domenica 28 giugno 2015

Il disegno di legge al Senato. Il piano: unioni civili sul modello tedesco Possibile l’adozione dei figli del partner.


Corriere della Sera 28/06/15
Alessandra Arachi
La scommessa è di portare a casa il risultato entro l’estate. Una maggioranza trasversale che accanto al Pd veda il Movimento 5 stelle, Sel e qualche liberale di Forza Italia potrebbe farcela a far passare il disegno di legge sulle unioni civili fra persone dello stesso sesso. In commissione. E alla fine anche in aula. 
 Il presidente del Consiglio Matteo Renzi proprio la settimana scorsa ha ribadito la volontà di riprendere questo tema. E adesso che, dopo l’Irlanda e dopo il Parlamento europeo, è arrivata anche l’America a dire il suo forte «sì» ai matrimoni fra omosessuali, la posizione del nostro Paese diventa sempre più di minoranza rispetto al mondo e non soltanto rispetto all’Europa. 
 Il disegno di legge in discussione al Senato non parla di matrimoni gay, bensì di unioni civili secondo il modello tedesco che prevede anche la step child adoption , ovvero la possibilità di adottare il figlio biologico del compagno. 
 Ieri dal Gay Pride di Milano ha fatto sentire la sua voce anche il ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina: «È ora di una legge moderna sulle unioni civili anche in Italia», ha dichiarato. 
 I numeri, teorici, per una maggioranza che faccia passare il disegno di legge sulle unioni civili ci sono. Nella realtà, tuttavia, pesa — e non poco — l’incognita degli emendamenti. 
 Erano poco più di quattromila, circa. Sono stati praticamente dimezzati dal presidente della commissione Giustizia Francesco Nitto Palma, di Forza Italia. Ma sono comunque tanti, una montagna, difficile da scalare. 
 Si può immaginare un calendario fitto fitto della commissione che preveda sedute notturne per esaminare gli emendamenti. Si può anche immaginare di far arrivare il testo in aula senza esaminare gli emendamenti grazie ad un voto di fiducia. 
 Non si può sperare che chi ha firmato quella valanga di correzioni le ritiri, visto che sono stati presentati proprio per fare ostruzionismo. 
 Lucio Malan, Forza Italia, da solo ne ha sottoscritti più di 700. E non è soddisfatto nemmeno degli emendamenti presentati proprio in queste ore dalla relatrice, la senatrice Monica Cirinnà, del Pd. 
 Dice infatti il senatore Malan: «Con un emendamento la relatrice ha voluto cancellare la parola “vedovile” dal testo, così da togliere un’equiparazione al matrimonio. Ma è un emendamento ipocrita: tutto l’impianto del disegno di legge è fatto per equiparare queste unioni civili fra persone dello stesso sesso al matrimonio». 
 I senatori della commissione hanno tempo fino a domani pomeriggio per presentare subemendamenti agli emendamenti della relatrice. Poi si dovranno prendere delle decisioni. 
 Il presidente della Commissione Giustizia Nitto Palma ha più volte fatto sapere di non avere intenzione di dedicare tutto il tempo del suo organismo parlamentare all’esame degli aggiustamenti sulle unioni civili. Ma è anche vero che il presidente Francesco Nitto Palma è in scadenza e sono prossime le elezioni per eleggere il suo sostituto. Al più tardi a settembre, secondo la prassi parlamentare. 
 Oltre che su M5s e Sel, il Pd può contare per l’approvazione su un’area liberal dentro Forza Italia e anche sull’Ncd, sebbene sia Fabrizio Cicchitto sia Nunzia De Girolamo — i più aperti del partito dove ci sono oppositori duri, come Carlo Giovanardi e Maurizio Sacconi — siano alla Camera e non al Senato.





Fassina, il pd e l’eterna scissione della ditta.


Corriere della Sera 28/06/15
Aldo Grasso
Stefano Fassina, dopo non pochi tentennamenti, ha lasciato il Pd di Renzi. Probabile che confluisca nel gruppo «Possibile», insieme con Civati, Cofferati, Landini, Mineo, Monica Gregori e altri duri e puri. «Con loro — ha detto il dissidente — ci ritroveremo per avviare un percorso politico sui territori, plurale, che possa raccogliere le tante energie che sono andate nell’astensionismo». 
 Per alcuni, lo strappo di Fassina è sacrosanto: non è Fassina che esce dal Pd, è il Pd che esce da Fassina e abbandona con lui i tanti elettori che si erano riconosciuti in un progetto diverso (quello perdente di Bersani?). Il Pd di Renzi sarebbe mutato geneticamente, il puro resta Fassina. Come Alexis Tsipras in Grecia. Che poi la criticata mutazione genetica consisterebbe nell’espressione di una novità radicale nel modo di essere della sinistra di governo in Italia. 
 Vero è che di genetico c’è solo il vizio del frazionismo, una tara che la sinistra si porta dietro da tempo immemorabile. Senza andare tanto indietro negli anni, basta ricordare Lotta comunista, il Partito Comunista d’Italia, Rifondazione Comunista, Iniziativa Comunista, il Pci Marxista Leninista, la Sinistra Critica, Sel... 
 Si tratta solo di scommettere chi, fra Fassina, Civati e Cofferati, dal possibile passerà al probabile. Cioè alla nascita di un nuovo gruppo, a sinistra della sinistra, più puro dei puri. Del resto, la scissione è la ragione sociale della «ditta». 
 


sabato 27 giugno 2015

Se ne vanno...

Riccardo Imberti 
27 giugno 2015
Dopo le elezioni amministrative succede che personaggi che hanno criticato pesantemente Renzi e il nuovo corso del PD si stiano sfilando. Certo se il risultato delle amministrative fosse stato diverso sono convinto che ciò non sarebbe successo.
Ogni volta che qualcuno se ne va non è un bel segno. Ma leggendo le motivazioni di Fassina ho capito che per lui la nascita del PD doveva essere la continuità delle sigle e non la creazione di una nuova esperienza politica che, facendo tesoro della storia dei partiti di provenienza, avesse il compito di superare le esperienze precedenti per creare un nuovo partito capace di affrontare le sfide del terzo millennio, superando i limiti della cultura politica del '900.
Anche altri non erano convinti dell'operazione, ma, vista la crisi del consenso tradizionale, se ne fecero una ragione e si adeguarono. Fermandosi allo slogan di superare la "fusione a freddo". Dopo la prima fase a guida Veltroni tante energie nuove, che avevano condiviso la scelta del PD come forza riformista, si sono allontanate perché le facce non cambiavano e nei territori e nei circoli dominava la spartizione delle cariche tra DS e Margherita.
Anche il PD di Veltroni non ha raggiungo risultati immediati, facendo svanire molti consensi interni. I deludenti risultati delle elezioni politiche del 2013 hanno confermato che si rendeva necessario un cambiamento alla stessa guida di Bersani, un cambiamento radicale. Il congresso ha assegnato a Matteo Renzi un suffragio larghissimo per la sua determinazione al cambiamento. 
Ora, dopo un anno e più di governo, Renzi sta mettendo in pratica le cose che aveva detto di fare, ma sembra che le riforme nel nostro Paese siano tabù. Qualsiasi comparto intendi riformare oppone una accanita resistenza, senza parlare dei sindacati - in particolare della CGIL - specializzati nel dire di no. 
Un amico in questi giorni mi diceva che Renzi fa bene a forzare la mano sulle riforme perché questo Paese rischia di morire. Il problema - continuava l’amico - è che deve trovare il coraggio di pensare al futuro dell'Italia e non alle prossime scadenze elettorali. Renzi in qualche modo sta procedendo in questa direzione, visto che ha fatto più cose lui in questo anno e mezzo di quanti lo hanno preceduto in venti anni, ma pare che ciò non basti. 
La questione è anche legata al fatto che le cose cambiate non producono risultati immediati e la gente vuole vederli.
Per queste ragioni i “partiti contro” stanno aumentando i loro consensi, ma basterebbe volgere lo sguardo alla Grecia per capire che la strada del no è strettissima.  Pare che circa la metà del partito del leader greco contesti la bozza di programma base per l’accordo in Europa. Il tandem che contesta oggi Tsipras, Lafazanis-Lapavitsas, preferirebbe uscire dall’euro piuttosto che chiedere altri sacrifici ai greci. Altro che alzare l’Iva e prelevare una percentuale dalle pensioni e dagli stipendi superiori ai trentamila euro. Non si voleva assicurae la fine dell’austerità? Una cosa sono le promesse elettorali, altra la realtà, come sanno bene tutti i governanti d’Europa. Il contesto europeo e internazionale hanno regole che vanno tenute di conto per mantenere la credibilità del proprio Paese.
Le sfide per noi sono ancora grandi: il terrorismo, l'immigrazione con gli sbarchi quotidiani e la moltitudine di disperati che arrivano da noi,  la questione morale e la corruzione che tarda ad essere fermata, l'economia che troppo debolmente sta riprendendo.
Il PD e Renzi non intendono rinunciare a cambiare questo Paese, al contrario paiono determinati ad  esercitare fino in fondo la responsabilità che gli italiani  hanno loro assegnato; se saranno in grado di farlo, come io mi auguro, allora l'uscita di Civati e Fassina, per quanto spiacevole, assume la dimensione che  merita, indipendentemente da qualche titolo di prima pagina in ossequio alla polemica di qualche giornalista.

