martedì 30 settembre 2014

Nel confronto Pd le scorie della rottamazione

Stefano Menichini 
Europa  

Per lunghi tratti la direzione democratica non è stata utile né interessante, appesantita da polemiche pregresse. Poi è migliorata. Ne esce comunque fuori l'identità di una sinistra popolare moderna.
Per lunghi tratti non è stato  un bel dibattito quello della direzione del Pd, al di sotto dell’importanza del tema. Una relazione di Renzi molto netta sulla sua linea ma anche aperta ad alcune opzioni della minoranza e dei sindacati ha dato il via a pochi interventi utili e vicini alla realtà del lavoro e soprattutto del non-lavoro, e ad alcuni interventi invece reciprocamente carichi di animosità, acidità, voglia di rivalsa. Evidentemente ci sono scorie della rottamazione, più psicologiche che politiche, che non sono smaltite. Solo così si spiega come un leader come D’Alema sia potuto arrivare a resuscitare la categoria dei “padroni”, annullando più di trent’anni della sua maturazione politica e personale.
Sono così risaltati altri interventi più puntuali, da Poletti a Epifani, da Soru a Fassino a Concia a Scalfarotto (fin quando abbiamo seguito), con la punta prevedibilmente polemica di Fassina, radicale sulla sua linea, indisponibile a mediazioni dato che vede aprirsi nel Pd una vera divaricazione ideologica.
Di fronte a una discussione che svela il cattivo stato delle relazioni interne al Pd, alla fine conterà comunque il risultato. Che Renzi ha messo al sicuro: e non è poco.
L’asprezza dello scontro e delle resistenze non deve infatti offuscare il dato principale, e cioè che il Pd s’è liberato di ogni ipocrita inibizione nel chiamare le cose del lavoro come stanno: apartheid tra garantiti e non garantiti rimane la definizione più pesante e purtroppo appropriata. E, cosa più importante della mera presa d’atto (che in effetti c’era già stata in passato, il che aggrava le responsabilità dei gruppi dirigenti di allora), ora da essa muove una iniziativa politica e di governo che verrà corretta, aggiustata, migliorata; ma che in pochi mesi diventerà legge dello stato e nuova disciplina dei rapporti di lavoro, e su questo Renzi non ha lasciato dubbi, né possono sorgere anche guardando agli equilibri parlamentari: paradossalmente, dopo la direzione di ieri è ancora più inverosimile che la minoranza Pd voglia spingersi fino a minacciare la sopravvivenza del governo.
Garantiscono per l’esito della vicenda non solo i rapporti di forza politici, né la capacità comunicativa di Renzi, ma l’insostenibilità della situazione attuale e la forza di argomenti che, messi insieme, disegnano la nuova identità di una sinistra davvero popolare, nel senso di vicina a ogni pezzo del suo popolo oltre gli steccati delle tutele, delle garanzie, dei generi e delle generazioni.

lunedì 29 settembre 2014

Povertà non significa miseria 
ma libertà dai beni materiali.


Corriere della Sera 29/09/14
corriere.it

Il mistero dei poveri svela a chi lo scruta che tutti gli uomini in verità sono poveri e pertanto la povertà non riguarda solo qualcuno o un gruppo, ma tutti. Non è però scontato accorgersene. La beatitudine evangelica, «Beati i poveri!», traversa come un lampo che illumina l’intera storia. Gli spiriti attenti ne sono colpiti. La beatitudine fa intuire che se è vero che tutti siamo poveri, beati però sono solo coloro che lo riconoscono, che non negano questa verità. In questa luce la povertà non è una disgrazia di qualcuno, è piuttosto la grazia per tutti.

Padre David Maria Turoldo notava già negli anni Ottanta: «Oggi, in questo tempo così balordo e diseguale; in un tempo nel quale sempre più si concentrano ricchezze nelle mani di pochi, e sempre più dilaga la miseria e la fame nel mondo... Vorrei che fossimo tutti convinti di quanto sia giusta la tesi, condivisa oggi anche da scienziati, di rifarci alla povertà quale valore ispirante la stessa economia». E aggiungeva: «La disgrazia sta nel negare la povertà, invece di accoglierla, sta nel volerne uscire da soli o nel pretendere di non appartenervi o di esserne usciti. La povertà è una dimensione essenziale all’uomo». Di qui la forza profetica dei poveri! È una forza che inquieta, per questo li emarginiamo, li allontaniamo, non vogliamo vederli né ascoltarli.

La storia della povertà è perciò una storia «sacra» del mondo perché i poveri ne sono esenti, scartati dagli uomini, ma privilegiati da Dio. In essa Dio e l’uomo si incontrano. Per questo i poveri e la povertà dovrebbero rappresentare il punto di partenza per una giusta impostazione dell’esistenza umana, compresa l’economia. «Poveri e povertà», è sempre Turoldo che scrive, «sono essenziali al piano della salvezza. Sono i poveri che ci salvano, anzi la povertà è la stessa salvezza. Il mondo non può risolvere i suoi problemi, se non sceglie la povertà come regola della sua economia». Due studiosi di estrazione diversa, Majid Rahnema e Jean Robert, lo sostengono anch’essi nel volume La potenza dei poveri .

E Turoldo chiarisce: «Qui, per povertà, prima di tutto si intende libertà dalle cose; sconfitta delle cupidigie; si intende superamento del diritto di proprietà, almeno come è stato concepito e gestito fino ad ora; s’intende giustizia che sia finalmente, veramente distributiva e comunitaria. Per povertà non si intende certo miseria, e meno ancora miserabilità: si intende che l’uomo sia preso nel suo assoluto valore e non per quello che possiede». Purtroppo oggi più che i beni — ce ne sono per tutti — manca il senso del diritto di ogni uomo ad avere almeno il necessario. Per questo la povertà e i poveri sono una profezia da ascoltare.

Ne sono certo, padre Turoldo canterebbe con gioioso trasporto la forza delle parole che papa Francesco ha come scolpito nella Evangelii Gaudium : «L’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale. Sociologica, politica o filosofica. Questa preferenza divina ha delle conseguenze nella vita di fede di tutti i cristiani, chiamati ad avere “gli stessi sentimenti di Gesù” ( Fil 2,5)... Per questo desidero una Chiesa povera per i poveri. Essi hanno molto da insegnarci... È necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro».

Volere «una Chiesa povera e per i poveri» significa legarsi al Vangelo, fonte della vita cristiana, e al Vaticano II, interpretazione alta del Vangelo per l’oggi. Terminata l’assise conciliare, alcuni vescovi firmarono una proposta per se stessi e per la Chiesa. Nel testo si legge tra l’altro: «Cercheremo di vivere secondo il livello di vita ordinario delle nostre popolazioni per quel che riguarda l’abitazione, il cibo, i mezzi di comunicazione e tutto ciò che vi è connesso... Rinunziamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente nelle vesti e nelle insegne... Non avremo proprietà né di immobili né di beni mobili né conti in banca o cose del genere a titolo personale... Rifiutiamo di lasciarci chiamare oralmente o per iscritto con nomi e titoli che esprimano concetti di grandezza o di potenza... Dedicheremo tutto il tempo necessario al servizio apostolico e pastorale delle persone o dei gruppi di lavoratori che sono in condizione economica debole o sottosviluppata».

Papa Francesco ha insistito su questa stessa linea per il ministero del vescovo: «C’è sempre il pericolo di pensarsi un po’ superiori agli altri, non come gli altri, un po’ principe. Sono pericoli e peccati. Ma il lavoro di vescovo è bello: è aiutare i fratelli ad andare avanti. Il vescovo davanti ai fedeli, per segnare la strada; il vescovo in mezzo ai fedeli, per aiutare la comunione; e il vescovo dietro ai fedeli, perché i fedeli tante volte hanno il fiuto della strada». Questo modello episcopale Francesco lo vive in prima persona in Vaticano e chiede che divenga lo stile dei vescovi e della Chiesa. È consapevole che la forza della Chiesa non sta nella sua forma organizzativa, seppure necessaria, e tanto meno nelle forze mondane.

