venerdì 29 gennaio 2016

Il Family day non è il modo migliore per mettersi nella stessa lunghezza d’onda di Papa Francesco”.


Intervista a Massimo Faggioli di Pierluigi Mele
dal blog Confini
29 gennaio 2016
Professor Faggioli, domani il forum delle famiglie organizza il cosiddetto “Family Day” per riaffermare i valori della famiglia tradizionale contro il ddl sulle Unioni Civili. Nel Paese è in corso una discussione con diverse prese di posizione trasversali. Anche la Chiesa cattolica, attraverso i suoi pastori, ha preso una posizione. Vede novità, rispetto al 2007, nelle gerarchie cattoliche e nel laicato cattolico? 
La novità maggiore è che c’è papa Francesco e quindi quella compattezza fittizia sulle parole d’ordine che c’era nel 2007 oggi non esiste più: molti veli sono caduti nella chiesa italiana come in quella globale. I vescovi sono alle prese oggi con una difficile transizione dall’unanimismo del trentennio precedente a una nuova era, quella di Francesco, in cui le questioni di morale sessuale non sono più l’elemento dirimente nel linguaggio del magistero pontificio. Questo provoca delle tensioni interne all’episcopato, che si vedono anche dalle parole caute di Bagnasco circa il “Family Day”, più caute rispetto al 2007. Ma anche tra il laicato cattolico vi sono posizioni molto diverse che sono oggi evidenti: il sostegno da parte dei movimenti cattolici al “Family Day” è minore rispetto al 2007, e a loro volta i movimenti sanno che devono ricostruire il loro rapporto con un papa che è diverso dai due predecessori sulla ecclesiologia. È chiaro che il “Family Day” non è percepito come il modo migliore per mettersi sulla stessa lunghezza d’onda di papa Francesco, che nei discorsi ai movimenti li ha esortati chiaramente a non rinchiudersi in una idea limitata di chiesa e di mondo.
Parliamo di Papa Francesco. Alcuni laici sono rimasti delusi dalle sue affermazioni, fatte durante l’udienza ai giudici della Sacra Rota, sulle unioni diverse dal matrimonio. Per altri come Antonio Socci, critico feroce di Bergoglio, si è trattato quasi di un “miracolo”. Secondo lei queste affermazioni di Papa Francesco devono essere prese come un appoggio alla manifestazione di sabato? Oppure sono parole che sono state strumentalizzate?
Papa Francesco è conscio più di altri del tentativo di manipolare o strumentalizzare le sue parole. Ha parlato di matrimonio con le sfumature giuste, dicendo che gli altri tipi di unioni sono una cosa diversa. Non ha parlato di valori non negoziabili, né della manifestazione di sabato. E se anche avesse parlato del “Family Day”, questo sarebbe stato comunque molto diverso dal fare appello ai parlamentari cattolici a votare secondo le indicazioni del magistero della chiesa – cosa che abbiamo visto nel recente passato in Italia. Francesco non crede nello scontro tra culture. Il problema è che alcuni dirigenti del cattolicesimo italiano (laici e chierici) sembrano credere al ricorso alle piazze e non avere più opzioni alternative allo strumento della piazza – che peraltro non ha servito bene la chiesa nel decennio passato.
Una parola sui cattolici del PD. Vede dei limiti nella loro azione?
La stessa espressione “cattolici del PD” evidenzia che c’è un problema di collocazione politica di una cultura, quella del cattolicesimo politico, che si è impoverita all’interno del PD ma anche nel paese in generale e in tutta Europa – e la crisi del cattolicesimo politico in Europa è parte della crisi dell’Unione Europea. Si tratta di una questione tanto di contenuti (come la questione dei corpi intermedi e della Costituzione) quanto di stile (imbarcare dentro il PD personaggi che non hanno nulla a che fare con le culture che hanno fondato quel partito). Il PD (e il governo) abbondano di cattolici, ma il loro linguaggio, azione, stile, rete di rapporti sociali e culturali è totalmente diverso da quello della generazione precedente – tanto che si fa fatica a vedere delle continuità tra le due generazioni. È un cattolicesimo che pare essere privo di una sua cultura teologica e spirituale, priva di testimoni e di testi di riferimento. Al confronto della nuova generazione giovane di cattolici del PD, un politico cattolico liberal come il vicepresidente americano Joe Biden sembra quasi una specie di De Gasperi.
Siamo in una fase storica del rapporto “Chiesa – politica”, come lei dice, nuova rispetto al 2007. Una fase caratterizzata dalla fine del “ruinismo” e del “prodismo”. Due posizioni che si scontrate in modo duro negli anni passati. Siamo, lei dice, in una fase post-adulta. Può spiegarci meglio? Vuol dire che si aprirà una nuova stagione per il cattolicesimo politico?
Alla fine del ruinismo corrisponde in un certo senso anche la fine del prodismo. Che cosa rimane di quel cattolicesimo politicamente adulto? La nuova generazione del cattolicesimo italiano si è emancipata dai vescovi, ma anche da coloro che si erano emancipati dai vescovi. La nuova generazione da una parte non si fa problema a disobbedire ai vescovi, ma dall’altra parte sembra obbedire allo “spirito del tempo” in modo acritico. Non è chiaro quale sarà la prossima fase del cattolicesimo politico – né se ci sarà un futuro per il cattolicesimo politico. Questa questione va inquadrata da una parte nella crisi del paradigma occidentale del cattolicesimo, che ora è sempre più globale, e dall’altra nella crisi epocale di fede nella politica.
Ultima domanda: sullo sfondo dei diritti civili c’è il grande confronto scontro, come lo definiva lo storico francese Emilé Poulat, chiesa-modernità. Il Concilio Vaticano II ha detto parole definitive, ovvero la scelta del dialogo. Qual è lo sforzo innovatore di Papa Francesco su questa frontiera?
Il Vaticano II ha solo iniziato un discorso che 50 anni fa è ancora aperto, anche perché Francesco lo ha riaperto. Bergoglio ha una visione complessa della modernità coi suoi aspetti negativi, come si vede nell’enciclica Laudato si’. La cosa importante di Francesco è che non guarda mai indietro con nostalgia, ma è sempre proiettato nel futuro. Questo atteggiamento è di per sé moderno.

