sabato 31 dicembre 2016

Non voterò più


Enrico Capizzi
L'Unità 8 dicembre 2016
Sono stanco di perdere, dopo una giovinezza passata ad assistere alle vittorie della Dc credevo di aver trovato con Matteo Renzi un leader concreto, ma evidentemente alla maggioranza degli italiani questo non piace
Ho deciso: non voterò più. E questo è il sentimento anche dei miei familiari. Sono talmente deluso da stare male. Ho rivissuto le nottate passate da giovane alla Sezione del Partito, davanti ad un vecchio televisore .Immancabilmente vinceva la DC e noi a rosicare, nonostante l’impegno, la campagna elettorale porta a porta. Ma allora ero giovane ed era più facile digerire le sconfitte. Adesso non più.
Renzi mi aveva ridato entusiasmo, vedevo una politica concreta, che decideva. Evidentemente alla maggioranza degli italiani non piace. Ed allora non voterò più: not in my name. Per prima cosa non voterò più alle Primarie del PD. Pensavo di aver contribuito ad eleggere un segretario ed una classe dirigente che guidassero un Partito unito, coeso, teso agli stessi  obiettivi. Ed invece no.
La parte che ha perso il Congresso ha cominciato, da subito, a  seminare di mine il percorso, sperando che su una di queste mine il Segretario saltasse per aria. Ha cominciato da subito l’azione di logoramento, a rosicchiare il cranio (la  sindrome da Conte Ugolino) del Segretario. Credo che siano stati loro i primi a parlare di “uomo solo  al comando” ,uno dei principali argomenti usati dal Fronte del No per terrorizzare la gente (ho sentito personalmente qualcuno sostenere che “se vince il Sì arriva la  dittatura”).
Com’era prevedibile, la vittoria del  No viene ascritta a Grillo, a Salvini, in parte a Berlusconi (che probabilmente ha impedito la frana verso il Sì di quel che resta del suo partito, pur sempre vicino al 15%). Del resto, basta fare i conti: insieme sommano circa il 60% dei votanti, esattamente la percentuale di coloro che hanno scelto il No.
Gli elettori di Sinistra italiana e quelli del PD che hanno seguito Bersani, sono stati semplicemente sostitutivi di quelli dei predetti tre partiti che invece hanno scelto il Sì. Cioè, non determinanti: ed  infatti nessuno li considera fra i vincitori.
Ed anche la narrazione sull’arroganza di Renzi ha origini interne: ricordo  ancora la Direzione del PD  durante la quale Cuperlo lo accusò di “coltivare l’arroganza del Capo”. Renzi è arrogante? Certo, nessuno può sostenere che sia umile, che abbia una personalità arrendevole. Ma, vivaddio, ha le qualità del leader, di un leader che decide, che rifugge le mediazioni infinite, le discussioni senza fine, autoreferenziali, di chi si guarda  l’ombelico.
Del resto, se non  fosse uno che decide, si sarebbero, in mille giorni, approvate tutte le leggi e le riforme che il Parlamento ha approvato? La sinistra interna, si guardi l’elenco, con onestà intellettuale. Quali sono le leggi che la sinistra dem considera “in continuità con la politica di Berlusconi”? Forse gli ecoreati? Le unioni civili? lo spreco alimentare? il caporalato? la pubblica amministrazione? il terzo settore? l’autismo? il dopo di noi? la parziale modifica della legge Fornero?
E’ necessario   continuare? Non credo. Bersani e Speranza si riguardino la lunghissima lista di tutto quello che nei
passati mille giorni questo Premier “arrogante”e”uomo solo al comando” è stato in grado di fare approvare. Lo so, loro ribattono con il mercato del lavoro e la buona scuola. Io non sono d’accordo con le  loro valutazioni, ma un discorso approfondito sarebbe troppo lungo. Alcune  “scene” mi hanno particolarmente infastidito durante e dopo la campagna referendaria.
Due di queste riguardano Roberto Speranza, l’aspirante leader senza quid.
1) La partecipazione ad una manifestazione per il No con De Magistris. Proprio lui, il Masaniello de noantri, quello che considera Renzi un nemico da abbattere, il raffinatissimo ex PM (che orrore i giudici e gli ex giudici che si comportano da ultra del calcio) che con raffinata eleganza ha minacciato più volte Renzi, intimandogli di non andare a Napoli (tutti ricordiamo il “si deve cagare addosso”), il fomentatore di centri sociali e cobas violenti contro il Premier che andava ad avviare il risanamento di Bagnoli. Proprio con lui Speranza doveva manifestare per il No?
2) I sorrisi e gli abbracci di trionfo con D’Alema ( che, nell’ebrezza del trionfo ha chiaramente espresso uno dei motivi di risentimento, nei confronti di Renzi: dopo una decina di legislature, la colla e la voglia di poltrone erano ancora troppo  solide ) dopo la vittoria del No.
Mai visto che una parte del Partito facesse campagna contro la posizione ufficialmente espressa (e ancora non ho capito i motivi di dissenso sul merito della riforma) e che festeggiassero così la sconfitta del proprio Segretario. Io penso che la minoranza di Bersani, in realtà, volesse pesarsi alle urne (suggerimento dello stratega D’Alema?) in vista di una eventuale scissione o per contare di più nella battaglia interna in attesa del prossimo Congresso.
L’esito non dovrebbe essere brillantissimo se è vera l’analisi dei flussi che ritiene che solo l’8% degli elettori
PD abbia votato  contro (ed in gran parte, penso, più per amore verso la vigente Costituzione che per assecondare i giochetti di corrente).
Ed allora, considerato che votare per le Primarie è inutile, perché il Congresso del Partito non finisce mai,
non voterò più alle Primarie. E non voterò neanche alle Politiche. Il Popolo italiano vuole tenersi il bicameralismo paritario? Vuole tenersi il caos dei rapporti con le Regioni? Vuole tenersi i 63 Consiglieri del CNEL? Vuole tenersi 315 Senatori con le stesse funzioni dei Deputati? Vuole tenersi i finanziamenti dei Gruppi al Senato e nei Consigli regionali? Vuole tenersi gli stipendi sproporzionati dei Consiglieri regionali? Va bene così, ma poi non voglio sentir parlar male nessuno di quelli che hanno votato No delle suddette cose.
Il Popolo  italiano pensa che sia in grado di governare il Paese una banda di furbi incompetenti, telecomandati da un Comico ( che spaccava a martellate i computer prima che qualcuno  gli facesse capire che la rete poteva essere un miniera d’oro) e da una Società immersa nell’opacità (altro che uno vale uno, altro che trasparenza) ?  Va bene così, ma non per conto mio, not in my name.
Il Popolo italiano pensa che possa fare il Presidente del Consiglio un giovanotto senza arte né parte, mediocre studente universitario, che oltre allo staff della comunicazione necessiterebbe di avere accanto una maestra che gli spieghi la coniugazione e l’uso del congiuntivo e la differenza tra verbi transitivi ed intransitivi? Va bene così e buon divertimento.
Il Popolo italiano è così immaturo da farsi abbindolare dalla propaganda che vuole fare considerare establishement e casta uno che è appena arrivato e non è neanche parlamentare? Va bene così, evviva il Popolo sovrano.
Il popolo italiano è così irriconoscente da dimenticare così in fretta i benefici, in tema di diritti sociali ed in termini economici (basti pensare agli 80 euro,all’abolizione della TASI, ai posti di lavoro creati, ai centomila insegannti in ruolo, al PIL tornato positivo, allo sviluppo del turismo e delle esportazioni, a quello che si sta realizzando nel campo dei beni culturali (alla faccia degli storici dell’arte ed archeologi improvvisatisi costituzionalisti), a tutte le leggi sui diritti sociali e civili ? Va bene così, ma non  in mio nome.
Il Popolo italiano ritiene che debba andare a casa un Premier che sta conducendo tenaci battaglie in Europa e che ha ridato dignità al nostro Paese nei rapporti internazionali? Va bene così. Ma non in mio nome.
Matteo non mollare, se tu non molli, chissà, forse potrei anche ripensarci e tornare a votare.

