domenica 30 giugno 2013

Regole e congresso agitano il Pd



E la fronda anti-Renzi affila le armi

ANSA
Matteo Renzi, sindaco di Firenze e volto nuovo del Pd

Barca avverte il sindaco di Firenze: premier e segretario mestieri diversi
Chiti e Debora Serracchiani contro
il moltiplicarsi delle candidature
«Matteo Renzi riflette un errore compiuto da chi ha costruito il Pd. Anche negli Usa il coordinatore del partito è una persona che non ha niente a che fare con il candidato alla presidenza, deve avere altre doti. Sono due mestieri diversi. Però cambiare le regole in corsa non è facile». È l’ex ministro Barca il primo a schierarsi contro Matteo Renzi, che ieri, in una intervista alla «Frankfurter Allgemeine Zeitung» aveva detto che chi vince le primarie per il segretario del Pd deve anche essere candidato premier.  
«A me - ha spiegato Barca - interessa una organizzazione- partito che sia curata da una persona che crede in quella organizzazione, che dedichi 13 ore al giorno a quel lavoro... L’ ultima cosa che deve fare il segretario del Pd è dare fastidio al presidente del Consiglio, semmai lo deve incalzare, ma non deve ambire a quella posizione». 
Secondo Barca «chi ambisce a guidare una organizzazione deve occuparsi della sua organizzazione, poi potrà anche occuparsi d’altro, ma intanto ce n’è di lavoro da fare. Chiunque voglia candidarsi a fare il segretario si ricordi qual è il mestiere che ambisce a svolgere: il segretario di un partito, un mestiere che fa tremare le vene». 
Sulla stessa linea Vannino Chiti: «Il Pd ha bisogno di cure e di impegno: per questo è indispensabile togliere dallo statuto l’automaticita’ tra il ruolo di segretario e quello di candidato premier. Alcuni mesi prima del voto, per scegliere il candidato premier, dovranno essere previste primarie aperte. Così del resto abbiamo fatto prima delle ultime elezioni».  

Lo scontro, dunque, è sulle regole, oltre che sui nomi. «Lo statuto del Pd non lo ha inventato Matteo Renzi, ma è in vigore dalla nascita del partito. Errare è umano, perseverare sarebbe diabolico, non si possono cambiare le regole sempre e solo quando all’orizzonte c’è il sindaco di Firenze», dice il senatore del Pd Andrea Marcucci, presidente della commissione cultura a Palazzo Madama, vicino allo stesso Renzi. In campo c’è anche la Serracchiani. «più che costruire un’alternativa a Renzi, io intendo impegnarmi a costruire una nuova idea di Italia, con Renzi» dice in una intervista alla Stampa. «Noi - aggiunge - siamo arrivati a un punto in cui è necessario questo, fare gruppo, fare squadra. Senza una squadra, pensando di ostacolare Matteo, non andiamo avanti».  

Il mio impegno


Come ho già detto in passato, anche con i piedi nel Friuli Venezia posso e voglio contribuire a creare un’autentica alternativa per il Governo nazionale.
Io credo che per questa sfida il Partito democratico debba mettere in campo i suoi migliori esponenti, primo fra tutti Matteo Renzi. E il mio impegno sarà quello di dare una mano per ottenere questo risultato, non certo per farlo saltare.
Ed è anche ovvio che non sono disponibile a far mettere il mio nome in partite di corrente o in manovre interne di cui a me e soprattutto ai cittadini non interessa nulla. Perciò dico: proviamo a fermare le girandole dei nomi, che ora non servono alla serenità del percorso congressuale del Pd, e tantomeno aiutano il lavoro del Governo.
Infatti saremo misurati dalla saldezza con cui sapremo dare la nostra impronta a questo Governo e contemporaneamente dalla serietà che dimostreremo nell’essere partito che sa fare sintesi, dalle regole congressuali ai grandi temi nazionali. Noi non abbiamo bisogno di tornare indietro di vent’anni come Berlusconi per ritrovare noi stessi, ma abbiamo senz’altro bisogno di tirar fuori slancio e coraggio.
Debora Serracchiani

La nuova Matteonomics

Tasse da abbassare, spending review da non rimandare, produttività da rivoluzionare. La piattaforma di Renzi per conquistare il Pd e dettare l’agenda a Letta svelata dalle slide segrete del suo guru economico


Ricordate? Qualche giorno fa il Foglio vi ha dato conto delle bozze di un dossier ancora inedito sul quale stava lavorando da tempo il guru economico di Matteo Renzi: Yoram Gutgeld, deputato del Pd, cinquantatré anni, una vita passata in McKinsey. Bene. Quel dossier ora è stato definitivamente completato, il consigliere del Rottamatore lo ha raccolto in cinquantuno pagine di powerpoint, il sindaco ha dato la sua approvazione di massima al lavoro di Gutgeld e da oggi in poi il documento di cui vi parliamo in questa pagina (e che da oggi sarà consultabile sul sito del Foglio, qui) diventerà a tutti gli effetti la piattaforma programmatica attraverso la quale Renzi, proprio partendo dall’economia, proverà prima a conquistare il Pd e poi a incalzare con le buone o con le cattive il governo dell’“amico” Enrico Letta.

Ecco. Dalla lettura delle cinquantuno slide di Gutgeld si può dire che il piano studiato dal sindaco per sedurre il suo partito e garantirsi un consenso ampio all’interno del Pd sia più o meno questo. Mettiamola così: Renzi ha capito che uno degli errori commessi durante la sua campagna elettorale (quella per le primarie) è stato (a) aver puntato troppo sulla famosa teoria giavazziana del “liberismo è di sinistra” e (b) aver insistito troppo su alcuni concetti indigeribili per la gauche italiana (come l’abolizione dell’articolo 18). E così, per uscire dall’“equivoco” di essere considerato lontano dal popolo di sinistra sulle policy di natura economica, il sindaco di Firenze ha accolto con favore alcuni suggerimenti di Gutgeld (che ha un profilo più laburista rispetto al liberista Pietro Ichino, che aveva scritto buona parte del programma economico di Renzi alle primarie) e ha deciso di costruire il suo nuovo profilo con questa idea: dimostrare ai suoi compagni di partito di essere diverso rispetto al liberista sfegatato delle primarie e costruire una grande coalizione attorno alla sua candidatura partendo proprio dalla Matteonomics.

La lieve svolta a sinistra del sindaco di Firenze, se così si può dire, è ben testimoniata dalle cinquantuno pagine di Gutgeld. E allo stesso tempo, attraverso il dossier del deputato renziano, di cui pubblichiamo in questa pagina alcune slide, si indovinano anche quali sono i veri temi scelti dal Rottamatore per dettare l’agenda al governo e imprimere alla rotta del Pd una rupture rispetto alla vecchia direzione imboccata nel passato. Tre temi su tutti: riduzione della pressione fiscale, taglio radicale della spesa pubblica, nuovo modello di produttività.

Sul primo punto, ovvero la riduzione della pressione fiscale, i renziani, Gutgeld in testa, ieri hanno accolto con poco entusiasmo il rinvio di tre mesi dell’Iva annunciato dal governo: tra le ipotesi studiate da Letta per bloccare il passaggio dell’Iva dal 21 per cento al 22 per cento vi è infatti la possibilità che a novembre venga aumentata di quattro punti percentuali l’anticipo dell’acconto sull’imposta delle persone fisiche (l’Irpef), e i renziani, su questo fronte, promettono di non fare sconti al governo. Motivo? Facile. La riduzione dell’Irpef è una delle priorità del programma del Rottamatore e il guru economico di Renzi ricorda non a caso che “è un errore non far pagare una tassa aumentandone un’altra” e che “il governo avrebbe tutte le carte in regola per tagliare subito l’imposta sulle persone fisiche”.

