mercoledì 27 luglio 2016

La mia lettera ai fratelli musulmani: denunciamo chi sceglie il terrore


di TAHAR BEN JELLOUN
"Dobbiamo scendere in massa nelle piazze e unirci contro Daesh". "Non abbiamo bisogno di obbligare le nostre donne a coprirsi come fantasmi neri"
L'Islam ci ha riuniti in una stessa casa, una nazione. Che lo vogliamo o no, apparteniamo tutti a quello spirito superiore che celebra la pace e la fratellanza. Nel nome "Islam" è contenuta la radice della parola "pace". Ma ecco che da qualche tempo la nozione di pace è tradita, lacerata e calpestata da individui che pretendono di appartenere a questa nostra casa, ma hanno deciso di ricostruirla su basi di esclusione e fanatismo. Per questo si danno all'assassinio di innocenti. Un'aberrazione, una crudeltà che nessuna religione permette.
Oggi hanno superato una linea rossa: entrare nella chiesa di una piccola città della Normandia e aggredire un anziano, un prete, sgozzarlo come un agnello, ripetere il gesto su un'altra persona, lasciandola a terra nel suo sangue tra la vita e la morte, gridare il nome di Daesh e poi morire: è una dichiarazione di guerra di nuovo genere, una guerra di religione. Sappiamo quanto può durare, e come va a finire. Male, molto male.
Perciò dopo i massacri del 13 novembre a Parigi, la strage di Nizza e altri crimini individuali, siamo tutti chiamati a reagire: la comunità musulmana dei praticanti e di chi non lo è, voi ed io, i nostri figli, i nostri vicini. Non basta insorgere verbalmente, indignarsi ancora una volta e ripetere che "questo non è l'Islam". Non è più sufficiente, e sempre più spesso non siamo creduti quando diciamo che l'Islam è una religione di pace e di tolleranza. Non possiamo più salvare l'Islam - o piuttosto - se vogliamo ristabilirlo nella sua verità e nella sua storia, dimostrare che l'Islam non è sgozzare un sacerdote, allora dobbiamo scendere in massa nelle piazze e unirci attorno a uno stesso messaggio: liberiamo l'Islam dalle grinfie di Daesh. Abbiamo paura perché proviamo rabbia. Ma la nostra rabbia è l'inizio di una resistenza, anzi di un cambiamento radicale di ciò che l'Islam è in Europa.
Se l'Europa ci ha accolti, è perché aveva bisogno della nostra forza lavoro. Se nel 1975 la Francia ha deciso il ricongiungimento famigliare, lo ha fatto per dare un volto umano all'immigrazione. Perciò dobbiamo adattarci al diritto e alle leggi della Repubblica. Rinunciare a tutti i segni provocatori di appartenenza alla religione di Maometto. Non abbiamo bisogno di obbligare le nostre donne a coprirsi come fantasmi neri che per strada spaventano i bambini. Non abbiamo il diritto di impedire a un medico di auscultare una donna musulmana, né di pretendere piscine per sole donne. Così come non abbiamo il diritto di lasciar fare questi criminali, se decidono che la loro vita non ha più importanza e la offrono a Daesh.
Non solo: dobbiamo denunciare chi tra noi è tentato da questa criminale avventura. Non è delazione, ma al contrario un atto di coraggio, per garantire la sicurezza a tutti. Sapete bene che in ogni massacro si contano tra le vittime musulmani innocenti. Dobbiamo essere vigilanti a 360 gradi. Perciò è necessario che le istanze religiose si muovano e facciano appello a milioni di cittadini appartenenti alla casa dell'Islam, credenti o meno, perché scendano nelle piazze per denunciare a voce alta questo nemico, per dire che chi sgozza un prete fa scorrere il sangue dell'innocente sul volto dell'Islam.
Se continuiamo a guardare passivamente ciò che si sta tramando davanti a noi, presto o tardi saremo complici di questi assassini.
Apparteniamo alla stessa nazione, ma non per questo siamo "fratelli". Oggi però, per provare che vale la pena di appartenere alla stessa casa, alla stessa nazione, dobbiamo reagire. Altrimenti non ci resterà altro che fare le valigie e tornare al Paese natale.

IL GRANDE ELETTORE ISIS


Sandro Albini
27 Luglio 2016
I drammatici eventi di questi giorni li abbiamo tutti subiti con il loro carico di orrore, angoscia, impotenza. Domanda: perché, a chi serve? Risposte difficili da trovare: pianificazione del terrore, guerra asimmetrica, emulazione, e così via. Certo, finché rimane in esercizio la casa madre del terrore (leggi Isis in Siria) il fascino del male continuerà a suscitare fedeli tra menti deboli, delinquenti e i tanti individui marginali che non hanno nulla da perdere. Quindi non è da scartare una intensificazione delle operazioni militari per schiacciare la testa del serprente(coinvolgendo anche Putin). La conseguenza più pericolosa sta nella paura che si insinua tra la gente comune la quale è portata a inseguire il bisogno di sicurezza affidandosi alle parole d'ordine delle destre e dei populismi. Un primo risultato è già stato conseguito: la Brexit. Gli Inglesi hanno ritenuto di mettersi al riparo uscendo dall'Europa. Vedremo negli USA a novembre cosa succede tra la Clinton e Trump. Ma l'anno prossimo si vota in molti paesi europei: si rischiano clamorosi successi di forze politiche il cui obiettivo sarà di radicalizzare lo scontro e ulteriormente depotenziare un'Europa già debole. Difficile per chi tenta di mantenere a dritta la barra della ragione impedire contaminazioni: abbiamo più volte constatato come il vento dell'irrazionalismo sia capace di travolgere tutto e tutte sul globo terracqueo preparando il terreno a disastri politici e socioeconomici spaventosi. Basta rileggere la storia dell'Europa dei secoli scorsi: guerre per il potere nobilitate da motivazioni religiose e/o ideologiche hanno prodotto orrore, atrocità e sangue in misura e qualità non inferiori rispetto ai tempi nostri. Per quel che ognuno di noi può fare bisogna dire basta ai cialtroni di qualunque parte (e da qualunque podio) che attizzano odio, per i quali ogni pretesto è buono per trasformare gli avversari in nemici promettendo essere loro la soluzione di tutti i problemi. Poi stringere sul rispetto delle regole da parte di tutti, compresi coloro i quali sono stati accolti non per replicare un loro "Stato" dentro il nostro, ma per offrire loro una opportunità. Ognuno è libero di praticare il proprio credo ma senza sovrapporlo allo Stato laico, le cui norme non possono essere affievolite per nessun motivo. E poi, se non si ricostituisce un tessuto civile fatto di relazioni, solidarietà, condivisione nei paesi, nei quartieri, nei condomini, nelle città diventa praticamente impossibile affidare la sicurezza alle sole forze dell'ordine: lo abbiamo visto, non possono essere in ogni luogo. Il "controllo sociale" declinato nella sua accezione nobile è l'unico modo per rendere e far sentire più sicuri i cittadini. Soluzioni miracolistiche non ne esistono e chi le propone è un pericoloso imbonitore. Ognuno di noi può compiere una azione utile: esprimere il proprio voto, quando vi siamo chiamati, non contro qualcosa o qualcuno ma dopo aver valutato nel merito contenuti e proposte. Per non lasciare all'ISIS il potere di decidere del nostro futuro.

martedì 26 luglio 2016

«Le risposte ai demoni che ci perseguitano»


Zygmunt Bauman
di Davide Casati, inviato a Bruxelles 
Alle radici dell’insicurezza che attanaglia la società europea con la riflessione
del sociologo e filosofo polacco. «Attenzione al fascino pericoloso di uomini forti»

Quella a cui stiamo assistendo — in modo così prossimo e sconvolgente, nelle ultime settimane — è un’epoca segnata «dalla paura e dall’incertezza. E non bisogna illudersi: i demoni che ci perseguitano non evaporeranno». Anche perché — spiega il filosofo e sociologo polacco Zygmunt Bauman, uno dei grandi pensatori della sfuggente modernità in cui viviamo — la loro origine ha a che fare con gli stessi elementi costitutivi della nostra società e delle nostre vite.
Professor Bauman, di fronte alla catena di attacchi di questi giorni, l’Europa si trova a fare i conti con un abisso di paura e di insicurezza. Quali risposte possono colmarlo?