auguri


venerdì 30 dicembre 2016

Caro Galli della Loggia, il problema è quale medicina per i mali di Roma


David Sassoli
29 dicembre 2016
Il governo impossibile di Roma, titolava un editoriale di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera. Una riflessione che ha per sottofondo una domanda che dovrebbe tenere banco nel dibattito politico nazionale: come è possibile amministrare la Capitale? Le amministrazioni di segno politico diverso si susseguono, i problemi restano e naturalmente si aggravano.
Ogni partito alle prese con il Campidoglio sembra destinato a mettere in pratica il suo volto peggiore. Ne risultano scandali a ripetizione, inefficienza cronica, bassa qualità del ceto politico, deregulation in ogni ambito della vita cittadina. Tutto questo, naturalmente, a fronte di promesse di cambiamento che non arrivano mai. E forse non possono arrivare.
Galli della Loggia indica alcuni problemi strutturali di fondamentale importanza: il rapporto fra politica e dirigenza, la natura della pubblica amministrazione, la perdita di controllo del territorio da parte del Comune. I temi ci sono tutti e non vanno sottovalutati, ma forse non esauriscono la "questione delle questioni" che oggi più di ogni altra rende difficile, se non impossibile, il governo della Capitale così com'è.
Come si può governare il più grande territorio comunale d'Europa? Gran parte dei mali indicati dall'editorialista del Corriere della Sera, infatti, riportano a questa domanda, semplice semplice, ma mai affrontata da una classe politica alla ricerca continua di scorciatoie. E non basta dire che il Campidoglio stipendia 60mila persone, perché Parigi con un territorio più piccolo ne stipendia di più. Le capitali, d'altronde, sono grandi macchine amministrative.
Una recente ricerca dimostra che in 600 città passa la ricchezza del mondo. Non è un caso. E anche da noi è così. Cosa sarebbe la Francia senza Parigi, il Regno Unito senza Londra, la Spagna senza Madrid e via dicendo? All'Italia, invece, manca Roma. Avrete notato, per esempio, che nelle ultime amministrazioni nessuno ha mai perso un minuto del proprio tempo a parlare di un piano strategico della città? Si parla di assessori, sottobosco, clientele ma mai nessuno ha sentito la necessità di discutere e investire su uno strumento di programmazione usato in tutto il mondo per dare orizzonte e continuità all'azione amministrativa.
La politica politicante, poi, ha spesso usato la "cretineria" per ammaliare i romani, con la complicità dei mezzi di comunicazione, arrivando anche a sostenere che il proprio ideale era una città a misura di bambino...
Sta di fatto che Roma muore. E qui, al netto delle penose vicende che la cronaca ci propone ogni giorno, occorre uno scatto di serietà. Da otto anni la città non è governata, il sindaco Raggi potrà resistere ma non andrà da nessuna parte perché la Capitale non è amministrabile con gli strumenti attuali.
Se poi imbarchi personale sbagliato e ti affidi ad ambienti opachi e affaristici dopo aver predicato discontinuità, la frittata è fatta. I motivi per sviluppare opposizione ci sono tutti sia chiaro e non è vero che un M5S sia uguale a uno del Pd o di Forza Italia. Ma la "questione delle questioni" torna a essere prioritaria e riguarderà anche coloro che arriveranno dopo la Raggi perché Roma continua a essere vista come un peso e non come una risorsa.
Su questo blog nel novembre del 2015 avevamo chiesto di utilizzare la tregua prefettizia per una riforma della struttura amministrativa della Capitale. È compito del Parlamento affrontare questa sfida. Niente è stato fatto e i dolori sono all'ordine del giorno. Abbiamo rieletto municipi che appaiono enti inutili perché privi di bilancio, urbanistica e quant'altro; abbiamo accentrato in Campidoglio ancora più poteri con la formazione di un'area metropolitana buona per Milano e Napoli ma dannosa per Roma.
E allora su stimolo di Galli della Loggia, ricominciamo daccapo. Innanzitutto cerchiamo di capire di cosa stiamo parlando. Roma (1.285,30 kmq) ha un territorio grande quanto la somma dei Comuni di Milano, Napoli, Torino, Palermo, Genova, Bologna, Firenze, Bari e Catania. La nostra Capitale è un unicum. In Europa, la sua area è superiore a quella di Berlino, Parigi e Madrid. Anche New York e Mosca hanno territori più piccoli. L'estensione è certamente importante, ma fino a un certo punto. Il problema è come si amministra il territorio.