Già ma come? Gutgeld sostiene, molto semplicemente, che “per abbassare le tasse bisogna far pagare le tasse e che per far pagare le tasse non vanno più alzate le tasse”. “La riduzione dell’Irpef sulle fasce di reddito medio-basse – scrive Gutgeld – va avviata immediatamente. E’ infatti possibile ridurre l’Irpef di 50 euro al mese da subito su tutti i lavoratori dipendenti (o assimilabili) con redditi netti inferiori a 2.000 euro al mese. L’operazione richiede tra gli otto e i dieci miliardi di euro che sono reperibili in due modi”. Il primo: “Messa in vendita di tutte le case popolari agli inquilini a prezzo di favore stabilito nazionalmente. Si stima – continua Gutgeld – che il valore complessivo delle case popolari superi i 30 miliardi, e la misura lascerebbe nelle casse dei comuni una parte del ricavato (20-40 per cento), utilizzando il resto per la riduzione dell’Irpef sulle fasce di reddito medio basse”.

Il secondo: “Utilizzare la Cassa depositi e prestiti per pagare una quota della spesa in conto capitale, creando uno spazio di manovra di pari misura per una riduzione delle tasse. Queste misure straordinarie saranno sostituite dal 2014 dal gettito fiscale atteso dalle azioni di prevenzione dell’evasione, che come è noto in Italia ammonta a circa 150 miliardi di euro all’anno, 60 miliardi in più rispetto alla media europea”.

Sull’evasione fiscale, le idee di Gutgeld per recuperare “30-35 miliardi di euro all’anno” sono state anticipate qualche giorno fa sul Foglio (pagamenti tracciabili, riduzione fino a 500 euro o anche 300 euro dell’uso contante, strumenti di pagamento elettronici obbligatori, dichiarazione patrimoniale, fattura elettronica per i pagamenti tra aziende). Ma oltre a questo, l’altro programma studiato da Gutgeld per “vincolare la lotta all’evasione fiscale a una riduzione della pressione fiscale” riguarda uno schema che prevede “una redistribuzione dei proventi derivanti da maggior fedeltà fiscale a favore dei contribuenti a basso reddito”.
Ok, ma in che modo?

Così: “La riduzione della pressione fiscale deve essere orientata a favore dei pensionati e dei lavoratori dipendenti con un reddito annuo inferiore ai trentamila euro. Il tutto attraverso una detrazione media mensile di circa novanta euro finanziata con 25 miliardi derivati dalla lotta all’evasione. Quanto varrebbe in termini di pil l’operazione? A regime avrebbe un impatto di circa 0,5 punti di pil all’anno creato da maggiori consumi”.

Il libro dei sogni sulla destinazione degli introiti ricavati dall’evasione fiscale, si sa, è ricco di protagonisti: e non c’è politico che (sia da destra sia da sinistra) prima di preparare una cavalcata verso una leadership non abbia evocato il desiderio di collegare la riduzione della pressione fiscale a una più severa lotta all’evasione. Il guru di Renzi sa che incatenare i finanziamenti per ridurre le tasse alla semplice lotta all’evasione è un rischio non da poco (si rischia cioè di non fare nulla) ed è per questo che all’interno della piattaforma economica suggerita al Rottamatore per prendersi il Pd e dettare l’agenda al governo Gutgeld ha puntato anche su una questione che finora, per forza di cose, non è stata affrontata dal governo: “Un taglio choc alla spesa pubblica”.

Negli ambienti governativi, il fatto che Enrico Letta finora non abbia mai fatto accenno alla necessità di mettere in pratica una formidabile opera di spending review è spiegata con un ragionamento di questo tipo: “Gli equilibri dell’esecutivo sono già molto fragili e metterci a discutere proprio adesso di che cosa tagliare rischia di far saltare tutto, e non ne vale la pena”. In verità, a quanto risulta, la commissione Bilancio della Camera, presieduta dall’ultra lettiano Francesco Boccia, ha cominciato a discutere di spending review e ha promesso di ritornare sul tema dopo l’estate. Renzi, nei suoi colloqui privati, è critico però con la lentezza dell’esecutivo, e non è un caso che il sindaco ricordi costantemente che se il governo non prende di petto il tema spending review rischia di sbattere contro un muro grande così. Per questo, dunque, il Rottamatore ha chiesto al suo consigliere economico di mettere in pratica un progetto di spending review. E sulla questione “dove si possono andare a trovare un po’ di soldi per stimolare la crescita e creare occupazione” Gutgeld ha alcune idee.

L’ex McKinsey – che nel suo dossier ricorda come in Italia tra il 2000 e il 2011 la spesa pubblica sia passata dal 39,7 al 45,5 per cento del pil (in Germania, negli stessi anni, è passata dal 41,9 al 42,8) – sostiene che ci sono molte strade da percorrere per rendere “più produttiva la spesa pubblica” e “convincere una volta per tutte la sinistra che sia possibile avere un welfare state più forte anche spendendo di meno”. Il primo punto, secondo Gutgeld, sono le pensioni.

“Abbiamo 500 mila pensionati che percepiscono, con il metodo retributivo, più di sette volte la pensione minima (circa 3.400 euro al mese), per un costo complessivo di oltre 32 miliardi all’anno. Cosa si potrebbe fare per ottimizzare? Per le pensioni che superano di tre o cinque volte il minimo, quelle che vanno da 1.443 fino a 2.405 euro al mese lordi, andrebbe dimezzato l’adeguamento all’inflazione per un anno, e avremmo un risparmio di 0,7 miliardi. Per le pensioni che superano tra 5 e 7 volte il minimo, quelle cioè che vanno da 2.405 euro a 3.367 euro, dovremmo fermare l’adeguamento per 2 anni e avremmo un risparmio di un miliardo a partire dal secondo anno. Per le pensioni superiori di sette volte il minimo andrebbero infine previsti tagli del 10 per cento e blocco dell’adeguamento all’inflazione per 3 anni: avremmo così un risparmio di tre miliardi il primo anno e di 3,8 miliardi dal terzo anno in poi”.
Con questi risparmi, aggiunge il guru di Renzi, “si potrebbe per esempio dare un incentivo vero alla lotta alla disoccupazione”. Secondo Gutgeld, infatti, “trasformare qualche contratto precario in qualche contratto stabile, come ha fatto oggi il governo (ieri, ndr), non è una misura che aiuta a creare nuovi posti di lavoro, ma è una misura che si limita a stabilizzare. E avendo risorse limitate, oggi sarebbe giusto dare la priorità alla creazione di nuovo lavoro piuttosto che trasformare alcuni contratti”. Per esempio? “Con quattro miliardi all’anno potremo finanziare 650 mila giovani in servizio civile o apprendistato a cinquecento euro al mese, come accade in Germania, e in pratica, in questo modo, sarebbe lo stato che potrebbe accollarsi il pagamento di questi stipendi, seppur per un periodo limitato”.
Oltre alle pensioni, poi, Gutgeld, come si evince dalle slide, sta preparando anche un progetto di legge, voluto da Renzi, che prevede una revisione del settore delle assicurazioni che potrebbe far risparmiare quattro miliardi di euro all’anno, e che porterebbe a una riduzione del 22 per cento delle spese complessive nel settore del Rc auto.