giovedì 25 giugno 2015

Profughi siriani in Libano. Un dramma che rischia di far saltare non solo il Libano ma anche l'Europa.


David Sassoli 
25 giugno 2015
A quaranta chilometri da Beirut va in scena una tragedia umanitaria che rischia di far saltare il Libano ed esplodere in Europa. Campi profughi nella Valle della Beqa' e altrove accolgono oltre un milione e mezzo di fuggiaschi siriani e iracheni. Sono famiglie, in gran parte classe media, fuggite dai territori incendiati dalla guerra. Un'onda che si riversa in un paese grande quando l'Abruzzo, con 4 milioni di abitanti. E cosa peggiore, si tratta di una bomba umanitaria a ridosso di un fronte di guerra. La tensione è altissima. E non si tratta di un caso isolato. La Giordania è nelle stesse condizioni e anche alla frontiera turca la pressione non accenna a diminuire. Trasferire qui a Beirut le riflessioni e le polemiche che si sviluppano in Europa sul numero dei migranti appare quantomeno stonato.
Incomprensibile ai più discutere di qualche decina di migliaia di rifugiati aventi diritto da proteggere fra 28 paesi. Anche perché in questa regione si ferma una grande quantità di persone che potrebbe arrivare in Europa. E con lo status di rifugiati c'è l'obbligo dell'accoglienza. Dove dirigersi, d'altronde? Dove cercare di andare, quando si scappa dalla Siria con moglie, figli da mettere al sicuro? Nei nostri confronti insomma, è attiva una forma di protezione che spesso ignoriamo e troppe volte consideriamo scontata. In ogni caso si tratta di valutazioni irresponsabili che contraddicono anche i toni di un dibattito che batte sul tasto di aiutare i paesi arabi per non far partire i migranti. Quante volte abbiamo sentito dire "aiutiamoli a casa loro"? Bene, in Libano, Giordania e Turchia la possibilità di sviluppare questo impegno concreto non manca. Ed è nel nostro interesse sostenerlo. Progetti di accoglienza e di assistenza corrono sullo stesso binario. In Libano ben 400mila giovani rifugiati sono senza occupazione e senza scuola. Le loro condizioni costituiscono una riserva di caccia per le formazioni jiadiste. Il pericolo è ben presente alle autorità libanesi impegnate nel contrasto con frazioni dell'Isis già presenti nel paese dei Cedri. È di pochi giorni fa la notizia di una importante postazione recuperata dai miliziani hezbollah proprio in territorio libanese, a un centinaio di chilometri da Beirut.
Di sicurezza nell'area del Mediterraneo si è parlato molto nel corso della Conferenza per la revisione della politica di vicinato, che si è svolta nella capitale libanese. A parte Turchia, Libia e Israele, tutti i paesi della sponda sud erano presenti a livello di ministri degli Esteri. "L'Europa può fare molto, se solo volesse", mi ha detto l'esperto segretario della Lega Araba, Nabil el-Araby. Il vento populista e islamofobico che scuote l'Unione viene seguito con grande attenzione. E preoccupa. "La crescita dell'estrema destra in Europa può rappresentare un pericolo per la democrazia nella regione", ha avvertito il ministro degli Esteri palestinese. Anche dai respon-sabili degli Esteri di Marocco, Tunisia, Algeria, Egitto, Giordania é arrivato un forte richiamo per un vero rilancio della politica dell'Unione per il Mediterraneo. Una valutazione che non possiamo lasciar cadere e su cui dobbiamo investire. Ma è tutto nella disponibilità dell'Europa? Il mio invito è stato rivolto ai paesi arabi, a recuperare forme di dialogo fra loro in grado di superare i conflitti - vedi il caso Libia - e poter confrontarsi con l'Ue senza il peso di relazioni privilegiate con i singoli Stati europei. È nel loro interesse, d'altronde, esprimere valutazioni condivise. Le crisi, ancora una volta, possono aiutarci a voltare pagina e a intraprendere strade nuove. Quelle che finora i governi europei, per un miope interesse nazionale, non hanno voluto percorrere.


mercoledì 24 giugno 2015

Leonardo Boff: “L’Enciclica Laudato si' è una nuova speranza per il Pianeta”


