venerdì 29 dicembre 2017

La possibile spinta al Pd che può arrivare dall’essere al governo

di Paolo Bellucci
società italiana studi elettorali
Il dibattito sull’idea che stare al governo fino al voto sia o meno un vantaggio nelle urne. Ecco quanto può valere per i dem.
Sino a qualche tempo fa si scriveva di effetto incumbent per descrivere il vantaggio elettorale del partito di governo all’approssimarsi delle elezioni. Un effetto che ricorda l’aforisma “il potere logora chi non ce l’ha”. L’idea di fondo è che i partiti al governo godano di un possibile vantaggio elettorale, non solo per l’ovvia ragione che chi ben governa è ricompensato dal voto, ma anche perché far parte dell’esecutivo ha significato in passato – ma non solo – la possibilità di favorire con provvedimenti legislativi la propria base elettorale, stimolando così il consenso nell’imminenza delle consultazioni. Si pensi ad esempio al lungo periodo che in Italia ha visto la Democrazia Cristiana al governo da sola o in coalizione con il Partito Socialista.
Da qualche tempo questo effetto sembra tuttavia notevolmente ridimensionato. Anzi, abbiamo assistito a quello che pare delinearsi come un effetto opposto, cioè alla sistematica penalizzazione dei partiti di governo, sconfitti o indeboliti alle elezioni al termine del mandato. Lo abbiamo visto con evidenza in parecchie elezioni in Europa durante e dopo la Grande Recessione del 2008-12. Si dirà che questi esiti non sorprendono, anzi appaiono ragionevoli e scontati vista la severità della crisi. E che sono attribuibili al cosiddetto “voto economico”: le elezioni sono viste come un referendum sul governo, per cui l’elettorato premia o punisce a seconda di una situazione economica favorevole o meno, attribuendo ai partiti la responsabilità per cattivi o buoni esiti collettivi.
L’effetto incumbent negativo, tuttavia, non è circoscritto alle crisi economiche. Lo studioso danese Martin Paldam ha definito questo effetto come il cost of ruling – una sorta di attrito del governo – e ha calcolato che i partiti di governo perdono il 3% in media, e sino al 6% i governi in carica da oltre quattro anni. Perché? Le scelte di voto di un elettorato i cui tradizionali ancoraggi politici (dalla classe sociale alla religione) appaiono sempre più in declino dipendono infatti in misura significativa dai giudizi sull’operato del governo (in carica).
In ciò sospinti dalla marcata visibilità dei governi e dei leader rispetto a quella più incerta dei partiti, e dalla crescente personalizzazione della politica. Questo contribuisce a dare vita ad una campagna permanente nella quale l’operato e l’efficacia delle azioni del governo sono oggetto di costante attenzione e scrutinio da parte dell’opinione pubblica e dei media. Governi e leader politici comunicano incessantemente per diffondere e pubblicizzare le proprie realizzazioni, così come i partiti dell’opposizione danno vita ad eventi ed occasioni di visibilità con il fine di conquistare l’attenzione dell’opinione pubblica.
Ed oggi i like della rete, che moltiplica l’effetto comunicativo. Quindi il partito di governo che, agli occhi dell’opinione pubblica, ha ben operato ha una alta probabilità di riconferma da parte degli elettori. E viceversa. Un indicatore attendibile del giudizio dell’opinione pubblica è Il gradimento del governo, ossia la sua popolarità, rilevata da varie inchieste d’opinione. La popolarità non è un fenomeno emotivo e casuale. Al contrario presenta un ciclo stabile e prevedibile, a forma di U: è alta immediatamente dopo l’insediamento (la cosiddetta luna di miele), declina man mano che procede nel mandato a causa della formazione di minoranze scontente di questa o quella politica, e tende infine a risalire all’approssimarsi delle elezioni.
Ma cosa influisce sulla popolarità? Anzitutto il clima di fiducia dei consumatori e le aspettative sull’economia; quindi il ciclo elettorale nell’alternanza tra elezioni legislative e altre elezioni (regionali, europee, amministrative); infine la comunicazione politica e l’esposizione degli elettori ai media. Il primo fattore è di gran lunga il più importante. Dietro l’alternanza di governi che l’Italia ha conosciuto dal 1996 è osservabile, accanto alla differente composizione delle alleanze pre-elettorali, l’effetto della popolarità. Nessun governo è stato in grado di compiere il percorso completo, risalendo verso la fine del ciclo.
E un livello di gradimento inferiore al 30% ha significato la sconfitta. L’attuale governo sembra conoscere una situazione migliore, con l’indice di popolarità appena sopra il 40%. Questo potrebbe significare un risultato elettorale per il Pd al di sopra delle aspettative correnti. Non si tratta di una sola impressione. Infatti le analisi della popolarità sono utilizzate per effettuare previsioni elettorali con largo anticipo rispetto a quanto possibile dai sondaggi sulle intenzioni di voto, che si stabilizzano solo alla vigilia elettorale.
Si tratta di modelli previsionali diffusi in Europa e negli Stati Uniti, che si basano appunto sulle caratteristiche di base dei cicli della popolarità (e che non dipendono da caratteristiche contingenti ancora sconosciute quali campagna elettorale, alchimie delle alleanze, eventi). Impiegando un modello simile (che ha come ingredienti di calcolo la serie storica dei risultati elettorali alle politiche, europee e regionali, la popolarità del governo nel trimestre precedente il voto, il consenso medio alle tre precedenti consultazioni) si perviene ad una stima del voto per il Pd del 34% (con un margine d’errore di +/- 6%).
Si tratta ovviamente di una stima, con un margine statistico d’errore tipico di tutti i modelli previsionali. Segnala tuttavia un’occasione di riflessione per il Partito Democratico, che in passato, a differenza del centro-destra, non si è mai presentato alle elezioni riconfermando il presidente del consiglio uscente.

la terza...


L'AMACA Michele Serra
29 dicembre 2017
Secondo l’annuario Istat 2017 (riferito dunque al 2016) in Italia i reati sono diminuiti del 4,5 per cento. In particolare sono in calo omicidi, furti e rapine. Poiché questi dati contrastano vistosamente con la “insicurezza percepita”, ovvero con l’idea che la criminalità sia incontrollabile, e di molto incrementata dall’immigrazione, possiamo avanzare tre ipotesi.
La prima è che l’Istat menta. Che sia, cioè, un’agenzia governativa incaricata di fabbricare falsi rassicuranti per ingannare la pubblica opinione. Sicuramente esiste qualche blog che avvalora
l’ipotesi. La seconda è che i reati siano in calo solo ufficialmente, perché non vengono più denunciati da vittime inermi e indifese, che hanno perduto ogni fiducia nelle forze dell’ordine e nella magistratura. La terza è che i reati siano effettivamente in calo, e dunque la impetuosa produzione mediatica (soprattutto televisiva, e soprattutto di destra) che si fonda sull’allarme e la paura del “popolo indifeso in balia dei criminali e degli immigrati”, sia una vergognosa contraffazione politico-giornalistica, un vero e proprio format distorcente e fraudolento costruito rastrellando gli elementi di insicurezza (che ci sono) ed escludendo a priori ogni elemento di rassicurazione, e quando occorra di realtà. Decida il lettore quale di queste tre ipotesi sia la più convincente. Io propendo per la terza. Aggiungo che gonfiare artatamente la percezione della criminalità è, a sua volta, un’attività criminale.