A questo, infine, sempre scorrendo il dossier, andrebbero aggiunte altre proposte che nei prossimi mesi diventeranno parte della piattaforma programmatica dell’universo renziano in materia di spending review. Il primo punto è la sanità, dove Gutgeld sta studiando un modo per creare un unico contenitore organizzativo e giuridico per evitare dispersioni e inefficienze tra Inps, comuni e regioni, e il piano porterebbe a un risparmio intorno ai dieci miliardi. Il secondo punto riguarda le prefetture, e qui Gutgeld ha suggerito a Renzi un accorpamento che farebbe passare il numero effettivo di prefetture da 70-80 presidi periferici a 20-30 prefetture centrali. Il terzo punto è relativo ai contributi alle imprese e Gutgeld propone di chiudere con la fase dei contributi a pioggia e suggerisce a Renzi di intestarsi una campagna per la patrimonializzazione delle imprese puntando a recuperare 50 miliardi di investimenti privati in 5 anni. E infine l’ultimo capitolo più corposo riguarda la produttività. Il ragionamento del guru di Renzi, già accennato qualche giorno fa sul Foglio, è che prima di chiedere una qualsiasi diminuzione dell’Irap nel mondo confindustriale è necessario aumentare la produttività, “e per la politica è importante non cedere alle pressioni dei sindacati”. Ma il ragionamento, in un certo senso, riguarda non solo Confindustria ma anche i servizi dello stato. Gutgeld sostiene che si può “aumentare la produttività producendo gli stessi prodotti o servizi con costi più bassi” e dice che “tutto ciò che viene risparmiato nella pubblica amministrazione andrebbe reinvestito nelle stessa pubblica amministrazione per creare nuovi posti di lavoro”. E quanto vale il piano? L’ex McKinsey stima che si potrebbe portare la macchina dello stato a un risparmio tra i 4 e i 6 miliardi l’anno.

Ecco. Questo dunque è il succo della nuova piattaforma economica del renzismo. Una piattaforma forse meno liberista, meno giavazziana e anche meno blairiana del passato ma una piattaforma che, comunque sia, Renzi nelle prossime settimane farà sua per realizzare un doppio obiettivo: prendersi il Pd (e creare attorno alla sua candidatura un fronte di consenso trasversale); e mettere in campo sul piano delle politiche economiche un’agenda alternativa non solo a quella del centrodestra ma anche a quella del governo. Il percorso è complicato, e Renzi dovrà stare attento a non cadere nella tentazione di trasformare la propria voglia di dettare l’agenda al governo in una voglia di rottamare il governo. Ma la strada che Renzi seguirà per raggiungere i suoi obiettivi comincia dall’economia: e in questo senso per seguire la traiettoria che il sindaco di Firenze imboccherà da qui al congresso forse bisogna partire proprio da qui.

Claudio Cerasa
Il foglio quotidiano del 27/06/213


Inviato da i

sabato 29 giugno 2013

novità!!!!!

Berlusconi: “Tornerà Forza Italia Temo che sarò ancora il numero uno”

 

Il Cavaliere: «Il Popolo della libertà resterà come coalizione di partiti». Sul governo: «Da parte nostra
c’è un sostegno leale e convinto»
Silvio Berlusconi scalda i muscoli e si prepara a tornare ad essere «il numero uno» di Forza Italia; ma il Pdl non verrà gettato alle ortiche, «resterà in campo come coalizione dei partiti di centrodestra»: l’annuncio questa volta lo ha fatto lo stesso Cavaliere che, dopo il rincorrersi di voci e battibecchi (tra Santanché e Alfano) ha sgombrato il campo dalle incertezze.

Delitto Moro, nuove rivelazioni : «Cossiga in via Caetani 2 ore prima della telefonata Br»


A 35 ANNI DALL'OMICIDIO

Parla Raso, antisabotatore tra i primi a scoprire il cadavere del politico: «Il sangue era fresco, erano le 11 del 9 maggio»


Aldo Moro (Ansa)Aldo Moro (Ansa)
La morte di Aldo Moro non è ancora una questione per gli storici. Vitantonio Raso, il giovane antisabotatore che arrivò per primo in Via Caetani, rivela all'Ansa e al sito vuotoaperdere.org che la sua opera fu richiesta ben prima delle 11 del 9 di maggio 1978 e che arrivò davanti alla R4 amaranto in via Caetani poco dopo quell'ora. In un suo recente libro («La bomba umana») Raso aveva lasciato indeterminata la questione degli orari che ora chiarisce dopo 35 anni. La questione è rilevante perché la telefonata delle Br (Morucci e Faranda) che avvertiva dell'uomo chiuso nel bagagliaio della macchina è delle 12.13. Non solo: Francesco Cossiga e un certo numero di alti funzionari assistettero, ben prima delle famose riprese di Gbr che sono state girate a cavallo delle 14, alla prima identificazione del corpo fatta proprio da Raso. Cossiga si recò quindi due volte in via Caetani. La R4 fu ripetutamente aperta dai due sportelli laterali come testimoniano le foto a corredo di questa inchiesta.
«SEMBRAVA CHE COSSIGA SAPESSE GIA'» - «Quando dissi a Cossiga, tremando, che in quella macchina c'era il cadavere di Aldo Moro, Cossiga e i suoi non mi apparvero né depressi, né sorpresi come se sapessero o fossero già a conoscenza di tutto», dice Raso. «Ricordo bene che il sangue sulle ferite di Moro era fresco. Più fresco di quello che vidi sui corpi in Via Fani, dove giunsi mezz'ora dopo la sparatoria».
MAI INTERROGATO - Raso fornisce la prova che le cose il 9 di maggio non andarono come finora si è raccontato: «Sono ben consapevole. La telefonata delle Br delle 12.13 fu assolutamente inutile. Moro era in via Caetani da almeno due ore quando questa arrivò. Chi doveva sapere, sapeva. Ne parlo oggi per la prima volta, dopo averne accennato nel libro, perché spero sempre che le mie parole possano servire a fare un po' di luce su una vicenda che per me rappresenta ancora un forte choc. Con la quale ancora non so convivere». Raso non è mai stato interrogato.
Corriere della Sera 29 giugno 2013

Hack, l’ultimo sberleffo alla morte “Ho scelto di andarmene sorridendo”