Pierluigi Mele 23 giugno 2015

rainews.it
L’Enciclica di Papa Francesco dedicata all’ ecologia , ovvero alla “madre terra”, non ha deluso le aspettative. Sta facendo discutere l’opinione pubblica mondiale. Per andare alle “radici” dell’Enciclica abbiamo intervistato il teologo brasiliano Leonardo Boff, uno dei padri della teologia liberazione. Boff è tra gli ispiratori dell’Enciclica
Leonardo Boff, per prima cosa partiamo dalle reazioni all’Enciclica in America latina: come è stata accolta? 
Finora è stata accolta molto bene, persino con una certa perplessità perché nessuno sperava un testo cosi positivo e dentro il nuovo paradigma ecologico. Il Papa ha innovato la discussione proponendo l’ecologia integrale che va ben oltre l’ecologia ambientale dominante. 
Sicuramente, per lei, questa Enciclica segna la piena riabilitazione del suo lavoro teologico. In particolare quello dedicato all’ecologia. Infatti, nel documento, c’è l’espressione “grido della terra, grido dei poveri” che è sua. Qual è la novità teologica dell’Enciclica? 
A richiesta dello stesso Papa gli ho inviato molto materiale sull’ecologia, visto che è da 30 anni che lavoro su questo tema. Molto mi ha aiutato la partecipazione alla redazione della “Carta della Terra”, sotto l’egida di Michail Gorbaciov. Questo documento molto simile con l’enciclica è per me l’unico grande documento, assunto dall’UNESCO, che sia stato elaborato totalmente dentro il nuovo paradigma, fondato nelle scienze della vita e della Terra. Io ho insistito insieme al Papa attraverso l’ambasciatore argentino nella Santa Sede che l’enciclica avrebbe tutto da guadagnare, mostrandosi contemporanea del migliore pensiero ecologico, se avesse assunto tale paradigma. Secondo questo paradigma tutte le cose stanno interconnesse formando un grande tutto. Tutto sta in relazione e niente esiste fuori dalla relazione. Questa prospettiva aiuta a mostrare che tutti i problemi stanno interconnessi e devono essere affrontati simultaneamente, specie il riscaldamento globale e la povertà delle moltitudini. Sono felice che questa prospettiva sia stata assunta, conferendo grande coerenza e unità al testo. Ciò è una novità nella tradizione del magistero della Chiesa. Il Papa Francesco ha innovato e collocato la Chiesa nel punto più avanzato della discussione ecologica.  
Le piace il termine “Ecologia integrale”? 
Il tema “ecologia integrale” è presente in tutti i miei libri e articoli. É la forma di come superiamo il discorso convenzionale che si restringe all’ecologia ambientale, secondo la quale s’immagina che l’essere umano stia al di fuori dell’ambiente e della natura, ma al di sopra dominandola e che non bisogna riconoscere il valore intrinseco di ciascun essere, indipendentemente dall’uso umano. Io ho lavorato di forma coordinata l’ecologia ambientale, politico-sociale, mentale e integrale. Specie ultimamente elaboro un’etica, una spiritualità ecologica e una cultura della cura per la Casa Comune, l’unica che abbiamo per abitare. L’ecologia integrale ha incluso le diverse forme di ecologia, dimostrando però che tutte si articolano tra loro a servizio di una cultura bio-centrata e di una Terra, che molti chiamano “Terra di Buona Speranza”.  
Quali sono i concetti più belli dell’Enciclica? 
I concetti centrali, che articolano tutto il testo, sono la concezione che tutto sta in relazione con tutto. Tutto è relazione e niente esiste fuori dalla relazione. Questa è la convinzione della fisica quantistica e della nuova cosmologia. Questa comprensione è teologicamente ben fondata perché si afferma che il Dio cristiano non è la solitudine dell’Uno ma la comunione e la relazione della Santissima Trinità, sempre ed eternamente interconnessi. Se Dio-Trinità sono cosi, relazione, allora tutta la creazione rispecchia la natura relazionale di tutte le cose. Da questo concetto ne deriva un altro, quello dell’interdipendenza tra tutti e della corresponsabilità collettiva per il destino comune, della Terra e dell’umanità. Un altro concetto chiave è quello della cura. Significa una relazione amorosa e non dominatrice con la natura e si oppone frontalmente al paradigma della modernità che e la dominazione dell’altro, dei popoli e della natura. Il Papa denuncia l’espressione maggiore di questa dominazione che è la tecnocrazia. La distingue bene dalla tecnica che ci ha portato tanti benefici. La tecnocrazia rappresenta la dittatura della tecnica, come se tutti i problemi ecologici e umani potessero essere risolti solo per la tecnica. Devono essere presenti la politica, l’etica e una scienza fatta con coscienza, non prioritariamente per il mercato, ma per la vita. Altro concetto importante è il termine “casa comune” per designare la Terra. Cosi è più facile ricordare che tutti abitano lo stesso spazio e che tutti sono fratelli e sorelle gli uni degli altri e anche fratelli del fratello Sole, della sorella Luna e figli della Madre Terra. Questa visione che esiste una fratellanza universale è derivata dalla mistica cosmica di San Francesco, una fonte d’ispirazione per tutta l’enciclica. Essa permette espressioni di grande bellezza, sentimenti di rispetto e di venerazione per tutto quello che esiste e vive. Qui il Papa innova di fronte ai suoi predecessori, in quanto nel suo testo coltiva l’eleganza, la lievità e la poesia. 
Come verrà declinata, dopo questa Enciclica, la parola “Liberazione”? 
La teologia della liberazione nacque ascoltando il grido degli oppressi, o nella versione argentina, del popolo messo a tacere e della cultura popolare oppressa. Il “marchio registrato” di questo tipo di teologia è l’opzione per i poveri, contro la povertà e in favore della loro liberazione e della giustizia sociale. A partire dagli anni’80 del secolo passato, alcuni teologi percepirono che all’interno di quest’opzione si sarebbe dovuto collocare il Grande Povero che è la Terra crocefissa, devastata e oppressa. Fu in questo senso che io scrissi nel 1995 il libro “Dignitas Terrae”, ecologia: grido della Terra - grido dei poveri”. Questa espressione è stata coerentemente assunta dall’enciclica. Nacque cosi un’eco-teologia della liberazione. Non fu assunta da tutti, perché questa eco-teologia incorpora i dati delle nuove scienze, come la nuova cosmologia, la fisica quantistica, la nuova biologia. La teologia della liberazione classica dialogava con le scienze sociali, con l’antropologia e con la cultura. Tutti fummo formati dentro questo paradigma. Pochi si sono arrischiati a dialogare con le nuove scienze. Ciò rappresentava una vera rivoluzione intellettuale. Io stesso, feci un grande sforzo per incorporare il nuovo paradigma. Non si tratta di parlare su questo, ma da questo. E da lì tutto cambia e mi resi conto che era più facile fare teologia con questo paradigma che con quello classico. Insieme con il cosmologo nord-americano Mark Hathaway elaborammo tutta una visione nuova in un libro dal titolo “Tao da Libertação” che fu tradotto in italiano nel 2014 da Fazi Editore. Negli USA il libro, nel 2010, ha vinto la medaglia d’oro per la “nuova scienza e cosmologia”. Penso che sia il passo più avanzato della teologia della liberazione. Con questo documento pontificio si mette radicalmente in discussione il “pensiero unico” neoliberista. 
E’ davvero alternativo al neoliberismo. Le chiedo: l’enciclica potrà avere degli effetti politici? 
Sicuramente l’enciclica avrà effetti politici. Primariamente perché non è diretta ai cristiani, ma a tutti gli abitanti della Casa Comune. Essa fa severe critiche agli incontri dell’ONU sul riscaldamento globale perché non possiede una visione integrale ma atomizzata e focalizzata solo nell’ecologia ambientale che favorisce l’antropocentrismo, dove si vede appena la relazione dell’essere umano con l’ambiente e la natura, dimenticando che questo essere umano è parte della natura e tra entrambi esistono relazioni inclusive e reciproche. Non mi meraviglierei se nell’incontro in dicembre a Parigi – organizzato dall’ONU, quando si tratterà nuovamente dei cambiamenti climatici, queste questioni fondamentali siano sollevate e cambi il corso delle discussioni. La questione non è appena il riscaldamento globale. Ma il tipo di produzione, distribuzione e consumo che la nostra società ha elaborato negli ultimi secoli, il quale ha richiesto alti costi alla natura e hanno prodotto un’iniqua disuguaglianza sociale, altro nome, dell’ingiustizia sociale mondiale. I cambiamenti climatici sono la conseguenza di questo modo di abitare la Terra, devastandola in vista di un’accumulazione illimitata. Dobbiamo cambiare, altrimenti conosceremo catastrofi ecologico-sociali mai viste prima. Papa Francesco, con l’Enciclica, porta nettamente la Chiesa cattolica sulla frontiera profetica della lotta per la “liberazione dei poveri”. 
Riuscirà l’intera comunità ecclesiale a reggere il passo di Papa Francesco? Vi saranno conflitti all’interno dell’episcopato? Il problema del Papa non si concentra nella Chiesa, ma nell’umanità. La sua questione non è domandare: che futuro avrà il cristianesimo? 
Ma la sua preoccupazione risiede in questo: in quale misura il cristianesimo, le altre chiese e cammini spirituali, possono e devono contribuire a salvare la vita sulla Terra e garantire un futuro per la nostra civiltà? 
Lui ha percepito nubi nere che si annunciano all’orizzonte, anticipando grandi catastrofi, nel caso non facessimo nulla. Ma sempre da' l’ultima parola alla speranza e alla creatività umana, capace di dare un salto quantistico e conferire un altro corso alla nostra forma di abitare la Casa Comune. Esistono molti cristiani e vescovi che ancora non si sono svegliati di fronte alla gravità dell’attuale situazione che richiede un “cambio di direzione” e, citando la Carta della Terra “cercare un nuovo inizio”. Forse con l’aggravarsi della situazione mondiale, tutti si sveglieranno, poiché – nel caso contrario – potremmo conoscere il cammino già percorso dai dinosauri. Ultima domanda: con Papa Francesco i martiri dell’America Latina tornano a parlare alla Chiesa Universale. 
Qual è il “seme” di futuro che questi martiri portano all’intera comunità ecclesiale? 
Il Papa Francesco ha accolto la riflessione che si è fatta in America Latina secondo cui il martire non è appena quello che sacrifica la vita per fedeltà alla fede cristiana. Questo è un martire della Chiesa. Ma esiste anche un altro tipo di martire che sacrifica la vita nella difesa della dignità delle persone e dei loro diritti contro la violenza dei regimi dittatoriali. Questi sono i martiri, come diciamo noi, del Regno di Dio. Il Regno di Dio, il messaggio centrale di Gesù, è fatto di giustizia, d’amore incondizionato, di consegna della propria vita per difendere i violentati, specie i poveri. Questo è un atto d’amore e costituisce il contenuto concreto del grande sogno di Gesù: un Regno di giustizia, di compassione, d’amore, di pace e di totale apertura a Dio. Tutti questi martiri possiedono una connotazione politica.  
Proprio i Papi hanno definito la politica come una forma mai alta di amore verso il prossimo e di servizio alla giustizia del Regno. In questo senso abbiamo molti martiri nella Chiesa dell’America Latina, poiché molti cristiani, laici e laiche, preti, religiosi e religiose e per lo meno due vescovi, Oscar Romero in San Salvador ed Enrique Angelelli in Argentina furono assassinati per difendere questi valori del Regno di Dio. E anche molti colleghi teologi e teologhe furono sequestrati, barbaramente torturati e assassinati per difendere i poveri e per essersi impegnati nell’osservanza, da parte dello Stato, dei diritti umani universali. Tutti questi sono martiri del Regno di Dio, del quale la Chiesa è segno e sacramento. 
(Traduzione dal portoghese di Gianni Alioti)