Una Chiesa povera, che si affida solo alla forza del Vangelo, è necessariamente anche Chiesa «dei» poveri. Quest’ultimi, nella Chiesa, non sono «utenti» o estranei su cui far cadere la propria attenzione. E tantomeno sono un problema. Essi sono anzitutto membri a pieno titolo della Chiesa. Semmai ne sono i primi membri, gli eredi più autorevoli. Per questo la Chiesa non può essere — come Papa Francesco ripete — «una Ong pietosa». La Chiesa sente i poveri come parte di se stessa, anzi la parte da amare e da privilegiare. E il loro nome è fraternità, familiarità, amicizia: «Il nostro impegno — aggiunge papa Francesco — non consiste esclusivamente in azioni o in programmi di promozione e assistenza; quello che lo Spirito mette in moto non è un eccesso di attivismo, ma prima di tutto un’attenzione all’altro considerandolo come un’unica cosa con se stesso... Il povero, quando è amato, è considerato di grande valore, e questo differenzia l’autentica opzione per i poveri da qualsiasi ideologia».

E il perché di tale privilegio lo spiegò con accenti straordinari nella Veglia di Pentecoste del 2013, ai movimenti ecclesiali. I poveri — disse Papa Francesco — per i cristiani non sono «una categoria sociologica», ma la «carne di Cristo». Non basta più dire che Dio si fa carne per comprendere fino in fondo il mistero. Si deve esplicitare che Dio si fa carne affamata, assetata, malata, carcerata... Non mancano infatti carni «profumate» attorno a noi, anzi il giorno che la carne di Cristo fu profumata, cominciarono subito le questioni di denaro e fu Giuda a sollevarle. Dio si è fatto carne scartata. È questa a essere «sacramento» di Cristo.

Le parole del Papa debbono suonare di scandalo. Nella veglia si domandò: «Quando facciamo l’elemosina a un povero, lo guardiamo negli occhi, gli tocchiamo la mano o gli gettiamo la moneta?». È un interrogativo semplice, ma nella sua concretezza lacera la coscienza e interpella tutti coloro che incontrano i poveri. La povertà, continuò Papa Francesco, non può essere derubricata a «categoria sociologica o filosofica o culturale». «Una Chiesa povera per i poveri incomincia con l’andare verso la carne di Cristo». Il richiamo si fece stringente: «E questo vale ancora di più in questo momento di crisi. Noi cristiani non possiamo preoccuparci soltanto di noi stessi, chiuderci nella solitudine, nello scoraggiamento... Questo è un pericolo: ci chiudiamo nella parrocchia, con gli amici, nel movimento, con coloro con i quali pensiamo le stesse cose... ma sapete che cosa succede? Quando la Chiesa diventa chiusa, si ammala!».

La Chiesa su questa frontiera deve misurare la sua veridicità evangelica. E a chi teme incidenti o esagerazioni nel coinvolgersi con i poveri Papa Francesco afferma con autorevolezza: «Io vi dico: preferisco mille volte una Chiesa incidentata, incorsa in un incidente, che una Chiesa ammalata per chiusura! Uscite fuori, uscite!». E attacca la cultura dello scarto: «Oggi — questo fa male al cuore dirlo — trovare un barbone morto di freddo non è notizia. Oggi è notizia, forse, uno scandalo. Uno scandalo: ah, quello è notizia! Oggi, pensare che tanti bambini non hanno da mangiare non è notizia. Questo è grave! Non possiamo restare tranquilli!». E riportò quel midrash della tradizione rabbinica sulla costruzione della Torre di Babele per denunciare quanto ancora oggi la dignità di un operaio conti meno del denaro: «Questo succede oggi: se gli investimenti nelle banche calano un po’... tragedia... come si fa? Ma se muoiono di fame le persone, se non hanno da mangiare, se non hanno salute, non fa niente! Questa è la nostra crisi di oggi! E la testimonianza di una Chiesa povera e per i poveri va contro questa mentalità».

IL PREMIER E L’ARTICOLO 18 
UNA BATTAGLIA GIÀ VINTA.


Corriere della Sera 29/09/14
Maurizio Ferrera

Sul Jobs act è giunto il tempo della decisione. Oggi si riunisce la segreteria del Pd e questa sera sarebbe auspicabile avere un segnale chiaro di approvazione. C’è una minoranza che non è d’accordo. Per alcuni l’intangibilità dell’articolo 18 è una questione di principio. Per altri (più numerosi) sembra invece essere una questione di specifici contenuti. I margini per non rompere ci sono: Renzi ha già ceduto sui licenziamenti discriminatori, per i quali rimarrà il reintegro. L’altro punto su cui cercare convergenze riguarda le nuove tutele. A quanto ammonterà l’indennizzo in caso di motivazioni economiche? E verranno davvero rafforzati gli ammortizzatori sociali? Il governo è in grave ritardo su questo fronte. Renzi deve chiarire quante risorse saranno disponibili nella legge di stabilità. La soluzione è usare già dal 2015 i fondi della la Cassa integrazione in deroga per finanziare una indennità semiuniversale che colmi i buchi di copertura esistenti, soprattutto per interinali e contratti a termine. Non è una partita di giro, ma passaggio da un sistema aleatorio e discrezionale a una tutela finalmente «europea», basata su diritti soggettivi.

Il presidente del Consiglio deve insistere su questi aspetti. Il nuovo «contratto a tutele crescenti» è oggi uno strumento per offrire stabilità d’impiego ai giovani che non ce l’hanno; la maggiore flessibilità in uscita si accompagnerà a protezioni più robuste ed efficaci. Qualcuno dei dissidenti farà ancora finta di non capire: pazienza. Con gli altri, Renzi non cerchi «rese dei conti», ma dia rassicurazioni, spieghi bene come e perché ci si può fidare del cambiamento. Il Jobs act non può e non deve essere vissuto e additato come boccone amaro imposto dalla Ue, ma come una opportunità per rendere il nostro mercato del lavoro più equo e inclusivo.




Se in carcere con la lista Tsipras 
c’è un fantasma con la marijuana.


Corriere della Sera 29/09/14
corriere.it
 
Un fantasma con la marijuana. «Non l’ho visto, non lo sapevo, e nemmeno lo conosco». Una smentita politicamente «scorretta» quella dell’europarlamentare Eleonora Forenza, eletta nella lista L’Altra Europa con Tsipras, che ieri ha vissuto, da comprimaria, un momento «caldo» nel carcere di Regina Coeli. Quando un accompagnatore dell’europarlamentare, che però è risultato misteriosamente sconosciuto a tutti, ha cercato di passare un po’ di marijuana, un grammo e mezzo, a Nunzio D’Erme, esponente dei movimenti per la casa in cella da qualche giorno. Quando Tsipras ha fondato l’Altra Europa forse non immaginava che il concetto sarebbe stato esteso a Regina Coeli (L’Altra Regina Coeli) dove sarebbe stato possibile, nonostante la detenzione, ricevere il necessario per un po’ di spinelli. Forenza ha provveduto a colmare il deficit di intenzioni. Il suo «non so, non ho visto, non conosco» fa un po’ sorridere. Forse sarebbe stato meglio rivendicare l’atto «eversivo» e farlo diventare, in mancanza di meglio, una priorità della Lista, vista anche la mancanza evidente di iniziativa politica. Nella sua visita, Forenza era accompagnata da Giovanni Russo Spena, responsabile Giustizia di Rifondazione comunista e dal «collaboratore» fantasma che ha cercato di passare a D’Erme il necessario per qualche spinello. La manovra però non è sfuggita a un agente della penitenziaria che ha bloccato il tutto. Forenza ha fatto subito chiarezza: «Non sappiamo chi sia. Né io,né Russo Spena, né lo stesso D’Erme, sapevamo cosa avrebbe fatto quell’uomo. E non lavora con la mia segreteria. Anzi, non l’ho mai visto». Che dire? Non è chiaro se Eleonora Forenza non sia in grado di scegliersi i «collaboratori», sicuramente dovrebbe fare più attenzione ai «fantasmi», specialmente a quelli con la marijuana.