La Stampa 29/06/2013
il lutto per la signora delle stelle

federico taddia
“Ciao Marghe, come stai?” 
“E come vuoi che stia Fede, sono qua in gabbia. Non vogliono più che vada più in giro: ma io scappo. Anche perché la mia testa mica la puoi fermare”. Abbiamo riso insieme, pochi giorni fa al telefono, come mille altre volte. Anche se la voce era sempre più flebile. Il fiato più corto. Quel cuore impazzito ormai ingestibile da quando aveva scelta di non farsi operare, tempo fa, perché “Non voglio sfinire sotto i ferri per vivere qualche mese in più: non ne vale la pena. Preferisco morire sorridendo”. Con Margherita era impossibile non ridere, perché l’ironia era il suo approccio alla vita, un approccio rigoroso e spettinato, come amava definirlo lei. 
Ho avuto la fortuna di frequentare tanto la Marghe in questi anni, per lavoro e per piacere. Lunghe chiacchierate, per conoscere e far conoscere la sua storia, il suo pensiero, il suo sapere. 
Lei è la sue T-Shirt, sempre spiazzanti e sempre un po’ macchiate. Lei e i suoi pranzi a base di insalata, pomodori e gatti tra i piedi. Lei è il suo inseparabile bastone da passeggio e lo zainetto sulle spalle, gobba e tremolante, ma sempre in piedi. Sempre un passo avanti agli altri. Lei e i suoi libri, lei e la sua sfida infinita a spiegare i buchi neri ai bambini, lei e l’amore per lo sport, per la sua Fiorentina, la passione nascosta per “Un posto al sole”, l’odio per Berlusconi, le critiche alla Chiesa e l’amicizia vera e profonda con tanti preti di strada e di battaglia. 
Ricordare ora Margherita è tutto questo: è rivedere il suo amore, vero, profonda, inscalfibile per il marito Aldo. E’ la serenità con cui ti diceva che non voleva avere figli perché a lei i bambini piacevano, ma solo se erano bambini di altri, e che non si sentiva quindi in colpa nel sentirsi più attratta dai gatti. E’ il suo rispondere sempre al telefono, dare comunque sempre un appuntamento a chi glielo chiedeva, correre per convegni e presentazioni, fare prima della ricerca e poi della divulgazione una scelta di vita. 
“Sai qual è una cosa che proprio mi dà fastidio?” – mi diceva spesso – “Quando mi trattano come se fossi la Madonna, quando invece sono solo una donna. Invece mi fanno sembrare una santa, una reliquia: mi toccano, mi vogliono baciare, mi ringraziano per le cose più diverse. Non credi di aver fatto nulla di straordinario per meritarmi la loro dolcezza, men che meno la loro ammirazione. Ho fatto un lavoro serio, onesto, ma senza grandi clamori. Ho solo portato la mia pietruzza al mosaico della scienza, cercando la verità. Dicendo la verità”. 
E poi c’era il tema della morte, che abbiamo sfiorato tantissime volte. 
Le chiedevo se lei, così innamorata della vita non la temesse. E lei, rideva, rideva sempre. “Non me ne frega niente della morte Federico. Fosse per me, camperei 1000 anni, ci sono ancora tante cose da scoprire: ma la morte non mi fa paura, mi basta andarmene senza troppe agonie, senza troppe sofferenze. Poi mica sparisco: mi trasformo in una molecola, e in un modo o nell’altro rimarrò ancora su questa terra. E sai una cosa? Non mi interessa nemmeno se sarò ricordata o meno: non sarà più un problema mio”.  
E poi via, c’era la scrollata di spalle, segno che era ora di non parlarne più, perché era un argomento inutile. La stessa scrollata di spalle con cui ti rispondeva a domande tipo “Perché non ti emozionano le stelle?”, “Perché non sei mai andata dalla parrucchiera?, “Perché non ti riposi un po’?”. Sarebbero mille gli aneddoti di questa straordinaria scienziata, che per farla arrabbiare bastava chiamarla nonna: “Ma quale nonna e nonna, dentro mi sento una giovincella io”.  
In queste settimane stavamo iniziando a lavorare ad un nuovo progetto insieme: le avevo chiesto di scegliere le 50 parole che avrebbe voluto lasciare come testamento e darmi di ognuna una sua piccola definizione. 50 parole per raccontarsi, ma 50 parole che fossero stimoli e pungolo per i giovani. La divertiva molto questa cosa. E per ora me ne aveva scelte due: “Fiorentina: l’unica fede possibile” e “Ricerca: non accontentarsi di quello che si sa, non farsi spaventare da quello che si sa”. 
Ci mancherà Margherita, che non ha mai avuto paura della morte perché non ha mai avuto paura di vivere.

venerdì 28 giugno 2013

In autunno la resa dei conti

La Stampa 28/06/2013
 
 
marcello sorgi

Siglata tra Palazzo Chigi e il Quirinale dove il condannato Berlusconi era stato solennemente ricevuto all’indomani della pesante sentenza per il caso Ruby - e alla vigilia dell’udienza in Cassazione sul lodo Mondadori e della probabile incriminazione per la compravendita di senatori in epoca ultimo governo Prodi - è durata appena 24 ore la tregua che doveva consentire al governo di riprendere fiato e a Letta di presentarsi al vertice europeo senza tenere l’orecchio incollato al cellulare per ricevere cattive notizie dall’Italia.  
 
Il presidente del consiglio ha avuto appena il tempo di concentrarsi per qualche ora sui delicati dossier che sono al centro dell’incontro tra i leader, che subito la sua attenzione è stata richiamata in Italia dal nuovo scontro apertosi nella maggioranza sulla giustizia e sui provvedimenti per l’occupazione. Va detto che con la levata di scudi contro l’emendamento del Pdl, che punta a ridisegnare, in caso di riforme istituzionali, il ruolo del Consiglio superiore della magistratura, il Pd ha voluto mettere le mani avanti e far sentire il crepitio di un fuoco di avvertimento. Se davvero - e sarà da vedersi, in questo clima - il Parlamento dovesse mettere mano ai poteri della Camera e del Senato, come si propone di fare, e se un lavoro del genere, anche senza cambiare del tutto l’aspetto costituzionale del nostro sistema, comportasse un rafforzamento della figura del premier o addirittura l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, non si capisce come da una ristrutturazione del genere potrebbe restare escluso l’organo di autogoverno dei giudici. Ma tant’è: i rapporti tra i due principali partiti della maggioranza sono improntati a un tale clima di sospetto che al minimo stormir di fronde si incrociano raffiche di polemiche.  
 
Non è stata da meno anche l’accoglienza che il Pdl, non tutto, ma a un certo livello, ha tributato ai provvedimenti usciti da Palazzo Chigi mercoledì. Il capogruppo dei deputati Brunetta ha sostenuto che la sospensione dell’aumento dell’Iva è stata adottata senza trasparenza sulle coperture (attacco al ministro dell’Economia Saccomanni), mentre la sua vice Gelmini spiegava che il decreto sul l’occupazione giovanile realizzava solo in parte una proposta lanciata durante la campagna elettorale dal centrodestra. Per evitare che il consiglio dei ministri preparato con tanta cura, e tenuto alla vigilia del vertice di Bruxelles anche per dimostrare la capacità riformatrice del proprio governo, apparisse come una specie di gioco delle tre carte, Letta è dovuto intervenire personalmente dall’estero per difendere Saccomanni e reagire alle accuse di Brunetta. 

Ora, a parte i risultati che potrà conseguire con la sua missione europea (segnata, come sempre, da un avvio interlocutorio e da un veto del primo ministro inglese Cameron che non fa ben sperare), ci si chiede quanto potrà andare avanti ancora il governo su una strada così accidentata. Il problema non è la durata (sulla quale, in mancanza di alternative, sia Berlusconi sia Epifani si sono impegnati fino all’altro ieri), ma la possibilità e la capacità di realizzare il programma su cui era nato l’accordo delle larghe intese. Un elenco ambizioso di riforme improcrastinabili, dall’economia alle istituzioni, non prive di conseguenze sociali, che solo un accordo tra (ex?) avversari poteva consentire di varare, suddividendone i costi politici e preparandosi a incassarne i dividendi al momento dell’uscita dell’Italia dalla crisi. Invece, finora, s’è preferito procedere di rinvio in rinvio, dall’Imu all’Iva alla Grande Riforma, spostando all’autunno il momento della vera resa dei conti e dell’eventuale, in caso di rottura, ritorno alle urne. 

Pressati in questa gimcana dai rispettivi partiti - uno, il Pd, in corsa verso il congresso, l’altro, il Pdl, precipitato verso una rifondazione del marchio e dello spirito «rivoluzionario» di Forza Italia - Letta e Alfano hanno dimostrato fin qui una personale e straordinaria abilità a districarsi tra i veti incrociati e a tenere in piedi un esecutivo, nato traballante, e alle prese con un’opposizione trasversale e strisciante che attraversa tutta la larga maggioranza di cui dispone. Ma alla vigilia della lunga estate in cui una volta e per tutte si giocherà la sopravvivenza, forse è lecito chiedersi se un governo come questo può accontentarsi di tirare a campare. E soprattutto di campare così.

