venerdì 30 settembre 2016

Quelli del no

Giorgio Tonini
30 settembre 2016
Quelli del No vogliono tornare ai bei vecchi tempi della proporzionale, quando alle elezioni non perdeva nessuno e vincevano tutti. Ma guai se gli dici che allora vogliono tornare alle coalizioni, alle alleanze in parlamento, perennemente instabili e prive di una reale investitura popolare. Grillini e demosinistri, leghisti e berlusconiani (oggi anche Parisi) rispondono indignati che vogliono la proporzionale, ma senza alleanze e neppure intese, né larghe né strette. Insomma, vogliono tuffarsi in acqua, ma non vogliono bagnarsi. Come è accaduto nel Regno Unito della Brexit, anche in Italia, se malauguratamente il Sì dovesse perdere, scopriremmo che la Invencible Armada del No, la grande ammucchiata che va da D'Alema a Gasparri, passando per Grillo e Salvini, non saprebbe cosa fare nemmeno se vincesse...

giovedì 29 settembre 2016

balla balla...

Si dimette anche il ragioniere generale del Comune di Roma. Anvedi come balla Virgi.
Vittorio Zucconi

martedì 27 settembre 2016

Professori e "professorini"

Pierluigi Castagnetti
27 settembre 2016
Sono molto preoccupato per le elezioni americane. Speriamo vada bene il confronto fra i due candidati di stanotte, ma dubito molto, perché la demagogia in questi casi finisce sempre per prevalere. Come sarà il mondo in mano a Trump e Putin?: proviamo a immaginare.
La questione dei migranti sta sconvolgendo non solo gli equilibri politici, ma il pensiero, persino la civiltà, del l'occidente. Abbiamo già visto l'esito del mini referendum domenica scorsa nel Canton Ticino. Poi si ripeterà con conseguenze ancora maggiori con il referendum in Ungheria. Poi, fra pochi mesi, ci saranno le elezioni in Francia e in Germania, dove non ci resta che sperare in soluzioni di centrodestra ragionevoli ed europeiste.
L'asse politico del mondo si sta drammaticamente spostando a favore di populismi radicali: la gente sembra non essere disposta a ragionare.
A ragionare sulle conseguenze. Questa è la sconfitta della politica, e del futuro dei popoli.
In questo clima noi italiani svolgeremo la nostra campagna elettorale referendaria, con certi professori prigionieri del loro irresponsabile egocentrismo che li fa dire: noi siamo professori, gli altri sono professorini.
A costoro mi viene da dire che i "professorini" sono stati decisivi nell'immediato dopoguerra a scrivere la Carta e a ricostruire l'Italia. Speriamo siano loro a salvare il futuro del paese anche oggi.

4 dicembre, dietrologia preventiva

La Stampa 27 settembre 2016
alberto infelise
Una data scelta a caso quella per il referendum?
L’internèt spesso serve a facilitare la vita. Anche quando la vita si complica fino a costringere la gente a votare su una cosa ostica come il referendum sul testo della legge costituzionale. Come hanno già fatto notare in tanti nelle ultime ore, la scelta di domenica 4 dicembre non può essere casuale. Per alcuni è una vergogna (punti esclamativi) per altri c’è sicuramente qualcosa dietro quella data infingarda, così vicina al ponte dell’Immacolata, ad appena tre settimane dal Santo Natale che molti insistono a voler considerare il vero giorno della nascita di Matteo Renzi. 
Così, ecco un breve vademecum, una piccola guida, un decalogo con meno di dieci ricorrenze per non affaticarsi troppo a cercare complotti e ricorrenze dietro il perché sia stata scelta proprio quella data e non altre. 
Il quattro dicembre non è stato scelto a caso, lo sospettavamo. E infatti proprio il 4 dicembre (e quando se no) nella storia sono successe tutte queste cose. 
1110 i crociati conquistavano la città di Sidone (chiara metafora) 
1563 si chiude ufficialmente il Concilio di Trento, aperto diciotto anni prima (un caso?) 
1619, trentotto coloni della parrocchia inglese di Barkeley sbarcano in Virginia e rendono grazie a Dio. Quel giorno è considerato il primo Giorno del Ringraziamento (l’unico dubbio è: ma se uno dice grazie a Renzi, quello poi dice prego o fa finta di niente?) 
1943 fine della Grande Depressione negli Stati Uniti. Riparte l’economia (di guerra), ripartono i consumi, cala la disoccupazione. Il presidente Franklin Delano Roosevelt chiude la Work Progress Administration (vi dice qualcosa, sì?) 
1968 viene fondato il quotidiano cattolico Avvenire, l’Unità (per i più giovani, era un giornale di sinistra piuttosto diffuso) era su piazza già da un po’  
1977 Jean Bedel Bokassa, presidente della Repubblica Centrafricana, si incorona Imperatore Bokassa I. E ancora pensate che sia una data a caso? 
1982 La Repubblica Popolare Cinese adotta la sua costituzione. Da quelle parti dicono sia la più bella del mondo. Solo coincidenze? 
Se tutto questo non vi bastasse, incrollabili positivisti, sappiate che il 4 dicembre 1830 nacque il celebre banchiere Giacomo Grillo e che nello stesso giorno del 1892 venne alla luce il generalissimo Francisco Franco.  
Fate girare. 