lunedì 22 giugno 2015

Il boom di tessere nei circoli pd «feudali» In città più di uno su tre rischia la chiusura.


Corriere della Sera 20/06/15
Alessandro Capponi
Più che una «mappatura» dei circoli sembra la diagnosi di un male terribile, chissà se curabile: il Pd di Roma, per Fabrizio Barca, che con il suo staff l’ha esaminato nella quasi totalità dei 110 circoli, «finisce per essere un partito mai nato». Con ventisette «sezioni dannose» da classificare in modo inequivocabile: «Il potere per il potere». Ce ne sono altre tredici segnate con segno «meno», accusate nella migliore delle ipotesi di inerzia. Quindi «quaranta circoli — spiega Barca — con una situazione o una tendenza all’infeudamento». Gestiti da capibastone (come Mirko Coratti e Daniele Ozzimo, finiti agli arresti nella seconda ondata di Mafia Capitale, o Marco Di Stefano, anche lui nelle carte di varie inchieste) che li utilizzavano per fare tessere, per «contare». Senza traccia, o quasi, di attività politica. Anche perché il 40 per cento degli iscritti «non frequenta mai la sede». E la media complessiva degli «incontri pubblici» è di 10 all’anno, neanche uno al mese. Un partito guidato quasi esclusivamente da uomini: ogni quattro «coordinatori» c’è una «coordinatrice». Venticinque circoli, poi, sono «privi di sede»; il 36 per cento «ha in corso un contenzioso con la proprietà». 
 I dati di Barca in qualche modo coincidono con quelli di Matteo Orfini: tra il venti e il trenta per cento di iscritti «fantasma». «Da lunedì via alle chiusure e ai commissariamenti», promette lo stesso Orfini. Di certo, però, il lavoro di Barca fotografa un passato recente e cupo: nella stagione 2012-2013, che porta al congresso, c’è l’ exploit di iscrizioni, con una crescita del 39,6 per cento; l’anno seguente ecco quello che Barca chiama «un disamore improvviso»: le iscrizioni calano del 40 per cento. Per Barca «nel 2013 sono stati 32 i circoli che hanno avuto un aumento di iscrizioni superiore alla media». Inspiegabile, forse, anche alla luce dell’attività svolta: le sedi sono aperte, in media, 11,5 ore a settimana, appena sei in quelle «dannose». 
 Nel suo lavoro, Barca analizza anche la storia del Pd: «Nel 2006 un nuovo snodo. Le elezioni comunali diventano un test per l’investitura di Walter Veltroni a leader politico nazionale, in vista della messa in opera del progetto del Pd. Raccoglie il 61 per cento dei consensi, quasi un milione di voti, ma nella forza di questo risultato di valenza nazionale è insita una debolezza grave per il sistema politico locale: la ricerca di consenso avvalora una logica di trasformismo e trasversalità che sbiadiscono definitivamente il riformismo romano e l’autonomia della politica dall’economia cittadina». È così che «invece di un modello virtuoso», il Pd di Roma finisce per essere «un partito mai nato». Perché, già nel 2007, è «espressione di divisione correntizia: due correnti Ds, due della Margherita, una per le liste civiche (dentro un pulviscolo di grumi di consenso personale)». E ancora: «Mostra di non sapersi rigenerare, come prova la scelta di candidato sindaco nel 2008», cioè Francesco Rutelli. È lo stesso Rutelli, oggi, a dire: «Se solo trovassi un circolo del partito dove iscrivermi potrei pensare di tornare. Ma li hanno tutti chiusi». 
 Barca non si nasconde neanche dalle responsabilità del Pd in Mafia Capitale: certo il sodalizio criminale trova terreno fertile con l’amministrazione di Gianni Alemanno ma «il Pd deve farsi carico di una degenerazione nel rapporto con cooperative, consorzi di auto-recupero e aziende cresciute negli ultimi anni al fianco delle amministrazioni di centrosinistra. Ciò è collegato al decadimento della vita interna al partito, i cui equilibri non si formano più sulla dialettica politica ma su rapporti di potere che abusano degli strumenti essenziali della partecipazione democratica, come il tesseramento e le primarie». Certo, ci sono anche elementi di speranza nella mappatura: «Potenzialità positive in 44 circoli». Poi c’è una fascia intermedia, con «17 circoli inattivi e 25 identitari che producono iniziativa politica ma non rappresentano gli interessi dei cittadini».

Se l’immigrazione diventa la leva per scalare il Comune di Milano.


Corriere della Sera 20/06/15
Dario Di Vico
Spulciando negli annali si scopre che il risultato di Alessandra Moretti (22,7%) in Veneto è inferiore alla sconfitta del Fronte Popolare che nel ‘48 si fermò al 23,9%. La giornalista Alessandra Carini ha scritto che, visti i candidati, il Pd avrebbe perso anche contro Topo Gigio. Le analisi sono così feroci perché solo sei mesi fa il partito di Matteo Renzi esaltava la raggiunta «contendibilità» del Veneto e il premier validava quest’analisi con una presenza costante nelle fabbriche e nelle assemblee confindustriali. Eppure anche stavolta la sinistra ha segnato il passo in una terra che resta ostile e che sembra respingerla antropologicamente. La lista degli errori è lunghissima e le distanze tra centrodestra e Pd appaiono così larghe che anche un candidato più testato, come il sindaco di Vicenza Achille Variati, avrebbe perso comunque. Consumato il flop c’è poco da fare se non costruire un’opposizione di buon senso al governatore Luca Zaia, che ha promesso un secondo mandato più interventista del primo dipanatosi all’insegna del quieta non movere. 
 Ma l’onda della débâcle veneta si proietta già sul prossimo e più importante confronto del Nord, la scelta nel 2016 del sindaco di Milano. Fino a qualche settimana fa c’era la convinzione che il vincitore delle primarie Pd avrebbe avuto la strada spianata, ora invece è spuntata la paura perché il ciclo del renzismo vittorioso si è arrestato e in parallelo sono salite le quotazioni del milanese Matteo Salvini. Va da sé che la composizione sociale milanese è assai diversa da quella veneta e il Pd è in questo momento il partito in sintonia con le trasformazioni di un corpo sociale che, superate le vecchie classi, può essere mappato solo per grandi aggregati. Scemato il ruolo della borghesia economico-finanziaria è la grande galassia delle competenze a ricoprire in città un ruolo guida e a rilanciare l’idea di una Milano capace di scalare le graduatorie europee. 
 Una galassia che ha come esponenti di punta le archistar, i grandi medici, il top della consulenza d’industria e persino gli chef e che è molto esigente sulle policy ovvero le scelte concrete. Non si accontenta di sentir pronunciare ogni due frasi la parola «innovazione», cerca soluzioni vere per problemi veri. Il terziario moderno ha però anche una sua faccia in ombra, quella che corrisponde alle migliaia di freelance attratti dalla modernità di Milano e che scontano ogni giorno la contraddizione di possedere alto capitale umano e basso reddito. 
 Con questi mondi il Pd dialoga e la Leopoldina dello scorso sabato allo Spazio Ansaldo ne è stata la riprova. Dialoga mostrando rispetto per le competenze, incoraggiando i professionisti a partita Iva, facendo proprie tutte le nuove culture come lo sharing , il movimento dei coworking oppure le social street che operano su Facebook come nuovi comitati di quartiere. Accanto ai nuovi segmenti il centrosinistra milanese ha anche un radicamento tradizionale in un altro grande aggregato cittadino: l’impiego pubblico della scuola/università, degli ospedali, degli enti locali e delle municipalizzate. È un popolo che con il renzismo ha un rapporto conflittuale e alle parole d’ordine verticali sulle sfide di Milano 2020 preferisce un lessico più bersaniano, teso a ribadire i valori orizzontali e coesivi della sinistra. Eppure pur potendo in teoria il Pd sommare ceti innovativi e tradizionali la partita del consenso a Milano è aperta. La sfida viene dal basso, dalla geografia sociale del degrado urbano. Milano è una città cosmopolita che non ha vissuto contrapposizioni radicali all’immigrazione, ha cercato di metabolizzare i nuovi arrivati come aveva fatto negli anni 60. 
 Ci sono però segnali di slittamento di questa mentalità e il terreno più delicato dove si manifestano è la condivisione dei servizi. Vale per alcune linee del trasporto urbano di superficie, per la metro nelle ore del dopocena, vale per le scuole dove il numero dei bambini italiani e stranieri è in equilibrio. Vale certamente per la sicurezza. In tutti questi casi quando la gestione pubblica non riesce ad evitare cadute di qualità il milanese le vive come segno di una retrocessione e finisce per reclamare una differenza tra sé e gli stranieri che non vede più. Non è un rifiuto dell’accoglienza quanto una misurazione severa dei costi della solidarietà. È ovvio che elettoralmente si tratta di un terreno fertile per la nuova Lega di Salvini e un test lo abbiamo già avuto con la propaganda delle ruspe. 
 Il rischio per il Pd è di vedere sconfitta la retorica dell’innovazione da un centrodestra monotematico che punta sull’immigrazione come tallone d’Achille del renzismo meneghino. E che una volta aggregato il disagio dei quartieri popolari più esposti parta da questa base per conquistare l’elettorato moderato e fare bingo. 




