venerdì 28 febbraio 2014

vice ministri e sottosegretari del governo Renzi

Presidenza del Consiglio
Sottosegretari: Luca Lotti (Pd) con delega all'Editoria, Marco Minniti (Pd), riconfermato ai Servizi segreti. Di nuova nomina Sandro Gozi (Pd).

Interno
Viceministro: riconfermato Filippo Bubbico (Pd)
Sottosegretari: restano anche Gianpiero Bocci (Pd) e Domenico Manzione (tecnico).

Esteri
Viceministro: riconfermato Lapo Pistelli (Pd).
Sottosegretari: resta anche Mario Giro (Pi -Popolari per l'Italia). Di nuova nomina Benedetto Della Vedova (Sc).

Giustizia
Viceministro: Enrico Costa (Ncd)
Sottosegretario: riconfermato Cosimo Ferri (tecnico).

Difesa
Sottosegretari: Domenico Rossi (Pi). Viene riconfermato anche Gioacchino Alfano (Ncd).

Economia e Finanze
Viceministri: Enrico Morando (Pd), riconfermato Luigi Casero (Ncd).
Sottosegretari: resta PierPaolo Baretta, di nuova nomina Giovanni Legnini (Pd) e Enrico Zanetti (Sc).

Sviluppo Economico
Viceministro: riconfermato Carlo Calenda (Sc).
Sottosegretari: restano anche Claudio De Vincenti (Pd) e Simona Vicari (Ncd) più Antonello Giacomelli (Pd) di nuova nomina con delega alle Comunicazioni.

Lavoro
Sottosegretari: Teresa Bellanova (Pd), Franca Biondelli (Pd), Luigi Bobba (Pd), Massimo Cassano (Ncd).

Infrastrutture e Trasporti
Viceministro: Riccardo Nencini, segretario Psi.
Sottosegretari: Antonio Gentile e Umberto Del Basso De Caro.

Politiche Agricole Forestali e Alimentari
Sottosegretari: Andrea Olivero (Pi). Riconfermato Giuseppe Castiglione (Ncd).

Ambiente
Sottosegretari: Silvia Velo (Pd), Barbara Degani (Ncd).

Istruzione, Università e Ricerca
Angela D'Onghia (Pi), Roberto Reggi (Pd). Riconfermato Gabriele Toccafondi (Ncd).

Beni, Attività culturali e turismo
Sottosegretari: di nuova nomina Francesca Barracciu (Pd, in un primo tempo candidata alla presidenza della Regione Sardegna, poi convinta da Renzi a cedere il posto a Francesco Pigliaru); confermata Ilaria Borletti Buitoni (Sc).

Salute
Sottosegretari: Vito De Filippo

Riforme e Rapporti con il Parlamento
Sottosegretari: Ivan Scalfarotto (Pd), Maria Teresa Amici (Pd), Luciano Pizzetti (Pd).

Semplificazione e Pubblica amministrazione

Sottosegretario: Angelo Rughetti (Pd).

Affari regionali
Sottosegretario: Gianclaudio Bressa (Pd).

un bel clima !!!!


sempre fantastica


Pd nel Pse, finalmente!


Rossella Olivari
Brescia 28 febbraio 2014
 
Un anno fa , in una mattina grigia , come e' spesso il Belgio, alla Louviere entravamo in una sede Acli, lí pensai: qui abbiamo fatto da tempo il Pd! Un bancone con italiani piu' o meno anziani,figli di minatori o minatori essi stessi, muratori, alcuni con figli che finalmente e dopo tanta attesa, lavoravono nella pubblica amministrazione belga. Sopra il bancone i gagliardetti di Juve, Inter, Milan, Palermo, un misto di francese, italiano e dialetti di ogni provenienza e sulla parete lo stemma delle Acli ed accanto la foto del Che!
Genk. Ancora italiani, stavolta per lo piu' lucani, il club della Vespa. Nella sala civica ancora minatori, migranti di prima, seconda, terza generazione, nostri iscritti che partecipavano all'amministrazione comunale con la civica del Ps belga, dopo tanta collaborazione un assessore era il loro.
A Bruxelles la signora Luisa, nostra iscritta, candidata nelle liste del Ps belga per uno dei 18 comuni facenti parte della regione Bruxelles capitale.
Per le elezioni italiane a darci una mano con il voto degli italiani all'estero gli amici del ps.
Allora la domanda: " Ma che altra destinazione doveva avere il nostro partito se non entrare a far parte del centro sinistra europeo nella casa del Pse Socialist & Democrat?".
Come sempre,e per fortuna, le storie di vita vissuta trovan le risposte prima dei sofismi.
it's about Europe, it's about you. Join finaly to the Pse Socialist & Democrat!

Una scelta naturale e giusta


Laura Venturi
Roma 27 febbraio 2014

Oggi in Direzione Nazionale votiamo l'adesione del PD al Partito del Socialismo Europeo.
Io voterò a favore.
No, non è, come qualcuno sostiene, la vittoria di una parte del PD su un'altra componente.
Il PD di Matteo Renzi e' un partito ricco di valori e di suggestioni ed e' finalmente un partito non post democristiano o post diessino. E' un partito post ideologico, i cui membri si possono sentire parte di un grande progetto, senza sentirsi ex...elemento particolarmente rilevante per chi come me, e tante altre amiche e amici, non ha avuto tessere di partito prima del PD.
L'Italia e' un grande paese europeo e il PD e' un grande partito di sinistra, riformista e di governo.
In Europa i partiti della sinistra riformista stanno, pur con le loro peculiarità, dentro la grande e variegata famiglia del socialismo europeo.
Per quale motivo dovremmo rimanerne fuori? Perché non ci sentiamo una sinistra riformista o perché non ci sentiamo europei?
Non e' una resa da parte di nessuno, non e' la sconfessione di una storia. E non deve essere un’adesione formale e acritica.
Il socialismo europeo ha mostrato i suoi limiti, le sue debolezze e spesso, troppo spesso risulta elettoralmente minoritario in Europa. In questo sta la grande sfida del PD di Matteo Renzi: spronare il PSE a cambiare, ad essere più moderno, ad allargare i suoi orizzonti per tornare a vincere e provare a costruire una Europa più forte e più giusta.
Oggi il PD sceglie la sua casa naturale in Europa e le donne del PSE aprono a Roma il congresso dei Socialists and Democrats...
La Direzione si è espressa a favore con 121 voti, 1 contrario e 2 astenuti.
E' davvero un buon inizio.