DEMOCRATICI PER SCELTA…NON PER COMODITA’


Francesco Tiboni
29 gennaio 2015
Accade che in un paese come l’Italia, mentre ci si accalora dibattendo su principi negoziabili e non, confini sigillabili e non, statue presentabili e non, lento ed inarrestabile un principio cominci ad insinuarsi, infine, nell’anima dell’elettore medio. Un principio cui noi, democratici per scelta, e non per comodità, decidemmo di rinunciare quando, con la nascita del partito del miracolo servito a priori, non imboccammo la strada della libertà infiocchettata ad arte, servita su piatti silver plated in feste popolate di silicone. Al contrario: decidemmo di affrontare anni di gavetta e sudore, lacrime e rabbia, per poter cambiare le cose.
E allora ripartiamo da qui, per una volta. Senza pregiudizi di sorta.
L’elettore medio, il cui numero è in drastico ed inarrestabile calo dall’inizio della seconda repubblica, oggi più che mai è al centro del pensiero di governo. E siccome l’elettore medio è palesemente schierato e quanto mai sensibile alla realtà tratteggiata dai sondaggisti, tre sono le regole che la politica si è data. Prima regola: non svegliare il potenziale ri-elettore assopito, perché potrebbe non essere un ultras schierato. Seconda regola: trasformare ogni confronto in una battaglia uno contro uno, sempre con avversari diversi, come fossimo in un girone calcistico all’italiana. Terza regola: negoziare su tutto il negoziabile, basta che sia utile.
Chi come me, come molti di noi, ha creduto e crede in questo momento politico come l’unico momento in grado di dare una sterzata al nostro belpaese, non può però starsene lì zitto, ad ascoltare e tacere sempre, su tutto. Non può nemmeno lasciare la parola solo ai maitres-à-penser di prima e seconda generazione. Perché così come abbiamo parlato quando tutto questo era da costruire, prendendo schiaffi e sberleffi, allora forse anche oggi qualcosa dovremmo dire.
E allora proviamo a dire qualcosa su queste nuove e drammatiche regole del gioco. Perché io non mi voglio svegliare tra due anni con un miracolo italiano infiocchettato e travestito da successo progressista.
Primo: basta alla paura di svegliare il ri-elettore. Perché a noi democratici non è mai piaciuto vincere facile. Siamo mediani di spinta, persone che lottano sempre e sudano. E che faticano per quello in cui credono. Ma che un avversario lo temono, lo rispettano, possono forse arrivare ad odiarlo, ma, soprattutto: lo vogliono. Perché se tutti siamo d’accordo i casi sono due: o siamo rimasti in troppo pochi, o le cose su cui ci confrontiamo sono davvero cose da poco.
Secondo: basta con questo continuo cambio di prospettiva. Quando sognavamo un orizzonte democratico, pensavamo a qualcosa di complesso e difficile, talmente difficile da essere quasi caotico e per questo geniale. Non sognavamo una cosa informe, in grado di cambiare faccia ogni minuto per assecondare l’avversario di comodo del momento.
Terzo: basta con questo utilitarismo. Noi siamo sempre stati democratici per scelta. Anche quando significava scegliere di perdere. Oggi non possiamo pensare di essere quelli che negoziano l’idea del matrimonio quando appare vantaggioso compiacere l’Europa dei presunti migliori perché amici del progresso, l’idea della cultura occidentale quando appare vantaggioso compiacere l’Iran o l’agnosticismo mascherato di intellettualità, l’idea della difesa dei confini quando appare vantaggioso compiacere l’Isis piuttosto che le destre xenofobe.
Noi, nostro malgrado, cattolici o no, crediamo da sempre che la libertà sia una scelta. Dolorosa, ma indispensabile. Sempre utile, ma non utilitaristica. Qualcuno di noi la chiama partecipazione, qualcuno dibattito. Ma non diciamoci che alla fine tutto va bene, l’importante è che si resti al potere. Non diciamoci che in fondo non ci sono principi negoziabili, perché le regole chiedono negoziati. Abbiamo troppo spesso condannato chi ha immolato l’idea di libertà sull’altare del liberismo. Ora non facciamolo noi su quello dell’utilitarismo. Diciamo basta alla Democrazia della Compiacenza. Perché noi siamo Democratici per Scelta, non per Comodità.

martedì 26 gennaio 2016

La verità di Toscani: Perché voto No? Perché Renzi è antipatico


Fabrizio Rondolino
L'Unità 26 gennaio 2016
Il grande fotografo dice ad alta voce le vere motivazioni del No al referendum
E finalmente qualcuno ci dice la verità sul referendum istituzionale: la riforma del Senato non è affatto male, ma Renzi è antipatico e dunque bisogna votare “no”. La sorprendente rivelazione, che ha il merito di chiarire senza ulteriori dubbi le ragioni politiche dello scontro in atto, è al centro di una fondamentale intervista di Oliviero Toscani al Fatto.
Il buon Travaglio non deve averla apprezzata troppo – la verità è sempre sgradevole – e l’ha confinata in un taglio basso di pagina 6, negandole quel richiamo in prima che pure le spetterebbe di diritto.
Ma le parole di Toscani ci sono tutte, e meritano di essere lette e conservate.
Questa riforma è giusta?, chiede l’intervistatore. “Secondo me sì. Però – risponde il grande fotografo – mi verrebbe quasi voglia di votare no, per far sloggiare questo giovane vecchio”. Le ragioni del “no”, prosegue, avranno senz’altro un loro fondamento (ma Toscani non riesce a citarne nemmeno una), ma “sono complicate da spiegare”, e quindi è meglio lasciar perdere: non c’è altra scelta se non “raccogliere gli incerti, spingendoli a votare contro l’antipatico”.
Toscani ha perfettamente ragione: “dare addosso al reuccio” è la parola d’ordine che unisce Zagrebelski e Brunetta, Salvini e Travaglio, in un livido girotondo che prescinde completamente dal merito della riforma per concentrarsi sull’unico obiettivo condiviso: eliminare l’anomalia renziana, riportare la politica all’inconcludenza che ha consentito a governanti incapaci e oppositori chic di prosperare negli anni senza mai combinare nulla.
Bravo Toscani: conoscevamo già la verità, ma leggerla sulle pagine del Fatto ci riempie di una particolare soddisfazione.

Oggi 26 gennio 2016...una data da segnare.....evvaiiii compagno Sergio....