«Caro D’Alema, sì al dialogo ma sono le polemiche interne ad aver deluso i militanti».


Corriere della Sera del 20/06/15
Marco Galluzzo
«Non vorrei deluderla ma non intendo fare polemiche». 
La polemica che Lorenzo Guerini non vuole fare è con Massimo D’Alema. Il vicesegretario del Pd ha letto quello che l’ex premier ha detto al Corriere , non lo condivide, «ma con lo stesso garbo con cui ha ci invitato a riflettere possiamo confrontarci». 
 
D’Alema dice che avete perso milioni di voti e state deludendo il vostro elettorato. 
 
«Innanzitutto se guardiamo al risultato elettorale nel suo complesso, possiamo dire che c’è stato un esito positivo per il Pd, altra cosa sono stati i ballottaggi, per i quali abbiamo subito manifestato la nostra parziale insoddisfazione. Il vero punto è che valutare i risultati del partito quando ci sono tante liste civiche e confontarlo con le Europee è fuorviante. Da questo punto di vista il riferimento è quanto emerso nella direzione dopo il voto: continuare, aperti al confronto, ma senza indugio, nel percorso delle riforme». 
 
Sareste stati anche sprezzanti di fronte all’abbandono di tanti dirigenti del partito. 
 
«In generale su quello che è successo negli ultimi mesi potremmo anche interrogarci su come siamo arrivati alle elezioni, con le tante polemiche interne, con il piacere di alcuni di mostrare le nostre divisioni, atteggiamenti che credo abbiano in parte influito sul voto. Se c’è una cosa che ci chiedono i nostri militanti è unità e di non caratterizzarci per le polemiche. Poi sinceramente non vedo questa diaspora di dirigenti, alcuni hanno scelto di seguire Civati ma non riscontro alcuna emorragia. Il Pd è consapevole delle proprie responsabilità di governo e, dentro questo sforzo, tutti devono trovare la capacità di sostenerlo. Abbiamo bisogno di un sostegno corale, non della polemica fine a sé stessa o della critica aprioristica. Non è un compito facile cambiare un Paese, certamente ci vuole il dialogo dentro il partito e dentro la maggioranza, e credo che sia stato dimostrato su tutti i passaggi più impegnativi, ma il nostro sforzo sarà più proficuo partendo dai risultati che abbiamo raggiunto, per certi versi straordinari, dal Jobs Act alla legge elettorale, da come stiamo investendo sulla Pubblica amministrazione e sul fisco: il Paese ci chiede di confrontarci su questi temi e non su dibattiti proiettati al nostro interno». 
 Molte delle vostre misure hanno colpito, e «disamorato», il vostro elettorato. È falso anche questo? 
 
«Siamo di fronte a una crisi sociale ed economica per certi versi storica, eppure stiamo realizzando un cambiamento portentoso, dimostrando che la politica può e sa decidere, prima condizione per contrastare le derive populiste e dell’antipolitica. Siamo alla guida del governo con il segretario del partito, abbiamo il gruppo parlamentare più numeroso della storia della Repubblica, governiamo in 17 Regioni e migliaia di Comuni, siamo il più grande partito della sinistra europea. Il tema non è che non è ammessa la critica ma che qualcuno si dimentica dei risultati: vanno interpretati alla luce della responsabilità che abbiamo verso gli italiani». 
 
Non mi ha risposto. 
 
«Insomma, il tema non è capire se i nostri provvedimenti sono di sinistra o meno come dice D’Alema, il punto è se siamo capaci di fare riforme che servono all’Italia. Gli 80 euro non sono di sinistra? Una riforma del mercato del lavoro che rende più facile trovare un’occupazione stabile e che riduce il precariato, non è di sinistra? Il problema non sono le etichette, sono le vere riforme, purtroppo lo sforzo riformatore del Paese troppo spesso trova ostacoli anche al nostro interno». 
 
«Garbatamente» D’Alema vi fa anche notare che non potete andare avanti con i voti di Verdini. 
 
«É un argomento trito e ritrito, nei fatti non si è mai realizzato. Noi vogliamo governare e cambiare l’Italia con la nostra maggioranza, a partire dal Pd. E se su alcuni provvedimenti si aggiungono i voti di altre forze politiche è solo un bene, essendo riforme di sistema e che riguardano tutti». 


Enciclica e finanza.L’atto d’accusa di Francesco a un modello globale di sviluppo che ha creato degrado ambientale e nuova povertà