«Vivono di rendita, la fiducia va ritrovata 
nei luoghi di lavoro».


Corriere della Sera 29/09/14
Enr. Ma.


Da vecchio saggio, che di battaglie, conquiste e sconfitte del sindacato ne ha viste tante, il sociologo Bruno Manghi non riesce proprio ad accalorarsi sulla questione dell’articolo 18. «È una questione tanto simbolica quanto inesistente», sibila.

Perché?
«Al punto in cui siamo è uguale tenerlo o toglierlo. E allora togliamolo e poi vediamo, ma affrontiamo allo stesso tempo la questione importante: l’estensione delle tutele per chi perde il lavoro, trovando le risorse necessarie».

Il sindacato, invece, sembra arroccarsi a difesa dell’articolo 18, in particolare per chi ce l’ha, e appare in difficoltà davanti alla sfida lanciata dal presidente del Consiglio.
«Renzi ha svelato quello che c’era nel sentire comune, anche per quanto riguarda il sindacato. Che non può pensare di continuare a vivere di posizioni di rendita, ma deve interrogarsi su come essere più efficace nella sua azione».

Forse anche per questo il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, ha gettato la spugna. Come valuta i suoi 8 anni di leadership?
«Bonanni ha avuto un esordio felice. Lui, che è un sindacalista autentico, ha portato un grande pragmatismo nell’azione sindacale della Cisl, poi però si è perso nei meandri della politica, entrando in un terreno che non è il suo».

Qual è secondo lei lo stato di salute della Cisl e del sindacato in Italia?
«La Cisl e il sindacato italiano stanno meglio della media. Tranne che nei Paesi scandinavi, i sindacati sono in crisi. Da noi meno che altrove, ma anche la Cisl deve darsi una mossa: snellire gli apparati — e questo Bonanni ha cominciato a farlo — e tornare nei luoghi di lavoro. In una parola, allargare la base di rappresentanza».

Intanto Renzi non parla coi sindacati.
«Sbaglia, ma il sindacato deve cambiare spartito e giocarsela sul campo, cioè sul territorio e sui luoghi di lavoro».





Precari e diritti, affondo di Renzi.

Corriere della Sera  29/09/14
Marco Galluzzo

Viene subito dopo Dino Zoff, «avevo 7 anni quando parò quel tiro ai Mondiali», lo apprezza perché «associò la parola dignità allo sport», cosa forse oggi non usuale, è l’unica parte della trasmissione in qualche modo leggera. Poi arrivano le domande di Fabio Fazio, su Rai3, in prima serata, e anche l’accorato appello del premier, l’attacco ai sindacati («difendono l’articolo 18 perché sono gli unici a non averlo»), la fermezza irremovibile sull’argomento che oggi sarà all’ordine del giorno: «La mediazione non si fa dentro il Pd ma con i lavoratori, la sinistra affezionata ai totem, alle memorie, va bene per il museo delle cere». E ancora: «Il mio obiettivo non è far contento D’Alema ma la mamma che non ha diritto alla maternità».

Renzi spiega che il suo Jobs act cambierà il sistema, che metterà «un miliardo e mezzo sugli ammortizzatori sociali» e che l’articolo 18 è solo un pezzetto. Con le norme di oggi «la disoccupazione è raddoppiata negli ultimi anni: io devo cambiare, cioè passare da 2.000 leggi a 40, innovare un modello che ha abbandonato al precariato una generazione».

La fermezza che porterà nel dibattito col suo partito, poi in Parlamento, è fondata su questo ragionamento: «L’articolo 18 oggi tutela solo alcuni, ma il mondo del lavoro è cambiato, che l’azienda abbia più o meno 15 dipendenti non è più la discriminante, lo Stato deve farsi carico di chi perde il lavoro, con un indennizzo, un corso di formazione, e un’offerta di lavoro entro un anno».

La promessa è che non si muoverà di un millimetro dalla sua posizione: «Noi domani (oggi per chi legge, ndr ) non cancelliamo solo l’articolo 18, domani cancelliamo tutte le forme di co.co.co., di precariato. Oggi esiste un diritto che è in mano ad un giudice, se l’imprenditore deve fare a meno di alcune persone deve poterlo fare. Ma non è questo il punto, tutti stanno parlando solo di un pezzetto piccolo del mercato. È una battaglia ideologica della sinistra, ed il sindacato che viene a farci lezioni, dopo essersi dimenticato di tutti, è l’unico a non avere l’articolo 18». Se la sinistra non vuole finire al museo delle cere, «deve pensare come la Apple, innovare». Viceversa «resta ancorata al 25%». Per Alfano, Renzi dice «cose giustissime, la riforma dovremmo farla per decreto». Arriva inoltre un’importante notizia per i lavoratori: «Stiamo valutando l’ipotesi di mettere il Tfr in busta paga mensilmente».

Ma Renzi annuncia di essere pronto ad impegnarsi anche sul fronte delle coppie e su quello della cittadinanza agli immigrati: «Civil partnership alla tedesca e ius soli: appena il Parlamento finirà con le riforme si aprirà la stagione dei diritti». Le ultime battute sono su Bersani («lo rassicuro, la ditta resta tale anche se non la guida lui»); su Berlusconi e le riforme (esca dall’incertezza, «non ci giri intorno»); infine sulle critiche ricevute dai quotidiani («sono stati affettuosi...») e dai vescovi. Come mai tante? «Perché non chiediamo più il permesso, magari a qualche direttore di giornale. Nessuno può pensare di telecomandarmi come una marionetta» .





Chiamparino: D’Alema? Un po’ rancoroso 
Parlava con Berlusconi per la Bicamerale.


Corriere della Sera 29/09/14
Monica Guerzoni

Presidente Chiamparino, Renzi interloquisce troppo con Verdini?


«Battuta un po’ livida, quella di D’Alema. Forse è un po’ deluso, si aspettava di avere un rapporto diverso con il premier».

Per i renziani, si aspettava di andare in Europa...
«Certo è un D’Alema un pochino rancoroso. Forse ha dimenticato di quando, ingiustamente, c’era lui al posto di Matteo e veniva impropriamente accusato di scendere a patti con Berlusconi perché voleva fare la Bicamerale. Argomenti come questi sono facili da usare, ma per fare le riforme bisogna parlare con tutti».


Non è un po’ troppo intenso, il dialogo con Verdini?

«Se all’epoca della Bicamerale si fosse fatta meno dietrologia sui rapporti di D’Alema con Berlusconi, forse avremmo anticipato la stagione di alcune importanti riforme. Sarà un caso, ma quando arriva uno che vuole cambiare le cose, spuntano i vari cavalieri che fanno di tutto per mettergli i bastoni tra le ruote».


Anche lei con il complotto?

«Quando sento parlare di poteri forti e massoneria stento a capire. Sono argomenti usati quando si vuole screditare qualcuno a prescindere. Il problema sono i poteri invecchiati, anchilosati.. Serve una politica un po’ più in palla. Ha ragione Panebianco, un leader deve aprirsi un varco nella palude con una rivoluzione culturale».