Da noi tutto è accentrato al Campidoglio mentre nessuna grande città è amministrata in questo modo. Ci sarà pure un buon motivo. E ci sarà un motivo per cui tutta la vita della Capitale si svolge sempre all'insegna dell'emergenza. Roma è l'unica grande città europea in cui quasi 3 milioni di abitanti e circa 150mila ettari di territorio sono riuniti in un solo Comune. Una situazione che ha sviluppato, nel corso della sua storia moderna, una costante cultura dell'emergenza e ha prodotto - a parte alcune esperienze a cavallo del secolo scorso con le amministrazioni Rutelli e Veltroni - disprezzo per gli strumenti della pianificazione e una ricerca costante e umiliante di interventi straordinari. La stessa vita quotidiana della città si svolge sempre all'insegna dell'emergenza, deresponsabilizzando così politica e amministrazione.
Tutte le grandi metropoli, invece, si caratterizzino per una forte diversificazione di poteri e competenze. Da noi, i 15 Municipi di Roma sono senza bilancio, hanno poteri delegati e riferiti solo ad alcune materie; al contrario, in gran parte delle grandi città europee si tratta di veri Comuni, con tanto di sindaco, bilancio, urbanistica, servizi di controllo, responsabilità sulla manutenzione. Molto spesso hanno anche poteri sui servizi sociali, edilizia popolare, raccolta e smaltimento rifiuti, come a Londra.
A Bruxelles, città di poco più di un milione di abitanti, vi sono 19 Comuni autonomi e alla Région de Bruxelles è demandata la competenza sulle grandi opere, la metropolitana, i trasporti pubblici, le politiche ambientali e abitative, la lotta alla disoccupazione. Sembra strano ma non lo è, ma in numerose esperienze europee i Comuni si occupano anche di politiche per il lavoro. Il resto a Bruxelles - bilancio, pianificazione urbana, manutenzione, cultura, assistenza sociale - è sotto la responsabilità del sindaco di Ixelles, Anderlecht, Saint Gilles, etc.
Anche Londra è dotata dal 1999 di un ordinamento specifico, disciplinato dalla Greater London Authority Act (GLA). La Grande Londra è una delle 8 regioni del Regno Unito, e comprende 33 Borghi (Boroughs) fra i quali c'è la City, un'area di un miglio quadrato in centro città. Sia la Grande Londra che i Borghi hanno sindaci e assemblee elette. Competenze: la GLA non fornisce servizi ai cittadini, ma detiene responsabilità strategiche, sul sistema dei trasporti, della sicurezza e dei sistemi antincendio, della pianificazione strategica e dello sviluppo economico. I servizi pubblici vendono erogati dai London Boroughs Council, gli enti più importanti della città: rifiuti, agenzie delle entrate, scuole, biblioteche, servizi sociali, manutenzione, edilizia popolare, salute ambientale, politiche per il tempo libero.
Un altro esempio utile viene dalla Spagna. Il governo della capitale spagnola è regolato da uno statuto speciale e strutturato su due livelli: municipale (l'Ayuntamento) e regionale (la Comunidad). Anche a Parigi, Comune e Arrondissements regolano, anche se in maniera diversa, le proprie competenze. Sarebbero modelli utili anche per la nostra Capitale?
Di certo, Roma ha bisogno rapidamente di una profonda riforma politico-amministrativa per troncare, per esempio, la contrapposizione esistente fra la città consolidata - quella "storica" che contiene tutte le funzioni - e le periferie, in cui abita l'80 per cento dei cittadini. E soprattutto per favorire logiche di integrazione e riqualificazione di vaste aree abbandonate e prive di servizi, in cui si esasperano squilibri sociali, privilegi di casta, vergognosi sprechi di risorse pubbliche.
Per programmare sviluppo della città e richiamare alle proprie responsabilità la politica e l'amministrazione, Roma deve diventare una "città delle città". Una municipalità con sette-otto vere città. I modelli non mancano. Come può il Campidoglio garantire la semplice manutenzione a Ponte Celori o al Torrino? Impossibile con il sistema attuale. Le buche possono restare aperte per anni, e così i marciapiedi rotti, gli alberi spezzati...
La perdita di controllo del territorio da parte del Comune è inevitabile. I mali di Roma indicati dal Corriere della Sera sono malattie curabili solo con un radicale intervento da parte del legislatore. È possibile un patto per Roma fra le forze politiche hanno sperimentato sulla loro pelle che non basta vincere le elezioni se non si ha la possibilità per governare? Se non si risponde a questa domanda non resta che assistere impotenti al declino della città.
Caro Galli della Loggia, se il suo non vuole essere soltanto lo sfogo di un intellettuale per dispensare, fra le righe, benevolenza nei confronti dell'attuale amministrazione c'è da augurarsi che anche il suo giornale sviluppi un importante dibattito sul ruolo e il futuro della nostra Capitale.
Dopo le ultime sciagurate avventure amministrative abbiamo bisogno che intelligenze e competenze scendano in campo e richiamino alla responsabilità il Parlamento. Al di là dei modelli che verranno scelti, una cosa è certa: Roma è moribonda e ha bisogno di cambiare profondamente il suo modello amministrativo per essere una risorsa e non un canceroso problema.