«Le radici dell’insicurezza sono molto profonde. Affondano nel nostro modo di vivere, sono segnate dall’indebolimento dei legami interpersonali, dallo sgretolamento delle comunità, dalla sostituzione della solidarietà umana con la competizione senza limiti, dalla tendenza ad affidare nelle mani di singoli la risoluzione di problemi di rilevanza più ampia, sociale. La paura generata da questa situazione di insicurezza, in un mondo soggetto ai capricci di poteri economici deregolamentati e senza controlli politici, aumenta, si diffonde su tutti gli aspetti delle nostre vite. E quella paura cerca un obiettivo su cui concentrarsi. Un obiettivo concreto, visibile e a portata di mano».
Un obiettivo che molti individuano nel flusso di profughi e migranti.
«Molti di loro provengono da una situazione in cui erano fieri della propria posizione nella società, del loro lavoro, della loro educazione. Eppure ora sono rifugiati, hanno perso tutto. Al momento del loro arrivo entrano in contatto con la parte più precaria delle nostre società, che vede in loro la realizzazione dei loro incubi più profondi».
Di fronte a questa sfida, si moltiplicano i richiami da parte di alcune forze politiche alla costruzione di nuovi muri. Si tratta di una risposta sensata?
«Credo che si debba studiare, memorizzare e applicare l’analisi che papa Francesco, nel suo discorso di ringraziamento per il premio Charlemagne, ha dedicato ai pericoli mortali della “comparsa di nuovi muri in Europa”. Muri innalzati — in modo paradossale, e in malafede — con l’intenzione e la speranza di mettersi al riparo dal trambusto di un mondo pieno di rischi, trappole e minacce. Il Pontefice nota, con preoccupazione profonda, che se i padri fondatori dell’Europa, “messaggeri di pace e profeti del futuro”, ci hanno ispirato nel “creare ponti, e abbattere muri”, la famiglia di nazioni che hanno promosso sembra ultimamente “sempre meno a proprio agio nella casa comune. Il desiderio nuovo, ed esaltante, di creare unità sembra svanire; noi, eredi di quel sogno, siamo tentati di soffermarci solo sui nostri interessi egoistici, e di creare barriere”».
Nei suoi studi, lei ha indicato come valori fondativi delle nostre società la libertà e la sicurezza: dopo un’epoca in cui, per far crescere la prima, abbiamo progressivamente rinunciato alla seconda, ora il pendolo sta invertendo il suo corso. Quali riflessi politici ne derivano?
«Di fronte a noi abbiamo sfide di una complessità che sembra insopportabile. E così aumenta il desiderio di ridurre quella complessità con misure semplici, istantanee. Questo fa crescere il fascino di “uomini forti”, che promettono — in modo irresponsabile, ingannevole, roboante — di trovare quelle misure, di risolvere la complessità. “Lasciate fare a me, fidatevi di me”, dicono, “e io risolverò le cose”. In cambio, chiedono un’obbedienza incondizionata».
Sembra quello che sta proponendo il candidato alla presidenza degli Stati Uniti Donald Trump, le cui posizioni su sicurezza e immigrazione sono state di recente indicate dal presidente ungherese Viktor Orban come modelli anche per l’Europa...
«Quella a cui stiamo assistendo è una tendenza preoccupante: istanze di tipo sociale, come appunto l’integrazione e l’accoglienza, vengono indicate come problemi da affidare a organi di polizia e sicurezza. Significa che lo stato di salute dello spirito fondativo dell’Unione Europea non è in buona salute, perché la caratteristica decisiva dell’ispirazione alla base dell’Ue era la visione di un’Europa in cui le misure militari e di sicurezza sarebbero divenute — gradualmente, ma costantemente — superflue».
L’Islam è indicato da alcune forze politiche — ad esempio, la tedesca Pegida — come una fede intrinsecamente violenta, incompatibile con i valori occidentali. Che ne pensa?
«Bisogna assolutamente evitare l’errore, pericoloso, di trarre conclusioni di lungo periodo dalle fissazioni di alcuni. Certo: come ha detto il grandissimo sociologo tedesco Ulrich Beck, al fondo della nostra attuale confusione sta il fatto che stiamo già vivendo una situazione “cosmopolita” — che ci vedrà destinati a coabitare in modo permanente con culture, modi di vita e fedi diverse — senza avere compiutamente sviluppato le capacità di capirne le logiche e i requisiti: senza avere, cioè, una “consapevolezza cosmopolita”. Ed è vero che colmare la distanza tra la realtà in cui viviamo e la nostre capacità di comprenderla non è un obiettivo che si raggiunge rapidamente. Lo choc è solo all’inizio».
Siamo destinati quindi a vivere in società nelle quali il sentimento dominante sarà quello della paura?
«Si tratta di una prospettiva fosca e sconvolgente, ma attenzione: quello di società dominate dalla paura non è affatto un destino predeterminato, né inevitabile. Le promesse dei demagoghi fanno presa, ma hanno anche, per fortuna, vita breve. Una volta che nuovi muri saranno stati eretti e più forze armate messe in campo negli aeroporti e negli spazi pubblici; una volta che a chi chiede asilo da guerre e distruzioni questa misura sarà rifiutata, e che più migranti verranno rimpatriati, diventerà evidente come tutto questo sia irrilevante per risolvere le cause reali dell’incertezza. I demoni che ci perseguitano — la paura di perdere il nostro posto nella società, la fragilità dei traguardi che abbiamo raggiunto — non evaporeranno, né scompariranno. A quel punto potremmo risvegliarci, e sviluppare gli anticorpi contro le sirene di arringatori e arruffapopolo che tentano di conquistarsi capitale politico con la paura, portandoci fuori strada. Il timore è che, prima che questi anticorpi vengano sviluppati, saranno in molti a vedere sprecate le proprie vite».
Lei ha sostenuto che le possibilità di ospitalità non sono senza limiti, ma nemmeno la capacità umana di sopportare sofferenza e rifiuto lo è. Dialogo, integrazione ed empatia richiedono però tempi lunghi...
«Le rispondo citando ancora una volta papa Francesco: “sogno un’Europa in cui essere un migrante non sia un crimine, che promuove e protegge i diritti di tutti senza dimenticare i doveri nei confronti di tutti. Che cosa ti è accaduto, Europa, luogo principe di diritti umani, democrazia, libertà, terra madre di uomini e donne che hanno messo a rischio, e perso, la propria vita per la dignità dei propri fratelli?”. Queste domande sono rivolte a tutti noi; a noi che, in quanto esseri umani, siamo plasmati dalla storia che contribuiamo a plasmare, consapevolmente o no. Sta a noi trovare risposte a queste domande, e a esprimerle nei fatti e a parole. Il più grande ostacolo per trovarle, quelle risposte, è la nostra lentezza nel cercarle».