Ce l’ha anche lei con la «vecchia guardia» del Pd?

«Anche in quel mondo lì, se non si buttano all’aria un po’ di cristallerie non si riesce a fare arredamento. Con Renzi mi trovo in sintonia su moltissime cose e gli invidio la capacità di muoversi con energia. A volte può apparire un elefante in cristalleria, ma in Italia ci vuole».


La sua mediazione sull’articolo 18 è fallita?

«Mi muovo sempre con cautela cercando di mettere tutti d’accordo, ma mi rendo conto che oggi, sulla strada della concertazione a ogni costo, non andiamo da nessuna parte. Si discute, poi si decide».


Il Pd si spacca?

«Mi aspetto che in direzione Renzi offra una proposta di mediazione, non necessariamente la mia. Si farà dare un mandato per andare avanti con il Jobs act, poi toccherà ai gruppi. Mi auguro che non arretri».

L’articolo 18 va cancellato?
«È un simbolo che ha 44 anni. Una battaglia di bandierine, ceto politico e sindacale».


Renzi usa l’articolo 18 in modo strumentale?

«È evidente che bisogna dare un segnale. Si tratta di fare una legge in cui si dica che se uno è discriminato viene reintegrato, anche nelle aziende con meno di 15 dipendenti. Su tutto il resto c’è un risarcimento economico deciso da una commissione arbitrale. Dobbiamo responsabilizzare le parti. L’articolo 18 riguarda una parte minoritaria di lavoratori e allora io dico di fotografare la realtà, invece di mantenere questo clima di contrapposizione».


Perché non va bene la proposta della minoranza?

«Prolungare la prova con tutele ridotte? “Peso el tacon del buso” , si dice in Veneto (peggio la toppa del buco, ndr )».


Il Pd rischia la scissione?

«Renzi è il leader del partito più forte d’Europa e non ha interesse a provocare rotture».


E se il Jobs act passa con i voti di Forza Italia?

«Si apre un problema politico. In quel caso Renzi dovrà fare un passaggio in Aula per verificare la sua maggioranza».




sabato 27 settembre 2014

Finisce la tregua tra vescovi e politica “L’Italia soffre troppo noi le diamo voce”


PAOLO RODARI
La Repubblica – 27/9/14

Il richiamo di Galantino è il primo dall’elezione di Francesco “Renzi non ha perso la nostra fiducia, ma il tempo stringe”

Papa Francesco, nel discorso alla Conferenza episcopale sudamericana nel luglio dello scorso anno, era stato chiaro: nessun interventismo dei vescovi in politica. Il richiamo di ieri sembra però contraddire questa linea. Ma l’intenzione non è questa. Il plenipotenziario del pontefice per l’Italia, monsignor Nunzio Galantino, segretario della Conferenza episcopale, si è fatto portavoce delle istanze di base delle diocesi: più sostegno al reddito e più aiuto alle famiglie, è la sintesi del suo richiamo. È questo, spiegano nell’episcopato del Paese, il senso delle parole rivolte da Galantino al premier Matteo Renzi. Nessun ritiro di fiducia, nessun ultimatum, dunque, bensì l’indicazione che l’agenda dell’esecutivo va calibrata sulle esigenze sociali, i veri «princìpi non negoziabili» al tempo di Papa Bergoglio. Insomma, bisogna «fare rete», come aveva ricordato lunedì scorso nella prolusione del consiglio permanente della Cei il presidente dell’episcopato Angelo Bagnasco. Compete ai laici l’impegno nella vita pubblica, i pastori, invece, devono anzitutto lavorare a formare le coscienze e richiamare tutti affinché la meta sia il bene comune.
Certo, apertura di credito non significa fingere di non vedere i ritardi delle realizzazioni rispetto agli annunci. «Con gli amici occorre sincerità », dice sempre un prelato che ha fatto del dialogo sociale la sua bandiera come monsignor Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo. Ma la Cei si fa interprete delle esigenze delle fasce popolari che più soffrono la crisi economica. E il suo, quindi, è un grido per tutti coloro che non hanno voce: fate presto, chiedono da mesi i vescovi.
L’attenzione per Renzi da parte delle gerarchie è figlia anche dei positivi colloqui avvenuti con Francesco mesi fa a Santa Marta, col segretario di Stato vaticano Pietro Parolin e con lo stesso Bagnasco recentemente a Palazzo Borromeo, sede dell’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede. «Non ce l’ho con Matteo Renzi — ha detto non a caso ieri Galantino — . È giovane, è simpatico, sa dire tante cose simpatiche. Ma «noi vescovi diamo già un giudizio» quando diciamo che «la famiglia non ci pare messa al centro della politica italiana », e «accanto alla famiglia ci mettiamo anche la scuola».
Dice Francesco Cavina, vescovo di Carpi e diplomatico di lungo corso della segreteria di Stato vaticana, che oggi si occupa anche dell’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro e che ha fondato il fondo di sostegno alle nuove povertà «Fides et labor»: «Il lavoro oggi è sentito dalla gente come un privilegio. Me lo ha detto bene una signora mamma di due figli. Ha fatto una donazione al fondo dicendomi che la faceva per tutti i ragazzi che sono senza lavoro, mentre i suoi figli, ha detto, hanno il privilegio di poter lavorare. Fra i vescovi questa emergenza è molto sentita. E bene ha fatto monsignor Nunzio Galantino a richiamarla alle istituzioni e alla politica. L’emergenza, infatti, riguarda soprattutto i giovani e le donne mentre tutti, Chiesa compresa, dobbiamo rimboccarci le maniche per aiutare chi è in difficoltà».
Nelle diocesi italiane i vescovi, a volte più delle amministrazioni locali, hanno il polso della situazione. Stanno sul territorio, ascoltano la gente, le sue difficoltà. Oggi vedono un Paese in sofferenza, con l’emergenza lavoro considerata un problema enorme ovunque. Non a caso, lunedì scorso, è stato ancora il cardinale Bagnasco a dire: «Guardando alla situazione italiana - ha detto facendo propria la testimonianza di tutti i vescovi - è evidente che serpeggia una “depressione spirituale”. È uno stato d’animo che non solo fa soffrire chi ha perso il lavoro o i giovani che non l’hanno trovato, ma che debilita le forze interiori e oscura il futuro ».



