lunedì 31 ottobre 2016

La vera ragione del No? Ve la spiegano Dini e la figlia di Celentano

Fabrizio Rondolino
L'Unità 31 ottobre 2016
Ce l’hanno con “l’arroganza” del premier: ma intendono dire “decisione”
In una lunga, articolata e assai interessante intervista a Libero, Lamberto Dini formula con particolare efficacia l’argomento decisivo del vero Noista: “Ha presente cos’ha detto la figlia di Celentano? ‘Non capisco molto, ma voto no perché non mi fido di Renzi’: quello dovrebbe essere lo slogan del No”.
E in effetti è proprio così: a parte qualche inguaribile difensore del bicameralismo perfetto e un paio di consiglieri del Cnel che giustamente non ne vogliono l’abolizione, è difficile trovare qualcuno capace di opporsi alla riforma nel merito.
Tutt’al più, si invoca il “combinato disposto” con la legge elettorale, o si allude ad una non meglio precisata (e in effetti imprecisabile) “deriva autoritaria” adombrata dalla riforma Boschi. Nel merito, nulla: perché difendere il bicameralismo perfetto e il Cnel richiederebbe effettivamente una dose di coraggio che neppure i Noisti più sfegatati riescono a trovare.
Torniamo a leggere Dini. Osserva Pietro Senaldi, l’intervistatore: “Lei però, a differenza della figlia di Celentano, la riforma la capisce, quindi il suo No è tenuto a motivarlo”.
Senza ombra di ironia, l’ex presidente del Consiglio spiega: “Il Senato, anziché abolito, viene umiliato. E il Senato è la nostra storia, l’abbiamo da 2000 anni”. Come se l’antico Senato romano, a parte il nome, avesse qualcosa in comune con l’assemblea di Palazzo Madama. Come se l’Impero non fosse mai tramontato sui colli fatali di Roma. Come se discutessimo di beni culturali da tutelare anziché di corretto funzionamento delle istituzioni.
E così non resta che Renzi: l’antipatia di Renzi, l’arroganza di Renzi, l’inaffidabilità di Renzi, la cialtroneria di Renzi, l’improvvisazione di Renzi, la maleducazione di Renzi…
Non scherziamo: non si fa un referendum, né tantomeno una linea politica, sull’antipatia o la simpatia di un leader, sul suo carattere, sui sui difetti o sulle sue virtù. La verità è che nella critica – spesso francamente sopra le righe – al “carattere” di Renzi si nasconde una questione politica cruciale.
Non può essere un caso se la gran parte dei richiami alla maleducazione del premier – chiamiamoli così – viene da politici che in passato hanno svolto un ruolo importante nella vita democratica e civile del Paese, e che oggi, per un motivo o per l’altro, contano molto di meno o non contano affatto.
Sono loro – da D’Alema a De Mita, da Monti a Dini – a ripetere costantemente, ossessivamente, compulsivamente che Renzi è arrogante e inaffidabile.
Ma l’arroganza non è una categoria politica: a meno che per ‘arrogante’ non si intenda chi non ricerca a tutti costi l’unanimità, che quasi sempre si traduce in paralisi, ma sa invece decidere senza prima chiedere il permesso a tutti quelli che l’hanno preceduto.
E’ questa l’‘arroganza’ che una classe dirigente fallimentare rimprovera a Renzi: la decisione.

mercoledì 26 ottobre 2016

BRUTTA CAMPAGNA REFERENDARIA? NO, MOLTO BELLA


Pietro Ichino
26 ottobre 2016
GLI ITALIANI SI DIVIDONO, SÌ, PERÒ NON TRA IDEOLOGIE O TRA PARTITI CHE LITIGANO A PAROLE MA PROBABILMENTE FINIRANNO PER FARE ALL’INCIRCA LE STESSE COSE: LA SCELTA POLITICA SI COMPIE SU DI UN BIVIO REALE
Molti opinionisti negli ultimi giorni hanno lanciato il loro grido d’allarme per quella che a loro appare una brutta campagna referendaria, la quale starebbe lacerando il Paese irreparabilmente. Sarà, ma io vedo un aspetto diverso di questo passaggio politico nazionale, che me lo fa apparire come uno dei migliori della nostra storia repubblicana. Pian piano la maggior parte degli italiani si sta facendo un’idea dei contenuti di questa riforma costituzionale, delle sue conseguenze istituzionali e delle sue valenze politiche. Si sta rendendo conto che questa volta, a differenza di tante – troppe! – altre, l’esito del voto inciderà davvero sulla direzione che il Paese prenderà. Il Sì è collegato a un sistema elettorale maggioritario, a una maggiore rapidità del processo decisionale governativo, a una prosecuzione e rafforzamento dell’integrazione dell’Italia nell’Unione Europea, quindi a una prosecuzione del programma di riforme avviato dal Governo Renzi. Il No è collegato a un ritorno al sistema elettorale proporzionale, quindi al mantenimento dell’assetto costituzionale attuale (nessuno può seriamente credere alla prospettiva di una rapida approvazione, dopo il successo del No, di una nuova riforma costituzionale, quale che essa sia) e a una prospettiva di governi di “larghe intese”; con quali contenuti, sul piano della politica economica, sociale, europea, mediterranea e atlantica, nessuno può dirlo con precisione, ma nel fronte del No predomina nettamente l’orientamento no-global,  e no-euro.
Nella nostra storia repubblicana è accaduto poche altre volte che una consultazione politica avesse una valenza pratica binaria così netta: fu così nel referendum monarchia/repubblica del ’46, nella scelta tra DC e Fronte Popolare del ’48, nei referendum sul divorzio e sull’aborto del ’74 e ’81, in quello sulla scala mobile dell’’85 e in quello sul sistema elettorale del ’91. Ora gli italiani si trovano di nuovo di fronte a una scelta netta, con corrispondenti conseguenze pratiche altrettanto nettamente divaricate, come lo furono quelle ora ricordate. Una scelta sulla quale si dividono, è ovvio. Ma si dividono sapendo che non è tra ideologie, o tra bandiere astratte, o tra partiti che litigano a parole ma probabilmente finiranno per fare all’incirca le stesse cose: no, ora il bivio è davvero tale, scegliere una strada o l’altra significa davvero prendere direzioni molto diverse. Questo restituisce dignità e credibilità a una politica che le aveva perse, proprio perché fingeva di dividersi su bivii in realtà inesistenti.
Come andrà a finire? Sono ottimista. Perché in ciascuna delle altre occasioni analoghe gli italiani al dunque, anche se per lo più con un margine di maggioranza non largo, hanno compiuto la scelta giusta.

venerdì 21 ottobre 2016

lotta dura

Oggi sciopero servizi pubblici per sostenere No referendum. Che dire? Da qui al 4 dicembre quali altre forme di trumpismo?( o vinco io o...)
Pierluigi Castagnetti

giovedì 20 ottobre 2016

In fondo bastano tre parole.