lunedì 25 luglio 2016

I PARLAMENTARI GRILLINI I LORO PRIVILEGI LI “PRIVATIZZANO”


Pietro Ichino
IL SENATORE GIARRUSSO, SICILIANO, APRE UNA PROPRIA “SEGRETERIA POLITICA”  A SCANDICCI NELL’APPARTAMENTO DI UN AMICO, ALLO SCOPO DI IMPEDIRNE LO SFRATTO PER MOROSITÀ
La lotta contro i privilegi della Casta si può fare in due modi: abolendoli, oppure estendendoli ai cittadini qualsiasi (magari incominciando dai propri amici: da qualcuno occorre pur incominciare). Il senatore Mario Giarrusso ha scelto questa seconda linea d’azione. Poiché un suo amico, tale sig. Tallarico, è a rischio di essere sfrattato per morosità, il parlamentare 5S siciliano ha pensato  bene di collocare nell’abitazione dell’amico, in via di Porto 193 a Scandicci, la sede di una propria “segreteria politica”. Così paralizzando la procedura di sfratto, in virtù dell’immunità da azioni esecutive di cui discutibilmente godono gli uffici dei parlamentari. In altre parole, il senatore ha posto una prerogativa strettamente legata alla sua carica pubblica al servizio dell’interesse esclusivamente personale di un privato cittadino, solo perché appartenente alla sua stessa parte politica. Visto il successo dell’operazione, pare che la Direzione 5S – pardon: la Casaleggio Associati – stia studiando una nuova campagna in tema di politica della casa centrata su questo slogan: “Problemi di sfratto? Rivolgiti ai nostri parlamentari”.

da che pulpito...

Il Giggi DCMaio che denuncia le campagne d'odio è come il birrario che denunciasse la birra.
Vittorio Zucconi

domenica 24 luglio 2016

Parisi, esordio con stecca


Chicco Testa
L'Unità 24 luglio 2016
Parisi si imballa nel momento in cui deve spiegare il No al referendum, ma questo è un piccolo prezzo da pagare al resto del centrodestra
Stefano Parisi, neocandidato a guidare il centrodestra italiano, dice in un’intervista al Foglio cose molto interessanti. Fino a un certo punto. Poi si imballa. Il sistema di valori e il programma che Parisi espone hanno un chiaro segno che potremmo definire liberal-socialista. Il giornalista che lo intervista gli fa notare maliziosamente che ci sono molti punti in comune con il programma del Pd e del Governo Renzi.
Libertà economica, amministrazione pubblica digitale e antiburocratica, politica estera filoaltlantica, semplificazione del processo legislativo, riforma garantista della giustizia, welfare consistente nei confronti dei più deboli, riforma e rilancio delle istituzioni europee. In effetti è cosi e non ci vedo niente di male. Anzi. Dipende poi naturalmente dal peso e dagli accenti che si vogliono dare alle diverse parti, ma il fatto che centrodestra e centrosinistra possano condividere alcune scelte di fondo mi sembra un buon segno. Così come mi sembra positivo il tono complessivamente moderato usato da Parisi. Lontano mille miglia dalle urla di Salvini e Brunetta.
Dove si imballa Parisi? Quando cerca di spiegare perché bisogna votare No al Referendum. Perché lì tutto il fervore riformista muore in una prospettiva che ci riporta pari pari alla Commissione Bozzi di alcune decine di anni fa. E Parisi mostra il vizio che un riformista non dovrebbe mai possedere. Il perfettismo. Dire no ad una riforma, perché astrattamente si potrebbe fare meglio. Dimenticando che le occasioni vanno colte quando si presentano, con i rapporti di forza dati e cogliendo le opportunità che si offrono. Pensare che il Parlamento possa mettere oggi all’ ordine del giorno nuovamente una riforma costituzionale con cosucce come l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, il rafforzamento del premierato, la trasformazione del Senato in una Camera costituente, queste sono le proposte di Parisi, significa sottovalutare completamente il quadro che deriverebbe da un eventuale vittoria del No e sopravvalutare la capacità di un Parlamento ormai consunto, balcanizzato e con i 5stelle con compiti di guastatori. Oltre a non risolvere il problema della prossima legge elettorale.
Il No al referendum è in realtà solo il prezzo che Parisi deve pagare al resto del centrodestra e capovolge la credibilità dell’intera operazione. Se per accontentare Salvini e Brunetta devi mettere in campo un libro dei sogni … be’questo è un errore che un riformista non dovrebbe mai fare. Perché si trasforma in un attimo in un velleitario sognatore. Alla fine poi non credo nemmeno che i suoi possibili partner si accontenteranno. Meglio sarebbe stato se Parisi avesse fatto il suo lavoro fino in fondo con coerenza, contribuendo a disegnare un campo completamente nuovo. Così invece rimane in mezzo al guado.

Rifondazione europea. Paura, populismo, austerità: il contrattacco della politica.


Fabrizio Rondolino
L'Unità 24 luglio 2016
L’ Assemblea nazionale del Pd che si è svolta ieri a Roma era stata convocata all’indomani del referendum britannico sull’uscita dall’Unione europea: “Una chiara sconfitta politica” che, ha detto Matteo Renzi, non soltanto non può essere negata, ma richiede di essere affrontata con determinazione e coraggio – cioè spingendo più avanti, molto più avanti di quanto sia stato fatto finora, il progetto europeista delle origini.
Da qui l’annuncio di un nuovo vertice a tre con Angela Merkel e François Hollande, dopo quello di Berlino del giugno scorso, che si terrà simbolicamente a Ventotene alla fine di agosto. Ma fra la convocazione dell’Assemblea e il suo svolgimento – il passo della storia sembra accelerare ogni giorno, e ogni giorno farsi più spietato e feroce – c’è stata la strage di Dacca, la strage di Nizza, il mezzo golpe turco seguito dal violento controgolpe di Erdogan, e infine la folle sparatoria di Monaco.
Il senso di disorientamento delle opinioni pubbliche occidentali è evidente, la debolezza delle reazioni dei governi – tanto nella prevenzione e nella gestione dell’emergenza terrorismo, quanto nella difesa concreta dei tanto sbandierati diritti umani – è sconfortante, così come sempre più fragile, alla vigilia delle nuove presidenziali austriache e del referendum ungherese, appare la stessa impalcatura comunitaria. Come in un fortino assediato da eserciti sconosciuti quanto determinati, pericolosi quanto divisi e persino ignoti tra loro, i governi europei devono affrontare simultaneamente la grande onda populista che, a torto o a ragione, trova proprio nell’establishment di Bruxelles il nemico pubblico numero uno, e la grande onda del terrore – e poco importa se jihadista o xenofobo, se frutto di un meticoloso addestramento o di una crisi di follia – che già sta modificando il nostro stile di vita e la nostra percezione del futuro.
Sullo sfondo (ma neanche tanto) la più lunga crisi economica di sempre che stenta a concludersi, soprattutto nei paesi strutturalmente più deboli come l’Italia, e, più in generale, un senso di frustrazione se non di depressione collettiva – la spiacevolissima sensazione, cioè, che le cose non torneranno mai più come erano prima. Non è semplice per la buona politica – che vive di emozioni, ma ha bisogno di razionalità – approntare le contromisure, preparare il contrattacco, o più semplicemente arginare le armate nemiche. La propaganda populista, nazionalista, xenofoba trova nella paura – quella innescata dalla recessione come quella alimentata quotidianamente dagli attentati – il suo combustibile più pregiato: il “derby fra paura e coraggio” – co sì Renzi ha riassunto il significato delle prossime elezioni americane – si gioca in realtà ovunque in Occidente, e segnatamente in Europa e in Italia.
Renzi difende i risultati ottenuti, a cominciare dalla flessibilità: “Se si fosse applicato il Fiscal Compact così come è stato inopinatamente votato, noi oggi avremmo avuto 30 miliardi di euro in più da pagare sull’altare dell’austerità”. Non è l’unico riferimento polemico ai suoi predecessori: “Non comprendiamo – ha aggiunto il premier-segretario – le dinamiche di alcune politiche europee, frutto di errori del passato quando abbiamo consentito alla tecnocrazia di decidere tutto sulle banche, sulla finanza e sul credito”.
Il principio è lo stesso, ed è una costante del renzismo: il primato della politica non soltanto sulla finanza ma anche, e soprattutto, sulle burocrazie statali e sovrastatali come chiave per una rifondazione europea fondata sul consenso dei cittadini. Il concetto è semplice, ma la sua attuazione richiederà un impegno straordinario.