Il Natale della politica per sentirsi comunità


David Sassoli
Nella prima Repubblica non si usava parlare dei partiti come fossero “una comunità”. Erano tante cose, ma quell’espressione sarebbe suonata strana, anomala per dirigenti allenati alla battaglia dentro e fuori gli spazi della loro appartenenza. A nessuno sarebbe mai venuto in mente di andare a un congresso o a un comitato centrale e parlare di comunità.
Tuttalpiù si poteva parlare di movimento, come faceva Pietro Ingrao quando voleva indicare la prospettiva di un Pci alla guida di un fronte largo, inclusivo di realtà dinamiche e spontanee. Di comunità parlavano i cattolici, ma solo quando erano in ambito ecclesiale. Oppure ne parlavano Adriano Olivetti e le reti evangeliche e confessionali.
Alla comunità nazionale poi, ci si riferiva per evitare di pronunciare la parola patria, termine nazionalistico e dal sapore militaresco; a quella internazionale, soprattutto nei casi di interventi armati. L’espressione, comunque, era inadatta per gruppi immersi nella lotta politica. Anche le correnti democristiane avevano pudore nel riferirsi a quei legami morali che la politica poteva spezzare con grande facilità. Soltanto un caso salta alla memoria: la Comunità del Porcellino di La Pira, Dossetti e Lazzati negli anni della Costituente.
Ma quello è stato un caso molto particolare. Erano persone consacrate, come si saprà successivamente, legate da forti amicizie, che vivevano insieme, e insieme lavoravano, studiavano, pregavano. Da allora, per cinquant’anni, difficile trovare riferimenti per associare i partiti all’idea di comunità. E qui c’è un primo paradosso: anche se non se ne parlava, il paese era tenuto insieme da quell’architettura di corpi intermedi che ne costituivano l’impalcatura sociale. Comunità di comunità, come ha raccontato per anni il professor Achille Ardigò.
Nel tempo della crisi dei partiti, invece, di comunità politica si parla riferendosi al proprio piccolo spazio. A destra, sinistra e al centro, la politica si svolgerebbe sempre all’interno di comunità. Un modo, in mancanza di visioni comuni, per tentare di saldare i propri destini e al tempo stesso per appellarsi a imprecisati valori di fondo e abbozzare la cornice del proprio stare assieme. Spesso e volentieri è anche un richiamo sentimentale per misurare rapporti di forza o riportare all’ordine i riottosi.
L’uso improprio della dimensione comunitaria appare molto spesso stonata, anche perché il più delle volte viene accompagnata da improperi, maledizioni e bestemmie. Essere comunità è un’altra cosa. E certo sarebbe utile se i partiti si sforzassero di esserlo. Sarebbe bello, per esempio, se i dirigenti locali non si sentissero respingere da quelli nazionali e gli rispondessero almeno al telefono; che a uno che ti scrive si abbia la bontà di rispondere; che si esercitasse l’autorità con la disponibilità all’ascolto; che vi sia pazienza, inclusività; che si consideri il proprio ruolo al servizio di qualcosa che viene condiviso e non solo per affermare il proprio prestigio.
Basterebbero piccoli segni per dare significato a una parola abusata ma dal significato prezioso, da usare con parsimonia per non inquinarne il significato profondo perché conduce a quei legami di fraternità che tanto spesso la politica violenta. Se in comunità non si vive il senso profondo dell’uguaglianza non c’è comunità; se una comunità non si fonda sull’amicizia è inutile parlarne; se in una comunità non si esercita la virtù della moderazione difficile condividere le difficoltà.
Ma anche tutto questo, di certo utile, non basterebbe comunque a invertire la tendenza che spinge società disintermediate ad affrontare la contemporaneità. Espellere corpi sociali dal dibattito pubblico, non suscitare nuove forme di partecipazione, disinteressarsi al dialogo sociale impedisce al paese di essere rappresentato da reti di comunità. Questo è il riferimento più prezioso a cui dovrebbero far riferimento i partiti. “Per un partito non avere una base definita significa esistere nel vuoto”, scrive Colin Crouch in “Postdemocrazia”.
Non occorre essere particolarmente acuti per notare che società disintermediate sono sempre più esposte a virus oligarchici o populisti. Parlare di comunità è riferirsi alla salute della nostra democrazia. Che il Natale scenda a esorcizzarci almeno dall’utilizzare parole improprie, a recuperare spirito democratico, e a togliere la maschera dietro la quale si nascondono ipocrisie dalle ripercussioni pericolose.