Ma in Europa non vinceremo da socialisti

Stefano Menichini 
Europa  

Adesione al Pse inevitabile. Peccato si tratti di una famiglia politica inconsistente, come le altre in un sistema dominato dai governi. Come si batterà Renzi contro Grillo e Tsipras?
È stato un atto poco più che di testimonianza, ma onore agli sparuti dirigenti del Pd che hanno trovato parole per criticare l’adesione al Pse, anche a nome di diversi loro colleghi che l’hanno subita senza pronunciarsi. Non perché non sia stata una scelta inevitabile, proiezione continentale di una vocazione al bipolarismo che in Italia fatica, e a Bruxelles da sempre si sostanzia più che altro in consociazione e staffette tra socialisti e popolari rigorosamente sotto la regia degli Stati nazionali.
Il limite vero dell’operazione, come abbiamo già scritto, è che la famiglia politica dalla quale si fa adottare il Pd è sostanzialmente una finzione. Ogni volta che si rimarca la dimensione globale e sovranazionale di tutte le scelte politiche che contano, proviamo a chiederci quale sia il ruolo che vi recita il Pse. L’unica risposta possibile è: nessuno. Abbiamo ancora negli occhi l’immagine – recente, meno di due anni fa – della famosa foto di Parigi: che cosa è rimasto del Manifesto sottoscritto da Bersani, Hollande e Gabriel, la bandiera dell’Europa del lavoro e della crescita contrapposta all’Europa del rigore neoliberista?
Non sono solo le sconfitte elettorali di italiani e tedeschi intervenute nel frattempo, e il precoce declino dei francesi, a rendere sbiadita quell’immagine. Il fatto vero è che nessun cittadino europeo crede che le decisioni che lo riguardano si giochino nella partita tra partiti, quando ancora così evidente e prepotente è il dominio della relazione fra governi.
Ne deriva che la scelta votata ieri dalla meno seguita fra le direzioni democratiche più che dannosa è inconsistente. Un gesto pro-forma, la chiusura di un contenzioso antico che interessa pochi reduci.
Il Pd e Renzi devono assolutamente vincere le elezioni europee: il contrario sarebbe esiziale. E possiamo star certi che in quella campagna elettorale non evocheremo né socialismo né progressismo, né proveremo a convincere gli italiani della forte leadership del candidato Martin Schulz. Lo scontro sarà con Grillo, un po’ anche con Tsipras, contro i quali potranno essere usati solo i risultati del governo di Roma e una superiore capacità di demolire il vecchio impianto della politica nazionale e della nostra subalternità internazionale. Il tutto mentre (giustamente) facciamo visita alla Merkel e ci compiacciamo dei giudizi positivi del Fmi della Lagarde: non sarà facile, e lo scudo del socialismo europeo non aiuterà granché.

giovedì 27 febbraio 2014

Il Pd entra nel Pse: 121 sì, un no, due astenuti

La direzione del Pd ha approvato l’adesione del partito al Pse. I sì sono stati 121, un solo no (quello di Giuseppe Fioroni) e due astenuti. Un «voto storico» (come è stato definitio) arrivato per alzata di mano, in gran parte atteso, e arrivato dopo una discussione durata quasi tre ore, molto civile, conclusa dall’intervento del segretario del Pd Matteo Renzi.

Maroni un bravo Babbo Natale

DALLO SHIATSU AL RUGBY PER MARONI
 
Il Pirellone ha speso un milione e mezzo di euro negli ultimi tre anni per i “patrocini onerosi”. La legge mancia in salsa padana concede contributi a enti, associazioni e comitati per la promozione di manifestazioni «di particolare interesse e rilievo regionale» che valorizzino «l’identità della Regione e ne promuovano l’immagine in campo nazionale o internazionale». In realtà a nessuno pare importare granché del prestigio fuori dai confini regionali. E infatti ecco spuntare richieste da jazz club, associazioni per lo sci, yoga e shiatsu, amici del palio, cral dei dipendenti del Pirellone.

Visti anche i tempi di crisi, a stopparla ci aveva provato a dicembre Umberto Ambrosoli, lo sfidante di Maroni alle ultime elezioni: «Suona davvero stonato un fondo che elargisce una serie di piccole mance, soprattutto a enti privati. Fa poi impressione constatare che la distribuzione dei soldi sia affidata alla più totale discrezionalità». L’idea era quella di azzerarlo almeno per un anno. Tutto dimenticato. E a gennaio ecco ripartire le richieste per il carnevale, il tour delle fortificazioni, il concorso letterario “Scrivi l’amore” e poi un elenco di pedalate, sagre e tante feste. In soli cinquanta giorni, venticinque nuove richieste per festival della musica, celebrazioni, fiere, gemellaggi e mostre zootecniche. Gli importi vanno da 300 ad un massimo di 4 mila euro e non mancano richieste curiose come i 1.500 euro per la partita di rugby del trofeo sei nazioni da giocare a Rovato (Brescia) il 6 marzo. Il governatore Roberto Maroni,  non nega una mancia a nessuno.

una guerra dimenticata

Un ferito viene portato via a Mogadiscio, in Somalia, dopo l’esplosione di un’autobomba che ha ucciso almeno 11 persone.

La legge elettorale accelera

Martedì riprende l'esame alla camera. Il voto finale previsto giovedì e comunque entro la prossima settimana

L’esame della riforma della legge elettorale riprenderà in aula alla camera da martedì pomeriggio. È quanto ha stabilito la Conferenza dei capigruppo di Montecitorio.
Il voto finale sull’Italicum è previsto presumibilmente, visto il contingentamento dei tempi (in tutto 22 ore, di cui circa due già utilizzate), giovedi’, e comunque entro la prossima settimana.

Quell'abbraccio fra sconfitti

Tommaso Cerno
Espresso 26/2/2014
 
Quell’abbraccio fra sconfitti, quell’applauso disperato, quel parricidio in tono minore
Un premier, piaccia o no, della Terza repubblica. Un parlamento della Seconda. Un rituale costituzionale della Prima. Quarantotto ore di noia parlamentare per mandare al lavoro un governo nato su Twitter. Sarò cinico, ma a me l’abbraccio Letta-Bersani, al netto della vicinanza per la malattia, non ha affatto toccato. Anzi, sul piano politico era un abbraccio fra due sconfitti. E anche un po’ fra due illusi. Con intorno un parlamento che odora d’antico (grillini compresi, altrimenti il leader del M5s non avrebbe avuto alcun motivo di lanciarsi in quello streaming-show con Matteo Renzi), e che applaudiva per disperazione, proprio come fece di fronte a Giorgio Napolitano dopo la rielezione, mentre con tono di monarca lo redarguiva. Un parlamenticchio, ben peggio del governicchio che ha sostenuto, che applaudiva la propria inconsistenza, la propria paludosa vetustà.

In politica si dice che ogni nuovo leader nasca da un parricidio. Renzi, in tempi di crisi, non ha potuto rispettare fino in fondo la tradizione. Bersani, non vincendo le elezioni politiche, si era ucciso da solo. A Matteo non restava che il fratricidio, diciamo un accoltellamento in tono minore, che ha visto come vittima il fratellino Enrico. Disvelando nel gesto apparentemente atroce, una bugia ancora più atroce. La grande bugia su cui si reggeva il Pd. Le primarie erano solo formalmente convocate per eleggere il segretario, perché tutti quelli che hanno votato Renzi in qui gazebo volevano scegliere il premier e volevano lui a palazzo Chigi.

Lo sa bene Umberto Bossi, che è stato malato, e che ha visto finire il suo regno in poche ore, fra l’altro per un pugno di diamanti della Tanzania e un figlio su cui è meglio stendere un velo, senza mai essere abbracciato da nessuno. Bossi sì che è stato trattato come un paria dalla sua Lega che lo aveva divinizzato per due decenni, una Lega resa microscopica dai Maroni e dai Salvini. Ecco perché Umberto, quello del dito medio alzato, ormai claudicante, è stato il meno retorico di tutti, il più giovane di spirito. Ha ammesso, con le sue parole, che quell’aula è ormai consunta. E che l’arrivo del sindaco-rottamatore-parlatore-twittatore a palazzo Chigi, se anche prolunga – rispetto al voto – la permanenza degli onorevoli nel Palazzo, dall’altra parte ne mostra distintamente la vecchiezza.

Non vuol dire che Renzi è il meglio. Non vuol dire che vincerà. Vuol dire solo che Renzi rottamerà tutti lor signori, rottamerà quell’aria pesante, quel senso di indeterminatezza che da anni il Parlamento emana.