Cosmopolitica, Cofferati: “Nuovo partito di sinistra per delusi di Renzi e M5S”
Si chiama ‘Cosmopolitica‘, la tre giorni prevista da venerdì 19 a domenica 21 febbraio al Palazzo dei Congressi di Roma, con cui inizia il processo costituente della nuova forza politica della sinistra e che è stata presentata oggi. “Una forza politica debba nascere per coprire un vuoto enorme, soprattutto da quando il Partito democratico ha rinunciato ad essere di sinistra nell’interesse di milioni di persone” afferma Sergio Cofferati, europarlamentare (ex Pd, oggi nel gruppo Socialisti e democratici di Bruxelles) e tra i ‘padri’ del nascente soggetto politico. “Ci rivolgeremo ai delusi del Pd, del M5S e chi non vota e non solo: vedo molta sofferenza anche nel mondo cattolico che oggi non trova un riferimento progressista – afferma Cofferati che spiega – nell’assemblea costituente in cui si sceglierà nome, un segretario e i gruppi dirigenti, ma soprattutto quattro rilevanti proposte politiche e poi vedremo chi le condividerà”. Tanti, negli anni, i tentativi di costruire una nuova sinistra, perché questa dovrebbe essere la volta buona? “Oggi c’è uno spazio che in altre circostanze non c’era – risponde l’ex numero uno della Cgil e tra i fondatori del Partito democratico – e poi noi non partiamo per mettere insieme quello che c’è, ma abbiamo un obiettivo più ambizioso: una nuova forza politica per dare visibilità ai bisogni di tante persone che oggi non sono rappresentate e che hanno dimostrato disaffezione”

sabato 23 gennaio 2016

NON ESISTONO PRINCIPI NON NEGOZIABILI


Pietro Ichino
Corriere della Sera il 22 gennaio 2016.
ACCADE QUASI SEMPRE CHE NEL CASO CONCRETO IL PRINCIPIO DA APPLICARE NON SIA UNO SOLO, BENSÌ DUE O PIÙ, TRA I QUALI OCCORRE OPERARE UN BILANCIAMENTO – IL COMPITO DELLA POLITICA È TROVARE (ATTRAVERSO UN NEGOZIATO) L’EQUILIBRIO MIGLIORE TRA I VALORI DIVERSI CHE DEVONO ESSERE TRA LORO CONCILIATI
Nei dibattiti in corso sulle questioni politiche che toccano la sfera etica, o quella religiosa, il concetto di “principi non negoziabili” viene comunemente usato a sproposito. Luigi Mengoni, maestro di diritto, giudice della Corte costituzionale e persona profondamente credente, insegnava che la differenza tra principi e regole sta in questo: mentre la regola prescrive un comportamento specifico preciso (“non si passa col rosso”; “il salario minimo è di 6 euro”), il principio invece indica un valore che deve essere perseguito (tutela della vita, della libertà, dell’uguaglianza, della giustizia, ecc.). Dunque, mentre la regola ha un contenuto prescrittivo preciso predeterminato, il principio non ci dice esattamente come ci si deve comportare in ciascuna situazione: al contrario, lascia aperte diverse scelte pratiche attraverso le quali il valore può essere perseguito.
Anche perché – e proprio qui sta il punto cruciale della questione – accade quasi sempre che nel caso concreto il principio da applicare non sia uno solo, bensì due o più: si pensi per esempio alla necessità di conciliare il principio di tutela della vita umana con quello di libertà di circolazione: anche quella stradale, la cui pericolosità è in qualche misura ineliminabile; o il principio della libertà e segretezza delle comunicazioni con quello della punizione dei crimini. Quando è così, cioè quando si tratta di conciliare tra loro due o più valori, si impone un bilanciamento tra di essi. Il compito della politica è proprio questo: applicare al tempo stesso diversi principi, costituzionali e morali, trovando di volta in volta il bilanciamento migliore possibile tra i valori che essi ci impongono di perseguire.
In altre parole, se i principi fossero regole, la politica non servirebbe: essi direbbero compiutamente che cosa occorre fare. Ma, appunto, i principi non sono regole; e poiché se ne devono applicare più d’uno alla volta, è compito dei politici, con l’aiuto dei tecnici e degli studiosi, discutere di quale soluzione, tra le diverse possibili, combini nel modo più soddisfacente i valori in gioco. Ci sarà sempre chi sottolinea maggiormente l’importanza di un principio e chi l’importanza di un altro; il bilanciamento tra i due comporterà dunque, in qualche misura, una negoziazione. In questo senso si può dire che… in linea di principio, non esistono “principi non negoziabili”.
Nel caso oggi caldissimo delle unioni civili e della stepchild adoption sono in gioco almeno due principi, entrambi fondati sulla nostra Costituzione: quello della tutela dell’interesse del minore, quale che sia l’orientamento sessuale dell’aspirante genitore adottivo, e quello di non discriminazione tra gli adulti aspiranti all’adozione in base all’orientamento sessuale. E questo in riferimento a una miriade di situazioni anche diversissime le une dalle altre. Le possibili conciliazioni fra i due valori, cioè le ipotesi ragionevolmente praticabili di bilanciamento tra di essi, sono assai più di una; ma ciascuna di esse implica che nessuna delle parti politiche attribuisca valore assoluto a uno dei due principi, dichiarandolo “non negoziabile”. Perché così facendo si azzera l’altro. Dunque non si fa un buon servizio alla Costituzione.

venerdì 22 gennaio 2016

Il nuovo nemico pubblico numero uno? Per Barbacetto è Sala


Fabrizio Rondolino
L'Unità 22 gennaio 2016
Barbacetto riduce le primarie milanesi a un referendum pro o contro Renzi per interposta persona
Che vergogna! I candidati alle primarie milanesi del Pd, scrive giustamente sdegnato Gianni Barbacetto sul Fatto di oggi, “si stringono la mano”, addirittura “si fanno foto insieme” e, udite udite!, “corrono tutti per l’obiettivo comune”. Che orribile spettacolo. E, come se non bastasse, anziché prendersi a schiaffi, ricoprirsi d’insulti e farsi l’un l’altro la linguaccia, si permettono persino di “parlare di periferie, navigli scoperchiati, posti di lavoro, salario sociale, aria pulita, cultura, musica, sport”. Soltanto un deficiente, o un criminale, affronta temi del genere quando si candida a sindaco di una grande città. E Barbacetto, implacabile, denuncia con sdegno la vergognosa deriva.
“Nessuno ha il coraggio di dire che la contesa vera è un’altra”: nessuno, tranne il prode Barbacetto, che non si fa certo imbrogliare come un elettore qualsiasi. La “contesa vera”, rivela il più acuto dei demistificatori oggi su piazza, è “tra chi vuole la continuazione del ‘Modello Milano’ (sinistra unita con i movimenti civici e i senzapartito)” e chi invece “vuole riconsegnare la città a Matteo Renzi”, il quale evidentemente deve essersela persa a poker con Verdini.
Il coraggioso Barbacetto, al quale delle periferie, del lavoro, dell’aria pulita e della cultura giustamente non importa un fico secco (non come quei grulli dei milanesi, che pensano, poveretti, di dover votare per la buona amministrazione della loro città), ha individuato in Giuseppe Sala il nemico pubblico numero uno e non esita a denunciarne le malefatte: per dire, ha fatto ristrutturare la sua casa al mare da un architetto che ha lavorato per Expo. Gratis? Macché, l’ha persino pagato: 70.000 euro più Iva. Un autentico delinquente, non c’è altro da dire.