lunedì 26 settembre 2016

io voto si il 4 dicembre


Tornare al proporzionale? È come il gioco dell’oca


Walter Veltroni

L'Unità 25 settembre 2016
È davvero incredibile che i portatori radicali del nuovo mondo oggi propongano il ritorno al sistema proporzionale puro e alle preferenza Cioè la causa della instabilità della prima repubblica
Ho percorso fin qui, per il mio nuovo film, più di tremila chilometri di strade italiane. Sono alla ricerca di ciò che più mi interessa nella vita: le storie, le passioni, le emozioni, i sogni, il pensiero delle persone . Di quelle il cui nome non finisce sui giornali o in televisione, di quelle che sono fuori dai milioni di “occhi di bue” che molti contemporanei pensano di sentire permanentemente accesi su di sé. È l’Italia che lavora, che studia, che pensa, che ha memoria, che ha voglia di raccontare.
Per quello che vale l’universo che ho esplorato – ma, credetemi, tremila chilometri sono più faticosi e attendibili di un sondaggio telefonico improvvisato – è un paese vitale, combattivo, pieno di persone che non si rassegnano, che hanno valori, che non cedono al pessimismo, che si sacrificano, che pensano al futuro.
Ma, rispetto all’altro meraviglioso viaggio in Italia che la vita mi ha riservato, quello fantastico che mi portò in tutte le province italiane per far nascere e consolidare la forza del nascente Pd nel 2008, ho anche misurato quanto ora appaia lontano, a questa Italia del 2016, il discorso pubblico del nostro tempo, la sua ripetitività stanca, la sua rissosità permanente, l’affermarsi costante dell’odio come cifra delle relazioni umane.
Pur in questo tempo di impazzimento delle opinioni pubbliche, di cui la ascesa di Trump è manifesto evidente, nel nostro paese sembra prevalere, sulla rabbia, la sensazione quasi desolata di vivere senza passioni collettive, senza speranze da condividere, divorati da un insieme di “passioni tristi”. Non mi interessa che quello che sto per scrivere appaia come un invito idealistico o astratto. Ma sento che è urgente restituire all’opinione pubblica la relazione virtuosa tra la soluzione concreta dei problemi concreti delle persone e un disegno d’insieme, un sistema di valori e di ragioni che accendano le passioni collettive e spingano i cittadini a non protestare soltanto, a non essere rassegnati ma a partecipare alla dimensione collettiva del vivere.
Da otto anni per correttezza nei confronti di tutti i miei successori, non parlo di Roma, prima o poi lo farò. Qui voglio soffermarmi non su ciò di cui si discute con violenza e furbizia in questi giorni. Voglio parlare invece di quel filmato girato nella metropolitana che vede i cittadini fermi mentre accadono gesti di violenza nei confronti di cittadini inermi. Una città è in primo luogo un’anima, un sentire comune, un luogo di comunità o di egoismo. Se una città smarrisce la sua anima, la cui definizione è un lavoro duro e tenace, tutto può accadere. Da quello che scrivo si capisce che uno come me, difensore appassionato della bellezza della politica , si sforza di cercare l’esperanto che colleghi l’Italia dei cittadini a quella delle istituzioni.
Non credo alle scorciatoie seminate di odio e di integralismo, non credo al qualunquismo e al populismo. Ma, sia chiaro, credo che il trasformismo, la spregiudicatezza morale, la politica come mestiere puramente finalizzato al potere siano quasi peggiori, perché esercitati dall’alto, dei vizi di semplificazione demagogica. La politica deve ritrovare un filo che colleghi le sue scelte quotidiane con un progetto di società nuova, resa necessaria dal tramonto del neoliberismo, dalla crisi della globalizzazione finanziaria e dalle difficoltà drammatiche della democrazia in Occidente. Oggi c’è bisogno di pensiero davvero nuovo, di coraggio intellettuale e politico.
Abbiamo durato fatica a superare i paletti del novecento ma oggi sembriamo, tutti, paralizzati dalla incapacità di immaginare forme di partecipazione, di ruolo dello Stato, di accumulazione e distribuzione della ricchezza, di partecipazione democratica, di mutualità, di rapporto con la scienza e la natura che siano davvero inedite e in sintonia con questa società inedita. Da questo punto di vista devo confessare che mi sembra uno scherzo da buontemponi il giravolta in corso sulla legge elettorale.
Ho sostenuto, in tempi non sospetti, la necessità di rivedere l’Italicum per armonizzarlo con la riforma costituzionale. Io penso che l’Italia abbia bisogno di scegliere con il suo voto il governo, che i cittadini debbano selezionare una nuova classe dirigente legata al territorio, che ci voglia una profonda riforma dei regolamenti parlamentari. E altro ancora.
Ma davvero mi sembra incredibile che i portatori radicali del nuovo mondo, ai quali ho sempre guardato con rispetto e interesse, oggi propongano il ritorno al sistema proporzionale puro e alle preferenze. Cioè la causa della instabilità della prima repubblica, dei governi balneari, delle coalizioni tenute insieme dal potere. Voglio pensare che questa posizione, subito sposata da Berlusconi, sia, in realtà la diabolica materializzazione del proposito esposto, tempo fa, di sfasciare tutto. In Italia ci manca solo la proporzionale pura con partiti deboli, che nascono e muoiono non perché cade un muro ma perché finiscono i parlamentari trasformisti, ci mancano solo le preferenze che sono lo strumento principale della corruzione in politica, dei condizionamenti anche finanziari di lobby e gruppi di interesse.
Io vorrei che l’Italicum venisse corretto nella direzione opposta, ad esempio con collegi uninominali in cui i cittadini scelgano un rappresentante che deve conoscere e restare legato al territorio. Questo paese rischia molto, così. Chi sostiene il maggioritario assoluto il martedì, il mercoledì propone il suo contrario. La distanza tra politica e persone, oggi spesso aggravata dalla fragilità di quei comuni che hanno sempre rappresentato l’anello forte del rapporto cittadini-Stato, rischia di diventare siderale se non ci si accorgerà che, per tutti, è finito il tempo degli scherzi e della goliardia politica. Sarebbe davvero grottesco se prevalesse l’idea di tornare ai governi fatti dalle segreterie di partito e da correnti che non sono neanche più quelli forti di un tempo.
La Dc, il Psi, gli altri, erano partiti che nascevano con radici lontane, che affondavano nella storia italiana. Poi sono stati rovinati proprio da un sistema fondato sui veti, sui giochi, sul potere puro. Vogliamo tornare lì? La democrazia dell’alternanza, i cui meccanismi vanno meglio definiti, è, per me, l’unica soluzione per evitare il possibile tracollo della democrazia italiana. Il nostro sistema, pomposamente definito seconda repubblica, è a metà del tunnel. Solo che, come sempre, invece di correre per guadagnare la luce finale si inverte la rotta, per paura, e si torna all’inizio della galleria. Quando si è bambini ci si diverte con il “Gio co dell’oca”, quello che spesso fa tornare il concorrente alla casella di partenza. Da grandi, da politici, quel gioco innocente diventa un’altra cosa. Diventa un gioco cinico, spregiudicato, irresponsabile.

Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma


Guido Formigoni
23 settembre 2016
In occasione del centenario della nascita di Aldo Moro (23 settembre 1916) pubblichiamo le Conclusioni del libro che l’autore ha dedicato al profilo dello statista democristiano (Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, Mulino 2016). Il volume è in libreria da pochi giorni.
Aldo Moro crebbe come un giovane intellettuale cattolico meridionale dotato di una fede cristiana convinta e di una cultura giuridica in cui spiccava una inconsueta apertura verso la moderna dimensione statuale. Intendendo lo Stato come strumento di una società articolata, si impegnò nelle organizzazioni intellettuali laicali del mondo cattolico, fino a livelli dirigenziali, che sotto il fascismo erano (anche) l’unico modo per arricchire e articolare quella società. Vi rimase legato poi nella primissima stagione dopo la caduta del regime fascista, mentre sviluppava un’attività giornalistica e in qualche modo di analista della politica, che mostrava vivo interesse e coinvolgimento umano verso la nascente democrazia. Costruiva intanto una professionalità di giurista e insegnante universitario, che non volle abbandonare per tutta la sua vita (coltivando anzi spesso l’idea di tornarvi a tempo pieno).
Entrò direttamente in politica solo attraverso l’elezione alla Costituente, in quota all’associazionismo cattolico e su spinta del suo arcivescovo, dopo un approdo tardivo alla neonata Democrazia cristiana. Doveva maturare nell’esperienza straordinaria e creativa di elaborazione della Carta fondamentale della Repubblica, in cui ebbe un ruolo di giovane ma già rilevante protagonista, il senso primario della sua progettualità politica successiva. Dalla frequentazione e condivisione delle battaglie del gruppo dossettiano maturò la convinzione secondo cui il problema politico essenziale del dopoguerra era perseguire e approssimare sempre meglio il progetto di Stato democratico e sociale delineato nella prima parte della Costituzione. Dall’ammirazione per (e dalla prima collaborazione con) De Gasperi, invece, ricavò la constatazione in qualche modo aggiuntiva che la Dc poteva muoversi in quella direzione solo portandosi dietro faticosamente la gran parte del moderatismo italiano: un concetto espresso primariamente nell’esigenza continua di unità del suo composito partito. Con il corollario di una politica di convergenze con altri partiti democratici, utile per gli equilibri con il retroterra ecclesiastico ma anche per l’allargamento progressivo dell’inclusione civile, nel quadro delicatissimo della guerra fredda.
Partecipando alla «seconda generazione» del partito, coagulata nella corrente di Iniziativa democratica, Moro fu vicino alla leadership volitiva di Fanfani e sperimentò il meccanismo delicato della guida del gruppo parlamentare, fino all’acquisizione della segreteria della Dc a seguito della rivolta antifanfaniana nel partito. Per vent’anni, dal 1959 fino alla morte, esercitò quindi un ruolo di preminenza e di guida politica nella Dc e nel paese. Nei quattro anni di segreteria politica sperimentò e affinò una sua forma di leadership avvolgente e inclusiva, mirata a sedimentare i problemi e a far emergere le soluzioni migliori perché pensate e condivise, a costo di qualche rinvio e compromesso (spesso rimproveratogli dai suoi critici e oggettivamente valutabile come l’altro lato della medaglia della sua sensibilità).
Politico della parola se mai ce ne sia stato uno, si affacciò timidamente all’era della politica e della comunicazione di massa, cercando di mantenere il suo schema logico e la sua volontà di convincere razionalmente il pubblico e l’elettorato: altro elemento che gli valse nell’opinione pubblica ampie basi di consenso, ma anche manifestazioni di indifferenza o di lontananza, estese fino al fastidio e all’insofferenza. Riuscì a ricucire con Fanfani sull’esigenza di allargare le basi dell’equilibrio democratico con l’inserimento governativo dei socialisti, lentamente usciti dallo schema frontista. Obiettivo che gli costò una durissima battaglia nel campo ecclesiastico, ma che riuscì a completare con il capolavoro di una sostanziale convergenza unitaria della Dc, rimasta per anni a forte rischio di spaccatura.
Passato alla presidenza del Consiglio dei ministri nel 1963, con il primo governo organico di centro-sinistra, dovette gestire i contraccolpi di quella vittoria, con la pressione spiccata del moderatismo democristiano, della Comunità europea e dei timorosi ceti produttivi e imprenditoriali italiani. Lo dovette fare in un clima di apprensione per il rallentamento del boom economico, per lo scarso equilibrio dei conti pubblici, per i nuovi equilibri sociali che si delineavano con la ripresa delle lotte sindacali, per la non facile integrazione governativa dei socialisti. Riuscì a guidare una politica riformatrice magari sotterranea e spezzettata, ma non del tutto priva di risultati, sia in una serie minuta di tasselli legislativi, sia per l’istruzione di qualche ulteriore riforma, che avrebbe visto la luce nella legislatura successiva. Acquisì lentamente ma sicuramente una sua statura internazionale, nell’orizzonte occidentale favorito dalla sponda positiva costruita con la leadership democratica kennedyana americana, impegnandosi nel tentativo di salvare e rilanciare il processo integrativo europeo, in uno scenario complicato dalle crisi locali e periferiche che accompagnavano il processo di distensione internazionale (dal Vietnam al Medio Oriente). La convergenza di condizioni favorevoli gli permise di rappresentare – a suo modo – il lato italiano di un grande processo internazionale di ammodernamento riformatore delle democrazie occidentali postbelliche.
Dopo il 1968, scaricato dalla guida del governo ed emarginato nel suo partito, meditò il ritiro dalla politica, ma decise invece di rilanciare un’iniziativa minoritaria e incisiva, che partiva dalla lettura del sommovimento sociale in corso (il movimento degli studenti, le rivendicazioni operaie, le istanze libertarie e secolarizzanti di una nuova soggettività umana nella nascente società del benessere). Una condizione ambivalente, aperta a una nuova stagione di crescita e articolazione della democrazia, ma anche a un pericoloso scontro tra velleitarismi rivoluzionari e reazioni conservatrici, innervate da rischi eversivi palesi e occulti. Predicò per cinque anni la necessità per la Dc di governare il problema, per non farsi travolgere. Restò minoranza nel partito, ben oltre la sua precedente immagine di mediatore assoluto piuttosto passivo, sperimentando battaglie e frustrazioni. Convergendo peraltro a sostenere gli equilibri possibili degli ultimi fragili governi del residuo centro-sinistra, in cui si ritagliò il ruolo di ministro degli Esteri. Nella politica internazionale, diede prova come sempre di lucidità di visione e anche di qualche capacità operativa, almeno al livello permesso a un paese intermedio come l’Italia, nella crescente e complessa interdipendenza internazionale.
Promosse nel 1973 un nuovo accordo di convergenza unitaria nell’oligarchia democristiana, con cui tornò al centro della scena. Dovette però raffinare il suo percorso, con una serie di laceranti andamenti divergenti tra le diverse condizioni di possibilità minimali della sua strategia: un partito in crescente sindrome da conservazione del potere e sempre più appannato nella sua legittimazione presso l’opinione pubblica, una radicalizzazione della violenza politica di minoranze che oscuravano i nuovi spazi di una democrazia partecipata, una cultura riformatrice in difficoltà a guidare la crisi economica interna e internazionale, l’esaurimento delle alleanze di centro-sinistra per una polarizzazione interna delle sue componenti, la mobilità insicura degli scenari internazionali con l’indebolimento della guida statunitense e una distensione europea fragile e ambivalente.
La tensione interna tra le diverse componenti della sua politica assunse toni di drammaticità via via più spiccata. La gestione della crescita elettorale comunista dopo il 1975, che delineava una «terza fase» della democrazia italiana, fu il suo ultimo obiettivo, parzialmente riuscito nel dare una sponda processuale al consolidamento della identità del Pci come forza inserita nella democrazia parlamentare e capace di metabolizzare i vitali e confusi fermenti di protagonismo e di cambiamento emergenti nel paese. Processo che doveva consolidare il sistema democratico e accompagnare l’evoluzione ideologica e politica del maggior partito di opposizione, senza cedere per principio a logiche strettamente consociative, oppure allo schema berlingueriano del «compromesso storico». Un processo che venne tragicamente interrotto con il sequestro e l’assassinio. La sua mite e persistente volontà di mediazione e di incontro, che si sforzava di ricondurre ogni dato rea le all’interno di un disegno evolutivo della politica democratica – a tratti raggiungendo lo sfinimento e sfiorando la passività, pur di non squilibrare il delicatissimo sistema nazionale – non poté nulla nei confronti della violenza terroristica e nemmeno dei limiti della risposta statuale a quella violenza. Il terrorismo lo colpì anzi proprio per la sua politica di consolidamento evolutivo della democrazia, nel superamento dei limiti della guerra fredda e dell’ingessatura conservatrice della società italiana: difficile ancora oggi dire se e come in quella violenza ci fosse anche il riverbero di una opposizione radicale alla sua politica di altro segno e altra matrice.
La vicenda oscura del suo assassinio non basta a obnubilare la sua parabola di politico e di statista. Ma in qualche modo ha dato il suggello definitivo a un ruolo storico che egli pensava nel senso dell’evoluzione, della crescita, del pacifico e ordinato movimento verso obiettivi condivisi. E che invece è stato segnato dalla contrapposizione aspra e dall’incomprensione sul fronte esterno. Ma anche da una interna tensione e da una drammaticità coscienziale ed esistenziale crescente, di cui abbiamo la possibilità di cogliere solo alcuni bagliori, addentrandoci con rispetto fino a dove il discorso e la comprensione diventano davvero difficili. Il giudizio sugli esiti della sua parabola esistenziale può essere anche molto diverso a seconda dei punti di vista e dei criteri storici, ma questo non dovrebbe impedire di considerare l’originalità delle sue intenzioni e delle sue motivazioni. Molti aspetti della sua esperienza e della sua biografia restano da conoscere meglio o almeno da approfondire, ma pare di poter dire che il segno lasciato dalla sua parabola umana sia stato di tutta rilevanza nella storia d’Italia e probabilmente anche dell’Europa e del mondo contemporanei.




sabato 24 settembre 2016

Io, la sinistra, Grillo, i cretini.