martedì 19 luglio 2016

Riforme e Italicum, la strategia di Renzi per andare all’incasso


Fabrizio Rondolino
L'Unità 19 luglio 2016
La minoranza Pd presenta una proposta di legge elettorale? Franceschini propone modifiche? Bene: più si discute, più si blinda quanto già votato
C’ è una parte di sinistra (e non solo) che adora discutere, avanzare proposte, convocare convegni, interpellare esperti, istituire commissioni di studio, e infine predisporre progetti di riforma formalmente perfetti, salvo l’inconveniente di non venir mai approvati. La produzione di proposte a mezzo di proposte è stata, in materia costituzionale ed elettorale, l’attività dominante dagli anni Ottanta in poi: e ogni sconfitta – cioè ogni mancata riforma – veniva compensata dall’impe – gno solenne a riprendere la discussione e dalla convinzione che la (mancata) riforma futura sarebbe senz’altro stata la riforma perfetta.
Matteo Renzi ha rotto questo incantesimo approvando in un paio d’anni sia una riforma costituzionale, sia una riforma elettorale: naturalmente le soluzioni trovate non sono le migliori, né sono state condivise da tutti, ma, rispetto al passato, hanno l’indubbio vantaggio di essere uscite dai convegni e dalle aule parlamentari per approdare alla realtà. Ma ad una parte del ceto politico e intellettuale è sembrato invece che Renzi abbia perfidamente sottratto il giocattolo preferito. E così la discussione è ricominciata – è bene ricordare che l’Italicum è entrato in vigore da appena diciotto giorni, e che la riforma Boschi è ancora in attesa del responso popolare – e le proposte ricominciano a piovere. Ha cominciato Massimo D’Alema, una decina di giorni fa, proponendo una riforma costituzionale «in tre punti» capace, a suo parere, di riscuotere anche il consenso del centrodestra e di essere approvata «in sei mesi».
Ma la sortita dell’ex presidente del Consiglio è sembrata a molti irrealistica anche sul piano della propaganda – l’unico che conti davvero da qui al referendum d’autunno – e non ha avuto seguito. Più frastagliato il fronte della legge elettorale. La minoranza del Pd, com’è noto, non soltanto contesta l’Italicum, ma ne considera necessaria una modifica sostanziale: in caso contrario, è stato più volte annunciato, voterà No al referendum.
Non c’è bisogno di essere un costituzionalista per sapere che il percorso parlamentare per cambiare la Costituzione è lungo e complesso, mentre le leggi elettorali sono leggi ordinarie, non necessariamente legate ad un assetto istituzionale o ad una forma di governo. E infatti ci sono già state in Italia, negli ultimi vent’anni, tre riforme elettorali . Ma tant’è: il virus del cambiamento perpetuo – o per meglio dire la tendenza ad avanzare proposte senza mai tradurle in leggi – non è stato ancora del tutto debellato.
E così oggi Federico Fornaro e Andrea Giorgis, due parlamentari molto vicini a Pierluigi Bersani, presenteranno una proposta – già infelicemente battezzata “Bersanellum” dai giornali – che abolisce il ballottaggio e riduce il premio di maggioranza. La risposta di Renzi c’è già stata: «Se ci sono i numeri in Aula – ave va detto la scorsa settimana a margine del vertice Nato di Varsavia – l’Italicum si può anche cambiare». E l’altroieri Maria Elena Boschi ha ribadito lo stesso concetto: «Se il Parlamento decide di modificarlo perché ci sono i numeri su una proposta diversa, ovviamente il Parlamento è sovrano». Se non di un cambiamento di sostanza, si tratta senz’altro di un cambiamento di toni: non più il “prendere o lasciare” di qualche mese fa, ma una dichiarata disponibilità all’ascolto e al confronto. Del resto, non c’è soltanto Bersani a voler cambiare l’Italicum: anche Dario Franceschini, all’ultima riunione della Direzione, ha proposto una modifica (premio alla coalizione anziché alla lista) che peraltro coincide almeno in parte con le richieste dell’Ncd .
E qui veniamo al punto di fondo: più passa il tempo, più aumenteranno le proposte di riforma della riforma, alimentate ormai dallo stesso Renzi. E più aumentano le proposte, più appare difficile, se non impossibile, che davvero si coaguli un accordo politico e parlamentare. In altre parole, è come se Renzi reagisse ai suoi avversari colpendoli con l’arma che costoro vorrebbero usare contro di lui: discutere di riforme, infatti, è il modo più sicuro per non farle. Per difendere le riforme fatte, dunque, è sufficiente aprire un’ampia discussione sulle nuove riforme da fare.
In questo divertente paradosso ha poi un ruolo decisivo il calendario: è tecnicamente impossibile approvare una nuova legge elettorale prima del referendum, persino se Renzi lo volesse e Forza Italia fosse d’accordo. La discussione però è utile a svelenire il clima, a «spersonalizzare» – come stucchevolmente si ripete da settimane – il voto referendario, a mostrare disponibilità e apertura, e ad intrattenere politici e commentatori. Poi a novembre si vedrà: ma dopo il referendum, qualunque ne sia l’esito, si apre una fase radicalmente diversa, e tutte le parole di oggi finiranno, come le tante che le hanno precedute, nei polverosi archivi della cronaca.

per non dimenticare....


"Io accetto, ho sempre accettato più che il rischio le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio e, vorrei dire, anche di come lo faccio. Lo accetto perché ho scelto, ad un certo punto della mia vita, di farlo e potrei dire che sapevo fin dall'inizio che dovevo correre questi pericoli". 
P. Borsellino.