Poi magari perderà.



ricordare....

Siria, un fiume di profughi in fila per avere il pane


REATI AMBIENTALI: BAZOLI (RELATORE DDL), NUOVE NORME ATTESE DA 20 ANNI

(AGENPARL) - Roma, 26 feb - “Grande soddisfazione” per l’approvazione da parte della Camera della nuova legge sui reati ambientali è stata espressa da Alfredo Bazoli, deputato del Pd e relatore del provvedimento. Bazoli aggiunge che “le nuove norme, che introducono nel codice penale quattro nuovi reati - disastro e inquinamento ambientale, traffici di rifiuti ad alta radioattività e impedimento dei controlli – erano attese da 20 anni e garantiscono finalmente un sistema in grado di tutelare l’ambiente, contrastare l'illegalità e premiare le imprese che operano nel rispetto della legge”.

L’Inutilità dei «Cittadini»: non chiamatela Democrazia.


Marco Imarisio
Corriere della Sera 27 febbraio 2014

I parlamentari a Cinque Stelle sono una razza in via di espulsione. Dopo i pianti e le urla che hanno segnato una giornata importante, non resta che aggiornare la contabilità dei reprobi allontanati dal movimento di Beppe Grillo.
La vera novità è l’addio al Padre da parte di un gruppo neppure piccolo di senatori, preludio di un rimescolamento a sinistra. Forse potevano pensarci prima. In questi primi dodici mesi romani la certificazione della loro inutilità è stata pratica costante. Gli eletti/nominati di M5S è come se non avessero mai avuto nome, figure intercambiabili una dall’altra. Talvolta Grillo si ricordava della loro esistenza lodando i fedeli alla linea, «ragazzi straordinari» che nel silenzio combattono le forze del Male, cioè gli altri. Ma giorno dopo giorno, con parole e opere li ha messi in una condizione di assoluta irrilevanza, costringendoli a una marginalità che li ha sterilizzati anche nella dialettica interna. L’esistenza dei quadri intermedi non è ancora prevista in un movimento che usa la comunicazione diretta sul web anche per mantenere la catena corta. Grillo non ha mai saputo bene cosa farsene, di quei 156 parlamentari. Se predichi solo la distruzione del sistema, concetto ribadito pochi giorni fa nel monologo in streaming con Matteo Renzi, la vita di chi è stato chiamato a dare il proprio contributo all’interno di quel sistema si fa grama. La sua condizione diventa equivoca, a meno di conformarsi in una eterna replica dell’originale, riproducendone gli insulti e le insolenze. La libertà di pensiero, cosa diversa dalla disciplina di partito, non è agli atti di questo M5S. La contraddizione in termini vissuta dai pochi che si illudevano di cambiare le cose da dentro, o almeno provarci, non sfugge ai militanti che da sempre si misurano e si confrontano in altra sede, andando dritti alla fonte, che sia il blog del Capo o le piattaforme dei meetup. L’appartenenza a M5S ha un tratto fideistico che trova la propria ragion d’essere più nelle malefatte degli «altri» che in qualunque gesto o proposizione attiva fatta dai propri eletti. Nel vortice umorale di Grillo che in questo anno ha fatto e disfatto, perdonato e epurato, pochi militanti hanno notato la differenza tra casi umani e gente che invece poteva dare un vero contributo. Conta solo il gesto, l’affermazione di un principio di autorità che ricorda molto il Pci degli anni Cinquanta. In questo clima ostile è cresciuto il disagio dei dissidenti, delle voci critiche non piegate a una ortodossia che ammetteva solo la replica a pappagallo dei comizi di Grillo. La ribellione di ieri è maturata in pubblico, quasi annunciata. Apre una crepa nel monolite a Cinque Stelle, ma non pone domande a chi resta, perché le domande non sono contemplate dal copione. La democrazia interna è un falso problema che interessa, sorprende e indigna soltanto chi osserva da fuori. Le regole di Grillo sono sempre state chiare, fin dall’ormai remoto dicembre 2012 dedicato alla piccola insurrezione in Emilia Romagna, quando postò il celebre video del «chi non la pensa come me vada fuori dalle palle», che sembrava lo sfogo di un uomo molto stressato e invece era anche l’enunciazione di un metodo. La valutazione dello stato di salute del Movimento non dipende dal pallottoliere di Camera e Senato. La scelta di non scegliere, di restare fermo insensibile agli avvenimenti esterni, ha condannato la truppa dei suoi «ragazzi» alla condizione di mera escrescenza del M5S. Se ci sono bene, altrimenti fa lo stesso. Non sono forza propulsiva, avamposto. Non servono. Grillo ha scelto da tempo il gioco di sponda. Sfrutta debolezze e contraddizioni degli altri, attende. L’appuntamento che conta è quello delle prossime elezioni europee, ed è così che ci arriverà. La demonizzazione che inevitabilmente farà seguito a questo nuovo esercizio di autoritarismo avrà l’unico effetto di rafforzare il senso di appartenenza dei suoi fedelissimi. E magari gli porterà anche altri voti.




A che cosa serve (e a che cosa no) la crisi di M5S

Stefano Menichini 
Europa  

Grillo si illude quando dice che l'espulsione dei dissidenti farà bene al movimento. Ma ci sono pochi progetti da costruire su di loro. E pochi calcoli elettorali.
È difficile farsi un’idea precisa sugli effetti del terremoto Cinquestelle. Alcuni scenari possono però essere esclusi, alcune scommesse destinate a fallire.
La prima è quella di Beppe Grillo, che sulle note arboriane di «meno siamo meglio stiamo» annuncia che espulsioni, dimissioni e allontanamenti faranno più forte e coeso il M5S. Non so se Grillo si illuda o voglia illudere, ma chiunque abbia esperienza di dinamiche di movimento sa che non andrà così. Una volta innescata, la spirale di scomuniche e ritorsioni non si ferma, nessuno si salva, il processo degenerativo del gruppo degli eletti può solo aggravarsi.
Lo spettacolo inquietante dell’assemblea di senatori e deputati di martedì non lascia dubbi, più per i toni disperati di quelli destinati a giudicare e (per ora) a restare, che per l’autodifesa dei processati. In un anno di parlamento, mentre alcuni leaderini emergevano, la qualità media di questo improvvisato ceto politico è rimasta scadente. Com’era inevitabile visto il metodo di selezione. Di qui il disorientamento, la sofferenza, la voglia di lasciare congelata dai privilegi fortunosamente conquistati.
Va detto però che sbaglierebbe anche chi facesse chissà quali ipotesi politiche appoggiandosi su scissioni e secessioni. I dissidenti potranno anche, prima o poi, rientrare nel gioco parlamentare, magari anche rimpolpando l’esigua attuale maggioranza al senato. Non rappresentano però nulla e nessuno. Saranno solo la personificazione del fallimento di M5S e dell’orrenda reazione staliniana che ne sta seguendo: esplosa con la promessa della democrazia dal basso, l’utopia grillina si trasforma in incubo totalitario bruciando i tempi dei suoi ben più potenti precedenti storici.
Infine, il rimbalzo elettorale: non dipenderà dalle scissioni, né nel bene né nel male. Il M5S è destinato a non esistere in alcun caso a livello locale e amministrativo, ed è destinato a soffrire in elezioni invece favorevoli come quelle europee solo se ci sarà qualche agente politico esterno a colpirlo, a succhiare consenso non tanto denunciando la mancata democrazia interna (tema che ahimé non appassiona gli elettori, come dimostrano vent’anni di Berlusconi) quanto consegnando agli italiani una parte di quegli obiettivi concreti che venivano urlati da Grillo dall’alto dei suoi palchi nel tempo perduto del sogno a Cinquestelle.
Neanche a dirlo, Matteo Renzi è lì soprattutto per questo.