A pranzo con Michele Serra
di Salvatore Merlo
Il Foglio 23 Settembre 2016
Giornali, politica, satira e vaffa. “La mia lotta è non diventare cinico. Uno è moralista da giovane, poi diventa disilluso, infine rischia di diventare cinico”
E le parole “mio mondo e mio partito” forse un po’ gli bruciano in gola. “Non ci siamo più”, dice con una malinconica ironia. Estinti: come il bue primigenio, come il ghiro gigante di Minorca, come la tigre del Caspio. “E pure ognuno di questi pareva inestirpabile”. Qualche fossile ancora riemerge, tuttavia, qua e là. “Ma bisogna avere l’umiltà di accettare le cose nuove, anche quelle che non ti prevedono”. Come Matteo Renzi? “Mi capita di ricevere missive irose dei miei lettori: ‘Ah, ma come fai?’, ‘Questo orribile provinciale fiorentino…’, ‘Bisogna fare qualcosa…’. Ecco, io invece penso che non dobbiamo rompere i coglioni. Se la nostra sinistra diventa una mummia, noi possiamo anche diventare delle mummie noi stessi, ma non possiamo mica pretendere che anche tutto il resto del mondo si mummifichi”.
E a questo punto lo sguardo fisso, che prima somigliava a un pugno chiuso, si scioglie in un ridere degli occhi, “bisogna avere uno sguardo non stupidamente arreso, ma nemmeno accigliato e corroso dal catastrofismo”. Così abbassa il tono di voce, stringe le palpebre, prende una voce non sua, che potrebbe essere quella dell’avaro di Moliére, o la caricatura fumettistica di un vecchio pessimista: “Ahhh, il mondo è diventato una merda! Non c’è più Berlinguer… Che palle!”. Ride, Michele Serra, con occhi che colgono senza riguardi il paradosso delle situazioni, e la comicità. Anche amara. E forse un po’ evoca “i compagni” volenterosi e tristi di Mario Monicelli, quei pasticcioni sconfitti e dolenti della commedia. “La mia famiglia d’origine ha perso”, dice, “ma il mondo continua anche senza di me”. E insomma esprime lo smarrimento dell’uomo di sinistra, la cui simmetria dei principi è stata scompigliata da un vento che spira da regioni che forse lui in tutta innocenza credeva non esistessero, fino a ieri, o fino all’altro ieri, o comunque fino all’incrinarsi delle certezze di un mondo al quale sente d’essere appartenuto – di appartenere? – “non solo da militante, ma da funzionario”.
Strano dove le nostre passioni ci conducono, incalzandoci sferzanti, costringendoci a sogni indesiderati, a destini malaccetti. “Alle primarie votai Bersani. Poi mi sono pentito. A un certo punto mi sono accorto che votavo Bersani perché in realtà votavo per me stesso, mentre avrei dovuto votare contro me stesso, cioè avrei dovuto votare per Renzi”. In una delle sue rubriche, in un’Amaca, qualche settimana fa, aveva scritto: “Piuttosto che essere governato da uno come Di Maio, che non sa niente ma se la tira come se sapesse tutto, sopporto, anche se non la supporto, Maria Elena Boschi”. Che ti ha fatto la Boschi? “Niente”, risponde lui, con il suo sorriso arabo. “Mi sembra volenterosa… in Italia ci sono due modelli di quarantenne, quello renziano e quello grillino. Almeno quelli come la Boschi provano a dare un’impronta, a fare qualcosa”. I bamboccioni che il ministro Padoa Schioppa esortava a lasciare la casa genitoriale l’hanno fatto. “E invece cosa abbiamo fatto noi sessantenni di sinistra per dire di ‘no’?”. Ecco. Al referendum come voti? “Io voto per il ‘sì’, anche se vincerà il ‘no’. E vincerà il ‘no’ perché l’aria che tira è quella del disfacimento. E poi guardati intorno: mezzo Pd vota ‘no’, la destra vota ‘no’, la sinistra vota ‘no’, i grillini votano ‘no’…”.
Il Naviglio Grande è nitido, largo e lindo, sembra la guancia ben rasata di Milano (mi dirà “Lui” tra poco: “Tutta questa zona aveva un suo fascino anche prima, ma un fascino malinconico, mentre adesso è un luogo allegro”).
La mattina è stata ansimante e boccheggiante, con scrosci di pioggia a tratti torrenziale. Da qualche minuto un sole malaticcio ravviva il cielo bianco, mentre dall’imboccatura di porta Ticinese ecco arrivare, dondolando appena, un signore dall’aria pensosa, ma allegra: pantaloni marroni, camicia chiara, una ciocca di capelli spettinata, e brizzolata, un filo di barba. E’ lui, Michele Serra. “Hai visto, ci sono i pesci nel Naviglio”, dice, indicando quelle acque che non sono più “perplesse”, come le descriveva Giuseppe Marotta negli anni Sessanta, ma che dopo il grande recupero dell’Expo hanno assunto un tocco attraente, adesso sembrano raccontare favole levigate. “Qui i sindaci sono stati bravi, anche quelli di destra. Ma soprattutto è stato bravo Giuliano Pisapia, che se volesse potrebbe diventare il vero avversario di Renzi… Solo adesso Milano palpita davvero di vita, di vita civile e di bellezza, quella stessa città che fu lugubre quando ero ragazzo e che invece mi scorreva attorno così estranea e rampante negli anni Ottanta”.
E la città lugubre era quella in cui si spaccavano teste a sprangate, la città che negli Anni di piombo subiva attonita la bomba di Piazza Fontana, la violenza ideologica e il terrorismo. “In via Scaldasole frequentavo un circolo anarchico, del Movimento socialista libertario. Andavo lì con tre amici di scuola, Mario Ferrandi, Guido Salvini, ed Enrico Mentana. Il primo è finito all’ergastolo per terrorismo, il secondo è il giudice che ha riaperto le indagini su Piazza Fontana, il terzo è il direttore del Tg di La7. Pensa un po’”.
La città che invece gli scorreva estranea, era la Milano di Bettino Craxi, quella da bere. Lo disprezzavi Craxi? “Lo consideravo un nemico. Credevo che avesse ragione Berlinguer, e lui torto. Ero abbastanza comunista, e abbastanza moralista”. A un certo punto però, qualsiasi cosa si faccia, le carte dei motivi e delle conseguenze si imbrogliano maledettamente, e quando gli anni passano nessuno sa più se ha agito bene o male. “Era facile essere moralisti all’epoca, forse c’erano anche delle esagerazioni, ma il sacco della città ci fu davvero. C’era un ceto emergente e spregiudicato, odioso”.
Dunque il Pci, la militanza, un intrico di pulsioni e intenzioni risalenti a tempi immemorabili ormai informi, forse senza scopo. “Entrai nel partito credo a diciotto anni, sezione ‘martiri di Modena’, in via Caccialepori. Entrai per autodifesa, forse anche per paura. Era il ’73 o il ’74 e la gente si apriva la testa a bastonate. Poi un giorno un mio amico andò a fare il militare e mi disse: ‘Vuoi il mio lavoro?’. E che fai? ‘Faccio il dimafonista all’Unità’”. Cioè lo sbarbatello al quale gli inviati dettavano i pezzi al telefono. “Così presi una vecchia Olivetti Lettera 22 di mia madre e mi esercitai nella dattilografia, ero imbranato ovviamente, ma dissi a quelli dell’Unità che ero un professionista. Mi presero. Facevo le notti. A quei tempi i giornali rombavano, erano fabbriche: la colata a piombo, la linotype, gli odori. I tipografi erano individui neri, inchiostrati, che bevevano latte per combattere l’avvelenamento da piombo (ma più spesso bevevano Campari Soda). Era vera classe operaia. Si parlava solo dialetto milanese, che per me, io che venivo da una famiglia borghese, era come una porta sbattuta in faccia, un fragoroso abbassarsi di saracinesca, dovevo farmelo tradurre”.
Poi lentamente il passaggio alla scrittura, al giornalismo. Supremo, prezioso dilettantismo o capriccio. Almeno all’inizio. “Adesso sono venticinque anni che scrivo tutti i giorni. Una follia, un’ossessione. Ho scritto su Panorama, l’Espresso, Repubblica, Telesette, il Monello, l’Illustrazione italiana… Chissà quante stronzate ho scritto!”. Ricordane qualcuna, dai. “Per fortuna mi dimentico tutto, e per fortuna la carta va al macero”. C’è internet, ti avverto. “Ma mi hanno spiegato che per fortuna anche le memorie elettroniche hanno una loro obsolescenza”. Sì, ma credo di millenni. “Cazzo!”.

d'Alema c'è...