PAOLO RODARI
La Repubblica 21 giugno 2015
Il Papa del popolo “Il salvataggio delle banche pagato dai deboli” 
Protesta «sorella terra » per il male che le facciamo. Pensiamo di essere «suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla». Mentre «i cambiamenti climatici», causati anche da noi, sono «la sfida principale dell’umanità ».
L’incipit di “Laudato si’”, l’enciclica di Francesco sulla «cura della casa comune», resa pubblica ieri (246 paragrafi divisi in 6 capitoli), non fa sconti. E disegna un’impietosa critica globale al sistema di sviluppo che schiavizza il mondo e lo spinge alla deriva, all’auto-annientamento. Mentre «il salvataggio ad ogni costo delle banche, facendo pagare il prezzo alla popolazione, riafferma un dominio assoluto della finanza che non ha futuro e che potrà solo generare nuove crisi dopo una lunga, costosa e apparente cura». Seppure, spiega a Repubblica Victor- Manuel Fernandez, teologo argentino vicino al Papa, «il cuore della critica papale non è soltanto all’ economia, ma anche agli uomini: senza riconoscere gli altri non può svilupparsi una sana economia ».
Il vescovo di Roma che viene da un Paese «quasi ai confini del mondo», ricco di risorse ma sfruttato dalla globalizzazione mercatista, sa di cosa parla quando in alcuni paragrafi di una lettera rivolta «a ogni persona che abita questo pianeta» entra al cuore del problema: la cieca pulsione accumulatrice ha effetti devastanti perché ha a disposizione «nuove forme di potere derivate dal paradigma tecno-economico». Una potenza senza limite, che si scatena senza poter essere contenuta dalla debolezza della reazione politica internazionale. Qui cita Romano Guardini, teologo italo- tedesco a lui caro, che già aveva denunciato i limiti dell’antropocentrismo moderno che «ha finito per collocare la ragione tecnica al di sopra della realtà, tanto che non sente più la natura né come norma valida, né come vivente rifugio». Spiega ancora Fernandez: «Si tratta di una messa in discussione del tremendo potere legato al paradigma tecnologico-economico, che determina la vita delle persone e il funzionamento della società, che pervade tutto e produce una modalità di comprensione riduttiva della vita e della società stessa». Un sistema – scrive la teologa Cristina Simonelli in una prefazione all’enciclica editata da Piemme – che pensa che il mondo sia «destinato a una crescita economica indefinita ». Mentre non è così.
LA DECRESCITA
Francesco non ha soluzioni certe. Ma indica alcune vie di salvezza per uscire dalla crisi ambientale. Anzitutto la decrescita. Scrive: «È arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti».
LA SOBRIETÀ
Oltre alla decrescita, la sobrietà: «È importante accogliere un antico insegnamento, presente in diverse tradizioni religiose, e anche nella Bibbia. Si tratta della convinzione che “meno è di più”. È un ritorno alla semplicità».
LA PROPRIETÀ PRIVATA
Amare il creato può portare anche a rinunciare alla proprietà privata: «La tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata».
IL RISCALDAMENTO E IL MARE
È spesso l’uomo la causa dei problemi ambientali: «Numerosi studi scientifici indicano che la maggior parte del riscaldamento globale è dovuta alla grande concentrazione di gas serra emessi soprattutto a causa dell’attività umana». Anche «l’innalzamento del livello del mare può creare situazioni di estrema gravità».
ISTITUZIONI MONDIALI FORTI
Per invertire il degrado ambientale e creare sviluppo sostenibile si rende «indispensabile lo sviluppo di istituzioni internazionali più forti e efficacemente organizzate ».
GUERRE NUCLEARI
Altrimenti tutto può accadere: «La guerra causa sempre gravi danni all’ambiente e i rischi diventano enormi quando si pensa alle armi nucleari e a quelle biologiche».
LA MAESTRA ELEMENTARE
Invece occorre ripartire dalle cose semplici. E per insistere su ciò il Papa ha voluto che ci fosse ieri a presentare l’enciclica in Vaticano anche Valeria Martano, una maestra elementare della periferia di Roma.
IL PLAUSO DI OBAMA
Ma anche i potenti applaudono. Scrive Obama: «Do il benvenuto all’enciclica. Ammiro profondamente la decisione del Papa di sollevare il caso per un’azione globale sui cambiamenti climatici».



Grecia. Poveri e baby-pensionati l’esercito di anziani che paralizza il negoziato


La Repubblica 21 giugno 2015
Ecco la fotografia del sistema previdenziale ellenico al centro del confronto tra la Grecia e i creditori 
Il futuro dell’euro è in mano a una banda di 2,65 milioni di arzilli vecchietti (alcuni, a dire il vero, nemmeno troppo vecchietti): l’esercito dei pensionati greci, diventato in queste ore la linea del Piave su cui si è bloccato il negoziato tra Atene e la Troika. “Costano troppo! Tsipras deve tagliare i loro assegni previdenziali di almeno 1,8 miliardi” dicono da settimane Ue, Bce, Fmi. “Richieste assurde — ribatte il premier — . Le abbiamo già ridotte oltre i limiti. Un esempio? Il 45% dei pensionati ellenici prende meno di 655 euro al mese, il livello della soglia di povertà”.
Chi ha ragione? Dipende da che parte si guardano i numeri. Dafne Grigoropoulos, 67 anni ben portati, snocciola i suoi. “Ho fatto l’insegnante di scuola elementare per 38 anni. Sono andata in pensione a 58 anni con 1.300 euro al mese — calcola cullando il nipote nel parco dello Zappeion — . Oggi ne prendo 1.050. E mi va ancora bene rispetto a molti”. Con il suo assegno ci campano lei, rimasta vedova, la figlia 38enne disoccupata dal 2012 (“ha perso il sussidio dopo un anno, è andata a cercare lavoro per l’estate a Santorini”) e il piccolo Emmanuel. Tutt’altro che un caso isolato. Il 49% delle famiglie elleniche, calcola uno studio della Confindustria locale, vive solo di un reddito previdenziale.
Nessuno vuole toccare chi prende il minimo — ha garantito due giorni fa Juncker — ma la Grecia spende 28 miliardi l’anno in pensioni, il 16% del Pil”. Nel 2009, quando è scoppiata la crisi, nel paese c’erano 130 differenti fondi pensione e 580 professioni usuranti tra cui i presentatori tv, a rischio per l’accumulo di flora batterica nei microfoni. Atene, a voler guardare, ha già fatto i compiti a casa: il numero dei fondi è stato ridotto a 13. Un censimento nel 2012 ha portato alla scoperta di 90mila truffatori che ritiravano l’assegno di parenti morti da anni e di 350mila posizioni irregolari. I diktat di Ue, Bce e Fmi hanno ridotto da 14 a 12 le mensilità e le entrate medie sono oggi di 713 euro a testa al mese. “La spiegazione del rapporto tra spesa e Pil è semplice — ha scritto ieri su Der Spiegel Tsipras per spiegare le sue ragioni ai tedeschi — . Noi abbiamo tagliato le pensioni, ma l’austerity ha fatto crollare il Pil del 25% in cinque anni distorcendo i dati. Da noi, per dire, si lascia il lavoro a 67 anni, due anni più tardi dei tedeschi”.
Peccato non sia vero. Certo, la Troika ha imposto una legge che sposta ai 67 anni l’età in cui si può lasciare il lavoro. Nella pratica le vie di fuga restano però tante. Fofi Gennimata, neo presidente del Pasok, ex impiegata di banca con tre figli, ha ritirato il suo primo assegno previdenziale lo scorso anno a 51 anni. Oggi, diventata parlamentare, l’ha sospeso. L’età media in cui si va in pensione nel pubblico è di 56,7 anni, destinati a diventare 60 solo nel 2022, con buona pace di Tsipras. E dal 2009 le richieste di ritiro anticipato sono salite del 48%.
Il problema è con questi soldi campano intere famiglie”, dice Dafne. La disoccupazione giovanile è al 50%, quella tra gli ultra 55enni è balzata dal 6% del 2009 al 20%. “E con una cifra sempre più magra vivono sempre più persone”, conferma Iannis Angelopoulos, 62 anni e 594 euro di stipendio al mese (“200 se ne vanno in affitto”).
Il paradosso è servito. I pensionati greci sono tra i più poveri d’Europa ma pure i più costosi. E il tiro alla fune continua: Tsipras da una parte, la Troika dall’altra, e l’euro in mezzo.