mercoledì 26 febbraio 2014

Parlamento e premier che non si amano

Stefano Menichini 
Europa  

Matteo Renzi e le aule della diciassettesima legislatura non si sono presi. C'è estraneità reciproca, perfino ostilità, nonostante i voti di fiducia. Lui tornerà tra la gente, loro causeranno qualche incidente.
Loro gli hanno dato il voto di fiducia, che è cosa diversa dalla vera fiducia. Lui ha dato loro (più ieri alla camera che lunedì al senato) attestati di rispetto, che è cosa diversa dal vero rispetto. Il saldo finale è che Matteo Renzi e l’attuale parlamento non si piacciono. Non si sono presi nelle due giornate di esordio del governo, dubito che si prenderanno mai.
È una questione di chimica, prima che di politica. C’entra poco con la distinzione tra maggioranza e opposizione. È un dato trasversale, diffuso. Una sensazione che avverti sulla pelle lunedì nel gelo di palazzo Madama. E martedì nel calore di Montecitorio: calore sì, ma per l’abbraccio plateale, ostentato e insistito tra Bersani e Letta, non certo per le parole stavolta attente, riflettute, preparate e ben offerte dal presidente del consiglio.
Renzi e il parlamento della diciassettesima legislatura si ritrovano insieme per necessità, più che per convinzione. Lui s’è imposto, loro devono accettarlo. Hanno interesse comune a combinare qualcosa di buono e di concreto dopo le stagioni dell’inconcludenza: e a questo fine l’agenda, l’energia e la popolarità del premier sono essenziali anche a deputati e senatori, compresi quelli d’opposizione.
Prima o poi però – tutto sta vedere quanto prima o quanto poi – l’estraneità smetterà di essere sentimento e diverrà fatto politico.
Già Renzi ha trasferito il tormentone del «noi e voi» dai suoi rapporti col Pd ai rapporti con le assemblee che dovranno approvargli leggi, riforme e decreti. Oggi a Treviso riprenderà la sua strada fra la gente, nell’ambiente che preferisce, sente favorevole, e che contrappone a Roma, ai Palazzi, pur essendone ormai diventato un inquilino, ma con la stessa fugacità mentale con la quale occupava una stanza al Bernini Bristol.
Non è antiparlamentare, Renzi. Però è anti questo parlamento. E ne viene ricambiato, dai senatori che vuole licenziare e dai deputati il cui feeling istintivo è con Bersani, e perfino con Letta nonostante ne siano stati duri critici e, per la parte Pd, i veri carnefici.
La dinamica politica non concede all’ex segretario e all’ex premier alcuna ravvicinata possibilità di rivincita. Renzi rimarrà il dominus della situazione, il controllo del Pd da parte sua è fuori discussione. Ma oggi è chiaro che la famosa «sfrenata ambizione» può dispiegarsi davvero solo con altri equilibri, altri rapporti di forza, in un altro contesto, in definitiva con un altro parlamento.

martedì 25 febbraio 2014

La password del premier? Si chiama “riforme”

Giorgio Tonini 
Europa  

Niente elenchi generici, ma una sola ricetta chiara: qualificare la spesa pubblica
In più di un’ora di discorso programmatico, il presidente del consiglio ha detto, recitandole da par suo, molte cose. E non ne ha dette molte altre. Non ha parlato né della Siria né dell’Ucraina. E neppure della globalizzazione o dei mutamenti climatici. Non ha citato il Mezzogiorno, né l’alta velocità ferroviaria. Non ha parlato dell’Expo 2015 e di tante, tante altre cose. Ha evitato insomma gli elenchi di accenni, inevitabilmente generici, che hanno sempre lastricato le vie infernali delle buone intenzioni dei nuovi governanti.
In effetti, Renzi, in quell’ora di discorso, ha detto una cosa sola, ma fondamentale, e l’ha detta in modo chiaro e convinto. Il compito principale del mio governo, ha detto in sostanza il nuovo premier, è fare l’unica cosa che davvero dipende solo e interamente dalla politica, dunque la cosa sulla quale, più di ogni altra, la politica viene quotidianamente giudicata dai cittadini.
Questa cosa si chiama qualità, intesa come efficacia ed efficienza, della spesa pubblica.
Oggi gli italiani affidano allo Stato, in tutte le sue articolazioni territoriali e funzionali, metà del reddito prodotto dal paese: circa 800 miliardi di euro l’anno. In cifra assoluta una quantità impressionante di risorse. In percentuale sul Pil (per l’appunto circa il 50 per cento), un livello da paesi scandinavi, da socialdemocrazia realizzata. Peccato che questa imponente massa di risorse, frutto del lavoro e della fatica degli italiani, non riesca ad essere né un acceleratore della crescita economica, né un freno alla disuguaglianza sociale: lo dimostrano i dati, sconsolanti, sull’andamento del prodotto, ormai da decenni a livelli ben peggiori rispetto alla media europea; e le cifre, se possibile ancora più frustranti, sull’aumento della disuguaglianze, che fanno del nostro uno dei paesi più ingiusti dell’Ocse.
Capovolgere questa situazione, facendo di quegli 800 miliardi un volano anziché un freno della crescita e un fattore di vero riequilibrio delle disuguaglianze prodotte dal mercato, è oggi, nella visione del presidente del consiglio, la priorità assoluta del nuovo governo. Per raggiungere questo obiettivo non si può e non si deve più usare la vecchia ricetta del “tassa e spendi”, tanto dura a morire nelle menti e nei cuori di sinistra, né quella dei “tagli lineari”, tanto cara alla destra. Per rendere efficace ed efficiente la spesa pubblica, la parola-chiave è la parola “riforme”: l’unica parola, quasi una password, che se tradotta in fatti può darci anche la forza di incidere sui vincoli, oggi paralizzanti, della disciplina europea.
Renzi ne ha indicate alcune, di riforme, da mettere in campo senza perdere tempo: a cominciare dalle riforme elettorali e costituzionali, passando per le regole del mercato del lavoro, quelle del fisco e della pubblica amministrazione, fino alla giustizia, alla scuola, alla cultura. Naturalmente, come tutti i riformisti (e al contrario dei rivoluzionari immaginari), ora Renzi è atteso alla difficilissima prova dei fatti. Ma è un buon motivo per dargli fiducia la sua scelta di incorporare nella sua proposta programmatica un così forte senso del limite e insieme dell’importanza della politica. E una così acuta consapevolezza di come questo passaggio, che lo vede protagonista, sia per certi versi l’ultima chiamata per una possibile riconciliazione dei cittadini con la politica.
Matteo Renzi è un leader giovane, che ha avuto la sua scuola di politica nei rami bassi del nostro sistema istituzionale: prima la provincia, poi il comune. L’incrocio di questi due dati spiega la modernità e la concretezza del suo approccio: ambiziosamente riformista, proprio in quanto lucidamente consapevole dei limiti della politica. Poco si può fare da palazzo Chigi (e perfino dalla Casa Bianca) per dominare la crisi globale. Ma molto si può invece fare per dotare il nostro paese della risorsa fondamentale per non soccombere nei grandi cambiamenti che la crisi ha messo in moto: la risorsa rappresentata da uno Stato moderno, forte perché leggero, da una pubblica amministrazione rispettata perché amica dei cittadini, da funzioni essenziali come la scuola o la giustizia nelle quali tornino ad essere il merito, l’impegno, la valutazione dei risultati, la chiave per la necessaria riconquista di autorevolezza e credibilità.

