che lavori per una relazione sempre più intensa con i popoli vicini, di interscambio, di commerci, di interazione culturale. L’Erasmus è una sorta di modello di questo processo di conoscenza reciproca, una delle cose che ha meglio funzionato in Europa e che ha creato vincoli tra i giovani europei, e lo cita spesso Renzi. Lo cita pure nella conferenza stampa.
Obama probabilmente non sa neppure di che cosa si parli. Ma coglie il senso del ragionamento. In più, una visione dell’Italia al centro del Mediterraneo, di nuovo protagonista del suo mare, corrisponde all’idea di Obama, secondo la quale ci deve essere una sorta di “divisione internazionale” del lavoro di sicurezza, nel quale all’Italia è dato il compito di presidiare la sua regione. Anche militarmente. E in questo quadro va visto il dispositivo militare italiano, che, secondo Obama, deve essere appunto adeguato al ruolo di leadership nel Mediterraneo. Gli F-35 corrispondono a questa esigenza? Non si è parlato pubblicamente dei controversi aerei multiruolo, ma si può pensare che il loro eventuale acquisto e impiego vadano visti in quella cornice geostrategica.
Renzi farà di questa sua sfida “mediterranea” il centro dell’azione italiana nel secondo semestre di presidenza dell’Unione europea. Non il solito ritornello tante volte udito sull’importanza del Mediterraneo, ma l’ambizione di spostare a sud il baricentro strategico dell’Europa stessa.
L’Italia crocevia e cerniera tra Europa, Medio Oriente, Nord Africa e Balcani. Un’Italia che potrà svolgere questo ruolo perché più robusta (dopo aver portato avanti il suo risanamento) e più consapevole di sé, della sua forza. Da parte americana, c’è interesse a sostenerlo su questa strada, come si è visto ieri nella conferenza stampa congiunta.
Obama sembra anche credere nelle doti leaderistiche di Renzi, che ha apertamente elogiato e sostenuto. Un punto tutt’altro che scontato. Se si pensa che, per Obama, Renzi è già il quarto presidente del consiglio italiano con cui deve interloquire, sarebbe stato facile aspettarsi una certa riluttanza a firmare cambiali all’attuale inquilino pro tempore di palazzo Chigi. Ma l’amministrazione americana ritiene, questa volta, di avere di fronte un interlocutore destinato a restare e a imprimere un segno forte alla politica italiana.

Pd, una segreteria in progress, ecco il percorso a tappe: oggi solo i due vice

Oggi sarà solo la prima tappa. La direzione del Partito democratico nominerà il suo nuovo vertice, muovendo il primo passo di un percorso a più step che dovrebbe portare alla composizione della nuova segreteria, onorando il mantra di questi ultimi giorni: la «gestione unitaria».
Alla guida del partito saranno chiamati Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani, entrambi come vicesegretari. Lo schema però non è gradito a tutti. Soprattutto alla minoranza, che non ha mai veramente digerito l’idea del doppio incarico, ossia quello di premier e segretario del partito. Un punto di (relativa) mediazione potrebbe essere trovato su un piano B, secondo il quale Guerini sarebbe nominato solo coordinatore (non vicesegretario) e Serracchiani diventerebbe la “voce” ufficiale dei democratici, aprendo a una gestione più collegiale del partito.

giovedì 27 marzo 2014

Cantone presidente dell'Anticorruzione.

La commissione Affari costituzionali del Senato ha approvato all'unanimità la scelta del premier Matteo Renzi di nominare il magistrato Raffaele Cantone come presidente dell'Autorità dell'anticorruzione.

A Messa con Papa Francesco

Alfredo Bazoli 
27 marzo 2014

Stamattina presto, alle 6, in una Roma deserta e bagnata da una pioggia leggera, mi sono diretto a San Pietro per assistere alla Messa celebrata dal Papa per i parlamentari. Nell’atmosfera solenne e imponente della basilica, dinanzi a deputati, senatori, ministri e accompagnatori, a occhio non meno di cinquecento persone, si è svolta una cerimonia semplice, essenziale, una Messa durata meno di quaranta minuti. E un’omelia breve, pronunciata da Francesco a braccio, con parole sussurrate, ma non per questo meno impegnative e intense.
Ci ha ricordato, il Papa, che tutti siamo peccatori, tutti, nessuno escluso, che però ciascuno di noi ha la possibilità di cambiare, e di essere perdonato dalla misericordia di Dio, ma che è più difficile per chi si fa tentare dalla corruzione, perché da li è meno facile tornare indietro. Ci ha ammonito a non farci tentare dall’idolatria, a guardarci dal diventare “uomini dalle buone maniere e dalle cattive abitudini”. E ci ha ricordato che la vera fede e’ legata alla libertà, e non alla necessità, che gli uomini di fede sono uomini liberi, e non coloro che giustificano ogni comportamento proprio o altrui con lo stato di necessità.
Parole semplici, messaggi essenziali, e tuttavia forti. In tutto ciò mi è sembrato di cogliere il senso più autentico dell’apostolato di Francesco: il ritorno alla semplicità, alla nuda verità del messaggio evangelico.
E sono uscito da messa, passeggiando nella piazza semivuota chiusa dalle quinte solenni e monumentali della basilica, con un inusuale senso di serenità.