venerdì 23 dicembre 2016

Sbatti il mostro in prima pagina


Sergio Staino
L'Unità 23 dicembre 2016
Il Fatto attacca il papà di Renzi sugli appalti Consip, ma che c’entra? Forse sarà spiegato nell’articolo? Niente di tutto ciò
Il titolo suona: «La soffiata, gli appalti e papà Renzi». Lo so, è un titolo di prima de Il Fatto, giornale che in genere spara bufale a tutto spiano, però quel «papà Renzi» mi fa ugualmente sussultare. Che avrà fatto questa volta, mi chiedo. Continuo a leggere il titolo: «Indagato il comandante dell’Arma».
Sotto il titolo spiccano due foto, papà Renzi e il comandante dell’Arma. Sotto la foto la scritta: «Il legame. L’inchiesta sugli appalti Consip lambisce Tiziano Renzi».
Il verbo lambire già odora di bufala perché, conoscendo i miei polli, se ci fosse qualcosa di serio avrebbero usato ben altri termini che lambire; comunque continuo la lettura. Ecco l’occhiello: «Il generale Del Sette accusato di favoreggiamento e rivelazione di segreti ai vertici Consip».
Tutto chiaro, ma il papà di Renzi? Forse sarà spiegato nell’articolo. Qualche riga che ripete gli stessi concetti espressi finora e poi l’articolo passa a pagina 2. Intanto, per il lettore frettoloso che magari ha dato un’occhiata alla prima pagina sorbendo un caffè al bar, la notizia è già arrivata: il papà di Renzi è indagato in un qualche malaffare che riguarda alti comandanti dei Carabinieri per una cosa che non si sa bene cos’è, comunque non importa, un’altra prova che siamo di fronte ad un vero delinquente politico, tale padre, tale figlio.
Io però non sono un lettore di passaggio e vado a pagina 2 e alla fine cosa trovo su papà Renzi? Ecco qua, dopo 2.000 caratteri, spazi compresi, appare finalmente il nome del papà di Renzi affiancato ad un personaggio non indagato, e sottolineo non indagato, di tutta l’inchiesta.
Ecco la frase esatta: «Nell’indagine è coinvolto un personaggio non comune. Si chiama Carlo Russo, 33 anni, imprenditore di Scandicci, amico di Tiziano Renzi e in ottimi rapporti con l’imprenditore Alfredo Romeo, accusato di corruzione per i suoi rapporti con Consip. Russo è un tipo che ama parlare del suo rapporto con Tiziano Renzi e con la moglie Laura. Sarebbe interessante capire se ci sono rapporti triangolari tra Tiziano Renzi, Carlo Russo e Alfredo Romeo».
A questo punto sarebbe interessante sapere anche se ci sia un collegamento tra questo Russo, il papà di Renzi, Graziano Cioni e il sottoscritto poiché qualche mese fa abbiamo partecipato insieme a un dibattito alla Festa dell’Unità di Rignano organizzata proprio (sarà una coincidenza?) da Tiziano Renzi.
Una Festa dell’Unità alla cui cassa sedeva, riscuotendo i soldi delle pizze, la stessa moglie del Tiziano, tale Laura, madre del segretario del PD. Mamma mia che sospetti si aprono! Veramente la democrazia è in pericolo! Non c’è abbastanza per mandare tutti in galera?
Ora, è possibile che Tiziano Renzi sia il mostro di Lochness: io non giuro nemmeno su me stesso. Scherzi a parte, io non so proprio come si possa chiamare giornalismo una tal volontà di gettare fango su tutto e tutti. (Quasi tutti, come Travaglio ha mostrato sulla questione romana).