Alfredo Bazoli
20 ottobre 2016
Lo so, non si dovrebbe.
E, ad essere onesti, in effetti io non lo faccio mai.
E tuttavia, per quanto la riforma costituzionale non si presti a semplificazioni e slogan, per quanto le questioni coinvolte siano delicate e dense di aspetti tecnici complessi e rilevanti, nonostante tutto ciò forse può essere utile tentare un piccolo esercizio di semplificazione, di riduzione di una materia complicata a qualche parola evocativa e limpida.
In fondo non tutti sono giuristi, non tutti siamo costituzionalisti, eppure tutti siamo chiamati ad esprimerci, a fare una scelta.
E allora qualche parola chiara può servire.
Io la direi così, con tre parole, che rappresentano altrettanti obiettivi, per me i più importanti della riforma: stabilità, semplicità, sobrietà.
Stabilità
Sapete che il governo Renzi, benché insediatosi a legislatura già abbondantemente iniziata, è già oggi il 4° governo più longevo della storia di 70 anni di Repubblica? E se arrivasse a fine legislatura conquisterebbe il primato di più longevo di tutti? Questo semplice dato ci dice dell’endemica instabilità delle nostre istituzioni, con tutto ciò che questo comporta. Se l’orizzonte dei governi è breve, infatti, non sono possibili politiche lungimiranti, che guardano oltre il tornaconto elettorale immediato, la politica è debole e recessiva rispetto ai grandi interessi economici, ai contropoteri, alle grandi burocrazie, i governi contano poco o nulla nelle grandi istituzioni sovranazionali, in primis l’unione europea ove si approvano circa il 60% delle norme vigenti nel nostro ordinamento.
Attraverso la fiducia monocamerale, l’accentramento presso la sola camera dei deputati della competenza esclusiva sul 95% delle leggi ordinarie, la legge a data fissa dei disegni di legge, si rimuovono alcuni degli ostacoli alla stabilità politica, alcuni dei motivi di continua fibrillazione politica e istituzionale che si ripercuotono negativamente sulla continuità dei governi e dei parlamenti.
Semplicità
Il bicameralismo paritario è un lusso che una democrazia decidente non può permettersi, tanto è vero che non è presente in nessuna delle grandi democrazie parlamentari europee. Due camere che fanno la stessa cosa comportano un raddoppio delle fatiche, dei compromessi, del lavoro delle strutture organizzative, che rappresentano obiettivamente un anacronismo storico e una complicazione nel procedimento legislativo. Con la riforma il 95% circa delle leggi sarà di competenza esclusiva della camera dei deputati, con facoltà per il senato delle autonomie di esaminare i testi, proporre modifiche, ma in tempi certi e con decisione finale della camera.
A ciò si aggiunga la riforma del rapporto tra stato e regioni, che semplifica, disbosca, rimuove le sovrapposizioni legislative, rendendo più chiaro chi fa che cosa, e introduce un nuovo equilibrio virtuoso tra centro e periferie attraverso il senato delle autonomie territoriali.
Sobrietà
La riforma elimina un ente inutile, il CNEL, riduce i parlamentari da 945 a 730, un numero più ragionevole e corretto, toglie le indennità dei senatori,  introduce tetti alle indennità e ai rimborsi spese dei consiglieri regionali, riduce le competenze e dunque in prospettiva la struttura organizzativa del senato. Ciò comporterà un dimagrimento indubitabile delle spese complessive per il funzionamento delle istituzioni repubblicane. Un bel messaggio e un bel risultato per la politica in un’epoca di ristrettezze economiche e sacrifici per i cittadini.
Stabilità, semplicità, sobrietà: tre parole, tre obiettivi, tre ragioni della riforma

TELECAMERE NEGLI ASILI E RICOVERI....Che tristezza!

Sandro Albini
19 ottobre 2016
Un Paese costretto ad approvare una legge per tuelare con telecamere le componenti più fragili della società: bambini e anziani. Dove è finito il livello di civiltà conquistato dai nostri padri? Forse annegato nel vezzo di dire falsità spacciandole per verità; nelle saccenti superficialità di chi "parla con competenza di cose delle quali non sa nulla"; tra il fastidioso frastuono di vuoti slogan di cui è pregna certa politica e certi massmedia. E da chi tende a far credere che chi non la pensa come te sia necessariamente un nemico da abbatere con insulti, maldicenze e calunnie. Requiem

lunedì 17 ottobre 2016

Stranezze

MicroMega ha raccolto gli appelli di Zagrebelsky e Rodotà sulla necessità di abbassare i toni sul referendum.
E rilancia una interessantissima intervista a Paolo Maddalena che ci informa che se vince il SI arriva il fascismo e muore la democrazia.
Peccato che i fascisti italiani, quelli veri, verdi e neri, siano tutti intruppati nel fronte del NO.
Che se non ci fosse da piangere sarebbe da ridere.

venerdì 14 ottobre 2016

“Lo scontro nel PD è tra democrazia dell’alternanza e democrazia consociativa”