"Ho grande rispetto per D'Alema perchè ogni volta che siamo in difficoltà, lui c'è sempre. Quando può dare una mano, non la fa mai mancare mettendosi dalla parte sbagliata."
Matteo Renzi a Prato.
24 settembre 2016

mercoledì 21 settembre 2016

Tre opposizioni, mille parole, zero alternative


Mario Lavia
L'Unità 21 settembre 2016
Allo stato dei fatti, il Pd, con tutti i suoi limiti, continua esattamente a non avere alternative, il che è la sua carta vincente ma in un certo senso anche la sua condanna
A tennis, di solito, quando un giocatore comincia a giocare bene l’avversario peggiora, si disunisce, sbaglia. Accade anche in politica. Fateci caso: quando un governo va in difficoltà di norma l’opposizione si rinsalda, si prende la scena, si fa sentire, detta l’agenda, cattura interesse e suscita attese.
Invece l’analisi fredda della situazione attuale porta a dire che malgrado le oggettive spine di Renzi, le due opposizioni – che come vedremo sono tre – non solo non ne approfittano ma per molti versi sono entrate in una nuova fase di crisi. Lo vediamo anche nella storia infinita dell’Italicum: tutti sbraitano contro ma non se ne trovano due che propongano la stessa ricetta, così che oggi alla Camera le opposizioni parleranno cento lingue, compresa quella dei grillini favorevoli al proporzionale puro – premessa per una bella serie di governi balneari – come a voler rivestire di nuovo populismo il vecchio abito della Prima repubblica.
In questo weekend la destra italiana si è sdoppiata in maniera plastica, divisa fra il linguaggio tecnocratico ammantato di una patina di liberalismo di Stefano Parisi e quello rozzo e antimoderno di Matteo Salvini (al netto della vomitevole frase sul compianto presidente Ciampi che però gli è valsa una comparsata in tv dopo tanto tempo), l’uno sotto le mille luci del MegaWatt milanese, l’altro sul pratone un po’ spelacchiato di Pontida. Andiamo un po’ a tentoni, perché la piattaforma di Parisi ha ancora troppe zone informi ma, ascoltandoli, non c’è nulla in comune fra queste due destre.
Nemmeno fra la Le Pen e Sarkozy c’è questo abisso, neppure fra la Le Pen e il più moderato Juppè e non parliamo poi della distanza fra Farage e la May. Sommare i voti di una Forza Italia targata Parisi a quelli dei lepenisti Salvini e Meloni, costretta a stingere il suo retaggio reazionario nel verde padano, è un esercizio che va bene per gli stanchi sondaggi del lunedì sera ma non ha senso politico. Anche perché questa volta c’è un dettaglio di non poco conto: in campo non c’è più l’incredibile capacità “federativa”di Silvio Berlusconi, uno che riuscì a mettere insieme postfascisti e leghisti, Giuliano Urbani e Mauro Borghezio, Follini e Alemanno.
La sua stessa creatura, Forza Italia, pare oggi un amalgama non riuscito. E sono passati vent’anni, mica uno, con l’ex Cavaliere che non sembra più guidare le danze e con Salvini che non ha certo la destrezza politica di Bossi. Oggi a destra chi è in grado di saldare progetti, linguaggi, stili completamenti diversi? Nessuno. Maurizio Belpietro, conscio di questa impasse, suggerisce con una piroetta intellettuale che a decidere sia «il popolo».
Ma il problema è che di popoli ce ne sono almeno due. Per questo non potranno fare primarie, perché il giorno dopo il popolo perdente non riconoscerà mai quello vincente, non essendoci alcun terreno comune. E a meno di non voler fare una guerra tipo “Gangs of New York”, una soluzione semplicemente non e siste. La terza opposizione sta messa meglio delle prime due ma si è ingarbugliata da sola.
Parliamo ovviamente del M5S, una forza che ha colto un certo spirito del tempo, bellicoso e arruffato, e che continua a veleggiare lungo le coste del “noismo” – no a tutto – ma che sta palesemente implodendo davanti alla prima seria prova di governo: non è che non sanno governare Roma (che pure non è esattamente un buon viatico per il governo nazionale), è che la vicenda di Roma sta facendo saltare tutti i (deboli) meccanismi interni. Nessuno dirige, nessuno decide, nessuno fa politica. Il gruppo dirigente si è autoaffondato, i big diffidano l’uno dell’altro e ormai si guerreggia persino su chi far salire sul palco della prossima kermesse di Palermo, mentre si meditano colpi bassi contro la sindaca di Roma (le toglieranno il simbolo?) in un inquietante vuoto di potere che ricorda le fasi più buie della stagnazione moscovita.
Almeno il “vaffa” mobilitava. Il Pinochet venezuelano di Di Maio molto meno. A poche settimane ormai da un referendum che non vede protagonisti questi partiti d’opposizione – e infatti i leader del No sono D’Alema, giuristi e personaggi televisivi – questo non è un quadro che possa far felici quanti desiderano un Paese nel quale la lotta politica sia produttiva di proposte di governo alternative da sottoporre al popolo sovrano. E tuttavia, allo stato dei fatti, il Pd, con tutti i suoi limiti, continua esattamente a non avere alternative, il che è la sua carta vincente ma in un certo senso anche la sua condanna.

martedì 20 settembre 2016

Fabrizio De Andrè e le sue “Anime Salve”. Quelle di ognuno di noi


Daniele Bova

L'Unità 19 settembre 2016
Usciva esattamente 20 anni fa l’ultimo disco del cantautore genovese: crocevia di suoni e tradizioni ma anche racconto degli emarginati e della solitudine, necessaria, degli uomini.
Tra i dischi di Fabrizio De Andrè, Anime Salve è quello a cui molti sono più affezionati: vuoi perché legato alla sua imminente morte, vuoi perché si tratta di un punto d’arrivo importante: la summa di un percorso di ricerca iniziato con l’omonimo album del 1981. Da quel lavoro, che racconta i sardi e i pellerossa nella loro essenza di popoli minacciati, Faber comincia un cammino che lo porterà a due approdi apparentemente inconciliabili, ma intimamente legati. Da una parte l’apertura totale e incondizionata all’Altro, che si concretizza, a livello testuale e musicale, nell’annettere alla sua poetica suggestioni provenienti da tradizioni e culture lontane; dall’altra, la presa di coscienza della centralità della solitudine, intesa come possibilità di raccontare in maniera più autentica l’essere umano. “Il mio è un inno alla solitudine come possibilità di riscatto da situazioni di disagio – dirà  in un’intervista – il primo grande disagio l’uomo lo prova al momento della nascita, quando passa dall’acqua all’aria. Il secondo quando si rende conto che il suo destino è morire. Alcuni, poi, ne vivono un terzo: il disagio dell’isolamento. Ebbene, secondo me, chi passa attraverso questi tre disagi matura spiritualmente. La solitudine porta a contatto con l’Assoluto“.
Le Anime Salve del titolo sono quindi gli spiriti solitari: l’intera opera è un tentativo di afferrare l’uomo nei suoi tratti salienti, in ciò che gli è più proprio. L’unico modo per far questo è indagarlo nella sua emarginazione, in quei casi limite che De Andrè stesso definisce scherzi della natura – proprio perché vittime della natura stessa, come chi nasce donna in un corpo di uomo (l’argomento del brano d’apertura Princesa) – oppure nella realtà di popoli che non sono mai scesi a compromessi per salvaguardare “i retaggi millenari che si portano dietro”, come quello dei rom. Il cantautore vede in questi attori l’esempio di quella solitudine primaria capace di farci accedere all’essenza delle cose: “Io sono uno che sceglie la solitudine – avrebbe dichiarato –  e come artista mi faccio carico di interpretare il disagio rendendolo qualcosa di utile e di bello. E’ il mio mestiere.”
Il disco si rivela un parto molto complesso, perché alla stregua dei temi trattati, anche a livello formale si struttura su una coralità di punti di vista, sotto forma di grande affresco della world music evoluta. Ogni brano è scritto a 4 mani con Ivano Fossati, i musicisti che collaborano sono numerosi e legati a sonorità disparate – dal percussionista Giuseppe “Naco” Bonaccorso (scomparso pochi mesi prima che uscisse il disco), al grande suonatore di cimbalom (strumento gitano) Sàndor Kuti, dal fisarmonicista russo Vladimir Denissénkov, all’arpista Cecilia Chailly, il mood delle canzoni è vario e suscettibile di cambi e contaminazioni all’interno delle singole composizioni. Si passa, ad esempio, da ritmi e sonorità mediterranee, a spunti di matrice sudamericana, da accenni jazz al folk, senza precludersi ballate introspettive come Ho visito Nina Volare. In parte, l’humus frastagliato del disco deriva dalle spinte antitetiche di chi vi ha suonato dentro, ma senza che questo arrivi a compromettere il senso unitario del tutto, anche grazie al lavoro di Pietro Milesi, capace di mediare, con soluzioni di arrangiamento e di produzione, tra le diverse influenze.
In questo mosaico, De Andrè non è altro che lo “spirito guida” che lascia esprimersi, integrarsi e a volte scontrarsi (come nel caso di alcune divergenze artistiche con Fossati) tutte le parti in gioco.
“Non capisco come chi esercita il potere non si renda conto di non essere anche lui libero. Chi esercita il controllo sugli altri, infatti, non è libero. Basta vedere come certe madri vanno in apprensione per i figli, perdendo così ogni libertà. Eppure ci sono ancora del matti che si divertono ad esercitare il controllo sugli altri”. Come tutti i lavori di De Andrè, anche Anime Salve mantiene una sua cifra “politica”; di più: mai come in questi brani tale termine ci appare nella sua pienezza di significato, calato in situazioni determinate e marginali, di “frontiera” e parallelamente esemplificativo di ogni contesto e di ogni epoca. Citando uno storico verso del brano che chiude l’album, Smisurata Preghiera, è come se De Andrè ci suggerisse che “chi viaggia in direzione ostinata e contraria, col suo marchio di speciale disperazione” non siano solo gli scherzi della natura, i reietti, i disadattati, ma tutti noi: perché ognuno, a modo suo, è alle prese con lo stesso compito: “consegnare alla morte una goccia di splendore… Di umanità.. Di verità… “.