Contenuti ottimi, forma da rivedere

Stefano Menichini 
Europa  

Nessun timore reverenziale nel discorso della fiducia di Matteo Renzi. Alcuni obiettivi chiari, altri meno, nessuna cifra, conferma per l'Italicum. Ma poteva prepararlo meglio
Le buone notizie innanzi tutto. Matteo Renzi non si fa cambiare dal successo e dal contesto: nel giorno del discorso più importante e solenne, gli affezionati riconoscono il proprio beniamino, la sua verve, la sua aggressività, l’assenza di timore reverenziale.
La schiettezza sul punto delicato è totale: cari senatori sono qui per eliminare la vostra assemblea, così com’è, dalla scena costituzionale. Analogamente, non ci sono equivoci possibili su altri impegni cardine: la priorità alla dignità del sistema scolastico (a partire dalle scuole come edifici: sacrosanto); l’attacco ai centri del potere burocratico statale e alla inamovibilità dei dirigenti; la volontà di spazzare via il potere dei Tar; l’abbattimento del carico fiscale su lavoratori e imprese; l’eliminazione delle province; un intervento sui mali della giustizia, che non c’entrano niente con la guerra berlusconiana.
Altre buone notizie. La riforma elettorale non finisce nel congelatore. S’è capito che Renzi è disposto a miglioramenti marginali dell’Italicum ma lo vuole approvato entro l’estate, con un primo voto alla camera nei prossimi giorni. Il legame con la più complessa e lunga riforma costituzionale sarà «politico» e non giuridico, ammesso che questo fosse possibile.
Infine, l’aggressività verso Cinquestelle: fino alle Europee e oltre, quello di Renzi sarà un governo di battaglia contro Grillo e i suoi, continuamente e irritualmente sfidati fin da ieri a palazzo Madama.
Infine, le notizie meno buone.
Va bene la genuinità. Ma estratta dalla Leopolda e privata di videoclip, la retorica a braccio di Matteo Renzi crea confusione nell’ascoltatore anche ben disposto. Senza dover per forza arrivare all’impaludamento e alla liturgia, discorsi forti, chiari e dai contenuti innovativi possono essere preparati e presentati con risultati migliori, e con maggior rispetto per il parlamento. È poi legittimo il dubbio che l’improvvisazione qui serva  anche a sfuggire a impegni precisi sul reperimento delle risorse e sui punti di mediazione con la destra su ius soli e unioni civili.
Si intuisce la sfiducia del premier verso la solidità del quadro politico che lo sostiene e verso la disponibilità del parlamento ad assecondarlo. Di qui la minaccia del ricorso a elezioni anticipate. E se è ottima l’intenzione di non rimanere a vivacchiare, certo ieri non si sono dissipate le ombre sulle chances di successo di un’operazione lanciata più per necessità che per convinzione.

lunedì 24 febbraio 2014

Il governo egiziano si è dimesso


Egitto

24 febbraio 2014

Il primo ministro egiziano Hazem el Beblawi si è dimesso insieme al suo governo, con una mossa che è stata interpretata come un primo passo verso la candidatura alle elezioni presidenziali del capo delle forze armate Abdel Fattah al Sisi, che è anche l’attuale ministro della difesa.
Hazem el Beblawi è intervenuto alla televisione di stato, ma non ha dato una spiegazione chiara riguardo alla sua scelta. Il portavoce del governo Hany Saleh ha detto all’Afp che la decisione è stata presa perché c’era la “sensazione che serve sangue nuovo”. La stampa locale ha più volte criticato Hazem el-Beblawi per la gestione della crisi economica egiziana.
Nel suo intervento in tv, Beblawi ha riconosciuto che nelle ultime settimane in Egitto si sono moltiplicati gli scioperi nei settori del trasporto pubblico, del tessile, tra i medici e gli operatori ecologici. Ma si è difeso dicendo che nessun altro governo avrebbe potuto esaudire tutte queste richieste in breve tempo.
Ibrahim Mahleb, ministro dell’edilizia nel governo di Beblawi, dovrebbe essere incaricato di formare il nuovo governo, secondo fonti citate dal sito Al Ahram.
“Questo passo serviva per preparare il terreno all’annuncio della candidatura di Abdel Fattah al Sisi”, ha detto un funzionario del governo alla Reuters. “Se il maresciallo vuole partecipare alle presidenziali, deve prima dimettersi da ministro della difesa e vicepremier”, spiega Al Jazeera.
La sentenza sui Fratelli Musulmani. Il governo di Hazem el Beblawi è entrato in carica dopo la destituzione con la forza dell’ex presidente Morsi, all’inizio di luglio del 2013. Le manifestazioni che ne sono seguite hanno portato a una grave crisi politica, con i sostenitori dei Fratelli Musulmani che hanno invaso le piazze del Cairo. Da allora, secondo Amnesty international, gli scontri con la polizia hanno causato circa 1.400 morti.
Il 24 febbraio il tribunale per le questioni urgenti ha confermato che i Fratelli Musulmani sono un gruppo terroristico. Il governo aveva dichiarato illegale il partito di Morsi già a dicembre, ma è la prima volta che un giudice conferma la decisione dell’esecutivo.

Renzi in pillole

Lotta alla burocrazia, taglio del cuneo fiscale, restituzione totale dei debiti della pubblica amministrazione, grande piano di edilizia scolastica, riforma della giustizia e dello stato. In un discorso di un'ora e un quarto il premier incaricato sfiora molti temi. Su diritti civili e legge di cittadinanza elogio del compromesso

Il Nemico

Marco Damilano


 
 