giovedì 18 giugno 2015

Ecco cosa fa la Chiesa italiana per i migranti


ANDREA TORNIELLI
Vatican Insider
Roma 18 giugno 2015
Dalle mense ai dormitori, dagli ambulatori ai centri di ascolto: dopo le provocazioni di Salvini un viaggio tra le iniziative di parrocchie, Caritas e fondazione Migrantes
«Quanti rifugiati ci sono in Vaticano?», ha domandato Matteo Salvini rispondendo alle parole del Papa. Negli ultimi mesi Francesco ha voluto dare un segno tangibile di vicinanza agli homeless aprendo per loro un servizio docce e barberia sotto il colonnato di San Pietro. Si sta realizzando un dormitorio che avrà una trentina di posti letto, e dal Vaticano partono derrate alimentari da distribuire ai poveri della capitale. Ma è la Chiesa in Italia, con la Caritas, la fondazione Migrantes e le parrocchie, a svolgere un servizio capillare per l'aiuto  agli immigrati.
Le strutture legate alla Chiesa negli ultimi anni hanno dato la disponibilità ad accogliere 10mila migranti. Un numero che è andato aumentando. Il lavoro sociale delle 23.000 parrocchie, attraverso la rete dei centri di ascolto, hanno generato migliaia di servizi di prima necessità (mense, prestiti, ambulatori, dormitori) che oltre a servire gli italiani in difficoltà servono anche i poveri migranti. Si tratta di oltre 1500 servizi ai migranti.
Per citare soltanto la distribuzione dei pasti, le mense per i poveri sono 449, per un quarto promosse dalle parrocchie, per un altro quarto dalla Caritas, per un terzo da ordini e congregazioni religiose, per l’ultimo quarto da realtà diverse come le diocesi. Il dato relativo al 2009 indicava un totale di 6 milioni di pasti erogati. Oggi queste cifre vanno decisamente ritoccate al rialzo. «Considerato come le mense prive di aiuto pubblico siano quattro su cinque - ha scritto Giuseppe Rusconi, nel libro "L'impegno" (Rubbettino) - e che un pasto ha mediamente un valore monetario di 4,5 euro, si può calcolare che in questo campo la Chiesa faccia risparmiare allo Stato non meno di 27 milioni di euro l’anno.
Servizi di tutela per gli immigrati impiegati in lavori precari sono stati approntati dalla Caritas, con  il Progetto Presidium in 10 diocesi italiane, e la fondazione Migrantes con il progetto «La legalità paga». Sono nati centinaia di doposcuola nelle parrocchie e negli oratori per i figli di immigrati, le scuole cattoliche si sono aperte alla presenza dei bambini stranieri (oltre il 12% delle presenze, superiore alla scuola pubblica), sono nati asili multietnici. Gli oratori sono diventati quasi una seconda casa  per molti bambini e ragazzi immigrati (6 su 10 li frequentano). Sono attive anche iniziative di aiuto al ricongiungimento familiare, attraverso la disponibilità di case o attraverso progetti di Housing sociale (a Torino, Firenze, Milano, Cremona).
Un impegno importante che si sta rafforzando nelle diocesi è la tutela dei minori non accompagnati – oltre 13.000 oggi – attraverso una rete di affidi familiari. L’Associazione «Accoglirete» nata in parrocchia a Siracusa e ad Augusta, si è già impegnata nella tutela di 1000 minori, senza alcun compenso. E non va dimenticato che la fondazione Migrantes ha approntato da 4 anni un fondo per il rimpatrio delle salme dei migranti che muoiono in Italia  e non hanno familiari: oltre 200.000 euro  per contribuire a circa 190 rimpatri in 32 nazioni del mondo.

mercoledì 17 giugno 2015

Parliamo di informazione pubblica.

Pierluigi  Castagnetti
17 giugno 2015
Adesso che sono finiti tutti i turni elettorali non si potrà pensare a un mio secondo pensiero. Debbo dire che nelle ultime settimane sono stato colpito da come le televisioni hanno trattato la questione degli immigrati. Non mi hanno sorpreso le televisioni private che hanno obiettivi di audience evidenti. Mi riferisco ai canali Rai che, essendo pagati da noi cittadini e dallo Stato, dovrebbero sentire la responsabilità di una informazione semplicemente obiettiva e non interessata ad alimentare sentimenti di paura e persino di panico nella popolazione, rincorrendo le reti commerciali e gossipare. Non si dica che quanto accaduto alle stazioni di Milano e Roma Tiburtina e a Ventimiglia erano innocenti notizie che dovevano essere date. E si diano, perbacco! Ma istituire in quei siti dei veri e propri punti fissi di collegamento multiquotidiano con tanto di inviati speciali,pronti a indugiare sui lati più morbosi della notizia, risponde non all'esigenza di una informazione corretta ma a quella di una informazione finalizzata. Mentre il paese è impegnato in una difficile e, come si vede pressochè solitaria, impresa di civiltà e di recupero del valore dell'umano, che ci siano mezzi di cosiddetto servizio pubblico che si compiacciono di fomentare vero e proprio allarme sociale a me pare grave. Semplicemente grave. Se poi la questione riguarda solamente la professionalità modesta dei giornalisti che trattano il tema (non è vero, perché è proprio l'impaginazione del giornale che rivela una intenzione precisa), si consigli loro di leggere gli editoriali di domenica scorsa di Mario Calabresi e Adriano Sofri così imparano qualcosa. PS: non replicherò alle prevedibili accuse di attacco alla libertà di informazione perché le considero infondate: io rispetto la libertà di tutti, a partire da quella dei giornalisti, ma rivendico il diritto di giudicare.

martedì 16 giugno 2015

Bauman: “Siamo ostaggi del nostro benessere per questo i migranti ci fanno paura”


Zygmunt Bauman. “Anche se il prezzo dei sacrifici che pagheremo sarà molto alto, la solidarietà è l’unica strada per arginare futuri disastri”
Bauman, oggi uno dei pensatori più influenti del mondo, è stato più volte esule. La prima volta, quando nel 1939, giovane ebreo, scappò dalla Polonia verso la Russia, in condizioni simili a quelle dei profughi che, scampati alle guerre e alla traversata del Mediterraneo, sono in questo momento oggetto più delle nostre paure che di nostra solidarietà. E la dialettica dell’integrazione ed espulsione dei gruppi sociali ai tempi della modernità è uno dei temi che più ha approfondito nelle sue opere. Con Bauman abbiamo parlato di quello che intorno alla questione profughi succede in questi giorni in Italia; tra una destra razzista e una sinistra che stenta ad affrontare le paure di una parte della popolazione.
Sembra che non siamo in grado di far fronte alla questione immigrati.
«Il volume e la velocità dell’attuale ondata migratoria è una novità e un fenomeno senza precedenti. Non c’è motivo di stupirsi che abbia trovato i politici e i cittadini impreparati: materialmente e spiritualmente. La vista migliaia di persone sradicate accampate alle stazioni provoca uno shock morale e una sensazione di allarme e angoscia, come sempre accade nelle situazioni in cui abbiamo l’impressione che “le cose sfuggono al nostro controllo”. Ma a guardare bene i modelli sociali e politici con cui si risponde abitualmente alle situazioni di “crisi”, nell’attuale “emergenza immigrati”, ci sono poche novità. Fin dall’inizio della modernità fuggiaschi dalla brutalità delle guerre e dei dispotismi, dalla vita senza speranza, hanno bussato alle nostre porte. Per la gente da qua della porta, queste persone sono sempre state “estranei”, “altri”».
Quindi ne abbiamo paura. Per quale motivo?
«Perché sembrano spaventosamente imprevedibili nei loro comportamenti, a differenza delle persone con cui abbiamo a che fare nella nostra quotidianità e da cui sappiamo cosa aspettarci. Gli stranieri potrebbero distruggere le cose che ci piacciono e mettere a repentaglio i nostri modi di vita. Degli stranieri sappiamo troppo poco per essere in grado di leggere i loro modi di comportarsi, di indovinare quali sono le loro intenzioni e cosa faranno domani. La nostra ignoranza su che cosa fare in una situazione che non controlliamo è il maggior motivo della nostra paura».
La paura porta a creare capri espiatori? E per questo che si parla degli immigrati come portatori di malattie? E le malattie sono metafore del nostro disagio sociale?
«In tempi di accentuata mancanza di certezze esistenziali, della crescente precarizzazione, in un mondo in preda alla deregulation, i nuovi immigrati sono percepiti come messaggeri di cattive notizie. Ci ricordano quanto avremmo preferito rimuovere: ci rendono presente quanto forze potenti, globali, distanti di cui abbiamo sentito parlare, ma che rimangono per noi ineffabili, quanto queste forze misteriose, siano in grado di determinare le nostre vite, senza curarsi e anzi e ignorando le nostre autonome scelte. Ora, i nuovi nomadi, gli immigrati, vittime collaterali di queste forze, per una sorta di logica perversa finiscono per essere percepiti invece come le avanguardie di un esercito ostile, truppe al servizio delle forze misteriose appunto, che sta piantando le tende in mezzo a noi. Gli immigrati ci ricordano in un modo irritante, quanto sia fragile il nostro benessere, guadagnato, ci sembra, con un duro lavoro. E per rispondere alla questione del capro espiatorio: è un’abitudine, un uso umano, troppo umano, accusare e punire il messaggero per il duro e odioso messaggio di cui è il portatore. Deviamo la nostra rabbia nei confronti delle elusive e distanti forze di globalizzazione verso soggetti, per così dire “vicari”, verso gli immigrati, appunto».
Sta parlando del meccanismo grazie a cui crescono i consensi delle forze politiche razziste e xenofobe?
«Ci sono partiti abituati a trarre il loro capitale di voti opponendosi alla “redistribuzione delle difficoltà” (o dei vantaggi), e cioè rifiutandosi di condividere il benessere dei loro elettori con la parte meno fortunata della nazionale, del paese, del continente (per esempio Lega Nord). Si tratta di una tendenza intravvista o meglio, preannunciata molto tempo fa nel film Napoletani a Milano , del 1953, di Eduardo De Filippo, e manifestata negli ultimi anni con il rifiuto di condividere il benessere dei lombardi con le parti meno fortunate del paese. Alla luce di questa tradizione era del tutto prevedibile l’appello di Matteo Salvini e di Roberto Maroni ai sindaci della Lega di seguire le indicazioni del loro partito e non accettare gli immigrati nelle loro città, come era prevedibile la richiesta di Luca Zaia di espellere i nuovi arrivati dalla regione Veneto».
Una volta, in Europa, era la sinistra a integrare gli immigrati, attraverso le organizzazioni sul territorio, sindacati, lavoro politico…
«Intanto non ci sono più quartieri degli operai, mancano le istituzioni e le forme di aggregazione dei lavoratori. Ma soprattutto, la sinistra, o l’erede ufficiale di quella che era la sinistra, nel suo programma, ammicca alla destra con una promessa: faremo quello che fate voi, ma meglio. Tutte queste reazioni sono lontane dalle cause vere della tragedia cui siamo testimoni. Sto parlando infatti di una retorica che non ci aiuta a evitare di inabissarci sempre più profondamente nelle torbide acque dell’indifferenza e della mancanza dell’umanità. Tutto questo è il contrario all’imperativo kantiano di non fare ad altro ciò che non vogliamo sia fatto a noi».
E allora che fare?
«Siamo chiamati a unire e non dividere. Qualunque sia il prezzo della solidarietà con le vittime collaterali e dirette della forze della globalizzazione che regnano secondo il principio Divide et Impera, qualunque sia il prezzo dei sacrifici che dovremo pagare nell’immediato, a lungo termine, la solidarietà rimane l’unica via possibile per dare una forma realistica alla speranza di arginare futuri disastri e di non peggiorare la catastrofe in corso».