Renzi e “l’accozzaglia”, oggi. I numeri e la politica


Fabrizio Rondolino
L'Unità 23 dicembre 2016
Il voto referendario sembra dunque aver congelato gli schieramenti in campo: e il suo risultato ha confermato nelle proprie convinzioni la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica
Il referendum del 4 dicembre ha davvero rivoluzionato il paesaggio politico italiano, rilanciando la corsa del Movimento 5 stelle verso il governo e lesionando gravemente la figura e il potenziale elettorale di Matteo Renzi? Nonostante le analisi – o gli auspici – di qualche frettoloso commentatore, sembrerebbe proprio di no.
“Sorprende un poco, anzi, non poco, questo sondaggio – scriveva Ilvo Diamanti ieri su Repubblica commentando l’ultimo sondaggio Demos –, perché, dai dati delle interviste, non sembra sia cambiato molto, nell’orientamento degli elettori. Verso il governo, verso i partiti, verso lo stesso Renzi. Nonostante le grandi polemiche e le mobilitazioni che, negli ultimi mesi, hanno opposto il ‘fronte del Sì’ e il ‘fronte del No’, le stime di voto non mostrano cambiamenti significativi rispetto alle settimane prima del referendum. Il Pd – malgrado la ‘sconfitta personale’ del leader – risulta stabile, primo partito, appena sopra il 30%. Seguito dal M5S, quasi 2 punti sotto. In calo di poco più di un punto”. Neppure il gradimento di Renzi ha subito scosse: anzi, secondo i dati raccolti da Diamanti sarebbe addirittura salito di un punto, al 44%, mentre Beppe Grillo resta lontano al 31%.
Il voto referendario sembra dunque aver congelato gli schieramenti in campo: e il suo risultato ha confermato nelle proprie convinzioni la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica. Vista da punto di vista di Renzi, la situazione è senz’altro di grande interesse. A leggere i giornali e a guardare i talk show, infatti, l’ex presidente del Consiglio appare circondato da una generale ostilità, la sua parabola politica si sarebbe già ingloriosamente conclusa, e le possibilità di ritorno sulla scena sarebbero assai limitate. Al contrario, lo studio di Diamanti dimostra che il consenso di Renzi è rimasto intatto e che il suo partito gode della fiducia di poco meno di un terzo dell’elettorato.
L’idea di abbattere il renzismo per via referendaria, accarezzata tanto da Grillo e dalla Lega quanto dalla minoranza del Pd, sembra dunque rivelarsi illusoria. Renzi ha perso consenso nel corso dell’ultimo anno e mezzo – e infatti ha perso il referendum –, ma lo “zoccolo duro” di cui dispone, probabilmente galvanizzato proprio dalla sconfitta, lo colloca tuttora al centro del paesaggio politico. In queste condizioni, e tanto più se si dovesse votare con una legge di impianto proporzionale, la prossima legislatura ricomincerebbe là dove si è interrotta: con una forza politicamente omogenea, guidata da un leader riconosciuto, che gode del consenso della maggioranza relativa dell’elettorato, e un’“accozzaglia” numericamente forte ma politicamente debolissima e strutturalmente incapace di offrire un’alternativa di governo.