Li teneva sul tavolo di lavoro da sindaco di Firenze, a Palazzo Vecchio. Due libri: l’autobiografia di Peter Mandelson, lo spin doctor di Tony Blair, e il più sorprendente “Love is our resistance” che raccoglie i testi delle canzoni di Matthew Bellamy e della band inglese Muse. «You don’t have long/I am to you». «Non avete molto tempo, vi sto con il fiato sul collo… non ci vorrà molto tempo/ vi sto con il fiato sul collo/ è giunto il momento/ di demolire la vostra supremazia». Un progetto di lavoro, a ben guardare. Era fine estate, Matteo Renzi era appena tornato da un viaggio con la famiglia in America, confidava al cronista di aver scherzosamente avvertito i figli: «L’ho detto ai due maschi: ragazzi, dopo questi giorni papà lo rivedete quando sarete già fidanzati!».
Aveva ragione lui. Nessuno, in quel momento, poteva prevedere che in pochi mesi Matteo Renzi sarebbe arrivato a Palazzo Chigi alla guida di un governo che ha un nemico dichiarato, la ormai stranota palude, «la conservazione per la conservazione», e uno più sottile e insidioso (che non è Enrico Letta, come vedremo). La squadra dei ministri, i sedici nomi con le otto donne, l’età media (47 anni), il premier, «uno come me, un ragazzo sotto i quaranta», non nasce soltanto dalla brutale operazione politica di una settimana fa che ha portato all’estromissione del premier precedente (che non l’ha presa bene, infatti), né dalle trattative delle ultime ore con Angelino Alfano. È un passaggio di fase storico, come tale va trattato, anche se ha le apparenze del blitzkrieg e del tradimento all’italiana.
L’era Renzi, se sarà di lunga durata, inizia nel 2014, esattamente venti anni dopo la campagna elettorale che portò Silvio Berlusconi a conquistare per la prima volta Palazzo Chigi. Altro che i progressisti di Occhetto, il governo Renzi visto durante il giuramento al Quirinale sembrava una gioiosa macchina da guerra: guascona, sbruffona, baldanzosa, in grado di strappare qualche sorriso a Napolitano che pure non ha nascosto il suo sentimento di distacco, forse di estraneità dall’«impronta» renziana, il nuovo. Come venti anni fa arriva a Palazzo Chigi l’homo novus, direttamente alla guida del governo senza un cursus honorum parlamentare. «Al mio arrivo qui c’erano due ali di folla, la gente mi mandava baci», disse Berlusconi ai cronisti il giorno dell’incarico. Renzi ha spedito un tweet dallo studio presidenziale: «Arrivo, arrivo!».
Venti anni sono un ciclo politico, lungo e ridicolmente soffocante è stato quello berlusconiano, come tragico era stato quello fascista. E alla fine di ogni ciclo politico c’è una generazione pronta a ereditarne le macerie. Non si è ancora capito, né minimamente studiato, cosa sia avvenuto nel profondo della società italiana, nelle viscere e nei sogni, nella vita quotidiana e nelle ambizioni degli italiani, in questi ultimi decenni. Chi conosce la storia sa che non esistono cesure, parentesi, invasioni straniere, e neppure autobiografie nazionali, ogni stagione è il frutto di quella che l’ha preceduta. I giovani fascisti di un secolo fa, tra il 1919 e il 1922, erano gli eredi della prima guerra mondiale e delle delusioni risorgimentali, come i ragazzi del ‘68 e della contestazione erano nati e cresciuti negli anni della Repubblica anti-fascista e del boom economico. Anche sull’estremismo dei deputati grillini e del Movimento 5 Stelle, ogni parola di condanna andrebbe preceduta da una premessa, una minima assunzione di responsabilità: quei ragazzi che oggi siedono in Parlamento sono i fratelli minori, i figli della società che li ha preceduti. Non un Sistema generico e deresponsabilizzante, come si vagheggiava negli anni Settanta, ma un preciso blocco politico, economico, intellettuale che si è riconosciuto in Berlusconi ma che spesso a sinistra ha assunto Berlusconi come alibi della sua inazione. Intanto cresceva la rabbia, nelle sue molteplici forme: la voglia di eliminare tutti, il tutti a casa di Grillo, la rassegnazione che prende la forma del non-voto, il cambiamento.
Oltre a Beppe Grillo, l’unico politico che ha intuito il fiume carsico che si muoveva nel Paese lontano da questo establishment autoreferenziale è stato il Renzi prima maniera, versione rottamatore, l’unico ad aver rappresentato un sentimento profondo di intolleranza verso il Blocco. Figlio, anche lui, di questo ventennio: dalla ruota della Fortuna a Palazzo Chigi, venti anni esatti, ieri c’era Mike, oggi c’è Napolitano ad assegnare il premio che cambia la vita. In questi due decenni la parola politica ha perso valore, nel suo insieme: zero rappresentanza, con le liste bloccate del Porcellum a suggellare l’universo parallelo dei notabili e dei loro staff senza nessun legame con i territori di appartenenza, e nessuna capacità decisionale. Berlusconi era un tycoon, non voleva passare alla storia come il riformatore dello Stato modello De Gaulle, si accontentava di passare dalla cassa, come proprietario del suo impero, il centrosinistra (con l’eccezione dell’Ulivo 1996 e in parte il Pd di Veltroni) non ha mai avuto un progetto che andasse oltre la pura semplice accettazione dell’esistente. I tecnici alla Monti hanno provato a gestire il disastro, ma senza mai andare oltre la contabilità, senza incrociare le paure e le speranze degli italiani. Il Paese è andato in declino. Il dibattito pubblico è sconfortante.
C’è un ciclo lungo, di venti anni, e uno breve, di quest’ultimo incredibile anno, dal 25 febbraio 2013, quando Pier Luigi Bersani scoprì l’amarezza della non-vittoria, al 21 febbraio 2014 del governo Renzi. Il premier ha promesso di sfondare questo muro opaco di gerontocrazia e di maschilismo, di portare una nuova generazione al governo del Paese, di promuovere il merito e il talento. Nella lista dei ministri alcuni obiettivi sono stati raggiunti, su un piano quantitativo. Non certo sul piano qualitativo: non certo per l’inesperienza dei ministri più giovani, avranno tempo per imparare, ma perché in alcuni casi non sembrano aver nulla della fame che spinge i loro coetanei a sperimentare, a mettersi in gioco. Alcuni, come Roberta Pinotti, arrivano da una lunga gavetta nell’associazionismo, nella politica locale e parlamentare, garantiscono competenza e innovazione. Altri, come Dario Franceschini, sono uomini per tutte le stagioni, sia pure di ancor giovane età. Angelino Alfano e i suoi sono, semplicemente, quella che Renzi chiama «la conservazione per la conservazione»: eccoli lì, al gran completo, integri. E tanti nomi nuovi sono, piuttosto, figli del vecchio establishment (la ministra dello Sviluppo Federica Guidi lo è in senso stretto, una rampolla di famiglia), dei quartieri alti, delle buone scuole. Ripetono, nelle interviste, tutte gentili e educate, la frase comehadettomatteorenzi, così, tutto attaccato, come un hashtag. Non sono outsider, ma predestinati alle posizione di guida. Per via ereditaria.
La carica di novità, così, finisce per essere racchiusa tutta nella persona del premier. Lui sì partito dal nulla, dalla provincia di Firenze, e arrivato in tempo eccezionalmente rapido al vertice del Paese. È Renzi il nuovo: questo è il punto di partenza, ma non può essere il punto di arrivo. È Renzi che può entusiasmare o deludere, lui che può aprire una stagione di egemonia o consumarsi rapidamente. Ed è questo il vero nemico di Renzi: non l’entusiasmo, l’inesperienza, la voglia di fare e perfino di strafare. Ma la ricerca del conformismo, del rapido applauso, la confusione della comunicazione con la propaganda e dell’immediatezza e dell’estemporaneità con il progetto. Il sindaco-premier non può trasformare i ministri in assessori fedeli e obbedienti, chiederà la fiducia al Parlamento, non un atto di fede. Nella lista dei ministri, in alcuni nomi, come già nella segreteria del Pd, il nuovo c’è, i contenuti sono incerti, il merito e il talento molto meno, soprattutto quel merito che si conquista contraddicendo il Capo, come ha fatto Renzi, non compiacendolo o citandolo ogni due per tre. Il nemico di Renzi è Renzi stesso. Lo combatta, senza trastullarsi con gli adulatori, si auguri critici esigenti, non accomodanti. Senza dimenticare, come cantano i Muse, di continuare ad «avere fame di un po’ di disordine».