giovedì 28 dicembre 2017

Gentiloni scommette sull'orgoglio Italia: “Il paese si è rimesso in moto. Il merito di questo è delle famiglie, delle imprese, del lavoro, di chi studia e di chi si prende cura delle persone”


28 Dicembre 2017
Redazione Il Foglio
In mattinata, qualche ora prima di iniziare la sua conferenza stampa di fine anno, Paolo Gentiloni aveva incassato l'ennesimo attestato di stima di Silvio Berlusconi. “È una persona gentile e moderata - aveva detto il leader di Forza Italia ospite di Coffee Break su La7 - credo che saprà gestire questo periodo con avvedutezza”. Parole che sintetizzano perfettamente, più di tante analisi politiche, il percorso del presidente del Consiglio. Arrivato quasi per caso a Palazzo Chigi nel dicembre dello scorso anno, oggi Gentiloni rappresenta in maniera inequivocabile un'Italia che ha rialzato la testa e che può, con orgoglio, rivendicare i risultati ottenuti. Non a caso “orgoglio” è una delle parole che il presidente ripete più spesso durante la sua lunga conferenza stampa di fine anno. Un'occasione per fare il punto sull'anno appena trascorso ma anche su una legislatura che è ormai arrivata ai titoli di coda. Forse già oggi, infatti, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella scioglierà le camere. La campagna elettorale entra nel vivo e, anche se Gentiloni resterà a Palazzo Chigi fino all'insediamento del nuovo esecutivo, da qui in avanti difficilmente si parlerà d'altro che delle dichiarazioni e delle promesse di Renzi, Berlusconi, Di Maio ecc.
Il presidente del Consiglio però, assicura che “il governo non tirerà i remi in barca, nei limiti della Costituzione e della prassi il governo governerà”. Dopotutto è quello che ha fatto in questi mesi. “Quest'anno - esordisce - oltre ad essere una conferenza stampa di fine anno, questo appuntamento ha anche un significato particolare. L'obiettivo del mio governo di arrivare alla conclusione ordinata della legislatura è stato raggiunto. A qualcuno può sembrare una mania, una formula, ma c'è di mezzo la Costituzione e c'è di mezzo l'importanza di evitare interruzioni brusche della legislatura in un momento molto delicato in cui l'economia italiana e in generale la nostra società stava leccandosi le ferite. Pensate quanto sarebbe stato grave e devastante avere un'interruzione drammatica della legislatura in un momento in cui l'Italia stava riprendendo fiato e, in alcune aree, si stava rimettendo a correre”.
“Il mio governo è nato in circostanze molto difficili - prosegue Gentiloni - la sconfitta nel referendum costituzionale, le dimissioni di Renzi, le divisioni nella maggioranza. Ma detto questo, non abbiamo tirato a campare, il mio governo ha fatto pochi annunci ma non ha preso poche decisioni”. Il premier coglie l'occasione per elencarle. Anche se prima si rivolge direttamente ai cittadini: “La legislatura è stata travagliata ma allo stesso tempo, a mio avviso, è stata una legislatura fruttuosa. L'Italia si è rimessa in moto dopo la più grave crisi del dopoguerra. Il merito principale di questo è delle famiglie italiane, delle imprese, del lavoro, di chi studia e di chi si prende cura delle persone”.
“La politica - ha aggiunto - deve avere un certo ritegno nel considerare questa ripresa frutto di questa o di quella iniziativa. L'Italia si è rimessa in piedi grazie soprattutto all'impegno degli italiani. Non dilapidare questi sforzi è il primo impegno che i governi che verranno dovranno assumersi”.  
I numeri Perché le sue parole non restino semplicemente uno slogan Gentiloni elenca i risultati ottenuti. “Siamo fra i quattro e i cinque giganti mondiali dell'export”. “Il rapporto deficit/pil era al 3 per cento nel 2013, nel 2018 sarà all'1,6 per cento. Praticamente dimezzato”. “Durante la legislatura abbiamo creato un milione di posti di lavoro in più, ma c'è poco da rallegrarsi e tanto da insistere”. “La crescita ha preso un buon ritmo, oggi è al doppio delle previsioni di un anno fa. Il famoso fanalino di coda dell'Europa non siamo più noi”. “La nuova legge di Bilancio accompagnerà la crescita rispettando le regole e non aumentando le tasse”. “Abbiamo diminuito di oltre un terzo gli arrivi di migranti, il 70 per cento da luglio ad oggi con una diminuzione drastica dei morti in mare. I rimpatri sono passati da 1.200 a più di 20 mila e qualche giorno fa è stato attivato il primo corridoio umanitario dalla Libia”. “Abbiamo introdotto il reddito di inclusione, un provvedimento concreto per le famiglie in condizioni di povertà”. “Rivendico l'impegno per l'assunzione dei giovani, soprattutto nel Sud, l'attività di rammendo delle periferie, l'obbligatorietà dei vaccini”.
I rimpianti Gentiloni non nasconde comunque un certo rammarico per ciò che il suo governo non è riuscito a fare. Su tutto la legge sullo Ius soli. “Il capitolo dei diritti purtroppo è incompiuto - sottolinea - ma è un capitolo storico, l'anno scorso le unioni civili, quest'anno il reato di tortura, le norme contro il femminicidio e il biotestamento”. E sullo Ius soli precisa: “Il modo migliore per archiviare lo Ius soli per molti anni sarebbe stato far bocciare la legge. Non siamo riusciti ad approvarla. Capisco le polemiche, apprezzo Manconi, ma sia chiaro: anche se tutti gli assenti del Pd e di Liberi e uguali fossero stati presenti non ci sarebbe stato comunque il numero legale”. 
Richiamo ai giornalisti Trattandosi di una conferenza organizzata dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti in collaborazione con l'Associazione della Stampa Parlamentare, Gentiloni coglie l'occasione per un “misurato richiamo” alla platea che lo ascolta (e non solo). Lo fa parlando del terremoto: “Mettiamo in luce i segnali di ripresa di vita nei territori colpiti dal terremoto. Non è solo un dovere di governo. Penso che dare speranza e mettere in evidenza i segnali di ripresa in queste zone sia dovere dell'intera comunità nazionale”. 
Il Pd e la campagna elettorale Dopo aver garantito che il suo governo “non tirerà i remi in barca”, Gentiloni assicura anche che darà il suo “contributo alla campagna elettorale del Pd. Le forme e il modo le discuteremo insieme alla comunità di cui faccio parte. Il contributo ci sarà e non dovrà essere messo in stridente contraddizione con il ruolo di governo”. E a chi gli chiede se il calo di consensi mostri l'incapacità di chi gestisce il partito, risponde: “Io penso che il Pd abbia subito una scissione e mi auguro che le conseguenze non siano rilevanti. Penso che il Pd in questo contesto abbia tutto l'interesse ad apparire quello che è: una forza tranquilla di governo, questo e' il messaggio che il Pd a mio avviso deve trasmettere e trasmettendolo recupererà consensi perché la storia delle divisioni nella sinistra italiana ha due letture: i danni che provocano alle grandi forze storiche e che non sempre promuovere divisioni porta successo. Penso che dobbiamo avere molto a cuore la sinistra di governo”.
Un sinistra di governo, ed è questo il passaggio in cui Gentiloni rende “omaggio” a chi lo ha preceduto, ben rappresentata sia dai ministri “di grande qualità” con cui ha lavorato ma anche da Enrico Letta e Matteo Renzi: “In Italia c'è una sinistra di governo, da Letta a Renzi al governo che io ho presieduto”. A questo punto, quindi, non resta che sperare che “il Pd abbia un buon risultato alle urne e che questo faciliti la costruzione di un governo”.
Quanto poi alla prossima campagna elettorale Gentiloni sa bene qual è il vero pericolo: “Il rischio è una campagna elettorale con diffusione di paure e dilettantismo. Questo è un rischio. Mano ci sarà, meglio sarà. Più faremo una campagna elettorale lontana dalla diffusione di paure e illusioni e meglio sarà per il paese”.  
Ilva, Alitalia, terrorismo e banche Nella conferenza stampa non potevano ovviamente mancare riferimenti ad alcune vicende di attualità. Su Ilva il premier rinnova l'appello a Michele Emiliano e al sindaco di Taranto affinché ritirino i ricorsi che stanno bloccando la vendita dello stabilimento (“dobbiamo evitare che la situazione arrivi a un punto di crisi gravissima in termini occupazionali e ambientali”). Su Alitalia l'augurio e che si possa arrivare “rapidamente” a una soluzione positiva: “Mi auguro che le offerte che sono sul tavolo possano essere anche migliorate e che ci sia, da parte di dipendenti, lavoratori, viaggiatori e utenti un gran senso di responsabilità”. E sul terrorismo Gentiloni ribadisce che “non siamo al riparo dalle minacce”, sulle banche il premier è chiarissimo: “Il sistema bancario ha risolto crisi rilevanti. Sulla sottosegretaria Boschi ho detto quello che penso e non ritengo utilissimo ripeterlo. Sulla commissione banche mi sono espresso: se il Parlamento decide di fare una commissione di indagine il governo non può fare altro che rispettare questa decisione. Dopo di che ho accolto con un certo sollievo che le audizioni della commissione siano finite perché non credo siano state utilissime”. 
I prossimi passi Ora tutto è nelle mani del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Subito dopo la conferenza stampa il il premier Gentiloni ha incontrato il Capo dello Stato. Quindi al Quirinale sono arrivati i presidenti di Camera e Senato. In serata, al massimo domani, dovrebbe arrivare il decreto di scioglimento delle Camere. Le elezioni dovrebbero tenersi il 4 marzo.