Continua l’ossessione per Maria Elena del Marco innamorato


Fabrizio Rondolino
L'Unità 18 luglio 2016
La prima del Fatto tra fotomontaggi e virgolettati inesistente continua ad occuparsi di Maria Elena Boschi
Dell’amore di Marco per Maria Elena si sa ormai da tempo: è un’ossessione sottile che tormenta il direttore del Fatto, tenero amante respinto, e lo spinge ad alternare rabbia e tristezza, malinconia e rancore. Da qualche settimana, per lenire la sofferenza, Travaglio ha persino allestito uno spettacolo itinerante con un’attricetta sosia della Boschi, tal Giorgia Salari, così da poterla avere con sé tutte le sere: e speriamo che gli sia di consolazione.
La prima pagina del Fatto di oggi torna prepotente sull’argomento con un titolo raccapricciante: “La Boschi delira: ‘Nuova Carta per combattere il terrorismo’.” Ovviamente la ministra delle Riforme non ha affatto pronunciato la frase che le viene attribuita tra virgolette (ma del resto il Fatto non è un giornale, proprio come il M5s non è un partito, e dunque le regole più elementari della deontologia professionale non si applicano).
Ha detto invece, la Boschi, che “abbiamo bisogno di un’Europa più forte e in grado di rispondere insieme, unita, al terrorismo internazionale. E per riuscirci abbiamo bisogno anche di un’Italia più forte verso l’Europa, più credibile: quindi di una Costituzione che ci consenta maggiore stabilità”. Il che – ci perdonerà la ministra – è poco più di un’ovvietà: di fronte alla crisi internazionale che stiamo vivendo, la stabilità dei governi è un prerequisito essenziale per affrontarla con decisione. E la riforma su cui si voterà in autunno ha precisamente come obiettivo principale quello di semplificare e stabilizzare il sistema istituzionale.
Ma la vera notizia di oggi è un’altra: ed è racchiusa nel fotomontaggio che accompagna lo sgangherato titolo. Matteo Renzi e Maria Elena Boschi, i capelli leggermente mossi dal vento, si sfiorano guardando l’orizzonte, proprio come Jack e Rose nell’immortale Titanic. Renzi- DiCaprio e Boschi- Winslet appaiono preoccupati più che sorridenti, persino intimoriti, e tuttavia determinati: forse intuiscono il pericolo che li attende, ma paiono anche risoluti nell’affrontarlo.
Il fotomontaggio vorrebbe suggerire una particolare liaison tra i due: in realtà è la chiave per comprendere il grande travaglio di Travaglio. Lui evidentemente si sente Cal, il fidanzato snob, arrogante e antipaticissimo di Rose, convinto di avere tutto – la bellezza, i soldi, il potere – e destinato invece a vedere la sua bella fra le braccia di un ragazzotto della terza classe. Povero Cal, ti siamo umanamente vicini: anche perché l’iceberg, questa volta, non c’è.

lunedì 18 luglio 2016

La Brexit sta cambiando gli europei. Lo dicono i sondaggi nei 27 Paesi


David Sassoli
Vicepresidente parlamento europeo
18 luglio 2016
La Brexit sta cambiando gli europei. O meglio, sta producendo l'esatto contrario dell'effetto sperato dai promotori del referendum: scatenare un effetto domino per disgregare l'Unione europea. Niente di tutto questo sta avvenendo negli Stati membri. Senso di appartenenza e convenienza prevalgono sulle spinte anti-europee e in molti casi fanno recuperare consenso all'Europa.
La documentazione raccolta da Eurobarometro, contenente le rilevazioni condotte nei singoli paesi della Ue, in alcuni casi anche più di una, consentono un primo esame delle reazioni delle opinioni pubbliche all'uscita della Gran Bretagna e offrono una chiave di lettura per affrontare una delle stagioni più difficili della moderna storia europea. Si tratta di una carrellata di sondaggi a caldo, con i limiti che questo strumento possiede. Ma come vedremo, in alcuni casi, i dati sono talmente eloquenti da non sopportare smentite.
In un solo paese, l'Olanda, il fuoco anti-europeo non si smorza. In tutti gli altri, la Brexit fa recuperare quel senso di appartenenza all'Europa anche da parte di segmenti di elettorato che si erano mostrati favorevoli a una uscita dall'Ue. In molti Stati membri, infatti, c'è un prima e un dopo la Brexit. È il caso della Polonia, dove le spinte anti-europee hanno portato al governo un partito dichiaratamente secessionista. I dati che arrivano da Varsavia sono clamorosi. L'84% dei cittadini giudica positivamente l'adesione all'Ue e l'83% voterebbe per restare in Europa in caso di referendum. Ma non solo, interessante anche il rapporto dei polacchi con l'euro. La maggioranza dei cittadini - 72% - vorrebbe tenersi lo zloty, la moneta nazionale, ma se l'appartenenza all'Unione europea dipendesse dall'introduzione dell'Euro, i favorevoli all'Euro salirebbero al 50 per cento. E restiamo nel nord Europa. In Danimarca, il sostegno all'Unione europea è salito di dieci punti rispetto a un sondaggio tenuto poco prima il referendum britannico: dal 59,8 al 69 per cento. Stesso trend si registra in Finlandia, con circa il 68% che dichiara di voler rimanere. Si registra un clima più europeista anche in Germania, con la Merkel che torna agli indici di popolarità che aveva prima della crisi dei profughi.
Il sondaggio realizzato da Infratest Dimap l'8 luglio, riferisce di un incremento del 2 per cento in favore della Cdu e di 1 punto per la Spd. Di contro vengono rilevati 3 punti in meno - 11% - per la destra xenofoba di Alternative für Deutschland. Sulla Brexit, comunque, i tedeschi sono perentori: scelta sbagliata dichiara il 63% dei cittadini. Fra le pieghe di sondaggi condotti da vari istituti tedeschi, anche una chiara indicazione di marcia: per il 70% degli intervistati, l'Unione europea dovrebbe essere "completamente riformata". Un filo rosso, insomma, lega le opinioni pubbliche di paesi in cui il vento anti-europeo aveva tirato forte. È il caso dell'Ungheria. Per l'indagine condotta da Nézöpont Institute, subito dopo la Brexit, il 60% dei cittadini ha considerato l'esito del referendum sfavorevole per l'Ungheria e il 64% non condividerebbe l'ipotesi di promuovere una consultazione sull'adesione all'Unione. Solo il 12% considera l'esito della Brexit "una decisione giusta".
Sulla stessa lunghezza d'onda anche la Grecia, paese in cui il riferimento all'Europa non è stato in questi anni molto popolare: per il 47% il referendum britannico è stata una "cattiva cosa", a fronte del 27% di favorevoli all'uscita. Se si passa poi a giudicare l'ipotesi di condurre la Grecia fuori dall'Ue, i contrari sarebbero il 41%, i favorevoli il 20%, e né contrari né favorevoli il 25% mentre il 14% non sa rispondere. Ma continuiamo nell'interessante carrellata di umori. Nella Repubblica d'Irlanda, se si svolgesse un referendum, il no all'uscita sarebbe sostenuto dall'80% dei cittadini. In Italia, nei sondaggi pre-Brexit il 58% degli intervistati si era espresso favorevolmente sulla proposta di promuovere un referendum sulla permanenza nell'Unione. Dopo la consultazione britannica la cifra è scesa al 44 per cento. Paura di fare la stessa fine? Probabile. Secondo l''istituto Ixe i favorevoli a far svolgere un referendum sarebbero il 28%. E secondo Demopolis, l'80% dei cittadini è decisamente convinto che l'Italia debba restare nella Ue.
Più equilibrato il quadro francese. Il Fronte nazionale di Marine Le Pen resta stabile nei sondaggi, ma i francesi - 61% - pensano che abbandonare l'Unione sarebbe "molto grave" e produrrebbe guasti incalcolabili sul piano economico. Articolate le risposte sul gradimento rispetto alle istituzioni europee che avrebbero promosso, per il 68% degli intervistati, "politiche sbagliate". E di gran lunga al primo posto per quanto riguarda le priorità scelte per raddrizzare la barca, i francesi indicano - 40 % - uno stop alle adesioni di nuovi Stati all'Unione europea.
Il caos politico e le difficoltà economiche sembrano aver avuto effetto anche in Austria, paese spaccato a metà nelle recenti presidenziali di maggio, poi recentemente annullate. Il sondaggio Gallup del 5-6 luglio rileva che il 52% degli austriaci è convinto che serve rimanere, il 30% che occorre chiudere con l'esperienza europea, il resto non ha nessuna idea in proposito. Da notare, però, che mentre i favorevoli aumentano solo di un punto percentuale rispetto alla settimana precedente il referendum, il fronte anti-europeo perde 8 punti. In Austria anche un altro sondaggio (ÖGfE) mostra una decisa inversione di tendenza: 61% sarebbe per restare, 23% per andar via, 16% non sa. Il cambiamento di umori fra gli elettori austriaci potrebbe avere effetti anche nelle prossime elezioni presidenziali, tanto che il leader euro-scettico e anti-immigrazione, Norbert Hofer, ha dichiarato a Die Presse di non essere mai stato "a favore dell'uscita dell'Austria dall'Unione europea": "Se l'Austria dovesse lasciare l'Ue sarebbe indubbiamente danneggiata".
E vediamo cosa accede in Olanda, considerato uno dei paesi che potrebbe seguire l'esempio del Regno Unito. In leggero calo il partito di estrema destra, Libertà, di Geert Wilders ancora ampiamente in testa nei sondaggi. Gli tengono il passo formazioni europeiste come la Dc e i liberali D66. Anche se il primo ministro Mark Rutte ha dichiarato che un referendum non sarebbe nell'interesse dei Paesi Bassi, gli olandesi non sembrano cambiare idea rispetto alla vigilia della Brexit: 48% dei cittadini vorrebbe uscire, 45% rimanere. Un fronte caldo, quello olandese, in controtendenza, che non subisce gli effetti, politici e psicologici, provocati dal referendum nel Regno Unito.
Nella maggior parte degli Stati, invece, la Brexit è sinonimo di crollo economico e incertezza sociale. Avventure a cui in molti non vogliono partecipare. Ma gli umori delle opinioni pubbliche europee dicono anche altro. E lo indirizzano direttamente alla politica e ai governi: questo è il momento di osare, di spingere per una maggiore integrazione al servizio dei cittadini e di scommettere per una governance più democratica dell'Europa. Se non ora, d'altronde, quando?