October 14, 2016 Blog Confini
Pierluigi Mele intervista  Giorgio Tonini
Oggi il PD compie nove anni. Per l’anagrafe è un partito giovanissimo. Eppure è lontano “anni luce” l’ entusiasmo di quei giorni. Nacquero comitati civici composti da cittadini semplici, militanti di base, intellettuali, per sollecitare la nascita del nuovo soggetto politico che “finalmente avrebbe traghettato il centrosinistra italiano verso la modernità”: il Partito Democratico appunto. Oggi il PD, come gli avvenimenti dei giorni scorsi hanno mostrato, è un partito diviso, lacerato. Per parlare della situazione interna, della lacerazione politica e della sua possibile soluzione, abbiamo intervistato il Senatore Giorgio Tonini. Tonini è stato tra i fondatori del PD. Attualmente è Presidente della Commissione Bilancio del Senato, ed è esponente di spicco della maggioranza renziana all’interno del partito.
Senatore Tonini, diciamoci la verità: l’ultima direzione del suo partito è stata come il “canto del cigno” del PD (così l’ha definita Marcello Sorgi). Insomma, nonostante le aperture di Renzi sulla modifica dell’Italicum, la minoranza non si fida del Segretario-Premier. Bersani smentisce scissioni, e così altri della sinistra dem. Cuperlo entrerà nella Commissione proposta da Renzi per cambiare la legge elettorale. Però il clima è degenerato. Insomma Renzi dovrà pur fare mea culpa se non riesce a tenere unito il partito. Certo anche la minoranza ha le sue colpe: quella, in primis, di vivere in perenne stato congressuale. Non è un bel compleanno (il nono) per il PD. Non è così Senatore?
Non mi convince un’analisi della discussione interna al Pd che si esaurisce attorno a questioni psicologiche (il brutto carattere di questo o il risentimento di quello), o anche solo ad uno scontro di potere e per il potere. Certo, c’è anche tutto questo: la politica è fatta da esseri umani e non da creature angeliche. Ma il nocciolo della questione è un altro: lo ha detto bene Bersani in un’intervista di qualche settimana fa, parlando di “idee diverse della democrazia”. E in effetti, nella discussione sulla riforma costituzionale e sul cosiddetto “combinato disposto” con la legge elettorale, sta riemergendo, in modo via via più chiaro, la frattura tra chi crede in un modello competitivo della democrazia e dunque tende a sposare sistemi elettorali e istituzionali di tipo maggioritario, e chi invece propende per una visione consociativa e consensuale e preferisce quindi sistemi di tipo proporzionale. Con tutta la buona volontà del mondo, e anche mettendo da parte asprezze e spigolosità, non è facile mediare tra queste due visioni. Si può temperare un impianto maggioritario con correttivi garantisti per le minoranze. O, viceversa, si può correggere un sistema proporzionale con soglie d’accesso e altri meccanismi stabilizzatori. Ma al dunque, si deve scegliere quale strada prendere. La via intrapresa dalla riforma costituzionale e da quella elettorale è la prima: è la via della democrazia dell’alternanza, della competizione tra alternative politico-programmatiche, incarnate da leadership riconoscibili; è la via che affida al cittadino elettore il potere di investitura di chi deve governare. Il superamento del bicameralismo paritario, in favore di un sistema nel quale la Camera abbia l’esclusiva del rapporto fiduciario col Governo e per questo eserciti anche un ruolo preminente nel procedimento legislativo, è il primo pilastro di questa visione della democrazia, quello contenuto nella riforma costituzionale. Una regola di elezione della Camera politica, che selezioni uno schieramento e un leader vincitori nella competizione per il governo, è il secondo pilastro, affidato alla legge elettorale, nel nostro caso all’Italicum. La riforma costituzionale, approvata dal Parlamento, è ora affidata al giudizio popolare e su di essa non si può più intervenire. L’Italicum, invece, si può cambiare: la strada è aperta, sia sul piano tecnico, perché si tratta di una legge ordinaria, sia sul piano politico, dopo l’apertura di Renzi all’ultima Direzione nazionale del Pd. Il problema è come cambiarlo: se per correggere alcuni aspetti, anche importanti (ad esempio preferenze o collegi uninominali…), ma senza rimetterne in discussione l’impianto maggioritario, come in molti nel Pd pensiamo, o se invece si vuole dare al paese una legge elettorale che non consente ai cittadini di scegliere chi deve governare, ma vuole riaffidare questa decisione ai parlamentari e ai partiti ai quali essi appartengono. Nel primo caso, la Commissione costituita dalla Direzione su proposta di Renzi, potrà formulare alcune ipotesi sulle quali lavorare in Parlamento. Nel secondo caso, invece, sarà il referendum a sciogliere il nodo.
Dicevamo del nono compleanno , infatti il 14 ottobre 2007 nasceva il PD, di un partito che aveva suscitato grandi speranze. Che è riuscito a rompere un tabù della politica italiana: quello della Sinistra al governo. Pochi “anni dopo, quel partito si trova senza radici e senza orizzonte, con le fonti inaridite e l’identità incerta”. Questo è il duro giudizio di Ezio Mauro, in un editoriale di qualche giorno fa su Repubblica. Forse la “mistica” renziana della “rottamazione” non è riuscita a creare una nuova identità di sinistra democratica. Il punto è proprio questo: la radice dei dissensi politici interni al PD sta qui. Un partito che è scarsamente curato dal segretario. Troppo drastici questi giudizi?
L’identità di un partito, ama dire Alfredo Reichlin, è data dalla sua funzione. La funzione del Pd è stata in questi anni ed è oggi più che mai, quella di guidare l’Italia sulla base di una strategia riformista e democratica, unica alternativa di speranza alle suggestioni populiste e talvolta reazionarie che la più grave crisi economica e sociale del nostro tempo ha fatto sgorgare dal corpo provato e spossato del paese. Una strategia che si è segnalata in Europa come l’unico esempio di sinistra riformista al governo, mentre la socialdemocrazia in quasi tutti i paesi del vecchio continente sprofondava nella crisi più grave della sua storia. Altro che partito senza radici e senza orizzonte! La verità è che la storia di questi anni ha dato ragione alla intuizione culturale che sta alla base del progetto originario del Pd, concepito nell’esperienza dell’Ulivo guidato da Romano Prodi, sbocciato con la leadership fondativa di Walter Veltroni e portato da Matteo Renzi al governo del paese in uno dei passaggi più drammatici della storia d’Italia: l’intuizione per cui solo dall’incontro tra le culture riformiste del Novecento si sarebbe potuto formare e strutturare quel pensiero nuovo, democratico senza aggettivi, che avrebbe potuto guidarci nell’affrontare le inedite questioni proposte dal mondo del Duemila. Certo, questa intuizione ha bisogno di essere coltivata e curata, tradotta in formazione culturale e in una innovativa forma di organizzazione politica. Su questo il Pd è in ritardo. Ma raramente i partiti al govern riescono a trovare energie sufficienti per occuparsi di se stessi: è normale che il nerbo dell forze disponibili sia usato nel e per il governo.
Ora infuria la battaglia sul Referendum. Lei è schierato per il SI. D’Alema ha accusato il vostro fronte di alimentare un “clima intimidatorio” e di essere espressione di un blocco di potere. Anche il vostro fronte non scherza in fatto di esasperazione e provocazione: sul sito “bastaunsi.it” è uscito un articolo che non lascia spazio a molte fantasie: “I punti in comune tra riforma costituzionale e programma del Pdl 2013”. Con il clima che c’è nel vostro partito, una cosa così è un “capolavoro” all’incontrario di comunicazione politica. Il clima è davvero esasperato. Rischia di produrre, il giorno dopo il Referendum, macerie politiche, da qui il richiamo del Presidente Mattarella. Lei non è preoccupato?