lunedì 19 settembre 2016

A Pontida il cattolicesimo ruspista di Matteo Salvini


Francesco Anfossi
Famiglia Cristiana 18/09/2016
Il patetico tentativo di strumentalizzazione di Benedetto XVI, contrapposto a papa Francesco, è solo la conferma di una sostanziale visione anticristiana di un certo modo di fare politica. Il leader lepeniano porta il presepio nelle scuole e si batte per il crocifisso nelle aule ma ce l'ha con Bergoglio perché «invita gli imam in chiesa»
La confusione è sempre stata grande sopra il cielo dei leghisti. A seconda delle convenienze e dell'umore il suo fondatore Umberto Bossi è stato cattolico, clericale, anticlericale, papista, antipapista, pagano, spiritualista, intimista, protestante, calvinista, laico, ortodosso, riformatore e oggi chissà. Il suo successore Matteo Salvini in questo non è da meno, avendo inventato il cattolicesimo ruspista, dottrina eretica che entra a far parte della storia della Chiesa dopo essere stata diffusa e messa a punto in molti bar sport della Bergamasca. Il leader lepeniano porta il presepio nelle scuole e si batte per il crocifisso nelle aule ma vuole cacciare gli imam dalle chiese e i bambini extracomunitari dagli asili (e anche dagli ospedali pediatrici). Ultimamente ce l'ha con Bergoglio, forse accusato di modernismo, perché “invita gli imam in chiesa”, e vagheggia un’ altra Lepanto (ma non sa che la bandiera turca conquistata dalle forze della Lega Santa cinque secoli fa è stata restituita dal Vaticano alla Turchia da molto tempo).
Certo potremmo consolarci  col fatto che Salvini, anteponendo papa Benedetto XVI a Francesco, ha fatto passi da gigante rispetto al dio Po e a tutto l’ armamentario di ampolline, riti celtici e altre strampalate diavolerie cui i leghisti, Salvini compreso, hanno accettato con entusiasmo, seguendolo come cagnolini dal Monviso fino alla foce del Po. Ma nell’ Anno della Misericordia chiediamo compassione anche per questo patetico tentativo di strumentalizzazione di due Pontefici perfettamente coerenti nella linea del magistero (forse Salvini neanche lo sa che Benedetto vive nei Giardini Vaticani, non certo per caso). 
Il maldestro tentativo di strumentalizzare Benedetto XVI, contrapponendolo a papa Francesco, è solo la conferma di una sostanziale visione anticristiana di un certo modo di fare politica della demagogia all'italiana. Perché in Italia la politica demagogica, di fronte a qualche voto in più raccattato nei bassifondi dell'ignoranza, non si ferma davanti a niente, nemmeno all'immagine misericordiosa di un papa. Ed è indicativo dell'abisso in cui si ritrova la politica, che dovrebbe interpretare i più alti valori dell'uomo al servizio del bene comune. Altro che politica come più alta forma di carità, come diceva Paolo VI!  
Purtroppo c’ è ancora qualcuno che ci casca, come i giovani padani, che a Pontida si sono presentati con una maglietta che raffigura papa Francesco che si tiene la testa tra le mani e una scritta che recita: “Il mio Papa è Benedetto”. Cari giovani padani, prima di fare magliette, studiate, studiate, perché l’ ignoranza è brutta e un giorno, quando non sarete più giovani, potreste vergognarvi di quel che avete indossato e venduto a Pontida.

Questione referendaria e volontà popolare


Michele Salvati
19 settembre 2016
La deresponsabilizzazione delle élite
Ormai mi capita di rado di ritagliare e conservare fisicamente un articolo di giornale: di solito tengo quelli più interessanti in un archivio del computer. Ma non ho resistito a quella vecchia abitudine per un articolo di Sergio Fabbrini sul «Il Sole - 24 Ore» dell’11 settembre scorso: Le élite del No e il futuro dell’Italia. Il ragionamento di Fabbrini non fa una grinza. Parte ricordando ciò che dovrebbe essere ovvio, ma non lo è: che un referendum su questioni politiche complesse (come l’adesione all’Unione Europea o la riforma costituzionale) «non è lo strumento per far emergere il volere del popolo, inteso come un’entità unitaria, distinta dalle élite politiche. Al contrario, il referendum si è dimostrato regolarmente lo strumento per avviare un regolamento dei conti all’interno delle élite stesse». Dopo aver addotto numerosi esempi a sostegno di quanto ha affermato – tutti tratti dalla recente esperienza europea – ne fa seguire la recisa conclusione: «la politica è sempre uno scontro tra élite, mai tra élite e popolo». Questo vale sia per le élite dei partiti tradizionali, sia per quelle di recente formazione, per imprenditori politici che percepiscono un distacco tra élite tradizionali e opinione pubblica e lo dirigono verso soluzioni radicali e quasi sempre illusorie: i movimenti cui è attribuita l’etichetta elusiva di «populisti». E Fabbrini, da questo incipit, fa seguire diverse conclusioni, di cui vorrei qui segnalare la principale.
«Il referendum, proprio per la sua natura binaria relativa a una determinata proposta (Sì o No) consente alle élite negative un vantaggio posizionale rispetto a quelle positive. È molto più facile fare una campagna contro che una a favore. Tant’è vero che quando le élite negative vincono, e quasi sempre vincono nelle arene referendarie, il risultato è lo stallo se non la confusione». E qui seguono altri esempi. Donde il giudizio conclusivo: «il referendum deresponsabilizza gli oppositori, che possono mobilitarsi per far votare contro la proposta in discussione senza essere obbligati a precisare con che cosa la sostituirebbero».