Concorrenza verde per il Pd


I verdi provano a riorganizzarsi. Il Pd li ha delusi o tagliati fuori, Grillo è stato un turbine senza concretezza. Forse Renzi dovrebbe interessarsene.
La notizia rischia di essere rubricata alla voce “riposizionamenti di ceto politico”. Nasce una nuova formazione, un partitino ecologista nel quale confluiscono alcuni rivoli dell’ambientalismo compresi i Verdi ufficiali: ennesima tappa di una peregrinazione che non ha mai trovato la terra promessa da quando, nell’ormai preistorico 1985, apparvero in Italia le prime liste col sole che ride.
La definizione può apparire ingenerosa. Pazienza: la generosità non esiste in politica, e in effetti i promotori del nuovo gruppo Green Italia sono esponenti di spicco dell’ambientalismo italiano rimasti tagliati fuori per un motivo o per un altro dal terremoto elettorale di febbraio. Ora puntano a unire le forze nella prospettiva delle Europee 2014 e della possibile fine anticipata della legislatura.
Egualmente però sarebbe sbagliato sottovalutare l’iniziativa. Va considerato il terreno politico-elettorale che si vuole provare a picchettare. Un terreno lasciato libero dal Pd, non presidiato con credibilità da Sel, e che in febbraio Cinquestelle ha letteralmente razziato, raccogliendo messe di voti (giovanili, in particolare) senza poi dare risposta alla domanda di concretezza tipica dell’opinione ecologista.
È impossibile dire oggi se questo spicchio di mercato elettorale abbia una consistenza, né se nuovi simboli possano risultare convincenti. Il punto è un altro: in una stagione di grandi ripensamenti collettivi e individuali sugli stili di vita, sui modi di produrre e di consumare e sulla sostenibilità di interi comparti industriali (perfino con risvolti drammatici, dall’Ilva al Sulcis), è possibile per un grande partito “a vocazione maggioritaria” come il Pd cedere il campo?
Alle ultime elezioni c’è stata la falcidia dei verdi nelle liste democratiche: non interessavano a Bersani (uomo di altra cultura), non hanno convinto Renzi, non sono neanche nel cuore di Enrico Letta come si deduce dalla scelta per il ministero dell’ambiente di un dirigente Pd bravo e competente ma in materie assai diverse.
Non è tanto un problema di persone: chi rimane tagliato fuori deve anche interrogarsi su se stesso. È però un enorme problema di politiche, oggi portate avanti nel Pd da pochi tenaci sopravvissuti (che domani si riuniscono, come risposta alla presentazione della nuova sigla).
Sicuramente Matteo Renzi considera se stesso il sindaco più ambientalista d’Italia, testimonial della qualità verde del “suo” Pd. Ma i tempi cambiano, Grillo sta lasciando “liberi” milioni di voti anche con questo tipo di interessi: fossi al suo posto darei un occhio a non far crescere troppa concorrenza in questo ambiente.

Sarà Fassina il candidato anti-Renzi?

 

L'ipotesi piace all'area bersaniana, che preferirebbe il viceministro a Gianni Cuperlo. Ma la candidatura potrebbe lasciare freddi gli altri ex-Giovani turchi e l'area popolare
I bersaniani starebbero pensando a Stefano Fassina come candidato anti-Renzi per la segreteria del partito: lo scrive Maria Teresa Meli sul Corriere della Sera di stamattina. L’ipotesi non è campata per aria. La candidatura di Renzi metterebbe in crisi molti degli equilibri attuali e la sinistra interna del Pd avrebbe la necessità di contrapporgli un nome forte: tra le candidature finora su piazza quella di Pippo Civati, che pure riscuote forti consensi nella base del partito, suona troppo “anti-governativa” (viste le posizioni del deputato lombardo sulle grandi intese), mentre – come scrive la Meli – «Gianni Cuperlo è stato definito “candidato divisivo”».
Stefano Fassina avrebbe il profilo giusto: stimatissimo da una parte importante della base democratica (alle primarie dello scorso dicembre era stato il più votato a Roma, con quasi dodicimila preferenze, il doppio del primo degli inseguitori), da quando è viceministro dell’economia nel governo Letta ha dimostrato di avere la caratura dell’uomo di governo, con una capacità di mediazione niente affatto scontata.
Ma qualche obiezione rimane. Prima fra tutte quella sulla candidatura di Gianni Cuperlo: sarebbe disposto a farsi da parte in nome dell’“unità” della sinistra interna? Forse sì, in nome della ditta. E i suoi sostenitori? Negli ultimi tempi i rapporti tra Fassina e Matteo Orfini sembrano essersi logorati, e lo stesso Fassina – in un’intervista con Europa – ha definito «finita» l’esperienza dei Giovani turchi. E il documento Fare il Pd, stilato da Fassina insieme ad Alfredo D’Attorre – era stato accolto con una certa freddezza all’interno del partito.
Altra questione quella dei rapporti tra Fassina e il mondo dei popolari. Questa mattina, su Twitter, Claudio Cerasa del Foglio ragionava: «In tutto questo, se i candidati al congresso fossero Renzi-Cuperlo-Civati-Fassina in teoria il candidato di Letta dovrebbe essere Fassina». Ma non è detto che tutta l’area ex-Ppi – che pure faceva parte della vecchia maggioranza bersaniana – sarebbe disposta a confluire su un candidato così marcatamente caratterizzato “a sinistra”.

giovedì 27 giugno 2013

Perché le primarie non cambieranno

Mario Lavia
 

Saranno aperte come nelle precedenti occasioni, oltre tutto non ci sono nemmeno i numeri per cambiare le regole né in direzione né in assemblea nazionale. E Renzi è lì
Nei giorni scorsi, uno dopo l’altro – con la vistosa eccezione di Bersani – tutti i big del Pd si sono pronunciati per le primarie aperte. Aperte a tutti quei cittadini (meglio se anche ai sedicenni) che con maggiore o minore intensità ritengono che il Pd sia il partito cui puntare e il cui leader possa competere per la guida del governo. Né più né meno di quello che abbiamo vissuto nel 2007 e nel 2009, le due precedenti primarie per la leadership del Pd.
La commissione per le regole alla fine deciderà per la strada più ragionevole. Niente “albi”, niente obbligo di iscriversi al partito, niente registrazioni.
Guglielmo Epifani ha tenuto sinora una posizione di mediazione, attento alle ragioni di Bersani, ma è probabile che stia vivendo questa discussione con un crescente disagio, e c’è da capirlo. Si rende conto che non ci sono nemmeno i numeri (in direzione o in assemblea nazionale) per cambiare statuto e regole. E anche da Bersani a questo punto ci si aspetta più una battaglia sui contenuti che non sulle procedure, perché anche solo dare l’impressione di arzigogolare per complicare la vita di Matteo Renzi non rende un buon servizio a lui per primo.
Ci vorranno dunque più candidati, più documenti, un congresso non spezzato fra fase centrale e fase locale per dare l’idea di un grande appuntamento nazionale.
Al massimo si potrà “ammorbidire” l’automatismo fra leader e candidato premier. Ma sarebbe (sarà) una modifica che non muterebbe la sostanza: il numero uno del Pd correrà per palazzo Chigi.
Renzi vuole vedere il tutto nero su bianco, giustamente, ma se le cose stanno così non dovrebbe più avere remore nel decidere di scendere in campo. Forse un po’ frettolosamente, Scalfari ha scritto che scioglierà la riserva il primo luglio: magari sarà più verso la fine del mese ma, anche qui, la sostanza non cambia.
Il suo dubbio sulla possibilità reale di conquistare le “truppe” deve tenere conto che il corpo del partito si sta abituando all’idea della sua leadership.  E che le correnti interne a lui ostili perdono terreno e personalità, e infatti il clima interno è meno nevrotico. La strada ormai è aperta.

mercoledì 26 giugno 2013

La baby campionessa non può gareggiare “E’ figlia di africani, niente sincronizzato”

La Stampa 26 giugno 2013

La bimba è nata 9 anni fa in Italia, ma la legge la considera straniera. La Federnuoto: costretti a escluderla.
Zaia: «Sì a cittadinanza, no a ius soli». La storia di un sogno infranto in vasca.