Sono molto preoccupato. Come è accaduto in altri passaggi della tormentata vicenda della nostra democrazia difficile, vedo aggregarsi forze che hanno in comune solo la volontà di opporsi, di contrastare, di impedire al faticoso lavoro del riformismo politico e istituzionale di procedere e di produrre risultati, per quanto limitati, parziali e perfino imperfetti. Questo grande fronte trasversale può far perdere il riformismo, ma non può vincere, se vincere significa non solo battere l’avversario, ma promuovere una visione alternativa. Se vincerà il Sì, il progetto politico riformista e democratico riceverà dal consenso popolare la forza necessaria ad andare avanti nell’opera, al tempo stesso determinata e paziente, di cambiamento del paese. Se invece prevarrà il fronte del No, ci troveremo in un vuoto, di visione e di proposta, malamente colmato da un rassegnato ritorno, un ripiegamento in un sistema politico istituzionale neo-proporzionale, nel quale nessuno vince, nessuno perde e nulla può cambiare. Come si possa pensare di affrontare i grandi nodi strutturali del paese con un sistema politico-istituzionale così debole e frammentato è per me un mistero. Quanto all’accostamento della riforma costituzionale sottoposta al referendum, al programma del Pdl del 2013, non so dire se sia un capolavoro o un infortunio sul piano della comunicazione politica. Dico però che i nostri avversari devono decidersi: vogliono contrastare la riforma perché “approvata a maggioranza spaccando il paese”, o invece perché “copiata dal programma di Berlusconi”? La verità storica è molto più semplice: il percorso riformatore di questa legislatura è nato da un patto tra Pd, Pdl e centristi, lo stesso che ha dato vita, sotto la guida del presidente Napolitano, al governo Letta. Un governo che aveva proprio nelle riforme istituzionali il primo punto programmatico. E le riforme individuate come possibili erano quelle sulle quali si poteva registrare il più alto livello di consenso: la riforma del bicameralismo, la revisione del titolo V nelle parti che non avevano funzionato e la riforma elettorale. Si erano invece accantonati temi più divisivi, come quello della forma di governo (premierato o presidenzialismo), per non dire della questione della giustizia. Dire dunque che la riforma approvata era ampiamente contenuta nei programmi del Pdl, come per altro verso del Pd, è ricordare una ovvietà, come è un’ovvietà ricordare che la rottura con Forza Italia non è si è determinata sul contenuto della riforma, ma su questioni di quadro politico esterne alla riforma stessa. Raccogliere il giusto invito del presidente della Repubblica dovrebbe significare innanzi tutto non nascondere o addirittura mistificare queste elementari verità storiche.
Parliamo di Economia. Lei è presidente della Commissione Bilancio del Senato. Organismo importante. Avete ascoltato il Ministro Padoan. Il governo punta ad una crescita dell’1%. Cifra che viene contestata dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio, ma anche da altri organismi. A parte i dati di agosto, sicuramente importanti, non è che l’anno 2016 sia stato all’altezza delle aspettative del governo. Insomma l’ennesimo spot ottimistico?
Portare il tasso di crescita dell’economia italiana all’1% nel 2017 non è uno spot ottimistico, ma un obiettivo programmatico che il Governo intende perseguire con grande determinazione. L’ufficio parlamentare di Bilancio, autorità tecnica autonoma, istituita grazie al nuovo articolo 81 della Costituzione, riformato nel 2012, ha espresso dubbi sulla reale possibilità di raggiungere questo obiettivo di crescita, con un deficit pubblico che voglia mantenersi entro il limite del 2%. Al momento tuttavia la Commissione europea non ha ancora accolto la richiesta, da parte delle’ l’Italia, di superare quel limite, anche se il Governo ha già chiesto al Parlamento di essere autorizzato a discostarsene di uno 0,4% di PIL. Qualora questo scostamento venisse in tutto o in parte accettato dall’Unione europea, anche la divergenza tra il Governo e l’ufficio parlamentare del Bilancio sarebbe destinata a ricomporsi. Accanto alla dimensione quantitativa della manovra, decisiva ai fini del raggiungimento degli obiettivi di crescita sarà la sua composizione qualitativa: in particolare è decisivo che una parte significativa delle risorse impiegate nella manovra venga utilizzata per sostenere gli investimenti, sia pubblici che privati.
Lei è ottimista sulla flessibilità di bilancio? Non le pare che stiamo grattando il fondo del Barile?
Penso che dobbiamo creare le condizioni per spingere la crescita oltre l’1%, per portarla verso il 2, se vogliamo che se ne avvertano gli effetti positivi nella vita concreta delle famiglie e delle imprese. Arrivare a questo obbiettivo, che è poi il senso del nostro lavoro, comporta due condizioni, la prima delle quali è nelle nostre mani solo fino ad un certo punto ed è riuscire davvero a cambiare verso alla politica economica europea, ristabilendo il primato politico della crescita rispetto alla stabilità. Abbiamo infatti bisogno che, accanto al lavoro di risanamento, che è necessario venga fatto dagli Stati nazionali, e che quindi accanto al fiscal compact – che non rinneghiamo, perché costituisce un principio d’ordine necessario in una federazione di Stati, che mantengono ancora una forte sovranità sulle politiche economiche e nello stesso tempo vogliono avere in tasca la stessa moneta – accanto a questo elemento di disciplina ci sia un motore espansivo, che si accenda a livello federale. Quando il nostro Presidente del Consiglio invita a fare come in America, intende esattamente questo. Negli Stati Uniti d'America, gli Stati che compongono l’Unione hanno il dovere del pareggio di bilancio: se non hanno il bilancio in pareggio, vanno in default e nessuno li assiste. Allo stesso tempo, però, c’è il motore federale che si accende e c’è un’enorme spinta espansiva, dovuta al fatto che l’azione del Governo federale e il Tesoro americano favoriscono la crescita e l’occupazione. Questo è il compromesso su cui si reggono gli Stati Uniti, che certamente ha i suoi problemi e i suoi limiti, ma i dati ci dicono che, pur con tutti i problemi, sta funzionando molto meglio del compromesso europeo, che spinge gli Stati a rispettare il rigore di bilancio, ma poi non ha il motore federale che si accende e spinge la crescita. Dunque è stata inventata la flessibilità, che ci tiene in vita in questo momento. Se ci togliamo questo ossigeno, soffochiamo. Altro è dire che questo ossigeno, quel poco che c’è, va usato in maniera intelligente. Qui le parole chiave sono due: una è la parola “riforme”, l’altra è la parola “investimenti”. Le riforme sono necessarie, perché sono gli scarponi che usiamo per camminare su quel crinale così sottile e scivoloso che separa i due precipizi che abbiamo ai lati del nostro cammmino: da un lato lo spread, dall’altro la recessione. Se indossiamo scarpe con le suole lisce, è facile scivolare e precipitare. Se abbiamo i ramponi, è più facile camminare con passo sicuro e possiamo anche accelerare il ritmo del nostro passo. Fuor di metafora, ciò vuol dire che gli 800 miliardi di euro di spesa pubblica devono essere riqualificati, posto che non possono crescere, ma semmai devono diminuire un po’. Per farli diminuire un po’ e produrre crescita e uguaglianza sociale li dobbiamo riqualificare, ristrutturando la spesa pubblica, attraverso le riforme, cominciando dall’alto, ovvero dal Parlamento. Se infatti il Parlamento non funziona, non funziona lo Stato e, se non funziona lo Stato, l’economia va a farsi benedire. Questo è un concetto di normale buon senso: poi possiamo discutere sul merito di come si riorganizzano il Parlamento, il Governo di un Paese e lo Stato. Dire però che questo sarebbe un diversivo non ha senso, perché sarebbe come dire che non ci importa nulla della qualità delle nostre scarpe, mentre dobbiamo camminare su un tratto esposto e quindi pericoloso.
Renzi a Ventotene ha provato a rilanciare il sogno europeo. Ma qualche giorno dopo si è frantumato. Quanto pesa Renzi in Europa?
Renzi si trova a governare l’Italia nel pieno della crisi più grave del progetto europeo dal 1957 ad oggi. Ventotene e Bratislava sono due eventi che insieme ci descrivono perfettamente lo stato attuale della questione europea. Innanzi tutto ci dicono entrambi che i paesi che hanno sulle spalle la responsabilità più grande rispetto al futuro dell’Europa sono Germania, Francia e Italia: se i tre grandi fondatori agiscono in modo solidale e coeso, gli altri seguono. Se invece si fermano, la forza centrifuga prevale su quella centripeta e il progetto europeo entra in crisi. A Ventotene, dinanzi alle radici della più grande utopia storico-concreta che il Novecento ci abbia trasmesso in eredità e di fronte alla vista del Mediterraneo, con le sfide gigantesche che i suoi precari equilibri devono fronteggiare, sembravano prevalere la consapevolezza, la responsabilità e la solidarietà. Viceversa, a Bratislava, sono riemersi con prepotenza i conflitti fra interessi nazionali, secondo il copione tipico del procedimento intergovernativo. La prossima primavera l’Italia ospiterà il vertice programmato per celebrare il 60º anniversario dei Trattati di Roma: anche per questo abbiamo bisogno che il nostro paese arrivi alla prossima primavera, forte di una confermata stabilità di governo e di un riaffermato indirizzo politico riformatore.