Renzi: “Il Pd ha rimesso l’Italia in carreggiata, Europa e ceto medio le nuove sfide”


  Carlo Bertini 
La Stampa 28/12/2017

Si chiude una legislatura tra le più travagliate. Matteo Renzi, quali sono le riforme che più hanno trasformato il Paese?  
«Lavoro, tasse e diritti. Ma nessuna riforma di questa legislatura ha trasformato radicalmente il nostro Paese, sarebbe presuntuoso sostenere il contrario. Più semplicemente l’Italia era in grave difficoltà, a un passo dalla bancarotta: con l’impegno di questa legislatura siamo tornati in carreggiata. Le riforme più importanti hanno riguardato il mondo del lavoro con il Jobs Act e Industria 4.0; il mondo delle tasse con 80 euro, Irap costo del lavoro, Imu prima casa; il mondo dei diritti, dalle unioni civili al terzo settore, dal “dopo di noi” al “fine vita”. Lavoro, tasse, diritti: in questi settori il cambio di passo c’è stato e nessuno che sia in buona fede può negarlo. Ma è un cambio di passo, non una trasformazione radicale. La strada è ancora lunga».  
Lei era sceso in campo per cambiare l’Italia. Dove sente di aver colto i risultati maggiori e quali sono state le resistenze più difficili da superare?  
«Il fatto che la cultura non sia più giudicata la cenerentola dei bilanci ma richieda investimenti straordinari, dalla gestione dei musei al finanziamento dei privati è una piccola cosa nel dibattito pubblico ma per me è elemento di grande orgoglio. Non siamo invece riusciti a portare con noi la maggioranza dei lavoratori del pubblico impiego e soprattutto della scuola: spero che il rinnovo del contratto sia una buona occasione ma non c’è dubbio che questo sia stato uno dei settori in cui abbiamo sofferto di più le resistenze». 
E ora quale dovrebbe essere una nuova agenda di riforme per il prossimo governo?  
«Non ci sono ricette magiche, ma c’è solo da continuare migliorando ciò che è stato impostato. Secondo Istat i lavoratori italiani erano 22 milioni nel 2014, sono 23 milioni oggi. Bene, un milione in più. Dobbiamo creare le condizioni per arrivare a 24 milioni, certo. Ma dobbiamo anche porci il problema di come migliorare la qualità di quel lavoro, non solo la quantità. E per farlo servono gli incentivi e gli sgravi certo, ma anche la certezza della giustizia o la semplicità della burocrazia. Una visione di insieme per i prossimi anni. Possiamo permetterci di parlare di futuro perché abbiamo fatto uscire l’Italia dalle sabbie mobili. Ma dire futuro non significa sparare promesse in libertà: oggi ho fatto i calcoli delle ultime tre proposte elettorali di Berlusconi. Siamo già oltre 150 miliardi e la cosa folle è che non si scandalizzi nessun editorialista. Come le paga? Spunta un miliardario cinese all’improvviso come è successo per il Milan o alza le tasse? Noi del Pd non proporremo riforme mega-galattiche, non scriveremo un libro dei sogni: siamo coerenti e concreti». 
Solo in Gran Bretagna risiedono 500 mila nostri connazionali, in gran parte giovani che hanno lasciato l’Italia negli ultimi 15 anni. Quali riforme potrebbero convincerli a tornare?  
«L’Italia deve essere all’avanguardia nell’attrarre intelligenze. Dobbiamo creare centri di ricerca globali dove poter far crescere i nostri talenti. Dove ricollocare chi vuole tornare in Patria, certo. Ma anche dover invitare i migliori cervelli di tutto il mondo. Non c’è solo l’emergenza dell’immigrazione da barconi, che abbiamo affrontato con umanità e onore, a differenza di altri Paesi europei: c’è anche un’immigrazione diversa, da coltivare e promuovere nelle università del Sud-Est asiatico o dell’America latina, nei centri di ricerca europei e africani. Fare dell’Italia un grande centro di attrazione di cervelli di tutto il mondo, bloccando la fuga e iniziando a importare ciò che oggi esportiamo».  
Obama ritiene che le democrazie avanzate debbano porsi la necessità di un nuovo welfare per far fronte all’impatto delle nuove tecnologie sul mercato del lavoro. Anche l’Italia ha bisogno di un nuovo welfare?  
«L’Italia ha un sistema di welfare che gli americani si sognano. Però possiamo e dobbiamo fare meglio. Perché la mancanza di sicurezza non è solo nella paura del crimine, ma anche nella paura del futuro. La gente è spaventata perché non ha più le certezze del passato, chiede protezione. E studiare un paracadute nuovo che protegga il ceto medio spaventato è una delle imprese più difficili da realizzare. Qui però sta la grande sfida dell’Europa. E la prossima legislatura dovrà vedere un protagonismo italiano su questo punto, accompagnando e stimolando la crescente leadership della Francia di Macron». 
Come mai ha scelto di correre per fare il senatore dopo aver caldeggiato la trasformazione della Camera alta in Senato delle autonomie? Non le pare una contraddizione?  
«Non è un contrappasso dantesco, ma la scelta responsabile di inchinarsi alla volontà popolare. Continuo a pensare che questo Paese avrebbe funzionato meglio con una sola Camera a dare la fiducia, ma ho perso quella battaglia. I cittadini hanno scelto di tenere vivo il Senato e adesso trovo doveroso sottopormi al voto degli italiani per entrare o meno in Senato. Anzi: ho letto che Salvini vuole sfidarmi dove mi candido io: lo aspetto nel collegio senatoriale di Firenze». 
Quale atteggiamento terrà nei riguardi dell’Europa di qui al voto? In primavera come sempre dovranno giudicare i nostri conti pubblici...  