sabato 16 luglio 2016

sinistra


Il miracolo di Salvini

Informati del sostegno di Salvini, i militari turchi golpisti hanno cominciato ad arrendersi in massa.
Vittorio Zucconi

Il grande “Boh” di Sergio Cofferati


Fabrizio Rondolino
L'Unità 16 luglio 2016
Oggi l’ex segretario della Cgil annuncia sul Fatto di aver abbandonato anche la nuova sigla della sinistra radicale, e adesso?
Forse non lo sapevate, ma Sergio Cofferati ha di nuovo cambiato partito. Dopo aver lasciato il Pd perché non era riuscito a vincere le primarie in Liguria, dopo aver flirtato con Possibile (il gruppo underground di Pippo Civati), dopo aver co-fondato qualche mese fa Sinistra italiana, oggi l’ex segretario della Cgil annuncia di aver abbandonato anche la nuova sigla della sinistra radicale. Il ferale annuncio è contenuto in un’intervista al Fatto che è già entrata nella storia gloriosa e complessa del movimento operaio italiano.
Non è chiaro se Cofferati abbia lasciato il partitino di Fratoianni e Fassina perché, come sostiene, “erano stati assunti impegni che poi sono stati disattesi” (quali impegni? chi li ha disattesi?), oppure, più banalmente, perché non è riuscito a diventarne il leader. E quando si ha una certa età, capite bene che non si può sempre ricominciare da zero.
Le speranze e le ambizioni deluse di Cofferati non gli impediscono tuttavia di continuare a recitare la favoletta stucchevole sulla sinistra che c’è, non c’è, è in crisi ma ha ragione, combatte ma perde, perde ma ha ragione… “Se la sinistra non è riuscita a raccogliere 500mila firme [per il referendum costituzionale, ndr], vuole dire che non ha un’identità con cui proporsi alla gente”, sentenzia severo il leader mancato. “Il problema – aggiunge con la consumata saggezza di chi la sa lunga – è chiarire cosa sei e cosa vuoi”.
E Cofferati cos’è, cosa vuole? Boh. “C’è un grande spazio libero in quell’area”, insiste il nostro topografo indicando la sinistra a sinistra del Pd – anzi, l’unica sinistra possibile, perché “non si può stare a sinistra se si vota Sì”, mentre invece se si vota No si è sicuramente di sinistra: i dubbiosi possono chiedere conferma a Brunetta o a Salvini.
Certo, concede preoccupato l’aspirante Corbyn, “quell’area” è insidiata dai grillini, ma la soluzione è semplice: sarà sufficiente “costruire un partito con idee chiare”. D’accordo, questa l’hai già detta. Quali idee? Boh. Però, aggiunge il mancato Sanders, “poi bisognerà trovare dei leader”. Ora sì che si capisce: prima le idee chiare, poi i leader. Perfetto.
E nel frattempo? “Continuerò il lavoro nel Parlamento europeo”, annuncia solenne Cofferati. Quale lavoro, per conto di chi? Boh.

fallito!!!

Un tentativo di colpo di Stato di una parte dell'esercito turco contro il presidente Erdogan, fallito dopo ore di scontri e incertezze, ha scosso Ankara e Istanbul, e ha tenuto i governi di tutto il mondo con il fiato sospeso. Alla fine il bilancio parla di 1.563 militari arrestati e 104 golpisti uccisi. Non è chiaro se questi 104 si aggiungano ai 90 morti - di cui 47 civili - del primo bilancio che era circolato. Le vittime potrebbero quindi essere quasi 200.

venerdì 15 luglio 2016

Non disperate.

Tra poco governerà il M5S. Non ci saranno più notizie di incidenti, migranti,frane, roghi,poveri, sismi, ladri, debiti. E topi.
Vittorio Zucconi

mercoledì 13 luglio 2016

da leggere


Accade in America....

Prima apparizione elettorale insieme all’insegna dell’unità. Hillary Clinton e Bernie Senders, dopo la lunga sfida nelle primarie democratiche per la Casa Bianca, si sono anche scambiati un bacio nel raduno del New Hampshire. Il senatore del Vermont ha dato il suo endorsement all’ex segretario di stato sotto lo slogan «Insieme più forti». 

accadeva 29 anni fa


lunedì 11 luglio 2016

Grillini di tutto il mondo calmatevi!