giovedì 13 ottobre 2016

notiziona...

Virginia Raggi in coda a Fiumicino per un volo Low Cost... 

...i ben informati mi dicono che il sindaco Veltroni volava low cost. "All'arrivo a Ciampino fui avvicinata da uno dello staff che mi comunicò che il sindaco chiedeva di non avere alcun trattamento di favore, che avrebbe fatto le file necessarie. Gli offrii un imbarco separato da un gate dedicato, rifiutò e non ci fu verso di convincerlo".
Quel giorno Veltroni era su un volo Ryanair con Rutelli e Mario Segni.
Senza un selfie e neanche una foto sul Corriere!

 

D'Alema partito

D'Alema oggi ha riunito in una manifestazione per il no Fini e Cirino Pomicino, Rodotà e Gasparri, i leghisti e Civati, Ingroia e Romani. E da lì ha accusato il Pd e Renzi di aver fatto il partito della nazione.

i Monumenti le nostre Università e il Mondo

Gianni Riotta
Tantissimi docenti universitari vanno spiegando in questi giorni le ragioni del loro voto contro la riforma costituzionale, in lunghi appelli, lunghi libri, lunghi documenti, lunghe conferenze e comizi (anche le note a piè di pagina sembrano lunghette). Li leggo con ammirazione e rispetto, sempre pronto a imparare per poi poter votare in coscienza e senza pregiudizi o settarismi. Nel frattempo, mentre studio e mi informo, leggendo quelle prose sterminate, quei paragrafi alluvionali, quei riferimenti boriosi senza mai un filo di didattica, penso di non sapere se davvero quei regesti influenzeranno il No che sponsorizzano. Ma di certo sono prove monumentali della crisi della nostra università, conclamata purtroppo da ogni classifica e confronto internazionali, per noi ormai sempre spietati. Vedete? Si impara sempre qualcosa nello studio, se non magari quel che cercavate a prima vista.

mercoledì 12 ottobre 2016

ultimi raggi...

Renzi: “Raggi vuole i soldi delle Olimpiadi anche senza Olimpiadi? Invieremo richiesta al Cio…”

Marino....Marino

"Ora girerò l'Italia per dire no al referendum". Di Marino impressiona sempre la tempestività, la misura, la modestia, l'acume politico.

martedì 11 ottobre 2016

Caro Smuraglia, ma veramente pensa che un sindaco non possa manifestare per il Sì?


Fabrizio Rondolino
L'Unità 11 ottobre 2016
Attacco a Sala, “che rappresenta tutti”. Ma per de Magistris non una parola
Carlo Smuraglia, presidente pro tempore dell’Anpi, è un Noista della prima ora.
Il suo entusiasmo lo ha portato a schierare l’associazione dei partigiani d’Italia nella campagna referendaria, sebbene sia evidente a tutti – e soprattutto a chi crede che i valori della Resistenza siano universali, che l’antifascismo appartenga a tutti gli italiani, e che i partigiani votavano e votano per molti partiti diversi – che la riforma del Senato e del Titolo V non abbiano nulla a che fare con la ragione sociale dell’Anpi.
Lo strappo di Smuraglia, com’è noto, ha innescato polemiche a non finire, costringendo un gran numero di partigiani a smentire pubblicamente il loro presidente schierandosi per il Sì, e seminando sconcerto e amarezza fra le decine di migliaia di iscritti all’Anpi (la stragrande maggioranza) che, pur non avendo mai fatto per ragioni anagrafiche il partigiano, si sentono legati sentimentalmente e politicamente alla Resistenza e non riescono a capire perché mai la loro associazione debba contrastare con tale violenza una riforma che tutti (e soprattutto tutta la sinistra) per trent’anni hanno affermato di voler fare.
Secondo la classica abitudine nostrana dei due pesi e delle due misure, ora Smuraglia muove all’attacco del sindaco di Milano, Beppe Sala, reo di voler votare Sì al referendum.
“Nella mia concezione – sostiene Smuraglia – il sindaco rappresenta tutti i cittadini. Trovo improprio che si organizzi una manifestazione di sindaci per il Sì, perché una parte dei cittadini in quel momento non si sentirà rappresentata. Non voglio dire a Sala cosa deve fare, ma se andrà il 27 ottobre a Roma a quella manifestazione una parte dei milanesi dirà ‘oggi sono senza sindaco’.”
A parte il fatto che Smuraglia non ha pronunciato neppure una sillaba quando il sindaco di Napoli ha addirittura schierato formalmente tutta la sua giunta per il No al referendum, facendole approvare una grottesca delibera contro “il rischio di deriva autoritaria”, colpisce nella presa di posizione del presidente pro tempore dell’Anpi l’idea che ad un sindaco (non all’Anci, che li rappresenta tutti) sia vietato esprimersi a favore della riforma, mentre invece un’associazione, che dovrebbe rappresentare tutti i suoi iscritti (i quali, com’è noto, sul referendum hanno opinioni opposte), possa tranquillamente schierarsi contro.
Un pochino di equilibrio non guasterebbe.

Bersani l'esercito e la perdita di equilibrio


Matteo Richetti
11 ottobre 2016
Mi sono taciuto. Ieri e oggi. Pensando che avrei potuto provocare maggiori asprezze di quante già non ve ne fossero. Ma considerato che tutto accade "a prescindere", tanto vale dire la mia. Il segretario del Pd, in un plastico tentativo di tenere unito il partito, ci ha proposto una discussione su questioni già oggetto di sintesi nel Pd. La legge elettorale è stata approvata dopo diverse modifiche proposte dalla minoranza, idem per quanto riguarda la riforma della Costituzione. Ma pur di non lasciare nulla di intentato, Renzi ha riaperto il dibattito, surreale se pensiamo che siamo di fronte a provvedimenti chiusi e approvati. Ancora. Il segretario in maniera puntuale rimette in discussione i punti chiave dell'italicum contestati dalla minoranza e definisce la modalità con cui va sciolto il tema della elezione dei nuovi senatori. "Aperture modeste" sono le repliche fino a "toni inaccettabili da Renzi", pronunciato questa mattina da un collega. Poi il tocco finale "per cacciarmi ci vuole l'esercito". Mi chiedo: cosa induce a creare un clima fatto di volontà che nessuno manifesta? Perché se arrivano risposte puntuali ai problemi posti non arriva una conseguente volontà a trovare una soluzione insieme? E le argomentazioni di chi invece quei provvedimenti li ha votati con convinzione hanno meno dignità dei ripensamenti post voto? Ma soprattutto: perché voler rispondere "nessuno mi caccia" ad una segretario che testualmente conclude "siamo l'unico grande partito che discute e rispetta il pluralismo"? Si creano paure e minacce quando mancano argomentazioni vere. E se mancano argomentazioni vere manca consistenza. E allora tranquilli: nessuno caccia l'inconsistenza.