venerdì 2 dicembre 2016

Il bipolarismo psicologico: il Sì è ottimista, il No pessimista


Fabrizio Rondolino
L'Unità 2 dicembre 2016
Alla fine, si vota sulle due narrazioni di Renzi e di Grillo
Stasera scenderà sull’Italia il silenzio elettorale – anche se, c’è da giurarci, sulla Rete sarà rumorosissimo – e, proprio come accade al calar del sole, c’è un po’ di tempo per riflettere sulla giornata appena trascorsa e per immaginarsi quella che verrà.
E’ stato detto che questa è la campagna elettorale più brutta di sempre, la più violenta e la più esagerata, se non la più ridicola. D’accordo, è grottesco accusare la riforma di innescare una “deriva autoritaria”, o paventare l’uscita dell’Italia dall’euro nel caso di una sua bocciatura: ma le campagne elettorali sono sempre esagerate, ridicole e violente, e lamentarsene scandalizzati fa parte del rituale preelettorale, tanto quanto l’orgia dei sondaggi (che vengono scrutati compulsivamente, salvo subito precisare che non valgono nulla) o la simulata preoccupazione per il “Paese diviso” – dimenticando che le votazioni si fanno precisamente allo scopo di dividersi, contarsi e poi decidere.
Al netto della retorica, dei rituali e delle sciocchezze, e al netto anche del merito della riforma – a proposito: di merito si è parlato molto, su entrambi i fronti, imponendo agli elettori chissà quanto entusiasti un corso accelerato di diritto costituzionale: e questa è una buona cosa –, l’aspetto simbolico che più colpisce nell’appuntamento referendario di domenica sta proprio nella semplicità, e nella radicalità, dell’opzione sottoposta al voto – Sì oppure No.
E cioè un’affermazione – la più ampia, le più indefinita fra tutte – contrapposta ad una negazione – la più radicale, la più esclusiva.
Il Sì è un’apertura, il No è una chiusura: il primo apre un ventaglio ampio, e potenzialmente infinito, di possibilità; il secondo ostruisce, sbarra, resiste.
Dire di sì – assentire – significa dichiararsi pronti a ciò che verrà; dire di no – negare – vuol dire ripiegarsi su ciò che già c’è.
Il punto, qui, non è l’esaltazione aprioristica e pregiudiziale del “nuovo” (perché è verissimo che nuovo non significa di per sé migliore), ma l’atteggiamento, la tonalità emotiva, la predisposizione nei confronti del futuro.
In altre parole, l’ottimista dice Sì e il pessimista dice No.
Che entrambi abbiano le stesse possibilità di aver ragione non è qui importante: quando si sceglie, quando si guarda al domani, quando si immagina il futuro nessuno sa veramente che cosa accadrà. La scommessa che facciamo si basa certo sul ragionamento, sull’analisi dei fatti, persino sull’indagine empirica: ma la spinta decisiva a scegliere – proprio perché non sappiamo veramente che cosa accadrà – ci viene dal nostro stato d’animo, dalla nostra temperatura emotiva, dal nostro carattere.
Ciò che vale per gli individui vale anche, entro certi limiti, per le comunità, i gruppi e l’intero corpo elettorale. Il referendum di domenica chiama i cittadini a votare su un nuovo assetto istituzionale, più snello, più efficiente e meno costoso: ma mai come in questa occasione il cuore dello scontro – simbolico, e dunque politico – è fra ottimismo e pessimismo, fra fiducia e paura, fra speranza e delusione.
Di questo, del resto, hanno parlato in questi anni le due narrazioni egemoni: quella renziana ha sempre puntato sulla fiducia nel futuro, sulla capacità di rialzarsi e ricominciare, sull’ottimismo della ragione e della volontà, sulla possibilità di cambiare e migliorare; la narrazione grillina, al contrario, ha giocato tutte le sue carte sulla delusione, sulla rabbia, sul crollo della fiducia negli altri e nel “sistema”, desolatamente giudicato compromesso per sempre e ormai inemendabile.
Di questo bipolarismo simbolico, sentimentale e culturale si occupa il referendum di domenica: di questo rende conto alla politica e a noi stessi. E’ come se sulla scheda ci fosse scritto: “Sei ottimista?”