martedì 19 gennaio 2016

Repubblica e il mondo che vogliamo raccontare


MARIO CALABRESI
La Repubblica 16 gennaio 2016
Due giorni fa avete avuto la fortuna di tornare giovani, di fare un salto indietro nel tempo prendendo in mano la prima copia di Repubblica. Io non l'avevo mai sfogliata perché, come tanti lettori, ero ancora troppo piccolo per frequentare le edicole, ma in quelle pagine ho trovato tutto quello di cui ha bisogno il giornalismo oggi: capacità di scegliere, una scrittura chiara e sintetica e un dialogo diretto con il lettore. È questa la lezione di Eugenio Scalfari per me più preziosa per rispondere alle sfide di un mondo estremamente complesso e difficile da spiegare. Viviamo in un continente in crisi profondissima: la rabbia, il disincanto, un fastidio quasi insanabile verso ogni cosa pubblica hanno preso il sopravvento, vediamo dilagare il populismo e se proviamo ad alzare lo sguardo fuori dai nostri confini assistiamo ai tormenti che lacerano società che ci parevano più solide come la Germania, la Francia o la Spagna.
Non abbiamo ancora risolto la crisi economica, che è oggi mancanza di prospettive e di lavoro, ma nuove emergenze si sono già aggiunte a partire dalla sfida terroristica che ci siamo trovati in casa.
La reazione più sconcertante è la "grande banalizzazione" in cui viviamo, per usare un termine coniato ieri nel suo editoriale di saluto da Ezio Mauro, quel fenomeno che semplifica tutto e spinge ognuno di noi, perfino le teste più accorte e preparate, a essere attratti dalle tesi più congeniali e comode anche se spesso risultano verosimili ma non vere. Il frutto avvelenato di un'epoca di divisioni, di cinismo e di impazienza è aver perso il gusto per le sfumature, aver smarrito la curiosità di scoprire somiglianze oltre che differenze.
Un manicheismo dilagante si è impossessato del nostro mondo che sembra attratto fatalmente dall'idea che esistano solo bianco o nero. L'alternativa però non sono i molti toni di grigio bensì i colori. I mille colori che danno sapore alle nostre vite. Ognuno di noi deve recuperarli e tenerli di fronte agli occhi ogni giorno, antidoto al veleno dell'apatia e viatico per la speranza. È qui che il giornalismo può fare la differenza e ritrovare una missione ma perché ciò accada deve essere capace di pazienza e fatica, strumenti necessari e indispensabili per leggere la complessità.
Un giornale come Repubblica deve avere ogni giorno l'ambizione di camminare accanto al suo lettore per aiutarlo a distinguere i segnali più importanti nel rumore di fondo in cui viviamo immersi e di offrire contesti che permettano di leggere con chiarezza gli eventi quotidiani. Nel caos informativo di oggi come nell'Italia sbandante di quel primo giornale di quarant'anni fa non abbiamo bisogno di aggiungere (emozioni, toni apocalittici, indignazione gratuita) ma di selezionare, di offrire a voi lettori ciò che è portatore di senso e stimola la vostra intelligenza e non la vostra pancia, perché alla fine, come diceva Montaigne, "è meglio una testa ben fatta di una testa ben piena".
Così se dobbiamo indignarci per i dipendenti pubblici assenteisti, infedeli o corrotti abbiamo anche il dovere di sapere che accanto a loro ci sono migliaia di persone che tengono in piedi le Istituzioni con passione e onestà. Dobbiamo sapere che è pieno di sindaci che si alzano all'alba e provano a cambiare le cose e la sera a casa immaginano un futuro per il loro Comune. Parliamo della scuola allo sfascio ma non rendiamo sufficiente onore alla maggioranza degli insegnanti che in questi anni ha trovato il modo di tenere in vita l'istruzione italiana, con creatività, talento e coraggio.
Per non cadere nella disperazione abbiamo bisogno di denuncia ma anche di soluzioni, di alternative che permettano di sperare e di continuare a vivere. Il grande giornalista americano Walter Lippmann, che negli Anni Venti analizzò le distorsioni della realtà nella comunicazione evidenziando il peso degli stereotipi, ci ha regalato la spiegazione più convincente: "Il modo in cui immaginiamo il mondo determina quello che la gente farà".
Possiamo davvero pensare che basti svelare ciò che è sbagliato perché la nostra società diventi migliore? O forse possiamo sperare nel cambiamento se accanto alla denuncia proviamo a spiegare anche come si potrebbe fare diversamente? Un collega che scrive sul New York Times, David Bornstein, mi ha regalato un esempio perfetto: "Immaginate di leggere un'inchiesta su una serie di ospedali che hanno il record di parti cesarei, dove si evidenzia come ciò accada per motivi che nulla hanno a che vedere con la salute di mamma e bambino ma siano determinati dai rimborsi sanitari, dalla programmazione dei turni dei medici o dal fatto che preferiscono non lavorare il fine settimana. Alla fine dell'articolo avrete l'amaro in bocca e avrete aggiunto un tassello a quel senso di frustrazione che da anni cresce in voi. Immaginate invece che accanto a questo pezzo ce ne sia un altro che racconta anche gli ospedali che hanno il record di parti naturali, spiegando che un altro mondo è possibile. Non solo la vostra reazione sarà diversa ma avremo anche tolto un alibi a chi dice che non si può fare diversamente". Vi prometto che ci proveremo.
La nostra società, senza aspettare la politica e dividendosi più sull'asse tra conservatorismo e innovazione che su quello destra-sinistra, ha aggiornato la sua agenda. Sono emersi diritti che non hanno avuto tutela storica e organizzata: le nuove libertà civili, le difese delle minoranze, dei bambini e degli anziani e i diritti dei cittadini consumatori. Su questa frontiera Repubblica deve essere presente ogni giorno coltivando l'inclusione, il rispetto delle differenze, la convivenza, ma con razionalità e una mentalità illuminista che rifugga dalle derive oscurantiste e antiscientifiche.
È necessario rimettere al centro i diritti umani, ci siamo assuefatti alla loro violazione, al massimo bofonchiamo una piccola protesta quando in Arabia Saudita un dissidente viene decapitato per avere espresso posizioni non ortodosse o in Cina un avvocato incarcerato per pochi tweet di protesta. La conseguenza peggiore della crisi è di aver fatto trionfare una ragione economica che imbavaglia Stati e opinioni pubbliche spaventate e fiaccate, anche di fronte all'uso della tortura, delle lunghe detenzioni e della pena di morte per colpire la libertà di stampa e di espressione. Ci infiammiamo se qualcuno se ne esce con una battuta infelice o poco politicamente corretta ma risultiamo distratti mentre si sgretola quel corpus di valori che ci definisce.
Ieri mattina ho ricevuto il testimone da Ezio Mauro, un direttore che è stato capace di garantire a questo giornale una seconda vita dopo la stagione del suo fondatore, di dargli solidità e tenuta per vent'anni e di traghettarlo nel nuovo secolo. Ezio per me è stato esempio di dedizione, metodo e di passione per le cose fatte bene. Lasciandomi il suo posto mi ha parlato della solitudine di cui soffre un direttore nelle sere delle scelte difficili e del valore di una redazione affiatata e di una comunità di lettori fortissima. Iniziando questo viaggio ho messo in valigia ciò che penso sia più necessario a combattere la crisi di fiducia che oggi la società ha verso l'informazione: capacità di mettersi in discussione, di correggersi in modo trasparente e di coltivare dubbi, che per me sono il sale della vita.