«Noi diciamo da tempo che siamo per un’Europa capace di ripensarsi. Europa sì, ma non così. Tuttavia se guardiamo gli schieramenti in campo noi siamo l’unico polo realmente europeista. Pur di prendere una trentina di collegi in più Berlusconi ha imbarcato Salvini, unico caso europeo di popolari e populisti che stanno dalla stessa parte. Dall’altro i Cinque Stelle sono impressionanti nella loro assurda visione europea: propongono un referendum che non si può fare per votare no alla permanenza nell’Eurozona, sapendo che questa scelta affosserebbe la nostra economia. In questo scenario il centrosinistra è davvero l’unica chance di un’Italia europeista che vuole un’Europa diversa, più forte e più giusta. Quanto ai conti pubblici, abbiamo messo a posto i conti, nonostante il Fiscal Compact: dall’Europa ci attendiamo elogi, non polemiche». 
In caso di stallo dopo le urne, lei darebbe il suo ok ad un governo istituzionale, magari a guida Gentiloni? O chiederebbe un ritorno alle urne?  
«Quello che accadrà il giorno dopo lo deciderà il Presidente della Repubblica dopo aver visto i risultati e aver ascoltato le forze politiche. Nutro un rispetto non formale per le attribuzioni che la Costituzione ha dato al Capo dello Stato. Spero in un Governo guidato da un premier Pd non per spirito di corpo ma perché lo considero un fatto positivo per l’Italia. L’Italia è più sicura se guidata dal Pd: non è tempo di apprendisti stregoni che si qualificano come nuovi o del ritorno di chi ha fatto schizzare lo spread a livelli record. È tempo di solidità e di forza tranquilla». 
Ritiene possibile dopo il voto un accordo con il partito di Grasso per formare un governo, se aveste i numeri sufficienti?  
«Non abbiamo niente contro Grasso, ma vedendo quanto sono accreditati nei sondaggi non mi pare l’ipotesi più realistica». 
Il Pd cala nei sondaggi, anche per via delle banche. Cosa farà per invertire il trend?  
«Sulle banche rivendico ciò che abbiamo fatto a cominciare dalla riforma delle popolari. Non credo che i sondaggi calino per quello, ma c’ un solo modo per invertire la rotta: faremo tutti insieme la campagna elettorale. E appena partirà la campagna, finalmente, la musica cambierà. Il Pd se la gioca sul filo dei voti per essere il primo partito contro i Cinque Stelle: non dimentichiamo che due terzi dei seggi vengono attribuiti sulla base del sistema proporzionale dove conta il singolo partito. Sul terzo restante, che viene definito dai collegi, sono fiducioso del fatto che metteremo i candidati migliori. E che saremo il primo gruppo in Parlamento: pronto a scommetterci».  

domenica 24 dicembre 2017

CACCIA AI BOSCHI

Sandro Albini
24 dicembre 2017
Ieri sera Massimo Giannini, ospite di Gramellini, non si è trattenuto dal partecipare allo sport più diffuso: la caccia ai Boschi padre e figlia, contribuendo alla "battuta" sotto le spoglie di una lettera a Babbo Natale. Figlio di un Travaglio minore, ha imbastito la sua storiella con l'ansia di chi vorrebbe essere colui che assesta il colpo fatale ai reprobi. Quindi se Etruria ha truffato i risparmiatori la colpa è di papà Boschi: fa niente se ha rivestito cariche per meno di un anno quando la Banca ormai aveva ampiamente consumato i suoi crimini. E se la Maria Elena incontra e chiede informazioni a qualche banchiere è perché vuole salvare il babbo. Magari voleva soltanto capire l'impatto della crisi sul suo territorio, ma non si è comportata come "la moglie di Cesare" dice Giannini, già immemore delle sagge e sconsolate parole del presidente della Commissione Banche Casini: "è una caccia alle streghe" "Se si esaminasse il comportamento di tutti i politici di ogni schieramento con lo stesso metro usato per la Boschi non se ne salverebbe uno". E di giornalisti quanti? Allora perché tanto accanimento? Solo per gonfiare il petto e conquistare la palma del più duro e puro sotto l'egida di Babbo Natale? No, è il sequel di una storia iniziata nel 2014 e da me già denunciata con un post il 31.08.2016: "Iniziò Ostellino sul Corriere esattamente due anni fa. Si accodò Scalfari e via via tutta la "intellighenzia". Nessuna accusa precisa, dava loro fastidio un Presidente del Consiglio (un ragazzo, chiosa ancora oggi D'Alema) il quale osa governare senza chiedere il permesso agli "illuminati"". Il problema è proprio questo: gli Ostellino, i De Bortoli, gli Scalfari non sono delle "Maria Goretti" ma espressione di interessi, poteri e magari consorterie (nere o bianche) i quali non tollerano che qualcosa si muova al di fuori del loro controllo. Questa è la colpa di Renzi e Boschi: aver pensato di poter governare senza pagare dazio ai potenti. La furibonda campagna contro il referendum ne è conferma. Forse Giannini e company sarebbero più utili al paese se invece di perdersi in chiacchiericci si occupassero della denuncia della Bindi: ci sono ancora logge segrete, alla P2, (quindi piene di magistrati, giornalisti, politici ecc.) nelle quali si è inserita la criminalità. Forse non se occupano perché, se non le logge, hanno frequentazioni sui ballatoi. Chicca finale di Giannini: alle prossime elezioni si rischia: centrodestra o 5 stelle vincitori sarebbero un disastro: speriamo tenga il centrosinistra (cioè il PD). Ipocrita, dopo anni che lo denigri.

auguri


giovedì 21 dicembre 2017

La Povertà non è una colpa, la solidarietà non è un illecito.