giovedì 1 dicembre 2016

Il Fatto, monumento alla malafede di Travaglio. Ecco tutte le bugie di oggi


Fabrizio Rondolino
L'Unità 1 dicembre 2016
Il numero di oggi è un’enciclopedia di castronerie tipo “Se vince il No è un favore a Renzi”
Un numero da collezione: il Fatto di oggi è una specie di enciclopedia del Noismo, è un livido sabba antirenziano, è una meravigliosa cartolina da un mondo che domenica ci lasceremo alle spalle, è un monumento alla crisi terminale del giornalismo in Italia, ed è anche, last but not least, una spassosa antologia di castronerie destinata ad intasare persino la fantasia complottarda del grillino più sprovveduto.
Dar conto nei dettagli del monumento eretto oggi da Marco Travaglio alla propria malafede è impresa improba, e forse persino inutile: basterà un veloce florilegio per rendere l’idea, allietarci la giornata e indurci serenamente a votare Sì.
Cominciamo dall’editoriale, che al punto 5 – Travaglio oramai procede per editti, bolle e decreti – spiega che “bisogna votare No” per fare un favore a Renzi.
Non è un refuso, avete letto bene: “Se vince il No, non è affatto detto che le prossime elezioni le vincano i 5Stelle. Anzi, paradossalmente è più improbaile”, spiega il direttore, perché senza Italicum Grillo si scorda Palazzo Chigi. E “non è neppure detto che il No farà perdere le elezioni a Renzi: nel 2006 B. perse il referendum e nel 2008 stravinse le elezioni”.
Bisogna dunque votare No per impedire ai grillini di andare al governo e per aiutare Renzi a vincere le prossime elezioni: forse perché se così non fosse, se Renzi malauguratamente dovesse rititarsi dalla vita politica, che ne sarebbe del povero Travaglio e del suo brillante fatturato? Chi lo inviterebbe più in tv, chi andrebbe a teatro ad applaudirne le invettive rabbiose?
Ma è il punto 1 dell’editoriale-editto che merita una particolare attenzione, perché riassume in una sola frase la davvero invidiabile malafede del fronte noista: “Essendo un referendum costituzionale, l’unica cosa che conta è la legge costituzionale: si vota Sì o No alla riforma”. Ma davvero?
Decine di articoli sul Fatto di oggi testimoniano l’esatto contrario: non una parola sulla riforma costituzionale, e fiumi d’inchiostro su qualunque argomento sia venuto in mente ai redattori del giornalino per denigrare il presidente del Consiglio anche, e anzi soprattutto, quando non c’entra nulla.
“Le quattro Italia tradite da Renzi pronte a punirlo col referendum” è infatti il titolo d’apertura: “terremotati, vittime dell’Ilva, delle banche e delle tv” dovrebbero votare No perché il premier li ha “traditi”. Seguono, nelle pagine interne, illuminanti approfondimenti dalla realtà parallela in cui s’è rinchiuso Travaglio.
Marco Palombi scrive ben due articoli per sfogare tutta la sua rabbia contro l’accordo che il governo ha raggiunto con la famiglia Riva e che porterà all’Ilva di Taranto, per il risanamento, poco meno di un miliardo e mezzo di euro.
L’idea che Renzi sia stato capace di far rientrare in azienda (oggi sotto il controllo dello Stato) una somma così imponente manda letteralmente fuori di testa il redattore del giornalino, che prima sostiene l’inesistenza dell’accordo e poi minaccioso si chiede “in cambio di cosa” è stato stipulato.
Enrico Fierro “inviato a Norcia” racconta le difficoltà del dopo-terremoto, ben attento ad ignorare tutto ciò che è stato fatto, per riconoscimento unanime delle popolazioni e delle  istituzioni locali, in aiuto dei terremotati e in risposta alla tragedia. Il suo problema è il signor Romano Regoli, che “ha speso una decina di migliaia di euro per una casetta di legno e due container”. Il che dimostrerebbe che “tra gelo e bugie” i terremotati sono stati “illusi da Renzi”.
Dove? Quando? Il pezzo naturalmente non lo dice: lo sciacallaggio sulle tragedie altrui non prevede l’onere della prova.
Stefano Feltri e Carlo Tecce ricostruiscono con un po’ di fantasia e molta approssimazione le spese sostenute dalla campagna per il Sì: “Il comitato ha soltanto un milione di euro ma il Pd ne sta spendendo più di 10”. Vero, falso? Chi può dirlo: e soprattutto, che importa?
L’essenziale è seminare il dubbio, insinuare l’esistenza di finanziamenti occulti o illeciti, dipingere un partito spendaccione e potenzialmente criminale. “La legge – scrive scandalizzato il Fatto – ci vieta di sapere chi investe milioni per il Sì”. E chi li investe per il No i soldi li ha trovati sotto una zucca?
“Statali, 85 euro giusto prima del voto” è invece il titolo dell’articolo – cinque colonnine in fondo alla pagina 3, nella speranza che nessuno se ne accorga – con cui Luciano Cerasa racconta l’accordo fra governo e sindacati per il rinnovo (dopo sette anni) del contratto del pubblico impiego. Che alcuni milioni di statali abbiano finalmente un nuovo contratto, salutato con entusiasmo da tutte le organizzazioni sindacali, è un’offesa personale di Renzi che gli elettori di certo non dimenticheranno.
Virginia Della Sala denuncia scandalizzata la presenza del premier in tv (“Renzi in onda a reti unificate per il Sì: così il premier straborda nei tg di tutti i canali”) e cita a conferma dello scandalo una ricerca condotta dall’Osservatorio Mediamonitor Politica della Sapienza. Peccato che la ricerca abbia riscontrato un sostanziale equilibrio nell’informazione televisiva, rilevando come la maggiore presenza di Renzi rispetto agli altri leader dipenda dal fatto che Renzi è il presidente del Consiglio, e dunque in tv parla anche dei provvedimenti del governo. Possibile che al Fatto non sappiano chi siede a Palazzo Chigi?
La pagina dei commenti ospita una ponderata riflessione del pittoresco Antonio Ingroia (“Uno solo al comando è un favore alle mafie”) e una pacata analisi del non meno pittoresco Maurizio Viroli (“Se vincerà il Sì avremo un padrone della Repubblica sostenuto da illusi, da servi volontari, da cortigiani astuti”). Nessun pesce vorrà mai farsi incartare da una simile pagina.
A seguire, un’ampia intervista di Alessandro Ferrucci a Sabrina Ferilli: “Sono dei piazzisti di pentole che hanno promesso di tutto”. Ma lei, Miss Noista, non si dà per vinta: “Ho troppa paura che possa vincere il Sì, meglio non mollare a costo di prendere altri insulti”. Non è chiaro chi abbia insultato la Miss: di certo, ogni riga del Fatto è un insulto al buonsenso.
Infine, non poteva mancare Banca Etruria. E qui Travaglio, come prevedibile, riesce a dare il meglio di sé. In prima pagina il richiamo alla banca è tutto in chiave antirenziana: “Assolti gli ex vertici. Ma anche i vigilanti, cioè la Banca d’Italia, non pagheranno. Il conto è arrivato solo ai risparmiatori falliti”. Veramente? E chi lo sa: la notizia è un’altra.
E cioè, come scrive Giorgio Meletti, che l’ex presidente di Banca Etruria, Giuseppe Fornasari, è stato assolto dall’accusa di “ostacolo alla vigilanza”. Ma Fornasari non c’entra niente con il governo, né con il fallimento della banca, né con la gestione successiva, né con la presunta truffa agli investitori.
Esausti, posiamo il Fatto e ci guardiamo rasserenati intorno: l’Italia è proprio un’altra cosa.