De Magistris, la fine di un’epoca

Stefano Menichini 
Europa  

Più che la figuraccia il sindaco è stroncato dal confronto: politici di professione come Errani e Bonaccini, tanto più dignitosi di un'eroe delle piazze tv. Chiude il partito giustizialista, Travaglio può tornare a fare il mestiere che fa meglio
Una prece per il partito giustizialista italiano. Un sentito pensiero per i fanatici della società civile. Un saluto a mai più rivederci per quelli della superiorità morale, delle manette facili, dei processi mediatici. E un consiglio amichevole, davvero, a Marco Travaglio, anche se da un giornale clandestino, come ci considerano lui e D’Alema: torna a fare il tuo mestiere, che lo sai fare bene; perché invece la stagione da regista dei movimenti e da king maker di nuovi leader è finita, ed è finita maluccio. È stato bello finché è durato, con le folle eccitate dal sangue dei politici corrotti e commosse dall’aura di santità dei cavalieri del giusto. Ma è una storia del passato, e quando finirete di accoltellarvi fra voi lì al Fatto quotidiano ripensate a come far rivivere la vostra grande (seriamente, grande) impresa giornalistica su altre basi; meno friabili delle inchieste di De Magistris; meno pompose delle promesse della Spinelli; meno furbe delle buste paga di Maltese; meno gonfie delle ambizioni di Ingroia; meno distratte delle amicizie di Di Pietro; meno schizofreniche dei diktat di Grillo.
Noi qui siamo un po’ inquinati, magari corrotti, perché seguiamo da vicino i partiti, i politici di professione, il lavoro la fatica e gli errori di chi amministra e di chi governa. Perché veniamo da un’era (finita, male e meritatamente) di finanziamenti pubblici alla politica e al giornalismo politico, e cerchiamo di uscirne con dignità.
Guarda caso però, proprio la dignità finisce per fare la differenza.
Tra uno come Vasco Errani e uno come Gigi De Magistris, per esempio. Un politico di professione e un eroe delle piazze televisive. Un bravo presidente di Regione e un cattivo sindaco. Il primo colpito da condanna in appello che inverte un’assoluzione, il secondo da una condanna in primo grado figlia della conduzione dissennata di un’inchiesta che ebbe grande impatto sulla politica italiana e sulla carriera del pm, ma zero riscontri penali. Errani se ne va all’istante, nonostante appelli a restare e attestati di onestà. De Magistris fa una figuraccia planetaria, resiste a ogni sollecitazione, rimane attaccato al posto, arriva a chiamare «delinquenti» i suoi ex colleghi. Gli serve a poco il soccorso di Travaglio: ottanta righe per dimostrare che è un perseguitato, dieci per dire che purtroppo deve dimettersi lo stesso.
È la vera fine di un’epoca. Finalmente non contano più le etichette appiccicate a priori sui ladri e sui probi ma i valori personali, i comportamenti concreti, l’onestà profonda non presunta. Stefano Bonaccini, altra vicenda di politico di professione, sa di essere a posto, lo dimostra, non si fa stroncare dal sospetto, se ne libera. Travaglio dopo avergli dato del ladro non gli restituisce l’onore né mai lo farà, ma ci penseranno gli emiliani e questo conta un milione di volte di più.
Lentamente, a fatica, la giustizia può tornare a essere giustizia. Per i giustizieri è ora di tornare a casa.

venerdì 26 settembre 2014

Renzi e l’inglese, parla come governa

Fabrizio Rondolino 
Europa  

Il premier si lancia, si butta, ci prova. Ci mette la faccia, come ama dire, e ha l’imprudenza e l’impudenza di chi non si cura delle strizzatine d’occhio altrui perché ha cose più importanti da fare
L’inglese di Matteo Renzi è diventato il tormentone di fine estate: sulla rete pullulano prese in giro e fotomontaggi, “traduzioni” splendidamente incomprensibli dei suoi discorsi americani e sberleffi feroci. Persino Michele Santoro, fra i tanti temi a disposizione per inaugurare la nuova stagione di Servizio pubblico, ha preferito all’articolo 18 o alla trattativa stato-mafia l’ironia sulle competenze linguistiche del nostro presidente del Consiglio.
Il rapporto fra gli italiani e l’inglese è complesso: non lo parla praticamente nessuno, pochi lo capiscono, e tuttavia non c’è insegna di negozio o cartellone pubblicitario o titolo di film che non ricorra a parole o espressioni che dell’inglese vorrebbero avere, se non il vocabolario o la sintassi, quantomeno il sapore.
Siamo talmente provinciali da ricorrere compulsivamente e a casaccio ad una lingua che non conosciamo, nel tentativo di essere cool, ma nello stesso tempo inorridiamo agli strafalcioni altrui inforcando gli occhialini di un professore di Oxford.
Quello che i nostri provinciali non sanno è che l’inglese non esiste. Esiste il Queen’s English – che è una via di mezzo fra una lingua morta e un elegante gioco di società – e poi esistono i mille inglesi parlati in decine e decine di paesi passati attraverso l’amministrazione di Londra.
E chiunque sia stato in America anche soltanto per un quarto d’ora, sa che laggiù l’inglese ognuno lo parla e lo pronuncia come gli pare: gli afroamericani, gli orientali, i latinos, i polacchi, i pakistani, gli italiani e tutti gli altri popoli che vivono e prosperano negli Stati Uniti si sono impadroniti dell’inglese ciascuno a modo proprio: usandolo ogni giorno lo deformano, e lo possono usare proprio perché lo possono deformare a piacimento.
La forza straordinaria della lingua inglese non sta soltanto nella sua disarmante semplicità strutturale, ma anche nella variabilità pressoché infinita delle forme di pronuncia: e il risultato è che tutto il mondo parla inglese, ma ognuno parla un “suo” inglese. Qualche volta non ci si capisce, quasi sempre invece sì. L’importante è parlarlo – proprio come ha fatto Matteo Renzi (gli americani faticano a concepire che qualcuno non sappia l’inglese, ma non si curano minimamente degli strafalcioni dell’interlocutore).
Nella performance del nostro presidente del consiglio c’è però qualcosa di più, qualcosa di specificamente renziano. Renzi parla inglese come governa. Si lancia, si butta, ci prova. Ci mette la faccia, come ama dire, e ha l’imprudenza e l’impudenza di chi non si cura delle strizzatine d’occhio altrui perché ha cose più importanti da fare.
Renzi non è un velleitario: è anzi estremamente realista (e forse per questo spiazza ogni volta avversari e commentatori). Ma si fa guidare, caparbiamente, dall’ottimismo della volontà: cioè dalla convinzione che si comincia a raggiungere un risultato soltanto quando ci si convince di poterlo raggiungere, che il merito conta più del metodo, che lamentarsi è un altro modo per conservare l’esistente, e che la perfezione – il dio che governa il pessimismo della ragione – non è di questo mondo.
I professionisti della tartina parlano un inglese impeccabile: Renzi invece si arrangia come può, come quei bambini che si abbandonano a monologhi senza fine molto prima di aver imparato a parlare, e in questo modo non comunica soltanto i contenuti di un discorso, ma anche, e forse soprattutto, la volontà di non fermarsi davanti a nessun ostacolo – inclusi i propri limiti. Parafrasando un recente, famosissimo editoriale si potrebbe dunque concludere che Renzi è il miglior amico di se stesso.

TRATTATIVA STATO-MAFIA 
UN RETROGUSTO AMARO.


Corriere della Sera 26/09/14
Michele Ainis

Ci hanno messo un anno (meglio tardi che mai),però alla fine i giudici di Palermo hanno sciolto la riserva: Napolitano sarà testimone coatto al processo sulla trattativa Stato-mafia. Anzi non coatto, volontario; e non è un dettaglio da poco. Perché il Codice di procedura penale (articolo 205) distingue la posizione del capo dello Stato da quella degli altri vertici delle nostre istituzioni.

Il presidente della Consulta o il premier, come d’altronde i due presidenti delle Camere, se rifiutano di deporre in un processo subiscono l’accompagnamento coattivo; lui no, il codice di rito lo esclude espressamente. Dunque la sua testimonianza è sempre spontanea, non obbligatoria.