Fate vedere quello che sapete fare, non quello che non hanno fatto altri. La rendita di opposizione è FINITA.
Vittorio Zucconi.

venerdì 8 luglio 2016

La Raggi decide a Roma?


Chicco Testa
L'Unità 8 luglio 2016
Per il Pd non è l’ora delle ripicche, ma il momento di lavorare a testa bassa per la città
Sono stato facile profeta nello scrivere su questo giornale un mese fa che la vita della Sindaca Raggi, se avesse vinto e ha vinto, sarebbe stata assai difficile. Esattamente per il motivo per cui lo è poi effettivamente diventata. La sua mancanza di possibilità di decidere autonomamente e il doversi invece sottoporre ai controlli congiunti dei vari comitati strategici, meet up, Grillo, Casaleggio e compagnia. Come ugualmente Le si sarebbe ritorto contro quella dichiarazione di assoluta purezza che, superati i 5 anni nessun comune mortale può vantare come una virtù completamente intatta. E infatti saltano fuori intrecci di vario tipo che falciano uno a uno i possibili collaboratori. La cosa però non mi consola. Non solo perché un Sindaco deve poter governare e, sperabilmente, governare bene. Ma anche perché vedo il Pd farsi inesorabilmente trascinare in questo gioco al piccolo massacro.
La tentazione di rinfacciare è forte ed è difficile sottrarsi e non levarsi qualche soddisfazione. Ma così il Pd corre il rischio di continuare a giocare su un’agenda completamente sbagliata. Quella della ripicca sui difetti altrui. Mentre invece avrebbe bisogno di una cosa completamente diversa. Mettersi al lavorare a testa bassa sulle cose che servono alla città con spirito innovativo e formando una nuova classe dirigente . Anche per tappare le buche e fare in modo che non si riaprano ci vogliono idee, un metodo, delle scelte, un’organizzazione. Per non parlare di come tenere pulita la città, attirare i turisti, rilanciare le attività produttive. Purtroppo in campagna letterale, largamente dominata salve polemiche , di questo si è poco discusso. Ma il Pd nella Capitale non ha bisogno di una impossibile rivincita a breve. Ha bisogno di idee e di gruppi dirigenti. Le due cose vanno insieme, quando si lavora bene. Ma per questo ci vogliono tempo e pazienza.

giovedì 7 luglio 2016

Inps, Boeri: “Con il Jobs Act finalmente si è pensato ai giovani”


Stefano Minnucci
L'Unità 7 luglio 2016
Il presidente dell’Inps durante la sua relazione annuale: “Il Jobs act ha funzionato, ma si faccia qualcosa in più per contrastare la povertà, 6 milioni di pensionati sono sotto i mille euro”
“Nel 2015 il numero di contratti a tempo indeterminato è aumentato di più di mezzo milione”. A sottolinearlo è il presidente dell’Inps Tito Boeri, nel corso dell’annuale relazione dell’istituto di previdenza. Dopo questo grande balzo, fa notare però il numero uno dell’Inps, sarà difficile che nel 2016 gli occupati possano crescere ulteriormente, soprattutto in funzione della lenta ripresa in atto.
Ma il dato che Boeri tiene a sottolineare maggiormente riguarda i giovani, ai quali, osserva, “con il Jobs Act si è finalmente pensato”. “Non c’è dubbio che il 2015 sia stato un anno di grande cambiamento nelle modalità d’ingresso dei giovani nel nostro mercato del lavoro” aggiunge, sottolineando come ci stato un forte incremento nella quota di assunzioni con contratti a tempo indeterminato ai danni dei contratti a tempo determinato. “Il numero dei contratti senza una data di scadenza è aumentato del 62%, addirittura del 76% per i giovani con meno di 30 anni. Insomma – è la conclusione del ragionamento – finalmente un anno positivo per il mercato del lavoro dei giovani”.

segnaletica positiva


Caro Massimo, ricordi 19 anni fa?


Fabrizio Rondolino
L'Unità 7 luglio 2016
D’Alema, il ‘98 e la differenza tra un convegnista e un leader
C’era volta un grande leader politico che, giunto alla guida del più grande partito della sinistra italiana, avviò un coraggioso processo di innovazione politica e culturale, smontò e fece a pezzi il primo governo Berlusconi, costruì un’alleanza di centrosinistra destinata a vincere le elezioni e, al culmine del suo potere e delle sue ambizioni, aprì proprio con Berlusconi un dialogo serrato sulla riforma della Costituzione che sfociò nella presidenza di un’apposita Commissione bicamerale. Quando quel generoso e coraggioso tentativo fallì –era il 9 giugno del 1998 – la stagione delle riforme si chiuse per un lungo periodo.
E sebbene siano stati numerosi i tentativi di rianimarla, si riaprì soltanto sedici anni dopo, il 18 gennaio 2014, quando un altro leader, giunto alla guida del più grande partito della sinistra italiana, avviò un coraggioso processo di innovazione politica e culturale e aprì, di nuovo con Berlusconi, un dialogo destinato a passare alla cronaca come il Patto del Nazareno. Anche l’accordo stipulato da Renzi – come sedici anni prima quello sottoscritto da D’Alema – non resse alla prova della navigazione parlamentare e nel giro di qualche mese Berlusconi si sfilò. Qual è la differenza fra i due grandi leader della sinistra italiana in tema di riforme istituzionali? Che il primo, D’Alema, non ebbe la forza né il coraggio né probabilmente i numeri per proseguire sulla sua strada di riformatore e padre costituente, e consegnare infine all’Italia le riforme per tanti anni richieste e sempre discusse senza risultati. Mentre il secondo, Renzi, ha trovato la forza, il coraggio e i numeri per compiere la missione che si era prefissato e sulla quale aveva costruito la sua scommessa di governo. Diversamente dal 1998, quando un anno di chiacchiere si concluse in un nulla di fatto, oggi due anni di lavoro hanno prodotto una riforma attesa da decenni. La differenza fra un raffinato convegnista e un leader politico sta tutta qui.
Ora D’Alema torna a rivestire i panni del convegnista, rilasciando alla “Stampa” un’intervista surreale che pare scritta non oggi e neppure nel 1998, ma molti anni prima: forse nel 1983, quando si insediò la Commissione Bozzi, la prima ad occuparsi di riforme, e Renzi frequentava la seconda elementare. Basterà votare No al referendum, spiega D’Alema, e «si potrebbe fare una riforma condivisa, chiara e rapida», «approvabile dai due terzi dei parlamentari, che si può fare in sei mesi». Perbacco, questo sì che è parlar chiaro: e D’Alema – quello stesso che diciannove anni fa venne eletto presidente della Bicamerale – ci spiega sicuro come fare. «Penso a una riforma che preveda tre articoli – scandisce –. Primo: è ridotto il numero complessivo dei parlamentari. […] Articolo secondo: il rapporto fiduciario del governo è solo con la Camera dei deputati. […] Articolo terzo: nel caso in cui il Senato o la Camera apportino delle modifiche ad un testo di legge, tali modifiche vengono esaminate entro un tempo limitato da una apposita commissione (…) Fine della navetta, del bicameralismo perfetto e delle perdite di tempo».
Ottimo. Possibile che nessuno ci abbia mai pensato? E perché mai i «due terzi dei parlamentari» dovrebbero approvare proprio questi tre articoli, dopo averne affondati migliaia nel corso di trentatré anni? Naturalmente, D’Alema sa benissimo che questa proposta è una colossale fregnaccia, priva di ogni credibilità e di ogni fondamento. Se a ottobre vince il No, di riforme ovviamente non si parlerà più per un bel po’. Il cuore dell’intervista è infatti un altro: la caduta di Renzi. «Dopo di lui non ci sarà il diluvio, semmai il buonsenso», dice D’Alema. E nel caso questo buonsenso non sia ancora di casa al Quirinale, D’Alema si rivolge direttamente a Mattarella, prima citandone suadente «un bellissimo intervento che contrappose lo spirito della Costituente alla pretesa arrogante, allora di Berlusconi, di riforme a maggioranza», e poi tirandolo rudemente per la giacca: «Il Parlamento non soltanto potrà non essere sciolto – e da questo punto di vista confido nella saggezza del Capo dello Stato – ma io credo che ci saranno anche un governo e una nuova legge elettorale» senza «una impostazione rischiosamente iper-maggioritaria». «Chiedo di votare No per una vera svolta riformatrice», conclude D’Alema con perfida ironia (o lucido cinismo, fate voi): perché la «vera svolta riformatrice», se le sue parole hanno un senso, significa cacciare Renzi, formare un governo di larghe intese con Berlusconi, approvare una legge elettorale proporzionale che non consenta a nessuno di vincere ma, soprattutto, non costringa nessuno a perdere. Manca soltanto il ritorno alla monarchia.