La soluzione non è andar via di casa


Sergio Staino
L'Unità 10 ottobre 2016
Perché questa minoranza Dem non ha imparato a girare le strade, come ci dice Pavese? Perché non si sono immersi nel lavoro e nello studio approfondito della vittoria di Renzi e della loro sconfitta?
Alla fine degli anni cinquanta, quando ero adolescente, si diffuse in Italia l’uso del Ducotone, una tempera lavabile dai colori vivacissimi e facile a stendersi sulle pareti, con cui rendere più allegri i tristi condomini di recente costruzione. Inusitati colori gialli, arancio, rossi, blu cercavano di rallegrare la vita di noi inquilini arrivati freschi freschi dalle campagne. Ricordo di aver colorato di blu la parete su cui era poggiata la fiancata del mio letto, arricchendola poi di disegni ispirati ai cavalli e ai bufali della grotta di Altamira. Sotto questo disegno, incisa con la punta di un chiodo, una scritta: «Traversare una strada per scappare di casa lo fa solo un ragazzo, ma quest’uomo che gira tutto il giorno le strade, non è più un ragazzo e non scappa di casa».
Era un brano di Pavese, da Lavorare stanca, che mi aveva fortemente emozionato. Mi aveva fatto capire che quelle inquietudini giovanili che ribollivano dentro me e i miei coetanei, quella voglia di uscire fuori in modo finalmente libero e autonomo, avevano senso solo se ti confrontavi con la realtà in cui eri immerso. Se lo facevi così, tanto per dare un segnale di indipendenza fine a se stesso, quello scappare da casa non aveva alcun senso.
Ecco, proprio quella frase avrei pronunciato se mi fosse stata data la possibilità di parlare alla direzione di ieri. Una direzione a mio avviso molto deludente, che ha visto ripetersi in forma ormai fiacca e stanca posizioni di apertura molto minimali da una parte e di assurda chiusura dall’altra. Un gioco già visto, e purtroppo fortemente inquinato dall’assurda voglia di alcuni compagni di traversare questa strada e scappare di casa.
Perché questa minoranza Dem non ha imparato a girare le strade, come ci dice Pavese? Perché non si sono immersi nel lavoro e nello studio approfondito della vittoria di Renzi e della loro sconfitta? Perché non hanno cercato il modo di valorizzare le cose buone che comunque nella gestione del partito e, soprattutto, del governo ci sono? Capisco che non è un lavoro facile, anzi, per rimanere in tema, possiamo dire che è un lavoro che stanca. Molto più facile arrabbiarsi e criticare senza proporre nulla. Capisco anche che il compito è stato reso difficile da affermazioni spesso offensive nei confronti della minoranza. In certi momenti è sembrato proprio un dialogo tra sordi. Ma io mi sono formato con loro, con loro ho convissuto per decenni, e da loro ho imparato come si fa politica.
E ora mi accorgo con sconforto che molti di loro hanno perso proprio il senso del fare politica. Perché? Per quale ragione hanno rifiutato le tante aperture che il segretario del partito ha offerto loro, dalla direzione del partito a quella de l’Unità? Perché hanno scelto la strada di cercare comunque lo scontro e approfittare di ogni sbavatura, di ogni momento critico, per segnare una linea di demarcazione tra buoni e cattivi? Io non lo capisco. Abbiamo passato insieme moltissime stagioni politiche, stagioni che ci hanno fatto crescere e qualche volta anche vincere, ma che sono sempre state costellate, ovviamente, da numerosissimi errori: quando abbiamo trattato con ferocia ogni socialista, quando mi hanno costretto a votare Dini, quando abbiamo imbarcato Di Pietro, forse anche quando abbiamo fatto il Pd così frettolosamente, tanto per citare i primi che mi vengono in mente.
La stessa elezione di Renzi a segretario del partito non deriva certo dal caso, bensì dal terribile errore di superficialità e superbia fatto proprio da quel gruppo dirigente che oggi decide di votare “No”.
Il classico suicidio del “tanto peggio, tanto meglio”. Tutto questo mi dà un dolore enorme perché impoverisce la ricchezza del Pd, la sua polifonia, la sua dialettica interna, e pone una grossa ipoteca sulla sopravvivenza di un’area di sinistra all’interno del nostro partito.
Oggi l’Europa è preda di tensioni terribili e i populismi si allargano con voracità su di essa, e voi, compagni miei, invece di guardare quest’isola ancora fertile di buoni propositi che è l’Italia, rischiate di perdervi come i Bertinotti di un tempo a guardare il vostro ombelico. Cercate di ritornare in voi, di riconquistare quella capacità di vivere unitariamente anche i momenti più difficili.
A me l’ha detto anche Molotov, l’amico fraterno di Bobo: «Ricorda, qualunque cosa sbagliata faccia Renzi, noi ex del Pci l’abbiamo fatta prima». E soprattutto, aggiungo io, l’abbiamo superata tutti insieme.

lunedì 10 ottobre 2016

Bersani....irriconoscibile!!!


Pierluigi Castagnetti
10 ottobre 2016
Dunque Bersani ha dichiarato, il giorno prima della Direzione del Pd convocata per discutere le modifiche all'Italicum, che lui voterà No al referendum sul testo di Riforma costituzionale che pure aveva già votato in parlamento. Posso dire che conoscendolo ed essendogli amico da 36 anni (abbiamo cominciato insieme nel consiglio regionale dell'Emilia Romagna nel 1980) sono molto sorpreso: credo che anche lui sia condizionato da un suo cerchio magico che lo rende da un po' di tempo se non autoreferenziale sicuramente chiuso e distante da ciò che gli è esterno. A ciò si è aggiunta l'esigenza di difendere il proprio pezzo di ditta. Sono stato segretario di partito anch'io e so che questa missione è seria e non detestabile, ma non si persegue alzando paletti, difendendo tutti e tutto il passato e, soprattutto, rinunciando a competere sul piano della proposta con chi ritieni stia sbagliando.
A proposito del referendum da vari mesi Bersani sostiene la tesi che la riforma in sè va bene, ma il "combinato disposto" con la legge elettorale la espone al rischio di deriva autoritaria non foss'altro perchè il Capo si elegge il suo parlamento. Premesso che questo è avvenuto anche in regime di porcellum in cui lui ha operato e che lui ( e non solo) ha qualche responsabilità per aver ostacolato il ripristino del Mattarellum quando era possibile, adesso Renzi ha dichiarato la sua disponibilità a cambiare la legge elettorale togliendo tutti i "nominati" e introducendo altre modifiche subito dopo il voto referendario. "Chiacchiere" è stato il suo commento nell'intervista al Corriere di stamattina.
Certo non può pretendere che la modifica dell'Italicum avvenga prima del 4 dicembre, perché non ci sono i tempi (il parlamento deve approvare la legge di bilancio), non ci sono le condizioni (le opposizioni sono indisponibili a discuterne prima del referendum), non si conosce l'esito del referendum (decisivo, perché a seconda dell'esito cambia il contenuto della legge), non sono note le decisioni della Corte sulla materia (annunciate per il periodo immediatamente successivo al 4 dicembre), non sarebbe opportuno infine perché un dibattito sulla legge elettorale ora "coprirebbe" la campagna elettorale referendaria.
Dunque, perché allora, dopo aver chiesto a Renzi un impegno preciso, ora, con questa intervista,non attende neppure la risposta e annuncia il proprio No?
Come non sospettare una premeditazione, piuttosto grave?
Si è voluto sparare con l'arma finale, costi quel che costi? Non essendo difficile immaginare le conseguenze, la prima delle quali è la riconsegna del paese alla destra (politica o/e populista che sia).
Se fosse così, lo ribadisco, non riconoscerei Bersani.