Giorgio Gori 
News 03  21 dicembre 2017
Avrete letto anche voi dell’ordinanza con la quale per tutto il periodo festivo il sindaco di Como ha vietato nel centro storico l’accattonaggio e i bivacchi – che vuol dire chiedere la carità e dormire per strada. Questo per tutelare “la vivibilità e il decoro del centro urbano”. E i vigili, che non possono certo rifiutarsi, sono già intervenuti, impedendo ad un gruppo di volontari di offrire la colazione ad un gruppo di senzatetto che dormono all’addiaccio.
Ecco, io credo che di fronte a notizie come questa non possiamo rimanere indifferenti.  Perché la crisi ha colpito duro, anche qui in Lombardia. Per strada oggi dormono e chiedono la carità i migranti come anche, in tanti casi, padri di famiglia separati che non ce la fanno ad andare avanti, chi ha perso un lavoro e la casa. Che poi sono le stesse persone che secondo la retorica salviniana oggi “dormono in automobile” e che, se italiani, andrebbero aiutati. A Como il sindaco li aiuta scacciandoli dal centro storico e multandoli – e tutto questo per ragioni di vivibilità e decoro. E’ Natale e nei giorni dello shopping si arriva a trattare la povertà come colpa, come fastidio, e la solidarietà come atto illecito.
Per me il Natale è diverso, la Lombardia è diversa. So che tante voci comasche si sono levate per chiedere al sindaco un atto di ripensamento. E soprattutto che tante persone attive nel volontariato si stanno organizzando, come tutti gli anni, per accogliere chi è in difficoltà in modo che possa vivere un Natale dignitoso. Leggo che la Caritas diocesana organizzerà per i poveri il tradizionale pranzo di Natale. Io sono con loro. E a loro dico grazie perché mostrano il cuore generoso e l’umanità di una grande città lombarda come Como.

mercoledì 20 dicembre 2017

Guardate il presepe non branditelo. Ricordiamoci che non è un simbolo, è un racconto.

Davide Rondoni
L'Avvenire 17 dicembre 2017
Il presepe non è un simbolo, è un racconto. A questo pensavo vedendo ovunque i segni del presepe e, contemporaneamente, nei media riaffiorare anche quest’anno, per motivi diversi, le discussioni intorno alla pertinenza del suo allestimento in luoghi pubblici. È così mentre un preside siciliano lo toglieva dalla scuola, la Regione Lombardia lo inaugurava in piazza. E altrove lo stesso, tra chi vuol togliere e chi vuol mettere. Ci divideremo anche sul presepe? Sulla cosa più semplice e mite, sulla creatura poetica e delicata di san Francesco – santo che tutti a parole peraltro onorano? Quando lo inventò, il santo e poeta non volevo creare un simbolo, ma raccontare nuovamente un fatto.
Anzi il più grande fatto della storia, l’avvenimento che ha portato nel mondo, come dice Ungaretti, un Dio che ride come un bimbo, un Dio che non allontana gli infedeli, che non respinge i poveri, che non evita i fragili. Vorrei che fosse ancora così, un racconto più che un simbolo. I simboli a volte sono freddi, utili a fare propaganda, a essere appunto simboli di idee, o addirittura di ideologie. Certo, il presepe è diventato in un certo senso simbolo di una storia che segna la vicenda del nostro Paese e territorio e società in un modo che solo uno stupido può negare.
Ma innanzitutto si fa per raccontare ancora, per arricchire di particolari che vengono dalla vita vissuta (da qui le nuove statuine proposte anno dopo anno a Napoli, nella via degli artigiani del presepe) la grande scena che nessuno poteva mai prevedere, e che Dio ha creato per noi. Raccontare un fatto è diverso dal difendere un simbolo. I simboli procedono spesso verso l’astrazione, sono simboli per quanto importanti di concetti: identità, civiltà, cultura... Tutte cose sacrosante, specie in momenti di confusione, ma guai a ridurre il presepe, questo mite e misterioso racconto, a un simbolo scontato, utile a propugnare idee invece che a sgranare gli occhi di fronte al fatto che narra.
I simboli possono essere anche impugnati e difesi, e certo va fatto quando sono in gioco questioni serie. Ma il presepe non va brandito, va guardato. Va ascoltato. Con il cuore commosso di chi - come l’innamorato di fronte al sì, all’eccomi della donna amata - si trova dinanzi a un dono immenso, sproporzionato ai suoi meriti e alle sue capacità. È bello, è giusto che uomini e donne, famiglie, persone da sole, o rappresentanti delle istituzioni sentano il bisogno di raccontarsi e raccontare ancora questo grande fatto. È come un riverbero che dallo stupore dei pastori e di san Francesco arriva fino a noi, nelle nostre case tra le mensole e la tv, o nelle piazze, o dove si vive si soffre si cresce.
È una notizia che continua a correre, a raccontarsi. Il più misterioso e affascinante dei racconti. Un fatto vero che, come accade per tutti i fatti importanti, viene raccontato in molte lingue, secondo tante sensibilità e culture diverse. Ma un racconto, non un simbolo ideologico. Infatti mentre i simboli possono scaldare soprattutto le discussioni, i racconti scaldano i cuori e la conoscenza. Ogni discussione, se ben argomentata può essere utile, specie se non nega la storia e la libertà. Ma credo che nel nostro tempo, e nel tempo di questa nostra Italia sempre ferita è sempre benedetta, sia più importante oggi la silenziosa commozione che la vivace discussione.
Alzare i toni davanti al Presepe può essere giusto, se le parole sono attraversate anche dallo stupore, dalla preghiera e dal silenzio del cuore. Perciò viva ogni piccolo o grande presepe, ogni piccola o grande versione d’un racconto del Fatto che ci dà speranza.