lunedì 18 gennaio 2016

Quando il sindacato non capisce l’Italia. Il no di Camusso alle misure anti-fannulloni


Mario Lavia
L'Unità 18 gennaio 2016
Per la leader della Cgil “le norme ci sono già”
Soprattutto i giovani – specie i tanti, troppi, che sono alla ricerca di un posto di lavoro – hanno ragione a prendersela con i più grandi che un’occupazione ce l’hanno ma la disonorano timbrando il cartellino e andandosene per i fatti loro. Soprattutto i giovani, ma non solo loro. Anche i colleghi (la maggioranza) dei fannulloni: tocca a loro, magari, sbrigare il lavoro del disonesto che si assenta con la frode.
Dovrebbe essere l’occasione, per il sindacato, di inserirsi in questa scia e rappresentare davvero la giusta protesta dei giovani che sono fuori dal mercato del lavoro e dei dipendenti onesti. Invece no. Meglio scavare l’ennesimo fossato con il governo Renzi che si appresta, mercoledì, a varare le norme anti-assenteisti per sanzionare più efficacemente “quelli che timbrano e scappano” come ha detto Marianna Madia.
Sembra un copione già scritto: ogni intervento del governo sul lavoro, per Corso d’Italia, o è sbagliato o è superfluo. Secondo Susanna Camusso, in questo caso è superfluo: “Le regole per licenziare i cosiddetti fannulloni – ha spiegato la segretaria Cgil – ci sono già: mi piacerebbe che il governo dicesse perché non funzionano. Sennò, è una campagna, si chiama propaganda”.
Dovrebbe essere abbastanza evidente che se non funzionano, quelle norme vanno cambiate. Certo si può discutere sul “come” cambiarle ma è difficile teorizzare che la situazione va lasciata com’è.
Invece la leader della Cgil vede il rischio di “inventare una campagna che faccia sembrare che i 3 milioni di lavoratori del pubblico impiego siano tutti nulla facenti, dei truffatori dello Stato: così si fa del male”.
Una campagna? Forse sì, ma una campagna di civiltà, di sinistra.
A Camusso è stato chiesto se i fannulloni vanno puniti. “Lo abbiamo detto in tutte le salse – ha sottolineato – lo abbiamo detto per Roma la prima volta, lo abbiamo detto per San Remo, lo abbiamo detto ancora per Roma”, riferendosi ai vari casi emersi negli ultimi mesi. “Così come ho detto con altrettanta nettezza che se in un Comune il 50% delle persone non va a lavorare, è un problema in più”.
Meglio non cambiare nulla, tanto “le norme ci sono già”. E’ una posizione riformatrice, innovativa, coraggiosa? O sa invece di retroguardia, di conservazione, di immobilismo? La risposta, obiettivamente, non è difficile. Ma il problema è che per la Cgil anche questa rischia di essere un’altra occasione perduta. Altro che propaganda.

Contro la dittatura renziana ecco a voi la denuncia del Bagaglino


Fabrizio Rondolino
L'Unità 18 gennaio 2016
Il Fatto raccoglie l’accorato racconto di Pingitore
Il regime renziano serra le fila, intensifica e moltiplica i controlli, sigilla ogni residuo spazio di libertà: e a farne le spese, questa volta, è Pier Francesco Pingitore con il suo Bagaglino. Il Solgenitsyn del Salone Margherita oggi si sfoga con il Fatto, rivelando una lunga e incredibile sequela di persecuzioni, censure, intimidazioni.
“Pochi giorni fa – racconta – sono stato invitato ad una trasmissione serale, e i responsabili si sono dilungati in raccomandazioni per non parlare di politica”. Quale trasmissione, quali responsabili? Pingitore, forse nel timore di ritorsioni, non fa nomi (e l’intervistatore, forse nel timore di una deportazione, si guarda bene dal chiederli).
Il clima di terrore è palpabile. “Non è stato l’unico episodio”, aggiunge tremante il nostro Mandela: “Quando ho chiesto ospitalità in qualche trasmissione per lanciare lo spettacolo – rivela con un sussurro – mi hanno sempre opposto le motivazioni più diverse, alcune plausibili, altre comiche”. Quali trasmissioni, quali motivazioni? Pingitore non se le sente di andare oltre, teme ritorsioni sulla famiglia, si guarda intorno circospetto mentre l’intervistatore, letteralmente terrorizzato, vira sugli “italiani voltagabbana”, un evergreen del qualunquismo che anche la peggior polizia segreta può tollerare.
Lo spettacolo della Aung San Suu Kyi de’ noantri s’intitola coraggiosamente “50 sfumature di Renzi”, e la foto promozionale pubblicata dal Fatto offre l’abituale rassegna di tronisti e ragazze scosciate.
Finora i carabinieri non sono intervenuti, e le repliche continuano. Ma confidiamo nelle squadre speciali di Marco Carrai.

mercoledì 13 gennaio 2016

Salvini....prendi nota...


da il sole 24 ore 13 gennaio 2016
La Guardia di Finanza ha eseguito il sequestro preventivo per circa 2,4 milioni di euro di disponibilità finanziarie, beni mobili e immobili intestati o, comunque, nella disponibilità di Francesco Belsito, ex tesoriere pro-tempore della Lega Nord. Il reato a lui contestato è quello di dichiarazione fiscale infedele.
Secondo le indagini, svolte dal Nucleo di Polizia Tributaria di Genova e dirette dalla Procura del capoluogo ligure, Belsito si sarebbe impossessato senza diritto di ingenti somme di denaro sottratte alle casse del Partito, godendo così di un ingente incremento patrimoniale sottraendolo a tassazione.