sabato 8 ottobre 2016

Rodotà ....lezione di stile


Giorgio Tonini
8 ottobre 2016
Su "Repubblica" di oggi, Stefano Rodotà lamenta il carattere "per molti versi violento" che sta assumendo la campagna referendaria e paventa un esito di delegittimazione del risultato, qualunque esso sia, agli occhi di una parte significativa del paese. Non ha tutti i torti, anzi ha molte ragioni. E tuttavia, nel prosieguo dell'articolo, nemmeno lui riesce a resistere alla tentazione di gettare la sua brava tanica di benzina, sul fuoco della polemica intollerante e faziosa. Contro la riforma costituzionale, Rodotà ripropone, nel modo più radicale e urticante ("È perfino imbarazzante, per la pochezza dei contenuti e del linguaggio — scrive ostentando aristocratico disprezzo — leggere il testo" approvato dal Parlamento...), i soliti tre argomenti che il fronte del No continua ad usare, incurante di qualunque replica "di merito" da parte degli autori e dei sostenitori della riforma.
Il primo argomento è la "preoccupazione per le forme di concentrazione del potere", fino a mettere in discussione gli "equilibri istituzionali", indotta dal famoso "combinato disposto" della riforma del bicameralismo e di quella della legge elettorale. Rodotà sembra dunque voler ignorare, per partito preso, le pacate e puntuali risposte dei sostenitori della riforma, che hanno dimostrato, numeri alla mano, l'impossibilità assoluta, per il vincitore del premio di maggioranza previsto dall'Italicum alla Camera, di eleggere, senza coinvolgere almeno una parte dell'opposizione, il presidente della Repubblica, i giudici costituzionali e le altre istituzioni di garanzia, o di modificare la Costituzione. Rodotà sembra dissentire dallo stesso documento dei giuristi per il No, i quali precisano all'inizio del loro testo critico: "Non siamo fra coloro che indicano questa riforma come l’anticamera di uno stravolgimento totale dei principi della nostra Costituzione e di una sorta di nuovo autoritarismo". Non è tutto: Rodotà prende le distanze anche dalla posizione di quegli esponenti del Pd che fanno dipendere il loro Sì al referendum da una immediata riforma della legge elettorale. "Le modifiche all'Italicum — scrive — non potrebbero comunque avere l'effetto di rendere accettabile la riforma". Come contributo alla distensione degli animi, all'avvicinamento delle posizioni e alla ricerca di un compromesso che eviti la spaccatura del paese, davvero non c'è male.
Il secondo argomento è quello del "pasticcio": "per liberarsi del tanto deprecato bicameralismo paritario si è approdati ad un bicameralismo che generosamente potrebbe esser detto pasticciato". Grazie, professore, della generosità, ma su quali pezze d'appoggio si fonda una simile stroncatura? Su una e una sola: gli studiosi non concordano su quanti siano i procedimenti legislativi previsti dalla riforma. Dunque, siccome il dibattito è confuso, confusa deve essere la norma. Non sono un costituzionalista, ma sono un parlamentare anziano (e credo di poter dire esperto) e per me il testo della riforma è un capolavoro di chiarezza e certezza: il procedimento ordinario vede la prevalenza della Camera, con il Senato che può solo proporre modifiche, mentre solo per alcune, ben individuate e definite tipologie di leggi (tipologie, non materie!) il procedimento rimane, in via eccezionale, perfettamente paritario. Si tratta delle leggi di revisione della Costituzione e di altre, elencate in modo noiosamente pignolo, leggi di sistema che hanno a che fare con le regole del gioco. Questa demarcazione è il cuore della riforma, che affianca al principio "monista" della fiducia espressa da una sola Camera (eletta con un sistema maggioritario, in modo da rendere l'elettorato arbitro della contesa per il governo e il governo responsabile dinanzi all'elettorato), il contrappeso "pluralista" di un Senato eletto con una fonte di legittimazione diversa da quella della Camera (e dunque autonomo dal circuito fiduciario elettorato-parlamento-governo) e proprio per questo presidio della indisponibilità delle garanzie per la sola maggioranza di governo. Stupisce che Rodotà voglia ignorare queste positive conquiste, al tempo stesso democratiche e liberali, della riforma, per cedere anche lui agli stilemi di quella campagna rozza e volgare che pure intende stigmatizzare.
Il terzo argomento è quello del Senato ridotto a "dopolavoro" di sindaci e consiglieri regionali, che si troveranno, si sostiene, nell'impossibilità di conciliare i due ruoli. Dunque, per Rodotà, anche il Bundesrat tedesco e il Senato francese sono dopolavori, essendo entrambi questi organi (per altri versi diversissimi tra loro) composti da amministratori in carica. L'abbaglio è il frutto di una sovrapposizione del modo di lavorare dell'attuale Senato (definito da Mortati "inutile doppione della Camera") con quello del nuovo, che avrà tempi e ritmi totalmente diversi: la seconda camera tedesca, ad esempio, si riunisce una volta al mese. Anche qui, da un giurista della statura di Rodotà, ci si sarebbe aspettata qualche considerazione meno triviale. Ad esempio la constatazione che questa è la prima volta che si è riusciti a rimuovere, col consenso attivo della maggioranza dei senatori, il vincolo politico dell'elezione diretta dei senatori. Un vincolo, prodotto dalla storica indisponibilità dei senatori a "suicidarsi", fosse anche per il bene della patria, che aveva reso impossibile una chiara demarcazione delle competenze tra Camera e Senato, costringendo sia la bicamerale D'Alema, che il testo approvato dal centrodestra nel 2006, a tortuose e (quelle sì) "pasticciate" sovrapposizioni, foriere di inevitabili conflitti di competenza tra le due Camere. È difficile infatti realizzare una vera differenziazione di funzioni, mantenendo l'attuale identità di legittimazione. Il vero merito di Renzi, condiviso con Napolitano, è stato quello di essere riuscito a sbloccare uno stallo pluridecennale, aprendo la strada ad una riforma chiara nelle intenzioni e solida nella realizzazione. Una riforma che può non essere condivisa, ma può e deve essere rispettata. Tanto più da quanti, come Rodotà, giustamente invocano un confronto meno divisivo e più attento a preservare un terreno di valori comuni.

giovedì 6 ottobre 2016

comportamenti

Vittorio Zucconi
Tre comizi al giorno di Barry Sanders a sostegno di chi lo ha sconfitto alle primarie Dem e ora guida il partito. Tutto come nel PD, insomma.

mercoledì 5 ottobre 2016

truffa?


IL QUESITO REFERENDARIO POTEVA ESSERE SCRITTO IN DUE MODI. IN SOLI DUE MODI:
1)
«Approvate il testo di revisione degli articoli 48, 55, 57, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 64, 66, 67, 69, 70, 71, 72, 73, 74, 75, 77, 78, 79, 80, 81, 82, 83, 85, 86, 87, 88, 94, 96, 97, 99, 114, 116, 117, 118, 119, 120, 121, 122, 126, 131, 133, 134 e 135 della costituzione, concernente “disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione”, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?»
2)
«Approvate il testo della legge costituzionale concernente “disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione”, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?»
La Corte di Cassazione ha optato per la formula 2.
Dove sta la truffa?


martedì 4 ottobre 2016

Un ponte non basta.