Berlusconi va ascoltato. Può far poco

 

Per quanto questa situazione (i processi, le condanne eccetera) fosse facilmente preventivabile quando sono nate le larghe intese, solo adesso l'ex premier misura il limite del suo indiscutibile successo politico post-elettorale
Berlusconi è una delle due colonne che tengono in piedi il tentativo di governo di Enrico Letta. Prima di ogni altro ragionamento, a sinistra occorre tenere presente questa condizione: è una condizione forzata ma non per questo meno reale. La prima conseguenza è che se il Pdl chiede qualcosa al governo, il presidente del consiglio è tenuto a prestare ascolto. E a sforzarsi di soddisfare le esigenze legittime e compatibili.
I limiti sono dati dall’accettabilità delle richieste, non dal perimetro dei temi. Il programma del governo sulla giustizia è molto vago, e non a caso: questo non significa che sia proibito assumere iniziative. In via pregiudiziale Letta può porre un solo veto, e l’ha già fatto: l’epoca delle leggi ad personam è chiusa per sempre.
Per quanto questa situazione (i processi, le condanne eccetera) fosse facilmente preventivabile quando sono nate le larghe intese, solo adesso Berlusconi misura il limite del suo indiscutibile successo politico post-elettorale.
Il Pdl ha giocato molto meglio del Pd la partita di primavera, i rapporti di forza però rimangono sfavorevoli a forzature da destra. E anche l’operazione che è stata dipinta come il capolavoro del Cavaliere – la rielezione di Napolitano – ha avuto in ogni caso come esito che sul Quirinale è tornato un capo dello stato che per sette anni non aveva mai mollato d’un centimetro nella difesa dell’autonomia della magistratura. Anzi. Nel centrodestra è vivo e riaffiora continuamente il dispetto per la tenaglia che hanno visto spesso stringersi a loro danni tra presidenza della repubblica e corte costituzionale.
Per finire, Letta, il Pd e tutto il centrosinistra possono affrontare la difficile fase post-Ruby con un piano B che due mesi fa non c’era, e di cui il Pdl non dispone. Senza neanche una vera riforma varata, nessuno può sperare nelle elezioni anticipate. Qualcuno però sa adesso di non doverle temere: non si chiama né Berlusconi né Grillo, è il Pd se dovesse affidarsi alla guida di Matteo Renzi.

È ora di fare i conti con la politica di papa Francesco


Il magistero di questo papa può aiutare i politici cattolici a ritrovare il senso della loro missione che è quella di stare nelle istituzioni non per convertire il mondo ma per farle funzionare meglio a servizio del “bene comune”
Penso che i cattolici impegnati in politica debbano fare i conti con la politica di papa Francesco. Comincia infatti a delinearsi il “segno” di questo pontificato.
Un magistero fatto di conversione e testimonianza piuttosto che di note dottrinali. Non che la dottrina non sia importante, ma non è necessario rideclinarla ad ogni stagione, tanto è la stessa da duemila anni.
È necessario invece viverla, renderla visibile, praticata, dimostrarne la praticabilità e, dunque, l’attualità. Il suo è un magistero di gesti, di scelte, di atti e di fatti. E il mondo dei credenti viene interpellato e indotto alla sequela. E quello dei non credenti osserva sorpreso e sempre più intrigato: se il cristianesimo è questo allora è una cosa seria.
In Italia in particolare, anche per ragioni storiche comprensibili, soprattutto negli ultimi decenni ci si è affidati troppo alla difesa della politica, fingendo di non sapere che la politica può sempre meno e che in ogni caso è popolata da donne e uomini fragili come tutti e le istituzioni sono necessariamente attente a ciò che c’è fuori piuttosto che a determinare ciò che c’è fuori. È a monte, cioè fuori, nella società, che il cristianesimo deve giocare le sue carte se vuole servire l’uomo. Di seguito verrà il resto, anche la politica. I gesti, i tanti quotidiani piccoli gesti, di papa Francesco stanno producendo attenzione, interesse, confessioni, conversioni. Cambiamento.
È bastata l’insistenza sul tema della misericordia, cioè sulla bontà e paternità di un Dio che vuole bene all’uomo, a tutti gli uomini, anche i peccatori anche i non credenti, per determinare un “ascolto” nuovo, per determinare un ritorno al sacramento della “richiesta del perdono” per i propri errori con la fiducia di ottenerlo, per riempire piazza san Pietro di domenica, di mercoledì, ogni giorno in cui è possibile incontrare questo imprevedibile Pastore. Non basterà certo il magnetismo del nuovo pontefice a cambiare le cose, ma può servire a creare lentamente un magistero dei comportamenti più allargato e partecipato che a sua volta può aiutare tutti a scoprire il sapore dimenticato della buona novella.
Che c’entra tutto ciò con la politica? C’entra perché può aiutare i politici cattolici a ritrovare il senso della loro missione che è quella di stare nelle istituzioni non per convertire il mondo ma per farle funzionare meglio a servizio del “bene comune”, cioè del bene di tutti. Di starci con intelligenza della storia, dedizione disinteressata, competenza coltivata. È una reductio? Tutt’altro. È esaltazione di un ruolo che, poiché non è richiesto a tutti nella comunità cristiana, chi lo esercita deve dimostrare di esserne all’altezza.
Vale la pena riflettere su uno studio apparso sulla rivista francese Futuribles (mars-avril 2013, n. 393) in cui si dimostra che la qualità antropologica e i costumi nei vari paesi dell’Europa sono prevalentemente determinati non dalla qualificazione politica dei loro governi quanto dall’influenza della religione prevalente nel paese. L’autore, Pierre Bréchon, professore a l’Institut d’études politiques de Grenoble, dopo aver suddiviso i vari paesi per religione prevalente (ad esempio, paesi cattolici: Malta, Polonia, Irlanda, Austria, Italia, Portogallo, ecc.; paesi protestanti: Danimarca, Finlandia, Svezia, Gran Bretagna, ecc.; paesi multiconfessionali: Lettonia, Germania, Paesi Bassi, ecc.; paesi ortodossi: Grecia, Cipro, Romania, Russia, Ukraina, ecc.; paesi musulmani: Turchia, Kossovo, Cipro Nord, Albania, ecc.) esamina l’atteggiamento delle rispettive popolazioni di fronte ad alcuni temi/valori e ne esce confermata la tesi che ho già anticipata e, in particolare, la tendenza a ridursi della forbice comportamentale tra i paesi cattolici e quelli protestanti. Per esigenze di spazio posso citare solo alcuni dei numerosi indicatori presi in esame.
Primo: “molto favorevoli alla famiglia tradizionale” (dati percentuali): paesi cattolici 29, protestanti 10, multiconfessionali 26, ortodossi 51, musulmani 72.
Secondo: “forte liberalizzazione dei costumi”: cattolici 58, protestanti 71, multiconfessionali 67, ortodossi 38, musulmani 10.
Terzo: “molto favorevoli alla permissività civica”: cattolici 56, protestanti 45, multiconfessionali 53, ortodossi 58, musulmani 18.
Quarto: “liberali in economia”: cattolici 58, protestanti 77, multiconfessionali 73, ortodossi 51, musulmani 50.
Questi soli quattro indicatori (la ricerca ne ha esaminato più di una ventina) ci dicono tante cose. Sicuramente che c’è in atto un processo di avvicinamento nei comportamenti dei popoli europei e che le differenze che pur rimangono segnalano una perdita di influenza dei messaggi delle diverse religioni prevalenti, almeno di alcune. E, dunque, le diverse conseguenti antropologie risentono ben più della crescente difficoltà delle chiese a parlare all’uomo contemporaneo piuttosto che dell’azione dei governi. Ciò per confermare la necessità di ritrovare all’interno delle comunità religiose prima ancora che in quelle civiche il senso della propria missione abbandonando l’idea pagana di una sorta di onnipotenza della politica.
In questo senso mi pare, per tornare alle affermazioni iniziali, che la politica di papa Francesco sia molto interessante anche sotto il profilo oggettivamente politico. Cercare di “aggiustare” la società diventa il vero compito prioritario e inevitabilmente, alla lunga, il più influente per la politica stessa. Più del nostro pur importante e necessario lavoro nelle istituzioni.