Le migrazioni di massa in Europa non possono essere fermate

Gideon Rachman
Il Sole 24 ore 13 gennaio 2016
Nel 18° e 19° secolo l'Europa ha popolato il mondo. Oggi il mondo sta popolando l'Europa. Al di là delle tensioni scatenate dall'arrivo nel 2015 in Germania di oltre un milione di rifugiati, si impone la realtà delle grandi tendenze demografiche. L'attuale crisi migratoria è alimentata dalle guerre nel Medio Oriente, ma altre dinamiche ancor più rilevanti fanno sì che l'immigrazione verso l'Europa continuerà a rappresentare una questione controversa ben oltre la fine della guerra in Siria.
L'Europa è un continente ricco che sta invecchiando e la cui popolazione è stagnante. Al contrario, l'Africa, il Medio Oriente e l'Asia del Sud, aree più giovani e povere, crescono velocemente. Al culmine dell'età imperiale, nel 1900, i Paesi europei vantavano il 25% della popolazione mondiale. Oggi, gli europei sono circa 500 milioni e rappresentano attorno al 7% degli abitanti del pianeta. In Africa, al contrario, ci sono ora più di un miliardo di persone e, secondo l'Onu, diventeranno 2,5 miliardi nel 2050. La popolazione dell'Egitto è raddoppiata dal 1975, raggiungendo gli oltre 80 milioni di oggi. La Nigeria aveva 50 milioni di abitanti nel 1960, che ora sono cresciuti a 180 milioni e nel 2050 saranno oltre 400.
Le migrazioni in Europa di africani, arabi e asiatici segnano il capovolgimento di una tendenza storica. Nell'era coloniale, l'Europa praticò una sorta di imperialismo demografico, con le sue popolazioni bianche che emigravano ai quattro angoli del mondo. Nel Nord America e in Australia gli indigeni furono sottomessi, spesso uccisi, e interi continenti furono trasformati in propaggini dell'Europa. I Paesi europei, inoltre, crearono colonie ovunque e vi insediarono i propri emigranti, mentre allo stesso tempo diversi milioni di persone furono costretti a emigrare con la forza, come schiavi, dall'Africa verso il Nuovo Mondo.
Quando gli europei popolavano il mondo, spesso lo facevano attraverso una “migrazione a catena”. Dapprima, il membro di una famiglia si insediava in un nuovo Paese come l'Argentina o gli Usa; poi, notizie e denaro arrivavano a casa e, infine, non molto tempo dopo, altri emigranti seguivano le orme dei primi. Ora, la catena si muove nella direzione opposta: dalla Siria alla Germania, dal Marocco ai Paesi Bassi, dal Pakistan alla Gran Bretagna. Tuttavia, di questi tempi non è più questione di una lettera giunta a casa e seguita da un lungo viaggio per mare. Nell'era di Facebook e degli smartphone, l'Europa appare vicina anche se vi trovate a Karachi o a Lagos.
Negli ultimi quarant'anni, Paesi come il Regno Unito, la Francia e l'Olanda sono diventati molto più multirazziali. E i Governi che si impegnano a imporre un giro di vite all'immigrazione, come l'attuale esecutivo inglese, si sono accorti che è poi molto difficile mantenere le promesse.

Travaglio e la difficile digestione della peperonata M5S


Fabrizio Rondolino
L'Unità 13 gennaio 2016
C’è chi non accetta il passare del tempo e le rughe: il direttore del Fatto non sopporta la crisi del Movimento di Grillo e di fronte ai fatti preferisce chiudere gli occhi
E niente, certe cose non vanno proprio giù. C’è chi non si rassegna alle rughe e all’inesorabile trascorrere del tempo, chi non digerisce la peperonata, e chi proprio non si ritrova con la realtà. Quest’ultimo è il caso del gentile direttore del Fatto, che al cospetto dello scandalo di Quarto si aggira per le colonne del suo giornale come un ragazzino impegnato in una gara di moscacieca, sbatacchiando di qua e di là nel tentativo sempre mancato di sfiorare i suoi compagni di gioco.
L’editoriale di oggi è un esempio preclaro di digestione difficile, difficilissima, impossibile: il partito di Casaleggio che Travaglio vorrebbe dirigere appare ormai a tutti ciò che molti già sapevano essere – un partito identico a tutti gli altri, tranne che per la convinzione di essere l’unico onesto e per l’assenza di qualsivoglia forma di democrazia interna – e l’improvvisa rivelazione s’abbatte sul direttore come una pioggia di rane.
Anziché aprire gli occhi, il valoroso Travaglio li chiude a doppia mandata, e si lancia in un elenco disordinato di malefatte altrui, vere o presunte o inventate non fa differenza, purché targate Pd. Da Marino a De Luca, dai “50 comuni Pd sciolti per mafia” alle “centinaia di indagati e condannati Pd fra Camera, Senato, Parlamento europeo, governo, comuni, regioni e città metropolitane” (mancano soltanto gli asili nido e i cineclub), fino all’inesistente trattativa Stato-mafia in cui sarebbe coinvolto nientepopodimenoché Giorgio Napolitano, il crimine è ovunque e il suo nome è Pd.
E allora? Che il Partito democratico sia peggio di Cosa nostra e dell’Isis messi assieme noi lettori attenti del Fatto lo sapevamo da tempo, e da tempo ci siamo rassegnati all’idea. Oggi però è del Movimento 5 stelle che si parla, caro Marco: l’inferno è entrato in paradiso, e le mani degli angeli sono sporche come quelle dei diavoli. E’ terribile, lo sappiamo: ma è la realtà – quella stravagante, antipatica cosuccia che accade fuori dal tuo bel giornale.

martedì 12 gennaio 2016

....figure splendide


Appunto per @matteorenzi per BXL.

Pieluigi Castagnetti
"Ha un certo peso il fatto del Mediterraneo come un epicentro europeo e centro internazionale di decisiva importanza. Guardando la storia si noterà che questo mare è stato sempre decisivo nelle vicende umane anche quando, dopo la scoperta dell'America, sembrô che avesse perduto il suo antico ruolo. Chi avrebbe detto nel 1939 che la guerra scatenata da Hitler sarebbe stata risolta nel Mediterraneo? Ebbene, guerre e paci, sviluppo di civiltà e creazioni di ricchezze, si concentrano qui, e noi sudeuropei ne siamo testimoni, attivi o passivi, partecipi e anche vittime, secondo le grandi e piccole vicende storiche. Avvicinare il Mediterraneo vuol dire capirlo, amarlo conquistarlo non al potere ma alla civiltà; com è possibile che l'Europa possa essere concepita tutta al nord, quando buona parte delle forze di equilibrio internazionale vengono e verranno ancor di più dal sud euro-afro-asiatico? Il mondo arabo è lontano e vicinissimo all'Europa; la nuova Europa che non potrà sviluppare la propria personalità senza tener conto del mondo spiritualmente e storicamente diverso che è nel sud...dove ancora oggi, e con notevole effetto, si sentono gli echi di Atene e di Roma, di Siracusa e di Cartagine, di Tessalonica, Alessandria, Cesarea, Bisanzio, Gerusalemme. ..." (Luigi Sturzo, 1958)