Graziano Delrio
3 ottobre 2016
In questi giorni ho parlato molto di Mezzogiorno e di infrastrutture. Prima a Teano poi a Bagnoli poi ai giovani democratici a Roma ed infine con intervista di ieri al Corriere. Ovviamente l'attenzione di tutti i media si concentra sul tema del ponte sullo Stretto. Mia moglie Anna e anche molti amici ambientalisti, da Ermete a Rossella, mi hanno manifestato qualche perplessità e critiche (benvenute!) perché sembriamo non mettere in fila le priorità e confondiamo la gente. Avevo letto nei giorni scorsi una bella Amaca di Michele Serra, che spesso condivido, che invitava la politica ad essere seria, a stimolare dibattiti sul modello di sviluppo che uno ha in testa e che promuove. Così provo a chiarire con queste righe cosa abbiamo in testa. Forse può iniziare una discussione che aiuta anche noi a decidere. Almeno spero. Ma comunque mi sento in dovere di dire la parziale verità che colgo dal mio osservatorio. Sono piuttosto anziano e quindi non riesco a sintetizzare il punto di vista in poche battute quindi pazientate. Partiamo.
Il dibattito sul ponte non mi interessa. Non lo considero una priorità e non lo sento come un problema. Il ponte non è il progetto ma è parte di un progetto. Considero una cavolata enorme pensare che le grandi opere siano lo sviluppo del paese: sono strumenti e non fini. Non vi sono grandi o piccole opere ma opere inutili ed opere utili.
Basta un centinaio di metri di binario in un porto, di congiunzione con la linea ferroviaria, per togliere centinaia di camion da un centro abitato. Un'opera utilissima. Ed è chiaro che le opere sono utili od inutili a seconda del modello di sviluppo che uno ha in testa: noi vogliamo spostare il 30% delle merci dalla gomma al ferro nei prossimi tre anni. Per questo abbiamo tolto incentivi alla gomma e messi sul trasporto ferro e via mare. Per questo abbiamo finanziato completamente (1,2 mld) l'ammodernamento dei corridoi merci italiani. A questo indirizzo si rifà anche il nuovo piano industriale di FS che investirà 1,5 mld nella parte merci e logistica dopo anni di stallo che hanno portato il trasporto merci su ferro in Italia sotto il 6%. Per questo dobbiamo utilizzare la linea AV entro il 2018 anche per trasporto merci, rendendo pienamente utile l'investimento sull'alta capacità. E per questo abbiamo approvato un nuovo piano di logistica integrata. La cura del ferro: parte prima.
Poi vogliamo cambiare passo sul trasporto pendolari e passeggeri regionali.
Non è una intenzione. Abbiamo stanziato 1,5 mld per il potenziamento dei corridoi regionali nell'ultimo contratto 2016 a favore di Rfi. Ma anche per i prossimi 10 anni vi saranno 32 mld per lo sviluppo della rete storica non Alta Velocità. Quindi più risorse che per l'AV. Significa concretamente il ripristino della linea Palermo-Trapani interrotta da tempo e la velocizzazione della Palermo-Agrigento. O l'intervento sulla linea storica della Sardegna dopo anni. Mettere al centro il trasporto pubblico urbano e regionale. Rinnoviamo anche tutto il parco mezzi dei treni regionali. Già dal 2014 abbiamo messo il 20% di nuovi treni e investiamo 4,5 mld nei prossimi 5 anni per completare l'acquisto di 450 nuovi mezzi. Gara già aggiudicata, non auspici. Nuovi treni con spazi anche per le bici ...e le stazioni riqualificate con depositi bici! Non più viaggi della speranza per studenti e lavoratori. E lasciatemi ricordare che, per la prima volta dopo anni, con le decisioni di agosto, finanziamo con 1,4 mld un nuovo piano di potenziamento delle metropolitane e del trasporto ferro nelle città. La cura del ferro: parte seconda.
Dentro a queste scelte io credo vada data una ulteriore priorità: ridare al Mezzogiorno d'Italia una rete di connessioni di livello europeo.
Oggi in treno sono necessarie 10 ore e mezza per raggiungere Palermo da Roma. E sono invece solo 3 per raggiungere Milano da Roma. Non può resistere un Paese spezzato in due. La nostra scelta va nella direzione di potenziare i corridoi ferroviari europei che attraversano l'Italia. Sono opere utili a tenerci dentro allo sviluppo. Le città attraversate dalla rete Alta Velocità migliorano economicamente e hanno più opportunità di sviluppo. Pensiamo anche a città medie come Siviglia e Lione. Il ministero spagnolo valuta in 11 mld l'impatto della rete AV sul Pil delle città. L'AV Napoli Palermo e' un progetto di valenza non solo trasportistica ma sociale ed economica. Nei nostri programmi il Sud ha 4 principali direttrici ferroviarie. La dorsale adriatica, la Napoli Bari, la dorsale tirrenica e l'Alta Velocità in Sicilia.
La dorsale adriatica: stiamo investendo (210 mln) nella velocizzazione del tracciato con le nuove tecnologie e nel superamento del collo di bottiglia di Termoli-Lesina su cui quest'anno abbiamo riversato i 550 mln necessari ai lavori. I lavori sulla dorsale includono anche l'investimento di 400 mln per il nodo di Bari e i finanziamenti alle tratte di accesso alla dorsale quali la Bari Taranto (470 mln, lavori in corso) e la Potenza Foggia (200 mln, lavori in corso). Si potrà così viaggiare entro il 2018 sulla Adriatica alla velocità media europea e guadagnare circa un'ora fra Bologna e Lecce. Quest'anno abbiamo già sperimentato il collegamento con Frecciarossa sia su Bari che su Lecce.
La Napoli Bari: la AV qui e' già realtà. I lavori che abbiamo sbloccato alla bellissima stazione di Afragola circa un anno fa, termineranno fra sei mesi. Le tratte sono tutte in progettazione in appalto o in lavorazione con 600 operai attivi e i finanziamenti disponibili sono oltre i 4 mld: prevediamo di concludere i lavori entro il 2021 per l'80% del tracciato. La riduzione dei tempi sarà importante: da 3,40 h necessarie fra Napoli e Bari si passerà a 2 h. Collegheremo finalmente in maniera stabile due grandi capitali di cultura e industria.
L'Alta Velocità in Sicilia: anche qui abbiamo cominciato i cantieri nel nodo di Catania e di Palermo.Complessivamente abbiamo 3,6 mld disponibili e a regime si potrà percorrere il tratto fra Messina e Catania in 45 min e il tratto da Catania a Palermo in meno di un'ora e 45.
La dorsale Tirrenica: qui abbiamo cantieri per la velocizzazione in corso per 230 mln. Obbiettivo, come per la dorsale Adriatica, e' di raggiungere entro il 2018 velocità e sicurezza molto migliori. Ma il corridoio tirrenico deve avere un investimento infrastrutturale come gli altri corridoi AV. Per questo stiamo sviluppando un progetto di fattibilità che renda possibile almeno portare la velocità max ai 200 km/ora.
Questi 4 direttrici diranno se la sfida di portare il Sud in Italia si vince o meno. Se vogliamo sviluppare l'economia di tutto il Paese ed offrire opportunità alle imprese ed ai giovani dobbiamo procedere spediti con maggiori connessioni ferroviarie nel Mezzogiorno. Con progetti non faraonici ma rispettosi dei territori rivisitando schemi di trent'anni fa quando la tecnologia nei trasporti era ai primi passi.
Lo abbiamo già fatto su altri corridoi in questi primi anni. Invece di 7 mld abbiamo messo 300 mln in tecnologia fra Venezia e Trieste e avremo risultati ottimi. Spendere miliardi per guadagnare 15 minuti mi pare sbagliato. Rendere la linea veloce come in Germania o in Austria è, invece, giusto. Così abbiamo ridotto i 54 km di nuova linea AV in Val di Susa a soli 14 km di galleria e utilizzeremo la linea esistente che con nuova tecnologia sarà adatta allo scopo. Risparmieremo 2,6 mld. E lasceremo la valle senza nuovi viadotti. Non abbiamo paura di progetti sobri ma efficaci. Ed eccoci finalmente al ponte.
La dorsale Tirrenica e l'Alta Velocità in Sicilia sono i pezzi decisivi, ma rimane difficile pensare al corridoio Napoli Palermo senza il ponte. Che non è il progetto ma è parte del progetto. Un progetto che può portare la percorrenza fra Napoli e Palermo dalle 10 ore e mezza attuali alle 6 e 20 a regime. Un progetto di un Paese più unito. Dove anche i territori più fragili e lontani hanno il diritto alla mobilità e ad essere connessi con il Paese e con l'Europa. Ne possiamo discutere con serenità?
Il progetto Casa Italia con il piano per il dissesto
idrogeologico e l'edilizia scolastica, con il piano per la prevenzione sismica e gli stanziamenti straordinari per la sicurezza, cura e la manutenzione delle infrastrutture, con il piano per gli edifici culturali rendono la cura del ferro parte di un idea di Italia che abbiamo. Il piano della rete ciclabile nazionale, dei cammini e il piano della mobilità turistica sostenibile indicano la diversa direzione di sviluppo che vogliamo intraprendere.