Globalizzazione

Un Veneto indipendente .....  dai furbi.

I certificatori di traffico dati hanno rilevato che i presunti votanti infatti non sono concentrati soltanto in Veneto come ci si dovrebbe aspettare da un referendum sull'indipendenza, ma sono sparsi un po' in tutto il mondo e provengono dalla Germania, dalla Spagna e dalla Serbia. Un elettore su dieci si è addirittura collegato da un indirizzo internet corrispondente a Santiago del Cile, capitale sudamericana che evidentemente ha a cuore l'indipendenza della nostra regione dallo Stato centrale.

da mettere in agenda


bellissimi



parlar chiaro

"Il PD ha oggi la possibilità di essere l'attore principale per scardinare il vecchio sistema. Il grado di consenso nel paese è molto forte. Mentre grillo sta a urlare alla finestra, noi stiamo cambiando il paese davvero. Noi possiamo cambiare il paese non con l'antipolitica, ma con la buona politica. E il Pd oggi è il protagonista di questa fase". 

Matteo Renzi nel corso della riunione dei gruppi del Pd

Commento di Sandro Pasotti all'editoriale del 26 marzo


Caro Riccardo, estraggo dal tuo editoriale del 26 marzo 2014 due frasi significative:

Al sindacato, che si lamenta per la mancata convocazione degli affollatissimi e spesso inconcludenti tavoli di concertazione del passato, dico che è giunta l'ora, anche per loro, di cambiare verso. La rappresentanza è un fatto importante per la democrazia, ma quando diventa burocrazia inamovibile, e liturgia inconcludente, è un problema.
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ho ascoltato l'intervento di tanti giovani motivati e professionalmente preparati; quando ho chiesto loro cosa ne pensavano del sindacato, la risposta univoca è stata: sindacato chi?

Permettimi due rapide considerazioni:
Sulla prima frase, il cui senso posso anche condividere, farei due chiose. Continui a usare il vecchio termine di Sindacato per indicare una realtà che è, invece, molto articolata. Capisco che a furia di vedere i talk show televisivi ci si fa una idea monolitica e a senso unico. In realtà quelle che molti (a ragione ?) indicano come divisioni sindacali da esorcizzare, sono semplicemente la conseguenza di modalità diverse di approcciare il tema del cambiamento. C’è chi si lamenta del fatto che il sindacato ha abbandonato le pratiche conflittuali degli anni d’oro, la “democrazia” confusa e assembleare e che continua a guardare alle grandi fabbriche e c’è chi, magari sbagliando, prova a cambiare.
Vogliano provare a fare una analisi meno rozza sull’argomento ? Altrimenti rischiamo di accomunarci al vecchio, e sempre presente, odio antisindacale tipico della destra e della parte più conservatrice dell’imprenditoria. E soprattutto ci terremo il peggio che il sindacalismo italiano ha prodotto e non il meglio che sta crescendo e che non appare sui mass media.
La concertazione è morta e sepolta da più di 10 anni. L’ultimo grande accordo concertativo è quello del 1993. E forse è bene che sia così se la cosidetta concertazione si riduce a inconcludenza e se chi va al tavolo non è disposto ad assumersi le responsabilità che ne conseguono.
Questo tuttavia non autorizza a mettere da parte il ruolo della società civile, di cui le organizzazioni sindacali fanno parte, con una certa supponenza che ha già fatto danni nel recente passato. Basta ricordare la Prof.ssa Fornero e i suoi disastri sulle pensioni e sul mercato del lavoro, frutto della arroganza e dalla non volontà di ascoltare chi, probabilmente, conosceva la realtà meglio di Lei.