lunedì 11 gennaio 2016

Fabbricare la paura non genera sviluppo


Leonardo Becchetti
Avvenire 7 gennaio 2016
Migrazioni, gli allarmi eccessivi che paghiamo.
La comunicazione procede ormai da tempo per cicli di paure alimentate di volta in volta da un simbolo. Partendo da quest’estate si è iniziato con i «profughi invasori» delle coste italiane facendo «scoppiare il Paese». Dove li mettiamo? LGli alberghi sono pieni. Non c’è posto. Era questa la preoccupazione con cui andavano a letto gli italiani nell’ansia generata dalle immagini dei telegiornali e dal dibattito acceso da alcuni politici. Sono arrivati poi in rapida successione il «terrorista islamico», l’«obbligazione subordinata» e le «polveri sottili».
Ogni ciclo di paura con il suo simbolo serve a fare notizia, ma spesso non aiuta a ragionare. Ancora peggio, come nel caso del fenomeno migratorio, quando narrazione e realtà dei fatti di cui ci dovremmo preoccupare non coincidono, con il rischio di alimentare le scelte sbagliate e suggerire risposte di politica errate. Circa il tema che ha dominato il dibattito in agosto abbiamo denunciato, sulle colonne di questo giornale, l’esistenza di una vera e propria «fabbrica della paura» alimentata anche da speculazioni politiche. Sottolineando come gli allarmi di bomba demografica erano assolutamente ingiustificati sulla base dei dati finali del 2014, quando il saldo negativo tra nati e morti degli italiani di circa 100mila unità era stato quasi compensato da quello degli arrivi degli stranieri mantenendo il totale della popolazione praticamente immutato. Ma, si diceva in quei giorni infuocati, quest’anno è differente e la marea umana alimentata dal conflitto siriano sarà ben più ampia e travolgerà tutto.
Abbiamo però fatto presente in quegli stessi giorni che il nostro Paese con la sua scarsa attrattività economica era al diciottesimo posto nella lista dei Paesi per richieste di asilo dei migranti siriani e che questo dato doveva essere un segnale che molti degli sbarcati (anche quelli provenienti da altri territori) erano solo in transito e vedevano il nostro Paese solo come terra di passaggio. I dati di ieri confermano che i timori della «fabbrica della paura» erano palesemente infondati. Il demografo Blangiardo sulle colonne di questo stesso giornale ha rilevato che le dinamiche del 2015 parlano di un saldo negativo tra nati e morti italiani che aumenta, in modo preoccupante, fino a 180mila unità e di una capacità di sostituzione da parte di arrivi stranieri stabili che crolla, visto il saldo positivo tra arrivi e partenze di appena 30mila unità.
L’Italia sta vivendo una gravissima crisi demografica che in parte alimenta la stessa crisi economica e finanziaria. Un Paese dove la popolazione in età da lavoro è quasi pari agli inattivi (e dove le cose non miglioreranno continuando l’attuale trend) ha innanzitutto in prospettiva un problema di sostenibilità finanziaria. È altresì arcinoto agli addetti ai lavori che la produttività dipende anche dall’età della forza lavoro e, da questo punto di vista, il declino demografico senza sostituzione di forza lavoro giovane (i nostri disoccupati ma anche i migranti), contribuisce e contribuirà alla pessima performance della produttività totale dei fattori oggetto di recente analisi Eurostat.
È altresì noto che il tasso di imprenditorialità dei migranti è decisamente più elevato dei nativi, se non altro perché i primi hanno dovuto passare una durissima selezione naturale e hanno motivazioni fortissime per ripartire di slancio da zero nel Paese di destinazione. Nel quartiere in cui vivo le attività commerciali dei non italiani, spesso le più dinamiche e vivaci, sono fondamentali per dare linfa alla vita commerciale ed economica di tutta la zona. Tutto questo non significa che le politiche di immigrazione e di integrazione non debbano essere costruite con molta attenzione e cautela. Le tensioni in Nord Europa ci ricordano che i limiti dei percorsi d’integrazione possono portare notevoli problemi.
Se vogliamo risolvere il grave problema demografico, ormai strutturale nel nostro Paese, le politiche sui migranti - e quelle sulla famiglia - restano però decisive. Negli anni passati la Francia con una serie di facilitazioni e agevolazioni è riuscita a riportare il tasso di natalità vicino a quello in grado di mantenere stabile la quota di popolazione (2,2 figli per donna). Noi, con 1,37 figli per donna siamo lontanissimi da quell’obiettivo. E, sul piano delle politiche familiari e delle migrazioni, faremmo bene ad attivarci per mantenere l’equilibrio demografico.

....a volte ritornano...

A sancire il definitivo avvio del 2016 arriva l'immancabile intervista di Massimo D'Alema che ripropone la consueta serie di concetti noti: Renzi sbaglia tutto, il nostro Paese oggi non conta nulla, mentre quando governava lui l'Italia sì che era apprezzata. Poi dà un paio di dati (che a cazzotto distano una ventina di punti dalla verità storica certificata) per dimostrare i mirabolanti successi del governo Prodi, dimenticando di ricordare che fu lui a mandarlo a casa.
Insomma anche questo 2016 comincia nel migliore dei modi! Buon anno a tutti.
Nicola Danti

venerdì 8 gennaio 2016

2016.....si riparte


Riccardo Imberti
Finite le Feste, si ritorna al lavoro come sempre con notizie buone e notizie proeccupanti.
Ci giungono dati sulla disoccupazione del nostro Paese, dati positivi perchè la disoccupazione continua a scendere toccando i minimi da 3 anni a questa parte (11,3%) pure in un clima di instabilità crescente per il mondo e per l’Europa.
Infatti, la pesante caduta delle Borse asiatiche, l'alta tensione tra Arabia Saudita e Iran, il manifestarsi di azioni terroristiche, il test della bomba della Corea del Nord, il flusso interminabile di profughi dalle zone di guerra, sono i segni di una instabilità diffusa che si riflette in maniera pesante nel cuore della nostra Europa, dove Svezia e Danimarca hanno reintrodotto i controlli ai confini nazionali portando un altro duro colpo al principio di libera circolazione delle persone. Insomma, comincia male questo 2016 per il mondo. Mentre l’Italia sembra ripartire, in Europa si va diffondendo un clima di paura preoccupante.
Come nel passato, tocca ancora all'Italia proporre al vecchio continente una via di uscita alla instabilità e alla paura. L'Europa delle frontiere fai da te è morta. Così come miope è la facile opzione dei nuovi costruttori di muri.
Lo spirito di Schengen è l'essenza del progetto europeo: non possiamo rinunciare a questo risultato costruito con fatica e dedizione. Tornare indietro da Schengen non e' solo un fallimento politico e di progetto ma è rinnegare l'idea stessa di Europa cancellando la propria storia. Il nostro governo deve riportare il confronto europeo sui temi dello sviluppo economico e della competizione, ma al tempo stesso è chiamato a riaffermare la necessità di una visione comune e coraggiosa sulla questione dei migranti. Un tema delicato e complesso che richiede ancora più che nel passato azioni mirate, il superamento delle divisioni interne che portano sempre alcuni Paesi a protendere per soluzioni estreme, come il ripristino delle frontiere nazionali. Mi auguro che l'Europa possa, al contrario, rilanciare quell'azione unitaria volta ad affrontare questioni di straordinaria difficoltà in modo più strutturale ed efficiente. Chi pensa di salvarsi da solo dal pantano, affonderà solo un po’ più tardi degli altri. Serve coraggio, lucidità e lungimiranza per far fronte a questioni di portata epocale e sono convinto che ce la possiamo fare.