lunedì 11 dicembre 2017

Grasso. Se la proposta è solo un nome


Stefano Ceccanti
11 dicembre 2017
Da vari anni la sinistra sinistra fa una campagna (a mio avviso esagerata) contro la personalizzazione della politica, che è un dato ineliminabile del contesto contemporaneo e contro la (presunta) perdita di identità del Pd (dove con identità spesso si intende o il fatto che il leader non provenga dal percorso del Pci, che peraltro si sciolse, o che non difende gli strumenti che in un'altra fase erano visti come costitutivi della sinistra, che però sono strumenti e non fini) . Tuttavia la leadership, pur necessaria, dovrebbe esprimere in modo sintetico un programma, dato che le idee camminano sulle gambe degli uomini. Non è autosufficiente.
Ora l'unica cosa che si capisce al momento della performance televisiva del Presidente Grasso è che il suo nome andrà sul simbolo; tracce di programma, specie sulla questione decisiva dell'Unione Europea, nessuna. Attendiamo quindi, più o meno fiduciosi, premesso che governare relativamente bene degli uffici giudiziari non significa in alcun modo garanzia di saper governare una formazione politica, che è cosa del tutto diversa.
Il nome partito non c'è, cosa curiosa in un'area che del valore dello strumento partito ha fatto (secondo me in questo caso a ragione) spesso un punto chiave della propria impostazione contro soggetti troppo leggeri e indistinti. Per inciso chi si presenta alle elezioni è un partito perché questo è ciò che definisce un partito, quindi non mettere quel nome significa essere un partito in sostanza vergognandosi di esserlo.
Né Grasso identifica chiaramente la proposta come di sinistra e neppure la parola sinistra compare nel simbolo, dove figura invece il richiamo al mix di libertà e uguaglianza che identifica di solito in tutta Europa il centrosinistra riformista, la sinistra liberale e non la sinistra sinistra che è ugualitaria ma non liberale né in economia né sui diritti. E della parziale forzatura rispetto a Libertà Eguale avremo modo di riparlare.
La domanda finale è quindi la seguente: quando questo simbolo andrà sulla scheda e si troverà come concorrenti per un verso il simbolo e il nome del Partito della Rifondazione Comunista e per altro verso il Pd e una lista coalizzata con la parola sinistra, ossia due cose molto chiare e identificabili, sarà riconosciuto come comprensibile anche da una parte di quegli elettori che sull'onda della copertura mediatica immediata a un partito che nasce dimostrano interesse? Tutti i partiti appena nati godono infatti al momento di una sovra copertura mediatica e quindi di una sovrarappresentazione nei sondaggi. Fini u questo docet.  
Tanto più che nel frattempo dovrà chiarire quali sono le sue impostazioni programmatiche in particolare sull'Unione europea su cui nella sua constituency sono presenti chiare impostazioni anti-euro e anti-Ue

giovedì 7 dicembre 2017

''Dopo il regalo di Trump, il silenzio di Netanyahu sulla Palestina in rivolta''

Rampini 

"Dopo l'enorme regalo fatto dal presidente Usa a Israele, riconoscendo Gerusalemme come capitale, ci si sarebbe aspettati una mossa da parte del premier Netanyahu che, in qualche modo, confermasse quanto detto da Trump, ovvero che il processo di pace in Medioriente non si interrompe. Ma da parte israeliana, almeno per ora, tutto tace. A conferma che la scelta di Trump rientra perfettamente, anche in questo caso, in quella politica del caos che caratterizza la linea del presidente Usa. E intanto, in palestina e nei territori occupati, monta la rivolta".

riecco Berlusconi....come nuovo per chi non ha memoria

Mattia Feltri
 
 
 
 
 
 
 
 
 FOTO DI GRUPPO
 La Stampa 7 dicembre 2017
Volete fare un’esperienza esoterica? Prendete la foto di gruppo dell’ultimo governo presieduto da Silvio Berlusconi, il giorno del giuramento, 8 maggio 2008. Guardate chi c’è attorno. C’è Sandro Bondi, ministro della Cultura, che se n’è andato dicendo che Berlusconi è come il conte Ugolino. Sarà sostituito da Giancarlo Galan, condannato e decaduto. C’è Umberto Bossi, fatto fuori da Salvini e dagli scandali. C’è Giorgia Meloni, che se n’è andata a fondare un altro partito. C’è Ignazio la Russa, che se n’è andato con Meloni. C’è Raffaele Fitto, che se n’è andato ed è scomparso nel nulla. C’è Claudio Scajola, umiliato dalla casa vista Colosseo. C’è Andrea Ronchi, annientato dall’avventura con Gianfranco Fini, che lì non c’è, era presidente a Montecitorio e ora affonda nei paraggi di Montecarlo. C’è Altero Matteoli, condannato e dimenticato. C’è Franco Frattini, che ha lasciato la politica. 

C’è Giulio Tremonti, orgogliosamente ai margini del mondo. Non si vedono, ma ci sono anche Marcello Dell’Utri, recluso e malato, Angelino Alfano, passato dalla scissione al ritiro di ieri, Guido Bertolaso, che era un eroe ed è un fantasma, Daniela Santanchè, e lasciamo perdere, Francesco Belsito, quello dei diamanti in Tanzania, Nicola Cosentino, condannato per camorra, Denis Verdini, col suo nuovo partito ratatouille e le sue grane giudiziarie, Aldo Brancher, condannato per Antonveneta. Le sciagure non sarebbero finite, è finito lo spazio. Per un curioso paradosso della fisica, non è ancora finito il tempo.

Bellissima notizia


Questa mattina, al Teatro Dal Verme di Milano, durante la consegna delle Civiche Benemerenze del Comune di Milano Don Virginio Colmegna, presidente Casa della carità è stato premiato con la Medaglia d'oro dal Sindaco Giuseppe Sala e dal presidente del Consiglio comunale Lamberto Bertolé.
Colmegna ha dichiarato: "Sono onorato per questo Ambrogino, idealmente consegnato, attraverso di me, a tutta la Casa della carità, alle altre organizzazioni promotrici della campagna Ero Straniero - L’umanità che fa bene e ai tanti, tantissimi volontari che in questi mesi si sono spesi per il suo successo”.

La "pensata" di Trump


Paolo Gentiloni‏
Gerusalemme città santa, unica al mondo. Il suo futuro va definito nell'ambito del processo di pace basato sui due Stati, Israele e Palestina

António Guterres‏Account
There is no alternative to the two-state solution: two states living side-by-side in peace, security and mutual recognition – with Jerusalem as the capital of Israel and Palestine.

Papa Francesco
«Non posso tacere la mia profonda preoccupazione per la situazione che si e' creata negli ultimi giorni e, nello stesso tempo, rivolgere un accorato appello affinché sia impegno di tutti a rispettare lo status quo della città, in conformità con le pertinenti Risoluzioni delle Nazioni Unite». Per Bergoglio Gerusalemme, resta «una citta’ unica, sacra per gli ebrei, i cristiani e i musulmani, che in essa venerano i Luoghi Santi delle rispettive religioni, e ha una vocazione speciale alla pace»

Federica Mogherini
"President Trump's announcement on #Jerusalem has a very worrying potential impact. The EU has a clear and united position. We believe that the only realistic solution to the conflict between Israel and Palestine is based on two states."

Emmanuel Macron‏
Sur Jérusalem, la France n'approuve pas la décision des États-Unis. La France soutient la solution de deux États, Israël et la Palestine, vivant en paix et en sécurité, avec Jérusalem comme capitale des deux États. Nous devons privilégier l’apaisement et le dialogue.

bagno di folla

Grandissimo successo della manifestazione “Agorà” organizzata dal a Montecitorio. Presente anche il leader Alessandro Di Battista.