Ma evidentemente la Corte d’assise di Palermo non si cura dei dettagli. Non se ne cura nemmeno il presidente, dal momento che si è subito dichiarato disponibile. Potremmo rallegrarcene: dopotutto stiamo celebrando il trionfo del principio d’eguaglianza, con il primo cittadino trattato come tutti gli altri cittadini. Ma invece no, c’è un retrogusto amaro in quest’ultima vicenda. C’è il sospetto che la ricerca della verità sia diventata ormai un pretesto, peraltro espresso nel peggior giuridichese. Nella sua lettera del 31 ottobre scorso, Napolitano aveva già messo nero su bianco ciò che aveva da dire; ma adesso i giudici vogliono ascoltarlo per acquisire quel «contenuto dichiarativo negativo», magari con l’aiuto d’un interprete. Come a dire che la sua testimonianza scritta ai loro occhi suona reticente, sicché vogliono sottoporla alla prova dell’orecchio. Non che la verità non ci stia a cuore. Ne avremmo fame e sete, sulla strage di piazza Fontana, su quella di Bologna, su Ustica, sul delitto Moro, sulle troppe pagine stracciate della nostra storia nazionale. La magistratura italiana fin qui non ci ha saziato, però meglio il digiuno che un’abbuffata di bugie. E meglio l’apatia che una guerra permanente fra poteri pubblici e privati, se ciascuno usa la propria competenza per affermare la propria potenza. Succede spesso, ora impiegando lo schermo dell’art. 18 per regolare i conti con i sindacati, ora sventolando la privacy per ridurre al silenzio i giornalisti, ora con l’abuso dei decreti e dei voti di fiducia per addomesticare il Parlamento. Ma in Italia la vera rivoluzione sarebbe questa: che ciascuno torni a fare il suo mestiere, senza impadronirsi di quello altrui .


Parisi e la spallata a Prodi 
«Era chiaro che da pm lui cercava solo visibilità».


Corriere della Sera 26/09/14
Francesco Alberti

Delle tante spallate che accorciarono l’esistenza del secondo governo Prodi (2006-2008), già nato fragile, l’inchiesta «Why not» è da molti considerata quella che diede il colpo di grazia all’esecutivo del Professore bolognese, che in quella vicenda entrò come indagato da premier nel 2007 per uscirne nel 2009 completamente pulito: «Credo che la giustizia trionfi sempre, non ho mai gridato al complotto, ho sofferto, questo sì, in silenzio...» commentò all’epoca dell’archiviazione Prodi (e con lui uscì dall’inchiesta anche Sandro Gozi, allora deputato e ora sottosegretario alla presidenza del Consiglio). Arturo Parisi, 74 anni, amico del Professore da una vita, in quel governo era ministro della Difesa e, alla notizia della condanna del pm di allora e adesso sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, non ha fatto una piega: «Nessuna meraviglia, abbiamo sempre pensato che si trattasse di un’inchiesta infondata e priva di giustificazione».

Professor Parisi, c’è chi ritiene che iniziò da lì la caduta del governo Prodi: è d’accordo?
«Di sicuro “Why not”, per il momento in cui emerse e per le modalità con le quali venne condotta, contribuì a rendere ancora più elettrica l’atmosfera, amplificando tensioni esistenti, ma non fu la causa principale della fine dell’esecutivo».

Eppure Mastella, allora Guardasigilli, indagato e poi uscito dall’inchiesta, si dimise.
«A quanto ricordo, era destinatario anche di altre iniziative...».

Ritenendola infondata, si è mai chiesto su quali basi abbia potuto prendere corpo un’inchiesta che puntava così in alto?
«Credo che la molla primaria sia stato il desiderio di visibilità di de Magistris».

Prodi, così come lei che faceva parte del governo, non avete mai gridato al complotto. Ora i fatti vi danno ragione, ma sono passati anni: rimpianti?
«Chiunque agisce sulla scena pubblica deve essere preparato a rispondere alle domande dei cittadini e di chi le pone nel loro interesse, e mi riferisco alla magistratura così come ai mass media».

Una posizione non da tutti condivisa...
«Talvolta è una croce pesante da portare, ma va accettata. Deve essere però anche chiaro che chi pone le domande deve essere a sua volta preparato a dar conto del perché e del come ricerca le risposte. Non è ammissibile che la sola domanda sia indizio di colpevolezza. Meno che mai è ammissibile che chi indaga agisca per fini e con mezzi contrari alla legge e all’interesse pubblico».




Perché Hamas apre le porte di Gaza all’Autorità palestinese

Alessandro Accorsi 
Europa  

L'accordo permette ad Abbas di rimettere formalmente piede a Gaza dopo sei anni e ad Hamas di ridurre la pressione sul suo governo alle prese con una difficile ricostruzione
IL CAIRO – Le facce sorridenti nella foto che ritrae la stretta di mano al Cairo tra Mousa Abu Marzuq, vice di Hamas, e Azzam al Ahmad di Fatah, erano tutt’altro che scontate. I due movimenti palestinesi hanno annunciato di aver raggiunto un accordo che muove in avanti le prospettive di un vero accordo di unità nazionale. Hamas, infatti, avrebbe accettato che il governo di unità nazionale controllato dal presidente Mahmoud Abbas prenda il controllo nella Striscia di Gaza.
Finora, nonostante l’accordo di marzo sulla creazione di un governo unitario e le dimissioni dei ministri di Hamas, il movimento islamico aveva continuato a operare nella Striscia in quasi totale autonomia. Con il nuovo patto, invece, Hamas invita l’Autorità palestinese e i suoi funzionari ad assumersi le proprie responsabilità di governo con effetto immediato. L’accordo, prevederebbe che gli agenti delle forze di sicurezza fedeli al governo di Abbas prendano il controllo anche dei confini della Striscia e in particolare del valico di Rafah al confine con l’Egitto, così come stipulato anche nella tregua siglata a fine agosto tra Israele e fazioni palestinesi.
Tuttavia, come detto, non era affatto scontato che Fatah e Hamas riuscissero a raggiungere un accordo. Dalla fine della guerra con Israele, infatti, le due fazioni palestinesi hanno combattuto una vera e propria guerra fredda fatta di minacce, dichiarazioni e intimidazioni che hanno rischiato di mettere a repentaglio tanto l’unità nazionale – mai veramente compiuta – quanto le prospettive di una tenuta del cessate al fuoco permanente.
Al centro della disputa la ricostruzione di Gaza e il pagamento dei salari degli impiegati del governo di Hamas. Il movimento islamico, infatti, aveva accettato di entrare nel governo di unità nazionale anche per far fronte alla crisi finanziaria che lo aveva colpito, rendendolo incapace di corrispondere gli stipendi da mesi. Durante i negoziati del Cairo con Israele per un cessate il fuoco, Hamas pensava che, almeno su questo punto, la situazione fosse risolta.
Finiti i bombardamenti, però, Abbas si era detto contrario a onorare il patto, temendo per la propria popolarità in picchiata, per la tenuta del suo stesso governo e che il suo rivale ne approfittasse per mantenere saldo il proprio controllo su Gaza. Quando la scorsa settimana sono fuoriuscite informazioni su un incontro privato tra il presidente palestinese e 30 imprenditori di Gaza in cui Abbas avrebbe fatto capire di non essere interessato né a facilitare la ricostruzione nella Striscia, né a mantenere la sua parte del patto di unità nazionale, la tensione era salita alle stelle.
Secondo alcune voci, da parte sua Hamas sarebbe stata determinata a non cedere il potere a Gaza visto l’atteggiamento di Abbas e il fatto che abbia recentemente ricevuto aiuti per milioni di dollari da una potenza straniera, probabilmente il Qatar, che gli permetterebbe di far fronte al pagamento degli stipendi fino alla fine dell’anno.
Quasi inspiegabilmente, date le premesse, invece le due fazioni hanno raggiunto un accordo. I precedenti impongono una buona dose di cautela e dubbi sulla sua reale entrata in vigore. Eppure, sia Hamas che Fatah potrebbero aver modificato la propria posizione non per amor di patria, ma perché in fondo questo accordo è vantaggioso per entrambi.
In primo luogo, permette ad Abbas di rimettere formalmente piede a Gaza dopo ben sei anni da quando il tentativo di golpe di Mohamed Dahlan, uomo forte di Fatah nella Striscia, aveva scatenato il contro-golpe con cui Hamas aveva preso il potere. In secondo luogo, permette ad Hamas di ridurre la pressione sul suo governo alle prese con una difficile ricostruzione. Il movimento islamico avrebbe vagliato l’ipotesi di formare un governo di unità nazionale alternativo, che escludesse Fatah e includesse le fazioni di sinistra.
Dando formalmente fiducia all’Autorità palestinese, però, Hamas rimette direttamente nelle mani di Abbas le responsabilità di fare qualcosa, e velocemente, per la popolazione nella Striscia. Il presidente palestinese dovrà tirar fuori ben più dell’apatia dimostrata finora se vuole limitare il crollo della sua popolarità. Hamas, inoltre, si disfa del fardello del governo come chiesto dalla sua ala più militante, potendosi riconcentrare sulle proprie strutture, organizzazioni caritatevoli e rete di associazioni. Quello che, d’altronde, l’ha resa popolare.
Soprattutto, però, i palestinesi mettono pressione a Israele in vista dei nuovi negoziati per il rinnovo del cessate il fuoco, posticipati alla fine del prossimo mese. Il governo di Netanyahu dovrà fare qualche passo in avanti o sperare che Hamas e Fatah tornino presto a litigare.