In un articolo dell’aprile scorso, e sempre con riferimento al referendum costituzionale, mi riferivo anch’io allo stesso fenomeno di deresponsabilizzazione, notando che il legame principale che unisce le opposizioni al referendum è l’obiettivo di far cadere o azzoppare il governo. «L’unico legame, perché poi, su qualsiasi linea politica, i loro dissensi sarebbero insormontabili: ve lo immaginate un governo sostenuto da una maggioranza in cui ci siano esponenti della sinistra radicale e Forza Italia, Lega e 5 Stelle, tutti strenui oppositori del referendum? Una maggioranza “contro” non è impensabile; è una maggioranza “per”, diversa da quella che sostiene il governo in carica, che non si riesce a intravvedere».
Facciamo un passo oltre e veniamo a un problema che presenta alcune somiglianze, ma anche evidenti differenze, con quello del referendum: il ballottaggio tra le due liste più votate, previsto dalla legge elettorale approvata dalla Camera, il cosiddetto Italicum, nel caso che nessuna superi il 40% dei consensi (ciò che è assai probabile). Questo è il cuore della legge, ancor più del ballottaggio di lista invece che di coalizione: è infatti quello che esprime il vecchio sogno veltroniano del partito «a vocazione maggioritaria», il sogno di un governo con una maggioranza coerente (idealmente di un solo partito), disposta a seguire il premier nel suo disegno di riforma del Paese. Anche questa decisione, da ultimo, si presenta come un giudizio secco: Lista A o Lista B, invece di Sì o No.
Nel contesto italiano le obiezioni politiche al ballottaggio non mancano, tre su tutte: a) l’appartenenza a un lista o anche allo stesso partito non significa la leale adesione al programma del premier (si pensi ai feroci conflitti interni al Partito democratico); b) gli elettori di liste o partiti sconfitti nel primo turno difficilmente sono in grado di valutare autonomamente la minor distanza tra i programmi di A e B rispetto a quelli del partito che avevano votato al primo turno e l’influenza di élite politiche negative, come le chiama Fabbrini, di pure «maggioranze contro», è molto forte, come si è visto nelle recenti elezioni comunali; c) resta comunque il fatto che un partito potrebbe ottenere  la maggioranza dei seggi avendo ottenuto, al primo turno, un consenso molto inferiore a quello che gli consentirebbe di vantare una convincente rappresentanza dei votanti. In astratto, e valutando il problema sotto il solo profilo della teoria democratica, D’Alimonte e altri sostengono che la somma delle prime e delle seconde preferenze è una risposta accettabile al problema del contemperamento tra rappresentatività e governabilità. Ma quelle del secondo turno sono preferenze deboli, e questo potrebbe creare seri problemi a un governo che deve prendere decisioni difficili e impopolari.
Gran parte del ceto politico e intellettuale tradizionale è terrorizzato dalla possibile vittoria del Movimento 5 Stelle al ballottaggio (e una parte anche dalla vittoria di Renzi, dell’ «uomo solo al comando», come si va ripetendo sulla base di una critica alla riforma costituzionale difficilmente condivisibile): le pressioni esercitate sulla Corte affinché decida secondo le convenienze politiche di chi le esercita immagino siano fortissime. Probabilmente il 4 ottobre la Corte rinvierà il problema, in attesa del risultato del referendum, e questa mi sembrerebbe una decisione saggia, che concede ai giudici delle leggi tempi di riflessione e valutazione più distesi. La Corte non è un organo politico e la sua neutralità e il suo carattere super partes sono aspetti centrali del suo ruolo in uno Stato di diritto: soggetta a obblighi e pressioni contrastanti la decisione sarà comunque difficilissima ed esporrà in ogni caso la Corte a forti critiche.

giovedì 15 settembre 2016

lo smacchiatore di giaguari


L'equilibrista

«Jean- Claude l’equilibrista» si è esibito a Strasburgo. All’Europarlamento, il presidente della Commissione europea ha narrato nel suo discorso sullo Stato dell’Unione. Uno stato molto gramo, quello di una Europa segnata dall’avanzata prepotente dei populismi, da muri, frontiere blindate, mancata crescita, politica estera e di difesa comune inesistente. Una Europa siffatta ha bisogno di una scossa immediata, di scelte impegnative, di fatti concreti. Di tutto, meno che di furbate dialettiche, di equilibrismi lessicali fatti per provare ad accontentare tutti, di una stantia retorica dei sentimenti. Un esempio? Eccolo. Recita Juncker: «Il Patto di stabilità non deve diventare un Patto di flessibilità, ma serve una flessibilità intelligente per non ostacolare la crescita…». Tre righe buone per essere interpretate in un modo dai “rigoristi”del Nord, e in un senso opposto dai “flessibilisti”del Sud.

streaming

Pier Luigi Bersani, capo della minoranza dem, dice a ‘DiMartedì’: ‘I 5 Stelle non sono populisti, ma un movimento di centro, e il Pd deve dialogare con il centro’.” (Siccome anche il Fattone ama la Ditta, eviteremo di commentare questa illuminante analisi dello smacchiatore di giaguari).
f. r.

Cortocircuito a 5 stelle


Fabrizio Rondolino
L'Unità 15 settembre 2016
La politica italiana è lieta di dare finalmente il benvenuto alla Casaleggio Associati srl
Se vince il No al referendum, Renzi deve fare un passo indietro: ma per me va benissimo andare al voto anche nel 2018. Magari si può trovare un altro premier, un governo di scopo e fare quindi la legge elettorale»: reduce dal giro estivo in scooter e forte della benedizione pubblica di “Beppe” in persona, Alessandro Di Battista torna in tv e si lancia nella grande politica. Intervistato da Lilli Gruber, martedì sera, annuncia una svolta epocale: i grillini scendono dalla montagna, e pur di mandare via Renzi sono disposti a fare un governo – “di scopo”, secondo la bizantina terminologia ereditata direttamente dalla Prima Repubblica – che cambi la legge elettorale e accompagni la legislatura alla sua scadenza naturale.
Il caso vuole che sulla stessa rete, poco dopo, ci sia Pierluigi Bersani ospite di Giovanni Floris. L’ex segretario del Pd, già umiliato in diretta streaming da Grillo tre anni fa, conclude il suo intervento con una dichiarazione sorprendente: «I 5 Stelle sono un partito di centro antiCasta. Io vorrei che ci fosse un centrosinistra largo capace, in un sistema tripartito, di cercare un dialogo col centro». Che non è il centro di Alfano e Casini, né tantomeno di Moro e Martinazzoli, ma, incredibilmente, quello di Dibba e Di Maio. Bersani non parla di «governo di scopo», ma il cortocircuito è immediato e inevitabile: a tre anni dal clamoroso fallimento del «governo di cambiamento» che l’allora segretario del Pd, dopo l’inaspettata sconfitta elettorale, avrebbe voluto guidare con l’appoggio del Movimento 5 stelle, eccoci tornati al punto di partenza.
Per salutare il lieto evento, il Fatto di ieri esaltava il «cambio di linea e di visione» del M5s, sottolineava con simpatia «la corte dell’ex segretario Pd» e già pregustava una «maggioranza alternativa, impastata tra M5s, bersaniani e chissà chi altro». «Chissà chi altro» è un riuscito eufemismo per indicare Brunetta e Salvini, senza i quali non esistono maggioranze alternative a Renzi in questo Parlamento. Ma questo è un dettaglio, per statisti di quel livello. Il problema però è che ieri mattina Luigi Di Maio ha smentito categoricamente: «La linea del M5s non è cambiata, io e gli altri miei colleghi pensiamo che se dovessero vincere i No e Renzi dovesse dimettersi, allora il Presidente della Repubblica traccerà la strada. Ma abbiamo dei punti fermi: andiamo al governo con i voti degli italiani». E sul «governo di scopo» cala anzitempo il sipario. O no? Se sgombriamo il campo dalle ingenuità, resta però in campo una costante cui il M5s in questi anni non è mai venuto meno: dichiararsi in prima battuta disponibile ad un qualche accordo – è stato così sulle unioni civili, ma anche sull’Italicum – e poi, quando l’interlocutore mostra di voler fare sul serio, sfilarsi con il primo pretesto (o anche senza pretesto alcuno) per riprendere il bombardamento a tappeto.
L’elementare giochino è utile a consolidare la purezza rivoluzionaria del movimento senza mai sporcarsi le mani né mettersi seriamente in gioco. Non più tardi di dieci giorni fa, del resto, un informato retroscena del Corriere della Sera raccontava di un Di Maio «disponibile» a rivedere in Parlamento la legge elettorale; neppure un paio di giorni dopo, lo stesso Di Maio – che ormai, da politico consumato, ha imparato a dire tutto e il suo contrario con la medesima configurazione dei muscoli facciali – ha definito Renzi «schizofrenico» per la sua disponibilità a modificare l’Italicum. In ogni caso, la politica italiana è lieta di dare finalmente il benvenuto alla Casaleggio Associati srl. Non c’è soltanto il «governo di scopo»: ci sono anche, alla bisogna, il «governo tecnico», il «governo istituzionale», il «governo delle larghe intese», il «governo del Presidente», il «governo-ponte», il «governo di tregua» e, se tutto ciò non bastasse, il mitico «governo balneare» della nostra adolescenza.