Il Pd a viso aperto


Democratica 7 dicembre 2017
Mario Lavia
L’abbadono di Piasapia e Alfano ripropongono il tema della soggettività dei dem
Non è giusto definire “una pantomima” il tentativo del Pd di raggiungere intese con gruppi e personalità politicamente vicini. L’operazione andava fatta ed è stata condotta con onestà e convinzione da Piero Fassino. Alla fine, tirate su le reti, non è andata come il Pd avrebbe desiderato. La vicenda di Giuliano Pisapia è finita tristemente e c’è da chiedersi se le persone che egli aveva radunato intorno avessero davvero reciso il legame politico e psicologico con la sinistra estremista. L’ex sindaco non ha saputo “dirigere” il suo gruppo e alla fine ha dovuto gettare la spugna. Peccato, innanzi tutto per lui. Muore l’esperienza di Campo progressista e nello stesso giorno evapora anche Alleanza popolare con l’uscita di scena di Angelino Alfano. Due simultanei abbandoni che lasciano libere le schegge interne di guardare chi a destra chi a sinistra, a dimostrazione che siamo in una fase davvero imprevedibile della politica italiana.
Altri confermano la scelta di allearsi con il Pd – radicali, socialisti, personalità di sinistra, amministratori, verdi, cattolici democratici – per cui dire che “Renzi è solo” è una falsità. Ma qui il discorso merita qualche approfondimento.
Bisogna chiedersi se il tempo delle coalizioni così come le abbiamo conosciute negli anni Novanta (l’Ulivo, il Polo) non sia definitivamente tramontato. Forse alcuni dirigenti del Pd si sono illusi che fosse possibile ripercorrere vecchie strade. Fare uno più più uno più uno. Ma non è (più) così che si vincono le elezioni.
L’analisi delle novità
In fondo, se un partito come il M5s si fa forte del rifiuto non solo delle coalizioni ma persino delle alleanze, e anche per questo ha consenso, qualcosa vorrà pur dire.  Se nasce un partito come Liberi e Uguali, pur nella sua dimensione più ridotta, che fa dell’isolamento una sua bandiera ideologica, anche questo qualcosa vorrà dire. E se ci pensiamo bene anche la Lega e Forza Italia stanno in un certo senso “andando da soli”, dato che fanno due campagne elettorali diverse tenute insieme per ragioni di potere in una finta coalizione. E sarebbe dunque singolare se proprio il Pd, partito nato e cresciuto nell’idea della vocazione maggioritaria, avesse paura di scendere in campo a viso aperto, con le proprie bandiere, nel rapporto diretto con l’opinione pubblica. Con le persone in carne e ossa.
Il tema è il rapporto con la società
Il treno che ha portato in giro per il Paese Matteo Renzi e i dirigenti del Pd in questo senso è stato utile a rinsaldare rapporti con i cittadini veri, direttamente e senza la mediazione dei talk show. La stessa manifestazione antifascista di sabato a Como è una risposta assolutamente necessaria a un’insorgente problema politico e di ordine pubblico – come si è visto con la sceneggiata sotto Repubblica – ma anche un modo per rimettere al centro della scena le persone che hanno qualcosa da dire.
Politicismi a parte, il punto vero è proprio questo: il rapporto fra il Pd e la società. E’ questo, più che il giochino dei cartelli elettorali, il vero banco di prova per i dem. I cittadini giudicheranno un partito, quello che ha fatto, quello che vuol fare. Valuteranno un gruppo dirigente, non solo il leader (anche questo è cambiato dagli anni Novanta). Delle alchimie politiciste non gli frega più di tanto.
E allora se tutto questo è vero l’insuccesso dell’operazione-Pisapia e l’abbandono di Alfano devono essere valutati nella giusta luce. La situazione non è sostanzialmente cambiata. Caso mai, il quadro è più chiaro. E questo è un bene per tutti.

VELENI

Sandro Albini
La campagna elettorale, iniziata da tempo, sta assumendo toni grotteschi. Tutti sparano contro tutti senza esclusione di colpi, quelli micidiali sono riservati al vicino più prossimo. In questo la sinistra ha una storia gloriosa, rinverdita or ora con cattiveria e miopia sconcertante. In questo modo sono stati rivitalizzate Forza Italia e Lega certamente non privi di responsabilità nella gestione della crisi 2007/2014 (negata fino all'ultimo contro ogni evidenza). E il nuovo che avanza è costituito da una formazione virtuale, gestita da una azienda privata, la quale spara contumelie a destra e a manca senza mai dire che cosa intende fare dei voti conquistati. Paradossalmente chi ha qualche merito nell'aver invertito la tendenza al declino, viene presentato come il responsabile delle malefatte altrui. In questo bailamme di strilli (degno dei polli di Renzo) non sorprende conquistino spazio formazioni squadriste intenzionate a fomentare disordini. E' già accaduto più volte nel nostro Paese. Senza evocare le vicende del 1922 ho sufficiente memoria per ricordare come i vuoti della politica e la pervicace mancanza di realismo delle forze sociali, abbiano lasciato spazio ai tentativi di eversione nera e rossa nel decennio 60/70 del secolo scorso. Non servono le condanne verbali se non si ripristina un clima di confronto serio e responsabile, scevro da quel che finora abbiamo visto, tra tutte le forze politiche. A volte scrollare alberi finisce per favorire chi si voleva colpire. E a forza di rompere bottiglie poi qualcuno dovrà raccattare i cocci, scoprendo che un conto sono le chiacchiere altro è la gestione di realtà complesse per le quali le semplificazioni hanno la medesima efficacia di un bicchiere di acqua versato in un deserto..

lunedì 4 dicembre 2017

CIOÈ

Pierluigi Castagnetti
(sia detto senza ironia e con il massimo rispetto).
Non si capisce se Grasso sia IL capo o UNO DEI capi; se sia stato designato, nominato o eletto, e da chi;
se vi sia uno statuto che definisca poteri, organi collegiali, processi decisionali;
quali ragioni abbiano indotto l'esclusione nel nome di ogni riferimento al socialismo o al progressismo o alla sinistra.
CIOÈ
tutto ciò valeva una scissione? e il regalo del governo alle destre?

parole sagge

Valter Veltroni
“Nutro una profonda inquietudine sul futuro della democrazia. Si stanno creando condizioni politiche e persino antropologiche per le quali la più grande conquista del Novecento, costata il sangue di Auschwitz e la prova dei gulag, e cioè la democrazia, può essere rimessa in discussione”.
“Ci sono momenti della storia in cui i cittadini non possono essere spettatori ma devono mobilitarsi con volontà e coscienza. La bandiera nazista nella caserma dei carabinieri dimostra che dobbiamo vigilare anche su chi la democrazia dovrebbe difenderla. Spero davvero che le forze democratiche e di sinistra vogliano dare un segno di unità sui valori fondamentali“.
“Come sempre in questi momenti, la destra cavalca al meglio i sentimenti di paura. La sinistra invece che fa? Si divide, classico del novecento. Invece deve ritrovare il suo rapporto con il malessere sociale, con il dolore e la precarieta’ delle persone”