Giorgio Tonini: «Ma il patto del Nazareno nacque nel 2013 per rieleggere Napolitano»

Rudy Francesco Calvo
 

Colloquio con il senatore membro della segreteria Pd: «L'editoriale di de Bortoli sul Corriere è duramente disperato e sulla massoneria ha lanciato un messaggio oscuro. Ma non tutto l'establishment è contro Renzi»
«Il patto del Nazareno? Un metodo che il Corriere della sera ha sempre auspicato, mentre ora lo attacca. E anche nel mio partito c’è chi dimentica che Renzi lo ha ereditato dall’esito nullo delle elezioni politiche del 2013 e dal patto stretto con Giorgio Napolitano per convincerlo a rimanere al Quirinale. Fu la maggioranza del Pd di allora, che oggi è in minoranza, a portare Berlusconi al governo, Renzi si è limitato a riportarlo al tavolo delle riforme».
Giorgio Tonini, vicepresidente dei senatori dem e componente della nuova segreteria insediata la scorsa settimana al Nazareno, non vorrebbe dare troppo peso alle polemiche generate dall’editoriale di Ferruccio de Bortoli sul Corsera di mercoledì scorso, che definisce «duramente disperato». Con Europa, però, accetta di parlare del rapporto tra l’attuale esecutivo e l’establishment del paese, partendo da un punto fermo: «Se Renzi fallisse, non ci sarebbe un altro governo politico, arriverebbe la troika». E a quel punto, i primi a pagarne la conseguenze sarebbero proprio coloro che oggi resistono al cambiamento.
«La politica – spiega Tonini – ha rinviato per anni le riforme, consentendo la formazione di un establishment più arretrato che negli altri paesi. Ora c’è un governo che ha messo in campo una nuova generazione che sta provando a fare queste riforme, e farle non contro qualcuno ma per i cittadini: alle categorie che si sentono minacciate bisogna chiedere di mettersi in discussione per collaborare a migliorare i servizi che offrono». Il senatore del Pd, però, non fa di tutta l’erba un fascio. Anzi, riconosce che accanto a chi “resiste” per conservare i «privilegi costituiti», c’è una parte della classe dirigente più genericamente sfiduciata nei confronti della politica (e in questa categoria annovera il direttore del Corriere) e chi invece «scommette che Renzi possa farcela», come Sergio Marchionne.
L’idea, espressa da de Bortoli, che dietro l’azione del premier possano esserci interessi massonici è respinta con ironia da Tonini («tra boy scout e massoneria non c’è mai stata una parentela stretta»), pur mostrandosi preoccupato da un «messaggio oscuro e obliquo». Sotto accusa c’è quel patto del Nazareno che ha determinato il superamento del bipolarismo muscolare («come predicato per anni dal Corriere») e che oggi è additato invece come prova di accordi occulti: «Poco più di un anno fa c’è stato un corteo ginocchioni di dirigenti di destra e sinistra per chiedere a Napolitano di rimanere al Quirinale, allora fare un accordo con Berlusconi non sembrava così terribile. La doppia maggioranza, una per il governo e l’altra per le riforme, va mantenuta proprio per tenere fede a quel patto». Che potrà essere esteso anche all’elezione del prossimo capo dello stato? «Se ne riparlerà quando Napolitano deciderà di lasciare, a oggi potrebbe rimanere anche fino al 2020. Allora sarà giusto lavorare per avere un presidente con la più ampia base parlamentare possibile».

Obiettivo Quirinale

Stefano Menichini 
Europa  

La testimonianza di Napolitano sulla trattativa stato-mafia non avrà alcuna rilevanza processuale. Ma servirà molto a chi vuole gettare ombra sul presidente e manovrare sulla sua successione.
Dunque i pubblici ministeri di Palermo avranno la testimonianza che inseguono da tempo: il capo dello stato riceverà loro, la corte d’assise e gli avvocati del processo sulla presunta trattativa stato-mafia, per un’udienza a porte chiuse in Quirinale sulla quale i giornalisti in tempo reale conosceranno (giustamente) anche il colore delle sedie. Napolitano ripeterà ciò che ha già messo per iscritto, cioè di non aver nulla di particolare da dire sullo scambio epistolare (nel frattempo da lui reso pubblico) che ebbe con il suo consigliere Loris D’Ambrosio, poi deceduto forse anche per lo stress causato dalla campagna di delegittimazione orchestrata contro di lui per colpire la presidenza.
Il castello di ipotesi costruito intorno alla trattativa è già lesionato, a partire dall’archiviazione delle accuse contro il generale Mori, scaturite dalla testimonianza di quel Massimo Ciancimino che da eroe dell’antimafia è passato a essere, nei termini usati dagli stessi magistrati, un teste «capace di mentire, costruire interi documenti, letteralmente inventare».
Ma la parte processuale della vicenda di Palermo è sempre stata strumentale ad altro. La carriera di Antonio Ingroia ne è l’emblema: da pm a opinionista a leader politico, cambiando casacca ma non bersaglio. E quando facendo informazione e battaglia politica si attaccano gli stessi sui quali si indagava da magistrato, ecco che l’opera di giustizia perde di credibilità.
Per questa ricorrente confusione di ambiti e significati, la testimonianza di Napolitano avrà eco molto oltre un peso processuale prevedibilmente nullo. Perché da anni un partito trasversale ha operato per mascariare il capo dello stato, macchiarne l’immagine, indebolirne il ruolo, minarne la strategia riformista. Cosa di meglio allora del coinvolgimento personale, anche se solo come testimone, in un processo noto al grande pubblico col sinistro e compromettente nome di “trattativa stato-mafia”?
Ci sono segnali che avvertono come i prossimi mesi saranno pieni di episodi del genere, e del resto ora anche i patti massonici sono stati tirati fra le gambe dei partiti che saranno protagonisti di un’elezione presidenziale che sarà il giro di boa della legislatura “renziana”.
Aspettiamo e vediamo, intanto ricordiamo all’Italia che se non siamo un paese ormai totalmente controllato da poteri esterni lo dobbiamo soprattutto al presidio di legalità e democrazia garantito dall’attuale capo dello stato.