domenica 11 settembre 2016

L’8 settembre infinito


Walter Veltroni
L'Unità 11 settembre 2016
Forse proprio quel giorno il rapporto tra i cittadini e il potere si è incrinato
È passato senza celebrazioni storiche e senza neppure ricordi doverosi l’anniversario dell’otto settembre. Non c’è nulla da festeggiare, in quella data. Diciamoci la verità: sarebbe un giorno da nascondere sul calendario della storia se non fosse per la prova di eroismo fornita a Porta San Paolo da militari e antifascisti che resistettero, molti pagando con la vita, all’occupazione tedesca.
Il re che fugge e lascia la capitale in mano alle SS, il governo Badoglio che farfuglia e tiene il piede in mille staffe, l’abbandono della nostra flotta costretta a vagare per il Mediterraneo senza ordini certi, l’umiliazione dei bombardamenti che gli alleati fecero per costringere gli italiani a mantenere la parola data il 3 settembre a Cassibile con la firma dell’armistizio.
Non tutti conoscono o ricordano l’umiliante messaggio ultimativo che il comandante alleato Eisenhower fu costretto a inviare al governo italiano che, dopo aver siglato l’accordo, traccheggiava e chiedeva dilazioni : “Ho intenzione di diffondere l’esistenza dell’armistizio all’ora programmata originariamente. Se voi o qualunque parte delle vostre forze armate mancherete di cooperare come precedentemente concordato, renderò di pubblico dominio in tutto il mondo una documentazione completa relativa a questo affare… La mancanza da parte vostra nell’adempiere pienamente agli obblighi verso l’accordo firmato avrà le più serie conseguenze per il vostro paese”.
Ricevuto il secco testo alleato improvvisamente , come in un film di Alberto Sordi, la casa reale e Badoglio convocano il Consiglio della corona e, contemporaneamente, preparano le valige. Restano così soli i soldati sbandati, i marinai alla deriva, i prigionieri, i resistenti, il popolo.  Si usciva da una dittatura e da una guerra, guerra che non finiva. I primi balbettanti passi del post fascismo furono all’insegna della codardia e della doppiezza.
“Tutti a casa” si intitola il film più celebre su quei giorni folli e così comincia il post fascismo, in un paese che è uscito dalla dittatura senza chiedersi compiutamente come c’era entrato.
Otto settembre italiano forse non si è mai concluso, quei mali non hanno smesso di allignare tra le fila di un paese che con la Resistenza, la Costituzione, le lotte sindacali e civili, il contrasto del terrorismo ha mostrato di sapere essere migliore dei disvalori che nel dna nazionale la ferita nel rapporto tra potere e popolo di quell’otto settembre ha sedimentato. Un Paese fragile perché abituato o costretto ad arrangiarsi, uno Stato non credibile perché, in persone e norme, sempre uguale a se stesso, anche prima e dopo il fascismo. E poi il trasformismo, il correre in soccorso dei vincitori, il non accettare mai che una cosa sia come sembra, il complottismo per cercare giustificazioni. Dobbiamo liberarci da questa zavorra. Non mancano le energie che possono scuotere queste tare ereditarie.
Bobbio disse che durante gli anni del consenso al regime non serviva neanche il bastone, era sufficiente l’aggrottare le ciglia da parte dei gerarchi per garantirsi entusiastici e diffusi sostegni. Siamo un Paese esposto all’emotività, alla paura, alla rabbia, alle facili promesse. Molte delle nostre scelte, nel secolo scorso, sono state drammaticamente segnate da questi atteggiamenti. Persino il terrorismo è stato impregnato di quell’odio e di quell’ambi – guità, i “compagni che sbagliano”, che è un dato permanente del nostro essere nella storia.
I social oggi stanno amplificando questa tendenza, tutto esasperando e semplificando e, ancor di più, facendo del dialogo un ferrovecchio sostituito dall’insulto o dalla demonizzazione del pensiero dell’altro. Se non la pensi come me sei un nemico, sei altro da me e quindi un nemico. L’altro – pensiero o etnia, religione o comportamento sessuale – è qualcosa di inaccettabile, di negativo. Invece è proprio nel rapporto con l’a l t ro pensiero, con l’altra esperienza, che si riesce a cambiare come la vita richiede, si cerca il giusto oltre i confini delle proprie convinzioni, si alimenta il più essenziale dei preparati umani: il dubbio. Sviluppare, modificandole, le idee è possibile, talvolta giusto, necessario per portare i propri valori nei contesti storici mutati. Ma riemerge il trasformismo, quello di cui vediamo triste spettacolo in parlamento, con eletti che cambiano casacca sei volte in una legislatura e partiti di cui si fa fatica a indicare la linea politica perché sono, per definizione, delle legioni straniere di uomini politici sbandati, cavalli scossi il cui traguardo è solo la rielezione.
La politica è altro e l’Italia lo sa bene. La democrazia, fragile ed esposta al temporale di questo tempo difficile, ha bisogno di essere forte, capace di decidere, trasparente, veloce, partecipata davvero. E la politica, una volta definita una moderna ed equilibrata innovazione istituzionale, dovrà ritrovare un rapporto con il popolo. E lo ritroverà solo se caccerà i mercanti dal tempio, se farà pulizia morale, se smetterà di apparire una fabbrica di carriere e potere più che un servizio, se tornerà ad essere la più alta missione civile immaginabile.
Altrimenti finirà col sembrare meno matto di quanto si possa dire il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti che, Reagan si sarebbe rivoltato nella tomba, ha indicato Putin come modello. Trump ha strizzato l’occhio a un sentimento che si diffonde in lungo e in largo: la voglia di un potere forte, autoritario. Riemerge e, se non stiamo attenti, può attecchire. Anche nel Paese dell’otto settembre che non finisce mai.

giovedì 8 settembre 2016

Smontata la balla su Sala indagato. Ma Travaglio non lo dice


Fabrizio Rondolino
L'Unità 8 settembre 2016
La “notizia” è falsa: a fine luglio, già prima delle ferie estive, la Procura di Milano ha chiesto al gip Laura Marchiondelli “l’archiviazione del fascicolo”
Quando Marco Travaglio scriverà il suo Manuale del buon giornalista – e prima o poi lo farà, statene certi – troveremo senz’altro anche questa regola: una notizia falsa si pubblica con grande risalto in prima pagina, una notizia vera non si pubblica né in prima né da nessuna altra parte. Purché, naturalmente, la notizia falsa danneggi qualcuno o qualcosa che ha a che fare con Matteo Renzi, e la vera invece possa aiutarlo. Quando è in ballo la Casaleggio Associati srl, invece, la regola è un’altra: il server ha sempre ragione, e se ha torto è perché ha letto male l’e-mail, e dunque ha ragione lo stesso.
Ieri il Fatto ha sparato in prima pagina una “notizia” che, nelle intenzioni del maestro di giornalismo Travaglio, avrebbe dovuto riequilibrare il disastro grillino per autocombustione che si sta consumando a Roma: “Sala, indagato e bugiardo, resta”.
La “notizia” è falsa: a fine luglio, già prima delle ferie estive, la Procura di Milano ha chiesto al gip Laura Marchiondelli – citiamo dal Corriere della Sera di oggi il sempre preciso Luigi Ferrarella – “l’archiviazione del fascicolo nel quale il nuovo sindaco di Milano, Giuseppe Sala, era stato iscritto nel registro degli indagati (su esposto del consigliere comunale di Fratelli d’Italia Riccardo De Corato) per non aver inserito alcuni immobili e quote societarie nell’autocertificazione patrimoniale richieste ai titolari di talune cariche pubbliche dal decreto legislativo 33/2013 sulla trasparenza della Pubblica amministrazione”.
“La valutazione del pm Giovanni Polizzi – prosegue Ferrarella –, d’intesa con il neoprocuratore di Milano Francesco Greco e il capo del pool Pubblica amministrazione Giulia Perrotti, è stata che si sia trattato non di alterazione della realtà, ma di ‘mera incompletezza di informazioni’ perché Sala ‘si sarebbe limitato a dichiarare la titolarità del terreno di Zoagli sul quale gli immobili [non dichiarati, ndr] sono stati edificati’.”
Perché citiamo il Corriere e non il Fatto? Perché sul Fatto della notizia (vera) non c’è traccia. Per i suoi pochi lettori Sala resta “indagato e bugiardo”, mentre invece non è sotto inchiesta da luglio e non ha mai mentito. Evviva Travaglio, evviva il giornalismo!