Sulla seconda frase: attenzione a pensare che i giovani siano tutti motivati, professionalmente preparati…. in carriera. Ci sono purtroppo e per fortuna molti giovani normali che fanno professioni non brillanti che lavorano nei servizi, nell’industria, in piccole e piccolissime aziende, che fanno lavori manuali. Ci sono anche molti giovani “sfigati” che non lavorano e non studiano.
Se mai è preoccupante che questi lavoratori non intercettino il sindacato o il sindacato non intercetti loro. L’idea che non ci sia più bisogno di organizzare la tutela collettiva, sarà anche moderna e innovativa ma è sbagliata. C’è ne accorgiamo quando arriva la crisi.
E per questo che le organizzazioni sindacali devono cambiare: meno rigidità dove si è più forti e più disponibilità a ascoltare e a organizzare questa parte del mondo del lavoro. Lo si fa con scelte organizzative e politiche, che costano perché mettono in crisi le vecchie certezze e che spesso non sono conosciute ma che stanno cambiando il volto del sindacalismo italiano (o almeno di una parte di esso).
Non buttiamo via tutto, anche il nuovo che sta crescendo e che magari non fa notizia, potremmo pentircene.
Forse bisognerebbe discuterne.
Sandro Pasotti

Più poteri al premier? Magari fosse vero

Stefano Menichini 
Europa  

Si alza l'indignazione per le ipotesi di rafforzamento dei poteri del premier e dell'esecutivo. Di cui in realtà si discute da trent'anni, e la cui assenza è sempre servita ai governanti per accampare scuse.
Può darsi che l’agenda delle riforme si stia inzeppando troppo, oltre le possibilità di Renzi di raggiungere gli obiettivi e la disponibilità del parlamento ad assecondarli. Può anche darsi che stia venendo meno la tenuta della sponda essenziale per il disegno istituzionale, cioè Forza Italia: un partito in via di sostanziale autoscioglimento, dai cui umori interni può scaturire qualsiasi sorpresa.
Insomma, sui temi istituzionali come sul resto rimane l’incognita di un quadro politico friabile, che s’è affidato a Matteo Renzi per istinto di autoconservazione più che per convinzione e condivisione piena del programma. Detto questo, va fermata sul nascere l’onda di indignazione intorno all’ultimo pezzo della riforma costituzionale, per come si va delineando: il rafforzamento dei poteri del presidente del consiglio rispetto ai ministri e la definizione di una corsia parlamentare rapida per alcuni disegni di legge del governo.
Già si sente parlare di presidenzialismo di fatto, riappare il fantasma della P2, ci si straccia le vesti in nome del parlamento umiliato. Come se il parlamento non si fosse già abbastanza umiliato da solo, e da diversi anni.
In realtà, da chiunque venga adesso la proposta, di rafforzamento dei poteri del premier e dell’esecutivo si discetta senza scandalo (e senza costrutto) da decenni. Renzi andava alle elementari e Berlusconi si occupava di ripetitori tv, quando nell’84 la commissione Bozzi provava a mettere insieme un bicameralismo meno assurdo, maggiore velocità degli iter legislativi, minor numero di parlamentari e maggiore efficacia dell’azione di governo. La storia delle bicamerali che da allora sono tornate inutilmente a insistere sugli stessi concetti è nota. E nel 2014 solo in malafede si potrebbe negare che queste ipotesi possono correre liberamente e legittimamente a sinistra come a destra, con una propensione positiva maggioritaria nel paese.
Ci si spaventa quando sono premier “decisionisti” a chiedere un potere maggiore a quello di primus inter pares? Sicuramente tipi come Berlusconi e Renzi soffrono più di altri della ruggine del sistema. Ma converrebbe a tutti, anzi ai parlamentaristi più che a chiunque altro, sottrarre a questi governanti impazienti lo scudo dietro al quale riescono a nascondere lentezze e fallimenti: l’inefficienza del processo politico. Un argomento insidioso perché vero. Un ostacolo alla trasparenza e al potere del cittadino di farsi un’opinione. In ultima istanza, un vulnus alla democrazia reale, concreto e attuale, non fantomatico.

mercoledì 26 marzo 2014

Benvenuto Presidente


Un italiano su due dichiara meno di 15.564 euro all’anno


Fisco, i redditi dei dipendenti superano quelli degli imprenditori 

I dati del Tesoro: il reddito medio cresce a 19.750 euro, merito delle pensioni
Aumenta il divario ricchi-poveri. Dall’inizio della crisi bruciati 350mila posti.
La Lombardia guida la classifica delle Regioni. Case all’estero per 23 miliardi
Il dipartimento delle Finanze ha pubblicato le statistiche sulle dichiarazioni dei redditi delle persone fisiche (Irpef) relative all’anno d’imposta 2012. 
Sono più di 41,4 milioni i contribuenti che hanno assolto direttamente l’obbligo dichiarativo: un numero in lieve aumento (+0,2%) rispetto all’anno precedente. A livello nazionale il reddito complessivo totale dichiarato è pari a 800 miliardi di euro mentre il reddito medio è pari a 19.750 euro (+0,5% rispetto all’anno precedente). Il Ministero sottolinea che nel «2012 non hanno concorso alla formazione del reddito complessivo il reddito da abitazione principale ed i redditi fondiari di immobili non locati». 