domenica 23 febbraio 2014

Obama incontra il dalai lama


Tibet

Internazionale 21 febbraio 2014


Il presidente statunitense Barack Obama deve ricevere nel pomeriggio del 21 febbraio alla Casa Bianca il dalai lama, ma l’iniziativa ha suscitato la reazione contrariata di Pechino, che ha chiesto di annullare l’incontro.
La riunione sarebbe una “grave interferenza” negli affari interni della Cina, ha spiegato un comunicato ufficiale del ministero degli esteri cinese, e avrebbe serie ripercussioni nelle relazioni bilaterali. “Esortiamo gli Stati Uniti a prendere in seria considerazione le preoccupazione della Cina e ad annullare immediatamente la riunione pianificata”.
Obama ha incontrato il leader spirituale tibetano già due volte, l’ultima nel 2011, facendo sempre irritare Pechino. Prevedendo che il nuovo incontro sarebbe stato delicato, la Casa Bianca aveva annunciato che sarebbe avvenuto a porte chiuse. Segno di una lieve concessione al governo cinese, la riunione non dovrebbe avere luogo nello studio Ovale, ma nella stanza delle Mappe, un luogo di rappresentanza molto meno simbolico.
Per cercare di calmare Pechino, il Consiglio di sicurezza nazionale ha anche specificato che il dalai lama sarà ricevuto “come leader religioso e culturale rispettato a livello internazionale”, e che per Washington il Tibet “fa parte della Repubblica Popolare Cinese”.
“Noi non sosteniamo l’indipendenza del Tibet. Gli Stati Uniti sostengono con forza i diritti umani e la libertà religiosa in Cina. Siamo preoccupati per le tensioni e il deterioramento della situazione dei diritti umani nella regione”.

libera....

Julia Timoshenko, leader dell’opposizione in Ucraina, subito dopo la liberazione, sabato 22 febbraio. Era detenuta dal 2011.

stilnovo...

Renzi se ne va a messa senza scortaAl volante della sua vettura e senza scorta il presidente del consiglio Matteo Renzi alla messa con la moglie Agnese e la figlia più piccola.

A caccia di risultati aspettando le Europee.


Corriere della sera 22 febbraio 2014


È difficile non essere d’accordo con Romano Prodi, quando dice che «tutti ci auguriamo un successo» di Matteo Renzi a Palazzo Chigi. L’impressione di un governo che è l’ultima spiaggia per tentare di risollevare l’Italia non appartiene solo all’ex presidente della Commissione europea. Per questo si tende a rimuovere l’immagine della gelida stretta di mano nel passaggio delle consegne con Enrico Letta, disarcionato senza complimenti dal segretario del Pd. E si scaccia il dubbio che l’esecutivo sia giovane ma soprattutto inesperto. Insomma, l’apertura di credito a Renzi è obbligata e inevitabile, in vista delle elezioni europee e del semestre di presidenza italiana.

Appena insediato, il capo del governo ha tenuto a dire ai suoi ministri che si aspetta «tanti fatti e pochi annunci». Le aspettative sono alte: perfino troppo, secondo qualcuno, scettico sulle riforme additate dal presidente del Consiglio di qui a maggio. Soprattutto, nonostante gli obiettivi di legislatura che Renzi assegna alla sua coalizione, si capirà solo col tempo se si tratta di un governo destinato ad arrivare al 2018 o a portare presto a elezioni anticipate. «Non posso mettere la mano sul fuoco su quanto accadrà nei prossimi anni — ha dichiarato, cauto, Giorgio Napolitano —. Speriamo che tutto vada per il meglio».

Rispetto al rapporto con Letta, il Quirinale appare più che mai istituzionale. Il capo dello Stato ha verificato la lista dei ministri, e ottenuto garanzie soprattutto sul candidato all’Economia, perché l’Italia deve fare i conti con le istituzioni europee e i mercati. Per il resto, ha lasciato che Renzi plasmasse l’esecutivo a propria immagine. I problemi cominciano adesso. Il premier sa che solo ottenendo risultati in tempi rapidi può far dimenticare la brutalità della «staffetta» e l’inesperienza di alcuni ministri, seppure bilanciata dallo spessore di altri. È l’unico modo per sperare di conseguire alle europee di maggio la legittimazione popolare che gli manca, e che Silvio Berlusconi non smette di sottolineare.

In assenza di elezioni politiche, il capo del governo deve affidarsi al Parlamento europeo. Se il suo Pd ottenesse un buon risultato, potrebbe dire che l’opinione pubblica ha premiato il suo arrivo a Palazzo Chigi; e dunque che non ha dietro solo i consensi delle primarie di partito, ottenuti nel dicembre scorso. Si tratta di una sfida non facile, anche perché il centrodestra berlusconiano confida in un risultato simmetrico per rilegittimare il Cavaliere. L’invito a Forza Italia a «tenersi pronti» per le urne, è un modo per ricordare a Renzi il patto con Berlusconi sull’«Italicum», come viene chiamato il progetto di nuovo sistema elettorale. Il timore è che il premier lo congeli per rimanere a Palazzo Chigi . Ma sono tatticismi destinati a impallidire di fronte a problemi economici intatti; e sui quali il premier costruirà il successo o la rovina suoi e dell’Italia.




“ Ecco la mia idea di destra e sinistra”