martedì 5 luglio 2016

La strategia di Eric Cantona


Fabrizio Rondolino
L'Unità 5 luglio 2016
C’è un pezzo di Pd che non riesce ad accettare che la «Ditta» sia finita in mano ad un non (post)comunista
Dario Franceschini, con il garbo ironico che lo contraddistingue, ha concluso il suo intervento alla Direzione del Pd di ieri raccontando un aneddoto che merita di essere ripreso. Siamo nel 2009, è in corso la campagna elettorale per le primarie e Franceschini è il segretario in carica. Pierluigi Bersani lo sta sfidando per la leadership.
Al termine di un’iniziativa in Emilia, un militante avvicina Franceschini per fargli i complimenti. Ha fatto un ottimo lavoro, ha salvato il partito alle europee, gli dice. Ma poi conclude: «Però io voterò Bersani». «E perché?», gli chiede Franceschini. «Perché non posso mettermi contro il partito», risponde il militante. «Ma come? Il segretario del partito sono io…». Il nodo della questione è tutto qui: e se Franceschini, il primo segretario non (post)comunista del Pd, è troppo elegante per trarre una conclusione esplicita dal suo aneddoto, il significato resta chiaro, chiarissimo.
C’è un pezzo di Pd –nell’apparato e nel ceto politico, molto meno nella sempre glorificata e puntualmente ignorata «base» –che non riesce ad accettare che la «Ditta» sia finita in mano ad un non (post)comunista. Nel 2009 con Franceschini, oggi con Renzi. E ancora meno riesce ad accettare che un segretario non (post)comunista sia riuscito a fare in un paio d’anni ciò che i suoi predecessori, in vent’anni, hanno soltanto saputo annunciare, discutere, rivedere, affossare. Alla fine della sua lunga relazione dedicata in gran parte al quadro internazionale e di governo –Renzi aveva mostrato una sequenza di «Il mio amico Eric», il film di Ken Loach in cui il campione del Manchester Cantona è una specie di angelo custode che insegna a vivere allo sfortunato protagonista. «Devi fidarti dei tuoi compagni –dice Cantona –, altrimenti è tutto finito». Il problema del Pd –drammaticamente, tristemente evidenziato per l’ennesima volta anche nella Direzione di ieri –è che la minoranza non si fida della maggioranza né del segretario. Non interviene se non per «bombardare il quartier generale».
Ignora le cose fatte, non valorizza i risultati ottenuti dal governo, e anzi, al contrario, spesso «si vergogna». «Se volete che lasci –dice Renzi –non avete che da chiedere un congresso e vincerlo. Se volete dividere i due incarichi, non avete che da chiedere una modifica statutaria e farla approvare. Se volete che si cambi il modello organizzativo, fate proposte. Ma prima mettiamoci d’accordo su dove andare». Già, dove vuole andare la minoranza del Pd? Gianni Cuperlo ha accusato Renzi di vivere in un talent show, Roberto Speranza ha proposto libertà di voto al referendum di ottobre.
Ma su questa strada –la strada dell’insulto personale e del boicottaggio politico –è difficile che si possa costruire quel clima di fiducia reciproca che pure Renzi continua ad invocare, rivendicando con forza i risultati – sempre puntigliosamente definiti «di sinistra» –ottenuti in questi anni, dal Jobs Act (che ha prodotto mezzo milione di posti di lavoro, la più grande crescita del decennio) alle unioni civili, dagli interventi a sostegno della povertà alla massiccia redistribuzione del reddito a favore dei ceti medio-bassi compiuta con gli 80 euro.
Dipingere il renzismo come «un regime di plastica» e «un sistema di potere» non è battaglia politica: è sabotaggio. Soprattutto, non porta da nessuna parte. La sistematica distruzione del leader –la «strategia del conte Ugolino», secondo le parole divertite di Renzi –sembra essere l’ultima e unica risorsa di un ceto politico ripiegato su se stesso, litigioso, vendicativo e in definitiva sterile. Diversamente dal passato, però, oggi il Pd ha un leader che risponde agli elettori e non ai caminetti.

venerdì 1 luglio 2016

Delrio: “ L’Italicum è un’ottima legge che garantisce governabilità”


1 luglio 2016
Intervista al Ministro delle Infrastrutture sul Corriere della Sera
“L’Italicum è un’ottima legge che garantisce governabilità. Se qualcuno vuole cambiarla e proporre una legge migliore, lo faccia. Ma a pochi mesi dal referendum, mi pare un esercizio molto complicato trovare una maggioranza”. Così Graziano Delrio, ministro delle Infrastrutture, in un’intervista al Corriere della Sera, che poi aggiunge: “Per me si può discutere di tutto. Ma faccio presente che questa legge è stata confezionata dopo numerose riunioni e passaggi parlamentari. Garantisce governabilità e aiuta a capire chi si assume la responsabilità. Per noi è il miglior punto di equilibrio”. 
La richiesta di passare al voto di coalizione è irricevibile? “Le richieste sono tutte legittime, ma il premio alla lista è nella logica della semplificazione dei partiti e del no al ricatto dei piccoli”, osserva il ministro che sottolinea: “Spero che nessuno voglia utilizzare la legge elettorale e il referendum come strumenti di lotta politica interna. Do la buona fede a tutti: resta da dimostrare come si trovino ora maggioranze in grado di approvare una nuova legge”. 
In vista del referendum, Delrio dice: “Questo non è un referendum su Renzi o sul governo, ma per avere un sistema efficiente che renda reali i valori della prima parte della Costituzione. Poi è chiaro che se non passano riforme strategiche come queste, un governo serio non può che prenderne atto”. Quindi con un no sarebbe crisi di governo? “Si’. Non cerchiamo consenso nei salotti o nelle correnti, ma tra la gente. Lavoreremo per convincere tutti, anche se il fatto che il 60% degli italiani non sappiano su cosa si vota mi preoccupa molto. Spero che serva la lezione del referendum britannico: fare politica contro è un modo infantile per aiutare il Paese”.