matite spezzate....

Ieri in Messico i funerali di Gisela Mota Ocampo, il sindaco ucciso dopo due giorni dal suo insediamento.
Questa donna è una vera martire della giustizia e della libertà, morta per essersi apertamente schierata contro i narcos del cartello messicano.
Ma non è Charlie, nessuno ha spezzato una matita per lei.

giovedì 7 gennaio 2016

Arabia Saudita e Iran, l'ultima farsa dell'Onu


Fulvio Scaglione
Famiglia Cristiana 6 gennaio 2016
Da quello di organizzazione impotente a tutto, le Nazioni Unite stanno scivolando verso lo status di teatrino dei pupi. Non contenta del nulla finora prodotto su tutte le maggiori crisi internazionali (dalla Siria ai rapporti tra Israele e Palestina fino alla tragedia delle migrazioni), l’ Onu è riuscita a schierarsi nel contrasto tra Arabia Saudita e Iran, mettendosi senza pudore e senza timore per le conseguenze  dalla parte dei sauditi.
Abbiamo visto come sono andate le cose. L’ Arabia Saudita ha giustiziato 47 persone in un giorno, tra le quali lo sceicco sciita Nimr al-Nimr e altri prigionieri responsabili di essere oppositori del regime. L’ Iran ha protestato e, a Teheran, la folla ha dato l’ assalto all’ ambasciata dell’ Arabia Saudita nella capitale a un consolato nella città di Mashad. Le autorità iraniane hanno arrestato a Teheran 40 persone e hanno pubblicamente detto di non voler tollerare altre manifestazioni. Nondimeno, l’ Arabia Saudita ha rotto i rapporti diplomatici, subito seguita nella decisione dal Bahrein, mentre il Kuwait e gli Emirati Arabi Uniti hanno sospeso i rapporti politici con la Repubblica degli ayatollah.
Rispetto a tutto questo le Nazioni Unite e il loro Segretario Generale, che pure hanno ricevuto lettere di spiegazione dai Governi di Arabia Saudita e Iran, hanno pensato bene di reagire con il solito doppio standard. All’ Iran, colpevole di non aver protetto le sedi diplomatiche saudite, una mozione ufficiale di condanna firmata dai quindici Paesi del Consiglio di Sicurezza, che al momento sono: Usa, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna (membri permanenti) più Angola, Malesia, Nuova Zelanda, Spagna, Venezuela, Egitto, Giappone, Senegal, Ucraina e Uruguay (membri non permanenti). Non una parola, in questa mozione, sulle 47 condanne a morte né sulla decapitazione degli oppositori.
Sulle azioni dell’ Arabia Saudita, al contrario, solo un patetico belato di Ban Ki-moon sul tema dei diritti umani. Resta così agli atti della comunità internazionale una ricostruzione dei fatti secondo cui una folla di iraniani avrebbe attaccato le rappresentanze saudite… senza motivo, forse in preda a un raptus.
Nel frattempo in Bahrein restano in carcere duemila oppositori politici e domani, se nulla cambia, andrà sotto processo Mohammed al-Maskati, fondatore della Lega Giovanile per i Diritti Umani, tre anni fa accusato di “partecipazione a una riunione illegale” e da allora perseguitato con campagne diffamatorie, minacce di morte e arresti. La famosa “riunione illegale” era un incontro pubblico a Ginevra, a margine della riunione del Consiglio Onu dei diritti umani, in cui aveva denunciato la repressione della Primavera del Bahrein nel febbraio del 2011.
A proposito di Consiglio Onu dei diritti umani: il suo comitato consultivo, dal settembre scorso, è presieduto da Faisal bin Hassan Thad, ambasciatore dell’ Arabia Saudita presso le Nazioni Unite. Il quale, grazie alla carica ottenuta soprattutto per il voto favorevole dei Paesi musulmani (sunniti) dell’ Asia, potrà scegliere gli esperti chiamati a pronunciarsi sui diritti umani.
Non vediamo l’ ora di capire quali saranno gli esperti interpellati dal diplomatico del Paese delle decapitazioni, dei 30 mila detenuti politici, dei bombardamenti sulle città e i villaggi dello Yemen, del sostegno ai jihadisti che combattono in Siria, dei carri armati mandati in Bahrein a soffocare nel sangue la Primavera del 2011. Dall’ ambasciatore dello stesso Paese che ha concesso l’ ingresso agli esperti Onu sui diritti umani (gli stessi che ora sceglie e presiede) nel 2008 e da allora tiene in sospeso (in sostanza, boicotta) altre otto richieste di visita da parte dell’ Onu.
Nella lettere con cui la rappresentanza all’ Onu dell’ Arabia Saudita avanzava la candidatura di Faisal bin Hassan Thad, c’ era scritto, forse a titolo di garanzia, che “agendo sulla base della legislazione saudita, che deriva dalla shari’ a (legge islamica, n.d.r) che garantisce i diritti umani di tutti, e sulla base della costante dedizione dell’ Arabia Saudita per i diritti umani e del dovere dello Stato di rendere effettivi e proteggere tali diritti in accordo con i trattati internazionali, il Governo ha stabilito la Commissione per i diritti umani”.
Per quanto il regime iraniano sia repressivo la sua parte e non possa far prediche a quello saudita, questa è una colossale presa in giro che l’ Onu, peraltro, si merita. L'Iran è tenuto sotto controllo da decenni, ai sauditi tutto è permesso, con i risultati che vediamo in tutto il Medio Oriente. E per quelli come Alì Mohammed al-Nimr, nipote dello sceicco decapitato, arrestato a 17 anni per le proteste della Primavera del 2011 e condannato a morte a 20 anni, è un ultimo sputo in faccia.