giovedì 25 settembre 2014

La trama massonica del Corriere

Stefano Menichini 
Europa  

Un editoriale sorprendente di de Bortoli. Anzi due in uno. Con una volgare insinuazione piduistica usata per sostenere un avvertimento a Renzi: non puoi continuare a fare da solo. Altrimenti tornano i tecnici.
Ieri sul Corriere della Sera sono usciti due editoriali riunificati in uno. Entrambi molto interessanti e importanti, com’è ovvio per la testata e per l’autore, il direttore Ferruccio de Bortoli. Ma di argomento diverso, all’apparenza.
Il primo editoriale ha messo insieme e riproposto aggravati tutti i più diffusi spunti di critica nei confronti di Matteo Renzi, della sua persona e del suo stile di leadership. Solitario, egocentrico, incapace di fare squadra, irruente, muscolare, superficiale, concentrato più che altro sulla comunicazione. Circondato di collaboratori e ministri più fedeli che leali, deboli, inesperti, generalmente incompetenti (con citazioni positive per Padoan e Delrio), caricature del loro capo. Insomma, un disastro, come s’è già capito all’estero. Motivo per cui de Bortoli dichiara di non essere «convinto» dal premier. Annuncio di una “sfiducia” da parte del Corriere della quale si erano già viste le tracce, certo piazzata abbastanza a sorpresa nel momento in cui Renzi è sfidato da sinistra sul tentativo (da de Bortoli condiviso) di modernizzare il mercato del lavoro.
Il secondo editoriale, condensato in poche righe dopo il primo, è molto più forte. Perché il direttore del Corriere in sostanza dà il via alle danze intorno al vero appuntamento politico-istituzionale del futuro, cioè l’elezione del successore di Napolitano. E la mossa d’apertura è già micidiale: sul Quirinale secondo de Bortoli esiste un’ipoteca contenuta nel patto Renzi-Berlusconi. E questo patto è descritto con tinte grilline: è misterioso, di contenuto sconosciuto («riguarda anche la Rai?») e – punto alto dell’editoriale, o basso se si preferisce – è impregnato «dallo stantio odore di massoneria».
Dunque le riforme istituzionali ed elettorali concordate al Nazareno e l’intero assetto politico fino all’elezione del capo dello stato sarebbero sotto il sigillo di una sorta di nuova P2. Lo scrive il direttore del Corriere (che a questo punto getterà decine di cronisti sulla preda, fino allo svelamento della trama), ma giustamente fanno festa soprattutto al Fatto quotidiano rivendicando il copyright sulla pista massonica.
Ma è immaginabile un de Bortoli travaglizzato? No. Allora che cosa ci sarà dietro, a proposito di sospetti?
Ricomponiamo le due metà dell’editoriale e lo capiremo.
La tesi volgarotta della seconda parte (ma poi l’afrore massonico de Bortoli lo avverte con sette mesi di ritardo? E c’entra qualcosa anche Napolitano, che di quel patto come si sa è auspice?), la tesi dicevamo è in realtà funzionale all’avvertimento a Renzi, implicito nella prima parte, a non fare da solo. Ad accettare consigli, a far fare agli esperti. Perché non è vero, si legge in filigrana, che non ci siano alternative per l’Italia: può sempre arrivare la troika europea, tecnici e tecnocrazia, completando nel 2014 l’intervento avviato nel 2011 con l’esautoramento di Berlusconi. Neutralizzando ogni patto e ogni Nazareno. Facendo ovviamente saltare i piani di compassi e grembiulini sul Quirinale.
De Bortoli è e rimane un grande giornalista. Ed è questa bella differenza rispetto a tanti dietrologhi da strapazzo che inquieta, oggi. Perché autorizza a sospettare che l’insofferenza dell’establishment verso «l’irruenza» del premier sia ormai a livelli di guardia, superati i quali possano effettivamente ripartire manovre di commissariamento della politica, con tanti saluti anche al 40,8 per cento.
Che adesso Renzi si fermi o si freni intimorito, possiamo escluderlo. Certo lui e tutto il Pd devono sapere che dopo tante schermaglie, siamo arrivati al gioco duro.

mercoledì 24 settembre 2014

Una leadership al capolinea tra malumori, lettere anonime e la fine della concertazione


LUISA GRION ROBERTO MANIA
La Repubblica – 24/9/14

Il retroscena: Le principali voci del dissenso sono arrivate dai settori più esposti alla crisi economica. Il Nord, le categorie dell’industria, i pensionati

La Cisl ha mollato Bonanni. Può essere paradossale in un’organizzazione governata per anni con pugno di ferro dal sindacalista abruzzese di Bomba, ma è successo. «Il mio tempo è finito», ha detto ieri il segretario uscente ai microfoni del Tg1. Ma che il suo tempo fosse finito glielo avevano detto, dopo anni di totale unanimismo, proprio i suoi. Nell’ultima riunione dell’Esecutivo nazionale, nelle riunioni territoriali, qua e là con tante contorsioni in sindacalese anche in qualche documento serpeggiava il dissenso. Bonanni, classe 1949, ne ha preso atto. E ha deciso di accelerare il ricambio, di passare il testimone nelle prossime settimane alla genovese, cinquantaseienne, Annamaria Furlan, prima donna candidata a guidare il sindacato d’ispirazione cattolica, il secondo per numero di iscritti dopo la Cgil. Tutto così, se non ci saranno incidenti di percorso. Perché ora nella Cisl non c’è più niente di scontato. Anche Bonanni sarebbe dovuto andarsene tra sei mesi, e invece ha lasciato prima.
È dall’inizio dell’anno che il malumore ha cominciato ad emergere nel sindacato di Via Po. E non v’è dubbio che pure l’arrivo di Matteo Renzi a Palazzo Chigi abbia contribuito alla perdita di leadership del segretario generale. Bonanni si è ritrovato più debole senza più l’arma della concertazione. Ha cercato in tutti i modi di “conquistare” un tavolo di confronto con il nuovo governo, ma è stato respinto con perdite. È stato costretto a giocare di rimessa: da una parte con l’esecutivo di Renzi, dall’altra con la Cgil di Susanna Camusso, se non addirittura la Fiom di Maurizio Landini impegnati in una partita politico- sindacale dalle diverse sfaccettature, comunque in grado ancora di mobilitarsi. L’immobilismo della Cisl bonanniana ha invece rimesso in discussione la sua linea. L’irrilevanza sulla scena politica è diventata incompatibile con una leadership che sempre ha scommesso su rapporti privilegiati con i governi, in particolare con quelli del centro-destra. E non è un caso che le prime voci del dissenso siano nate nelle aree più esposte nella crisi: le regioni del Nord, le categorie dell’industria, i pensionati. E la Sicilia. Il nocciolo duro dei bonanniani è rimasto quello costituito dalle categoria del pubblico impiego, area un tempo di tradizionale forte insediamento cislino ma nella quale oggi prevale la Cgil, sia negli iscritti sia nei voti per le Rsu.
Da oggi, dopo la formalizzazione da parte di Bonanni della sua decisione, bisognerà seguire le mosse di Gigi Bonfanti, segretario dei pensionati, medico, sindacalista di lungo corso. Da lui sono arrivare anche le poche critiche alla linea Bonanni. Si muove con il pacchetto pesante di voti dei pensionati. E si dovrà seguire pure Gigi Petteni, segretario della Lombardia (780 mila iscritti) capace di coalizzare il malessere delle categorie dell’industria che con il processo di riorganizzazione voluto proprio da Bonanni sono destinate inevitabilmente a contare di più rispetto al centro burocratico di Roma. Da questi movimenti potrebbe emergere l’alternativa alla Furlan, soprattutto tra i quarantenni che scalpitano e ora vedono un’opportunità da poter sfruttare.
Che la stagione di Bonanni volgesse al termine si è capito nelle ultime settimane quando hanno ricominciato a girare nei corridoi vecchi veleni, dossier e lettere anonime. Al leader si sono fatti i conti in tasca. Sono sembrati troppi i 4.800 euro netti di pensione (circa 7 mila lordi) maturati nel retributivo poco prima che entrasse in vigore la riforma Fornero. Le accuse di essersi aumentato lo stipendio per aumentare l’importo dell’assegno sono state respinte facendo notare che gli anni di contributi sono 47. Ma quando i corvi volano lasciano il segno.