martedì 25 giugno 2013

Lega Nord, indagine in tutta Italia sul riciclaggio di milioni di euro

L'inchiesta sui fondi spariti della Lega Nord  e sulla gestione dell'ex tesoriere Francesco Belsito

Gli investigatori della Dia stanno effettuando perquisizioni in tutta Italia per ordine della procura di Reggio Calabria che indaga sui fondi spariti della Lega Nord e sulla gestione dell'ex tesoriere Francesco Belsito. L'indagine riguarda il riciclaggio di milioni di euro attraverso conti correnti utilizzati anche da personaggi legati alla 'ndrangheta.

Brescia: Chiesanuova, convalidato sequestro dei parchi

QuiBrescia Martedì 25 Giugno 2013  

Convalidato il sequestro dei due parchi  di Chiesanuova, in via Livorno e in via Parenzo a Brescia, dopo i sigilli apposti in via cautelativa lo scorso 14 giugno dai carabinieri e dalla polizia locale alle due aree verdi cittadini, contaminate da Pcb.
Il giudice per le indagini preliminari ha dato l’ok al provvedimento disposto dalla procura della repubblica di Brescia su ordine del pm Silvia Bonardi, che fa parte del team di magistrati che si occupa di reati ambientali.
Nei mesi scorsi, analogo dispositivo era stato imposto per il Campo Calvesi, struttura che sorge nell’area del Sin (Sito di interesse nazionale) Brescia Caffaro, oggetto di una annosa vicenda di inquinamento ambientale.
L’area verde di Chiesanuova è ora inaccessibile, e numerosi cartelli, oltre alle delimitazioni con strisce di plastica bianco-rosse apposte attorno ai cancelli del parco, indicano che la zona è off limits..

Del Bono: Tre delusioni e una chance


IL PENNINO 

Corriere della sera 25 giugno 2013

Il clima festoso e i propositi pronunciati ieri a giunta riunita non valgono a nascondere i problemi con cui Emilio Del Bono dovrà misurarsi già da oggi. Problemi che hanno a che vedere con almeno tre delusioni politiche - a prescindere da quelle individuali, inevitabili in questi casi - che ieri si percepivano sotto traccia. La prima è quella di «Brescia per passione» e della sua leader Laura Castelletti, che ha chiesto senza ottenerlo un secondo assessorato e da vicesindaco si vede oggi schiacciata in un ruolo assai più compresso e meno pervasivo rispetto a quello che Paroli riconobbe a Rolfi. La seconda delusione è quella dell'area diessina del Pd che non porta nell'esecutivo nessuno dei suoi esponenti di spicco e deve accontentarsi della biografia politica (peraltro non marginale, nella storia del partito della Quercia) di Michela Tiboni, a costo di sottrarre la qua

lifica di «tecnico» al nuovo assessore all'Urbanistica. La terza delusione è della Civica del Bono e del suo leader Luigi Morgano, artefice di un'operazione politica per recuperare voto cattolico e oggi rappresentato in giunta da un'anima schiettamente laica come Roberta Morelli. Ci sarebbe una quarta delusione, a dire il vero, ed è quello di tutte le forze politiche e le liste della coalizione, che il neo-sindaco dal giorno dell'elezione non ha ancora gratificato di una riunione plenaria, di un tavolo collegiale, di un summit foss'anche per comunicare decisioni già prese. In compenso la giunta Del Bono varata ieri può contare su una straordinaria chance: ricucire il rapporto della politica con la città, accogliere e convogliare le energie che Brescia sta mettendo a disposizione, aprire un dialogo schietto con i cittadini e i loro legittimi interessi. L'importante è non perdere tempo in sterili polemiche con l'operato della giunta degli ultimi cinque anni. Ieri nessuno l'ha fatto. Ed è già un buon inizio.

Meglio che il Pdl non esageri nella reazione

 

Vorremmo vivere in un paese dove si possa salutare un leader che lascia e magari sognare di coinvolgerlo di nuovo, come noi vorremmo fare con Romano Prodi, senza dover minacciare rivoluzioni
La coincidenza è forte, l’impatto è duro. Dopo vent’anni al centro della scena, protagonisti e simboli della politica italiana e dell’Italia nel mondo, Silvio Berlusconi e Romano Prodi vivono un’altra giornata da primattori. Ma in che ruoli diversi, e con quali diverse prospettive.
In teoria per entrambi si tratta dell’addio a ogni carica pubblica. Per Prodi di sua volontà, per Berlusconi per la forza della legge. La realtà non sarà così, probabilmente per nessuno dei due.
Ma mentre Prodi potrà, se vorrà, ritornare nel gioco che oggi dichiara “chiuso” sulle ali di una vittoria del suo antico progetto e per risarcimento ai danni politici ricevuti, per Berlusconi il ritorno e la eventuale rivincita avranno tutt’altri toni, tutt’altre condizioni, tutt’altra drammaticità.
Da ieri in tutto il mondo si può legittimamente affermare che l’Italia è stata governata per dieci anni da uno sfruttatore di prostitute minorenni e corruttore di pubblici ufficiali.
È una verità giudiziaria dura da mandare giù, dalla quale io almeno non riesco a trarre alcun motivo di giubilo. Prima di ogni valutazione sul quadro politico, sulla tenuta del governo e della legislatura, sulla fatale estremizzazione che muterà i già esterni caratteri del Pdl, prima di ogni analisi e previsione, è con questa realtà amara che tocca fare i conti.
E perfino chi crede che la sentenza di ieri non sia un atto di giustizia ma solo l’ennesima puntata della guerra eterna fra Berlusconi e la magistratura “politicizzata” dovrebbe riconoscere che in ogni caso il responsabile primo e principale di questa situazione, umiliante per tutti, è lui. È di colui che non è mai stato in grado di proteggere la funzione e l’immagine del leader pubblico dai comportamenti dell’uomo privato. Anzi, non ha mai voluto farlo, rifiutando perfino quelle ipocrisie minori che tengono la comunità al riparo dalle umanissime debolezze dei singoli.
Questa è la colpa che – senza condanna ma anche senza a