lunedì 15 giugno 2015

Il coraggio di guardare la realtà


Mario Calabresi
La Stampa 15 giugno 2015
Viviamo in un’epoca di semplificazioni assolute, di esagerazioni dettate dalla pancia e di tragica mancanza di buon senso. Un’epoca in cui manca la memoria ma ancor più la razionalità, non si tiene più conto di numeri, proporzioni e contesti. Non si capisce che la complessità non si affronta e non si risolve con i proclami ma con un lavoro faticoso in cui l’egoismo dei singoli (siano essi Stati, Regioni o Comuni) rischia di essere letale.  
Lo scorso anno sono arrivati dal mare 170 mila migranti (nei primi cinque mesi e mezzo del 2015 sono 56 mila) e questo ha avuto il potere di destabilizzare un’Unione europea di ben 500 milioni di persone e di mettere in scena un vero e proprio psicodramma. Significa che gli arrivi sono pari a uno ogni 3000 abitanti, ma ogni nazione si è chiusa a riccio, interpretando a suo favore le regole e chiudendo a singhiozzo le frontiere. 
Negli ultimi tre anni in Turchia, nazione con 75 milioni di cittadini, i rifugiati arrivati dalla Siria e dall’Iraq sono stati oltre due milioni: uno ogni 35 abitanti. Duecentomila sono arrivati in pochi mesi solo dall’area di Kobane per sfuggire all’offensiva dell’Isis. I turchi per gestire una migrazione di queste proporzioni stanno spendendo 6 miliardi di dollari l’anno a cui - ci racconta oggi l’ambasciatore di Ankara in Italia - la comunità internazionale collabora con soli 400 milioni. Ma non è il solo esempio della nostra miopia: in Libano si sono rifugiati 2 milioni di siriani, una cifra immensa e spaventosa se si tiene conto che i libanesi sono solo 4 milioni. E’ come se da noi italiani si scaricassero 30 milioni di rifugiati…  
Tutto questo non diminuisce di certo il disagio, i problemi e i rischi che gli italiani devono affrontare e non ci rassicura, ma forse può aiutarci ad avere una visione più oggettiva di quello che sta accadendo. Tutto questo dovrebbe invece spingere tutti a mettere in atto politiche nuove che abbiano come obiettivo quello di cercare di gestire i flussi e, per quanto possibile, di rallentarli, agendo in Nord Africa, procedendo anche con le espulsioni, garantendo sicurezza e legalità.  
L’Europa ha cominciato a discutere un piano di rimpatri per coloro che non hanno i requisiti per restare come rifugiati ma latita nel definire quote di accoglienza. Se la prima è una strada che andrà necessariamente percorsa, non può però prescindere dalla realtà quotidiana degli sbarchi e della necessaria accoglienza.  
Ci preoccupiamo della sicurezza e delle questioni igienico-sanitarie? Bene, allora non abbandoniamo la gente in mezzo alla strada, sotto i ponti o nelle stazioni. È un discorso che vale per i Paesi della Ue come per le regioni: lo scarica-barile non migliora la situazione serve solo a fare propaganda politica. 
E quei barconi che arrivano ogni giorno non possono essere l’alibi per un racconto della realtà completamente emotivo e slegato dalla verità. Quando si parla di tassi di criminalità, di pirati della strada o di stazioni insicure si fa bene a pretendere più severità e un maggiore controllo del territorio, ma non raccontiamoci che prima vivevamo nel Paese delle fate. Lo dicono le statistiche ma anche la memoria. 
Le bande di stranieri che fanno le rapine nelle case sono un’emergenza? Vanno affrontate con più forze dell’ordine nelle nostre province, ma non fingiamo di non ricordare anni di malavita italiana o la drammatica stagione dei rapimenti. «Investono la gente ubriachi e drogati!». Guardate ai fatti di cronaca, ai pirati della strada, e nella maggioranza dei casi troverete rispettabili padri di famiglia italiani o i loro figli. Chi ha ucciso un quindicenne a Monza a marzo e poi è scappato non era un rom ma un quarantenne brianzolo con un’Audi. 
«Sono pericolosi ed efferati!». Olindo e Rosa non sono musulmani, Yara non pare sia stata uccisa da un albanese e la cronaca quotidiana è piena zeppa di delinquenti italiani. Le stazioni oggi ci fanno paura? Ce ne accorgiamo perché sono luoghi più belli e puliti di quanto non lo fossero 10 o 20 anni fa, con i negozi, i bar, i ristoranti e allora lo notiamo. A me la Stazione Centrale di Milano o Roma Termini facevano molta più paura vent’anni fa, piene di tossici e spacciatori.  
Questi sono i problemi della nostra epoca, migrazioni dovute a guerre, estremismo, miseria, fame e cambiamenti climatici. Non possiamo pensare di arrenderci o soccombere ma nemmeno di nascondere il problema o scaricarlo sul vicino, bisogna avere il coraggio di essere adulti, chiamare tutti alle responsabilità e chiamare le cose con il loro nome. Costruire percorsi virtuosi (di accoglienza, studio, rispetto delle regole per chi ha i requisiti) e insieme meccanismi di rimpatrio e di aiuto ai Paesi da cui partono, ma evitare di voltare la testa dall’altra parte regalando migliaia di disperati al lavoro nero e alla criminalità organizzata.