Il confronto con gli anni precedenti  
Ai fini di un confronto omogeneo, se si considerano anche tali importi che nel 2011 rientravano nella nozione di reddito complessivo, (che vanno comunque riportati in dichiarazione) questo sale a circa 816 miliardi di euro (+1,4% rispetto al 2011). L’incremento è determinato principalmente dalla crescita dei redditi da pensione (+2,1%) e dall’ingresso a tassazione ordinaria dei soggetti che sono stati costretti a fuoriuscire dal vecchio regime dei minimi.Se si sposta l’attenzione sul reddito complessivo dichiarato dal contribuente mediano, che rispetto alla media non è influenzato da valori outlier (ossia particolarmente elevati), il valore scende a 15.654 euro. Ciò significa che la metà dei contribuenti non supera tale valore.  

Gli squilibri  
L’analisi della distribuzione dei redditi evidenzia che il 5% dei contribuenti con i redditi più alti detiene il 22,7% del reddito complessivo, ossia una quota maggiore a quella detenuta complessivamente dalla metà dei contribuenti con i redditi più bassi. Il 90% dei soggetti dichiara invece un reddito complessivo fino a 35.819 euro. L’analisi territoriale del Ministero conferma che la regione con il reddito medio complessivo più elevato è la Lombardia (23.320 euro), seguita dal Lazio (22.100 euro), mentre la Calabria ha il reddito medio più basso con 14.170 euro; nel 2012 il reddito medio nelle regioni del centro è cresciuto meno della media nazionale.  

La corsa degli autonomi  
Dall’analisi per tipologia di reddito, emerge che i lavoratori autonomi hanno il reddito medio più elevato, pari a 36.070 euro, mentre il reddito medio dichiarato dagli imprenditori è pari a 17.470 euro. Il reddito medio dichiarato dai lavoratori dipendenti è pari a 20.280 euro, quello dei pensionati pari a 15.780 euro e, infine, il reddito medio da partecipazione in società di persone ed assimilate è pari a 15.850 euro. E’ opportuno ribadire - spiegano dal Ministero - che per “imprenditori” nelle dichiarazioni Irpef si intendono i titolari di ditte individuali, escludendo pertanto chi esercita attività economica in forma societaria; inoltre la definizione di imprenditore non può essere assunta come sinonimo di “datore di lavoro” in quanto tra gli imprenditori sono compresi coloro che non hanno personale alle loro dipendenze. 
 
Crescono le pensioni  
Il confronto con l’anno d’imposta precedente mostra una crescita dei redditi medi da pensione (+1,7%) e da lavoro dipendente (+1,3%, che diventa +0,3% considerando i premi di produttività). Calano invece tutti i redditi legati alle attività imprenditoriali e professionali: impresa (-8%), lavoro autonomo (-14,7%) e partecipazione (-4,9%). Molto interessante è un confronto delle dichiarazioni dell’anno d’imposta 2012 rispetto a quelle dell’anno d’imposta 2008 (ultimo anno prima della crisi economica), in base alla tipologia di reddito dichiarato. In termini di numero soggetti, rispetto all’anno prima della crisi, ci sono ora circa 350 mila lavoratori dipendenti in meno, 190 mila pensionati in meno (anche per effetto delle misure normative sui pensionamenti introdotte negli ultimi anni), 32 mila imprenditori in meno e 138 mila soggetti in meno che dichiarano reddito da partecipazione. Al contrario si assiste ad un aumento dei lavoratori autonomi (+128 mila). In termini di redditi medi dichiarati, tenendo conto dell’inflazione, in quattro anni il reddito medio degli autonomi è calato in termini reali del 14,3%.  

La crescita delle nuove partite Iva  
Altri dati da tenere d’occhio: nel 2012 le aperture di partita Iva da parte di persone fisiche sono aumentate del 5,8% rispetto all’anno precedente, mentre sono calate del 7,3% le aperture riferite ad altre forme giuridiche. 

Case all’estero  
Oltre 113.000 contribuenti hanno dichiarato immobili situati all’estero per un valore di circa 23 miliardi di euro, mentre i soggetti che risultano aver dichiarato attività finanziarie detenute all’estero sono circa 130.000 per un ammontare di 28 miliardi di euro. I redditi da fabbricati soggetti a tassazione ordinaria, pari a 21,2 miliardi di euro, subiscono una contrazione del 40% per effetto della non imponibilita’ nel 2012 dei redditi degli immobili non locati (6,8 miliardi di euro) e del reddito da abitazione principale (8,7 miliardi di euro). I redditi da fabbricati di immobili locati soggetti alla cedolare secca dichiarati da più di 765 mila soggetti, presentano un incremento del 38% (per l’aliquota al 21%) e del 44% (per l’aliquota al 19%).