ppello – ci sentiamo oggi di attribuire definitivamente a Berlusconi. E i suoi sostenitori, comprensibilmente scatenati, dovranno valutare bene dove e come scaricare la propria rabbia: è ormai da qualche anno che gli italiani hanno dimostrato di averne abbastanza di questo melodramma interminabile.
Il governo Letta è nato vaccinato, ogni sentenza era messa in conto (anche se quella di ieri ha superato per durezza ogni aspettativa). Ed era nel conto che il Pdl promettesse di non rivalersi sull’esecutivo. Il dubbio però a questo punto è un altro e riguarda il Pd, non il Pdl: quale sarà la soglia di polemica fra centrodestra e magistrati che i democratici riterranno sostenibile? I berlusconiani che stasera dicono “non si può andare avanti così” devono sapere che questa esasperazione la provano tutti. E che il desiderio di passare definitivamente a un’altra stagione della storia d’Italia si sta facendo irresistibile, tale da travolgere ogni calcolo di prudenza.
Vogliamo uscire da questo tunnel. Vogliamo vivere in un paese dove si possa salutare un leader che lascia e magari sognare di coinvolgerlo di nuovo, come noi vorremmo fare con Romano Prodi, senza dover minacciare rivoluzioni.
Berlusconi e i suoi efficacissimi avvocati preparino come è loro diritto i ricorsi in appello e ogni altra ammissibile iniziativa di difesa. Se il loro braccio politico esagererà nella risposta, si porrà il problema di come accelerare l’interdizione di Berlusconi dal governo non per via giudiziaria ma per via elettorale, con il pregio della immediata esecutività.

Obama in Sudafrica. L’omaggio al suo “maestro” Mandela


Obama in Sudafrica. L'omaggio al suo "maestro" Mandela

 

Il presidente statunitense arriva venerdì. Riuscirà a vedere Nelson Mandela? E' l'uomo che gli ha indicato la strada politica ma del quale però non si sente l'erede
Riuscirà almeno a vederlo, Madiba? Barack Obama, con Michelle e le due figlie, è atteso in Sudafrica venerdì, dove rimarrà fino a domenica. E chissà se Nelson Mandela sarà allora ancora in vita. Visita preparata da tempo, quella del presidente americano, preceduta da una tappa in Senegal e seguita da una sosta in Tanzania. Una settimana lontano da casa che suscita curiosità, essendo Obama figlio dell’Africa, ma solleva anche parecchio clamore, per i suoi alti costi, in un’America ossessionata dai tagli alle spese: cento milioni dollari.
La concomitanza dell’addio al mondo di Nelson Mandela e dell’arrivo nel suo paese del primo presidente nero americano ha dell’incredibile e sembra fatta apposta per confermare l’immagine di una staffetta ideale tra l’eroe della lotta all’apartheid, una delle icone del Novecento, con Gandhi e Martin Luther King, e l’uomo-simbolo del nuovo caleidoscopio demografico e razziale che caratterizza non solo l’America di questo secondo millennio, ma l’intero sistema-mondo.
Strano, ma i due si sono incontrati personalmente una sola volta, e per pochi minuti. Avvenne nel maggio 2005, quando Barack Obama era ancora un senatore fresco di nomina, con ambizioni presidenziali confessate giusto a Michelle e a pochi intimi, e Nelson Mandela era ormai ex-presidente da diversi anni. Fu il leader sudafricano, che si trovava a Washington, a chiedere d’incontrarlo. Il colloquio si tenne nella stanza che Mandela occupava all’hotel Four Seasons. Ricevette il futuro presidente seduto su una poltrona, le gambe distese in alto, il fido bastone di canna poggiato al fianco. Obama si chinò per stringere con delicatezza la mano dell’uomo che aveva trasformato il Sudafrica e che, con la sua lotta, aveva rivoluzionato la lotta politica, con la sua capacità di coniugare intransigenza e forza con spirito di riconciliazione. C’è una foto di quell’incontro, fu scattata da David Katz, un collaboratore di Obama, ma non fu resa pubblica.
Obama deve molto a Mandela. Deve a lui se è in politica. Il suo primo discorso politico, pronunciato all’Occidental College di Los Angeles nel 1981 fu chiaramente ispirato da Mandela e dal movimento antisegregazionista impegnato nella campagna di isolamento del Sudafrica, con il boicottaggio e il disinvestimento dei capitali stranieri. Lo racconta Obama stesso in “Sogni di mio padre”. Di Mandela, il futuro presidente americano apprezza soprattutto l’invincibile perseveranza. È colpito dal modo in cui, in lui, la giusta miscela di pazienza e di capacità organizzativa possano produrre un cambiamento radicale e non violento. L’esempio di Mandela «contribuì ad aprire gli occhi verso un mondo più grande, e l’obbligo che tutti noi abbiamo di ergerci per cià che è giusto», scriverà Obama nella prefazione alle memorie di Mandela, “Conversazioni con me stesso”.
Dopo il breve colloquio al Four Seasons, i due premi Nobel per la pace non si sono più incontrati. Certo, Mandela si congratulò con Obama quando fu eletto nel 2008 e quella fu la telefonata più gradita dopo la storica elezione. Poi si sa di un’altra conversazione telefonica, questa volta in seguito a un tragico evento, nel 2010, quando il presidente statunitense chiamò Madiba per porgergli le sue condoglianze per la morte della pronipote rimasta uccisa in un incidente stradale mentre rientrava a casa dal concerto di apertura della coppa del mondo.
Così, ora, l’immagine di un passaggio del testimone tra i due, al capezzale di Mandela è molto “narrativa”. Eppure è forse più suggestione che realtà. È Obama stesso a lasciare cadere una simile idea, forse per un comprensibile senso di pudore e di umiltà nei confronti di un personaggio che egli considera un gigante unico. «Non ho mai sentito il presidente Obama paragonarsi in alcun modo con il presidente Mandela”, ha detto a Margaret Talev e Julianna Goldman di Bloomberg Valerie Jarrett, consigliera di vecchia data di Obama. «Sente che qualsiasi sfida si trovi di fronte semplicemente impallidisce al confronto con quanto ha dovuto sostenere Mandela».
Certo, riconciliazione, spirito bipartisan, multilateraalismo sono nelle corde del presidente democratico così come caratterizzarono la politica di uscita dall’apartheid e di dialogo con il mondo da parte di Mandela. In questo senso c’è tra i due una linea di continuità, dice a Bloomberg Jennifer Cooke, che dirige l’Africa Program al Center for Strategic and International Studies di Washington.
Al tempo stesso, tuttavia, non può esserci analogia tra il naturale terzomondismo di Mandela e le coordinate del capo della superpotenza americana, per quanto innovativo possa essere. Mandela criticò con la massima durezza la guerra di Bush in Iraq (in questo può ritrovarsi Obama) ma anche la politica clintoniana nei confronti di Cuba, Libia e Iran. Oggi, l’impiego dei droni e il massiccio ricorso allo spionaggio delle utenze private e della posta elettronica, che sono alla base delle politiche anti-terrorismo di questa amministrazione, sarebbero per Mandela – sostiene ancora Jennifer Cooke – «un anatema agli ideali di una politica estera basata sui principi».
Nel corso della tre-giorni sudricana, Obama visiterà anche Robben Island, dove Mandela trascorse 18 dei suoi 27 anni in galera. Poi l’omaggio a Mandela morente, solo se la famiglia lo consentirà.