martedì 28 novembre 2017

NOI SIAMO QUELLI DELL'EUROPA

Pierluigi Castagnetti
28 novembre 2017
Non posso che compiacermi della chiarezza con cui Renzi alla Leopolda ha definito l'identità del Pd.
"Noi siamo ontologicamente diversi dal M5S e dalla destra. Noi siamo quelli dell'Europa, non quelli che vogliono uscire dall'euro o che propongono la doppia moneta".
Non voglio rompere, ma non basta ancora.
Non possiamo aggiungere il petalo dell'Europa in una rosa rigogliosa e orgogliosa delle sue tante identità. Quel petalo resta un petalo soltanto, ammesso che si possa vedere.
La domanda allora è semplice: abbiamo il coraggio di fare una scelta, nel dibattito elettorale, netta forte e rischiosa a favore del rilancio dell'integrazione europea, come fece Macron? Se si perde, si perde assieme ad altri, se si vince, si vince solo noi. Perché saremo gli unici a fare questa scelta.
Perché la scelta funzioni occorre fare ciò che sinora questo Pd non ha mai fatto: parlare, spiegare, spiegare, spiegare. Spiegare che nella primavera prossima l'Europa in un qualche modo ripartirà, Macron e la Merkel rivedranno i trattati dall'esterno delle attuali logiche e procedure e al di fuori degli attuali percorsi "costituzionali": se l'Italia non sarà al tavolo saranno grossi guai per l'Italia.
Quali? Raccontarli con chiarezza. Analizzare scenari. Parlare delle conseguenze. Ipotizzare percorsi.
Insomma scommettere sul successo di un'operazione che inevitabilmente accadrà, con noi o senza di noi.
Almeno daremo casa stabile ai tanti italiani (sono tanti veramente) che, stanchi delle chiacchiere di una politica sfinita, pensano il futuro è non sanno con chi condividerlo.

lunedì 27 novembre 2017

mille giorni


...no comment

Fazio quanta poca memoria....


leopolda «Noi siamo quelli dell’Europa»: la “svolta” macroniana e antipopulista di Renzi


Emilia Patta
Il Sole 24 ore 26 novembre 2017
Il segretario del Pd Matteo Renzi ha chiuso l’ottava edizione della Leopolda

«Noi siamo ontologicamente diversi dal M5S e dalla destra. Noi siamo quelli dell’Europa, non quelli che vogliono uscire dall’euro o che propongono la doppia moneta». È la prima volta che Matteo Renzi pronuncia parole così chiare in favore dell’Europa. Certo, è un’Europa da cambiare e da rinnovare. Ma non è più il tempo degli attacchi agli euroburocrati e all’Europa degli zero virgola. È il tempo dell’asse con la Francia di Emmanuel Macron contro tutti i populismi, a cominciare da quelli nostrani del M5S e della Lega attaccati in questi giorni anche per l’uso disinvolto delle fake news.
Scontro tra Pd e M5S su fake news. Renzi: un rapporto ogni 15 giorni. Di Maio: vigili l’Osce
«Rifiuto l’idea che il futuro dell’Europa sia talmente deresponsabilizzante da far decidere a una monetina – dice il leader del Pd in una stazione Leopolda mai così affollata riferendosi al sorteggio sull’Ema che ha penalizzato Milano in favore di Amsterdam -. E oggi il riferimento per la nostra idea di Europa è Macron. Se riuscirà a mettere insieme superamento dell’austerità, riforma della governance e lotta ai populismi».
Quello che colpisce di questo Renzi versione Leopolda numero 8, la prima dopo la sconfitta al referendum costituzionale dello scorso anno, è proprio la “svolta” europeista. L’inventore della rottamazione e del #cambioverso sembra aver dismesso i vecchi panni per indossare quelli del riformatore per così dire tranquillo: il Pd, con i suoi alleati, come grande forza al tempo stesso moderata e rinnovatrice (Macron stesso, incontrato all’Eliseo appena una settimana fa, parla di «rifondazione» dell’Europa); il Pd come unico argine al salto nel buio rappresentato dai diversi populismi del M5S e della destra lepenista-leghista.
D’altra parte non è più il tempo degli assalti al cielo. Renzi stesso invita i suoi a riportare all’ora presente l’orologio rotto della Leopolda, fermatosi qualche giorno prima del 4 dicembre scorso. E li esorta a guardare in faccia la realtà: quella del fallimento del tentativo di ammodernare e semplificare il sistema politico e istituzionale italiano. Certo, ammette, «di fronte alla crisi europea – che vede anche la grande Germania interrogarsi sulla crisi della democrazia - molti di noi pensano “ah, se fosse passato il referendum”». Perché è chiaro che solo la Francia di Macron, con il sistema del doppio turno, resta un modello di democrazia decidente pur in presenza di partiti deboli come quelli attuali. Mentre la Spagna e la Germania, e forse anche l’Italia tra breve, disegnano uno scenario pericolosamente caotico.
Ma tant’è, il nuovo quadro politico è quello con il quale il Pd deve confrontarsi. E nel nuovo quadro la vocazione maggioritaria deve cedere il passo alle alleanze tradizionali, la costruzione delle quali Renzi ha delegato a Piero Fassino anche per ammissione di suoi limiti caratteriali a riguardo. Il leader del Pd si limita a ribadire che gli alleati «avranno pari dignità» e che «chi non vuole stare con noi avrà il nostro rispetto, non il nostro rancore». Ma una volta chiuso il perimetro – dai centristi di Casini alla sinistra di Pisapia, con i bersaniani di Mdp fuori - «bisogna inserire la modalità campagna elettorale: non parliamo più delle alleanze, di chi ci sta e chi non ci sta, ma delle cose concrete che interessano alla gente».
Già, il programma. Il punto è che dopo aver tanto fatto e tanto anticipato è difficile trovare nuove battaglie da condurre. Lo ammette lo stesso Renzi quando cita Kafka (una citazione rubata a Gianni Cuperlo, specifica): «A scegliere il futuro prima del tempo si rischia di vivere un presente assonnato». Troppe riforme messe in campo, troppe e tutte insieme, fino al fallimento del 4 dicembre scorso. «E ora è difficile rimettersi in moto con la grinta di prima», ammette Renzi.
Tuttavia dalla Leopolda la barra del riformismo è uscita intatta: le riforme dei mille giorni, a cominciare dal Jobs act che ha creato 986mila posti di lavoro, non si toccano. E in un momento i cui un pezzo di sinistra, ormai alternativa al Pd, si appresta a scendere in piazza per chiedere la reintroduzione dell’articolo 18 non è poco. «Dicono che servono più contratti a tempo indeterminato. Bene, chi ha idee migliori delle nostre si faccia avanti. Il futuro è una pagina bianca da scrivere insieme», dice non senza provocazione Renzi.
Barra del riformismo dritta e asse europeista e antipopulista con Macron. Queste, per ora, le due direttrici del Pd nella nuova versione post-referendaria e dialogante con gli alleati del costituendo nuovo centrosinistra (è anche la prima volta, a questo proposito, che alla Leopolda si sente un ringraziamento per il padre dell’Ulivo Romano Prodi «per il grande aiuto che ci sta dando»). Basterà ad arrivare primi alle prossime elezioni (che a vincere, con il nuovo sistema a base prevalentemente proporzionale, non ci crede nessuno al di là di qualche frase di propaganda)? Difficile dirlo ora, a campagna elettorale ancora tutta da giocare. Ma per il Pd di Renzi, dopo cinque anni di governo e dopo la sconfitta referendaria, non ci sono molte alternative.