MATTEO RENZI
La Repubblica 23/02/2014


C’è stato un tempo in cui a sinistra la parola “sinistra” era una parolaccia. Sacrificata al galateo della coalizione di centrosinistra, tanto da giustificare dibattiti estenuanti e buffi sul trattino, ricordate?
“Centro-sinistra” o “centrosinistra” era la nuova disputa guelfi-ghibellini, tra chi pensava il campo progressista come un litigioso condominio, caseggiato rumoroso di partiti gelosi delle proprie convenienze e confini e chi, invece, vagheggiava il Partito-Coalizione, area politica aperta, il cui orizzonte schiudeva l’universo del campo progressista.
In questo incrocio, che ha opposto due linee in parte intente a far baruffa ancora adesso, c’è il Partito democratico, la parola “sinistra” come un laboratorio, sempre in trasformazione, sempre ineludibile.
Una frontiera, non un museo. Curiosità, non nostalgia. Coraggio, non paura. Erano quelli gli anni dell’Ulivo, il progetto di Romano Prodi di abbattere gli steccati che separavano gli eredi del Partito comunista da quelli della Democrazia cristiana, di una forza che raccogliesse istanze liberaldemocratiche, ambientaliste, in una nuova unità, una nuova cultura politica semplicemente, finalmente potremmo dire, “democratica”.
Erano, nel mondo, gli anni della “terza via”, di Bill Clinton e Tony Blair, una rotta per evitare Scilla e Cariddi, tra gli estremismi della sinistra irriducibile e la destra diventata, dopo Reagan e Thatcher, una maschera di durezze. Qualcuno pensò allora perfino che la sinistra fosse ormai uno strumento inservibile, non più adeguato a un mondo nuovo, sulla spinta di quella che si chiamava globalizzazione, dove finiva il XX secolo della guerra fredda e cominciava il XXI, tutto individuale e personal, dalla tecnologia alla politica.
A fare da sentinella, non per custodire e conservare, ma per richiamare alla sostanza delle cose, alla loro forza, il filosofo Norberto Bobbio — or sono venti anni esatti — pensò di tirare una linea, per segnalare dove la divisione tra destra e sinistra ancora teneva e tiene. Suggerendo che la scelta cruciale resti sempre la stessa, storica, radicale, un referendum tra eguaglianza e diseguaglianza, come dal XVIII secolo in avanti. Mi chiedo se oggi che la seduzione della “terza via” — che pure nel socialismo liberale, nell’utopia azionista di Bobbio, ha trovato più che un riflesso — si è sublimata perdendo slancio, la coppia eguaglianza/diseguaglianza non riesca a riassorbire integralmente la distinzione destra/sinistra. Basti pensare, a livello europeo, all’insorgere dei populismi e dei movimenti xenofobi contro i quali è chiamato a ridefinirsi il progetto dell’Unione europea, così in crisi. Un magma impossibile da ridurre alla vecchia contraddizione eguali/diseguali a lungo così nitida.
Dal punto di vista del sistema politico, infatti, sono e rimango un convinto bipolarista. Credo che un modello bipartitico, all’americana per intenderci, sia un orizzonte auspicabile, sia pur nel rispetto della storia, delle culture, delle sensibilità e della pluralità che da sempre contraddistinguono il panorama italiano. Ma riflettendo sulla teoria, sui principi fondamentali, non so se, invece, non sia più utile oggi declinare quella diade nei termini temporali di conservazione/ innovazione.
Tiene ancora, dunque, lo schema basato sull’eguaglianza come stella polare a sinistra? In una società sempre più individualizzata, sotto la spinta anche delle nuove tecnologie, dei social network, delle reti che connettono ma anche atomizzano, creando e distruggendo comunità e identità? Come recuperare, dopo anni di diffidenza, anche tra i progressisti, idee come “merito” o “ambizione”? Come evitare che, in un paesaggio sociale tanto mutato, la sinistra perda contatto con gli “ultimi”, legata alle fruste teorie anni sessanta e settanta, mentre papa Francesco con calore riesce a parlare la lingua della solidarietà? Certo, l’eguaglianza — non l’egualitarismo — resta la frontiera per i democratici, in un mondo interdipendente, dilaniato da disparità di diritti, reddito, cittadinanza. Eppure era stato lo stesso Bobbio, proprio mentre scandiva quella sua storica dicotomia, a rendersi conto che forse la sua argomentazione aveva bisogno di un’ulteriore dimensione, un diverso respiro temporale, un’altra profondità. «Nel linguaggio politico — scrive Bobbio — occupa un posto molto rilevante, oltre alla metafora spaziale, quella temporale, che permette di distinguere gli innovatori dai conservatori, i progressisti dai tradizionalisti, coloro che guardano al sole dell’avvenire da coloro che procedono guidati dalla inestinguibile luce che vien dal passato. Non è detto che la metafora spaziale, che ha dato origine alla coppia destra-sinistra non possa coincidere, in uno dei significati più frequenti, con quella temporale».
Ecco perché, venti anni dopo il monito di Bobbio, è maturo il tempo per superare i suoi confini, modificati e resi frastagliati dal mondo globale, come insegnano Ulrich Beck e Amartya Sen. Serve una narrazione temporale, dinamica, più ricca. Che non dimentichi radici e origini, sempre da mettere in questione, da problematizzare, ma che, soprattutto, faccia i conti con i tempi nuovi che ci troviamo a vivere, ad attraversare. Aperto/chiuso, dice oggi Blair. Avanti/ indietro, chissà, innovazione/conservazione.
E, perché no, movimento/stagnazione. Se la sinistra deve ancora interessarsi degli ultimi, perché è questo interesse specifico che la definisce idealmente come tale, oggi essa deve avere lo sguardo più lungo. Le sicurezze ideologiche del Novecento, elaborate sull’analisi di un mondo organizzato in maniera assai meno complessa di quello contemporaneo, rendevano più semplice il compito della rappresentanza delle istanze degli ultimi e degli esclusi, e del governo del loro desiderio di riscatto. A blocchi sociali definiti e compatti bisognava dare cittadinanza, affinché condizionassero le decisioni sul futuro delle comunità nazionali di cui erano parte. Per la sinistra che, dopo Bad Godesberg, si organizzava in Europa in partiti socialdemocratici postmarxisti (e anticomunisti) era un compito certo faticoso, ma lineare nel suo meccanismo di funzione politica.
Oggi quei blocchi sociali non esistono più ed è un bene che sia così! In fondo tutta la fatica quotidiana del lavoro della sinistra socialdemocratica, cara a Bobbio, era stato quello di scardinare quei blocchi. Allo scopo di offrire agli uomini e alle donne, che erano in quei blocchi costretti, l’opportunità di una vita materiale meno disagevole e di un’esistenza più ricca di esperienze. Con l’invenzione del welfare quella sinistra aveva provveduto a sfamare le bocche e gli animi degli ultimi e degli esclusi, liberandoli dal bisogno materiale — libertà fondamentale anche per la sinistra liberaldemocratica americana di Franklin D. Roosevelt — e fornendo loro l’occasione di realizzare se stessi. L’invenzione socialdemocratica del welfare aveva così conseguito due obiettivi storici. Da un lato, difatti, il welfare aveva soddisfatto la sacrosanta richiesta di maggiore giustizia sociale. Dall’altro, tuttavia, il miglioramento delle condizioni oggettive di vita degli ultimi aveva determinato un beneficio generale per tutte quelle comunità democratiche che non avevano avuto timore di rispondere “Sì!” alla loro domanda di cambiamento.
La sinistra cara a Bobbio, quella socialdemocratica e anticomunista, ha insomma vinto la sua partita. Ma oggi ne stiamo giocando un’altra. Quei blocchi sociali che prima rendevano tutto più semplice non ci sono più. Gli stessi confini nazionali che erano il perimetro entro cui si giocava la partita dell’innovazione del welfare sono ormai messi in discussione. Più che con blocchi sociologicamente definiti entro Stati nazionali storicamente determinati, oggi la nuova partita si svolge con attori e campi da gioco inediti. Quei blocchi sono stati sostituiti da dinamiche sociali irrequiete. I confini nazionali non delimitano più gli spazi entro i quali le nuove dinamiche giocano la loro partita.
Di fronte a questo potente mutamento di prospettiva sociale ed economica, culturale e politica, la sinistra deve mostrare di avere coraggio e non tradire se stessa. Deve accettare di vivere il costante movimento dei tempi presenti e accoglierlo come una benedizione e non come un intralcio. È questo straordinario, irrefrenabile movimento che sfonda la vecchia bidimensionalità della diade destra/sinistra e le dà temporalità e nuova forza. E invece spesso, in Italia e in Europa, la sinistra ne ha paura. Sembra non rendersi conto che il nuovo mondo in cui tutti viviamo è anche il frutto del successo delle proprie politiche, dei cambiamenti occorsi nel Novecento grazie alla sua iniziativa. Perché l’innovazione, quando ha successo, produce un ambiente diverso da quello da cui si è mosso. Un ambiente mutato che chiama al mutamento gli stessi che più hanno concorso a mutarlo. Cambiare se stessi è l’incarico più gravoso di tutti. Eppure non cambiare se stessi, in una realtà che si è contribuito a cambiare, condanna all’incapacità di distinguere i nuovi ultimi e i nuovi esclusi, e all’ignavia di non mettersi subito al loro servizio. Che è proprio quanto successo alla sinistra di tradizione socialdemocratica al cospetto delle sfide del secolo nuovo.
La sinistra è oggi chiamata a riconoscere e a conoscere il movimento continuo delle nuove dinamiche sociali, contro chi vorrebbe vanamente fare appello a blocchi che non esistono più e che è un bene non esistano più! In Italia, più che altrove, la capacità della politica di saper distinguere le dinamiche sociali che interessano gli ultimi e gli esclusi, di saperle intrecciare per dare loro rappresentanza e, infine, di saperne governare il costante movimento per costruire per loro, e per tutti, un paese migliore, è il compito del Partito democratico. È la missione storica della sinistra.