lunedì 30 settembre 2013

ottimismo tedesco


GOVERNO

Letta mercoledì al Senato e poi alla Camera
Poi lo chiama Merkel: «Auspico stabilità»

la politica italiana nel tunnel


Riccardo Imberti

dopo aver titolato, l'editoriale scorso, settimana terribile, pensando ai tanti nodi che il governo si trovava a dover affrontare, credevo,  che seppur con fatica, il governo delle larghe intese, riuscisse in qualche modo a passare la strettoia. 
Non è stato così.
Il condannato ha dato l'ordine e i sudditi lo hanno eseguito, senza se e senza ma. Ha preso la scusa dell'aumento dell'IVA, cosa di cui ne porta la respondabilità,  per coprire il vero problema: la sua decadenza da senatore e la ineleggibilità. Ormai lo sanno anche i sassi: il vero problema sono i processi in arrivo.
Il PD a questo punto si trova di fronte a un bivio e le strade possibili sono ambedue complicate e difficili. Scegliere di continuare l'esperienza delle larghe intese; oppure, chiedere il voto di fiducia in parlamento e accontentarsi di raccogliere qui e là, dissidenti di varia estrazione, per tirare a campare. Letta è deciso a chiedere la fiducia, ma non è disposto a vivacchiare: tradotto, significa che non è interessato alla seconda ipotesi. Come dargli torto. Con i problemi gravissimi che vive il nostro Paese, come è possibile immaginare che un governo con una maggioranza risicata possa farvi fronte?
Letta in queste ore, ha smesso i panni del mediatore e attaccato il condannato, ha affondato la lama nel corpo molle del PDL, richiamando tutti alle proprie responsabilità.  Non è mancato ovviamente, il parere del “leader maximo”, che non ha fatto altro che ripetere il ritornello di questi mesi: se ci sarà la crisi e non vi saranno alternative di governo, neppure per fare la riforma elettorale, si vada al voto e si sospenda la fase congressuale. Per Dalema si dovranno fare le primarie per la leadership e non per la segreteria del PD.
In effetti, c'è da dire, che in una situazione così drammatica, è difficile immaginare di celebrare un congresso. Difficile, ma non impossibile. Io resto del parere che non sia auspicabile che, in una situazione come la nostra, si congeli la classe dirigente che ha gestito il partito in questi quattro anni con i risultati che abbiamo sotto gli occhi e procedere con la scelta del premier, rischiando di ripetere ciò che è avvenuto con il governo Prodi. Mi pare una scelta altamente rischiosa.
Che fare allora?
Alle 16 di mercoledì, il Presidente Letta interverrà al senato e chiederà la fiducia. Se non la ricevesse, tutto tornerà nelle mani di Napolitano e a quel punto ne sapremo di più, riguardo i tempi della soluzione della crisi, o dello scioglimento delle camere e delle elezioni anticipate.
Certamente mi auguro che il PD non ricerchi soluzioni pasticciate, elemosinando voti in parlamento, facendo appello alle frange di dissidenti, salvo, se possibile, per fare la riforma elettorale condivisa. Una riforma indispensabile, per evitare che la Corte Costituzionale sentenzi la incostituzionalità del porcellum, e al tempo stesso una riforma, che restituisca il potere ai cittadini nella scelta dei parlamentari e consenta la governabilità.
Spero di sbagliarmi, ma se, come penso, i parlamentari e i ministri del PDL non torneranno sui loro passi, non vedo altre strade se non un ritorno alle urne.
Il PD è oggi più di ieri, chiamato a guidare questa fase di estrema difficoltà e delicatezza e per queste ragioni, è auspicabile che proceda speditamente alla elezione di una nuova classe dirigente, che gli consenta affrontare la situazione data, libera da orpelli e liturgie del passato. Un partito che in questi mesi, non solo non ha ritenuto opportuno prendere provvedimenti contro i 101 franchi tiratori che hanno impallinato Prodi, ma che ha cercato in tutti i modi, senza riuscirci, di cambiare le regole per impedire il rinnovamento, come può essere in grado di far fronte a una fase come questa?
Queste sono le domande che mi pongo in queste ore difficili. La politica è l'arte del possibile e non è scontato nulla,  anche l'ennesimo ripensamento del condannato e dei suoi sudditi.
Di una cosa però sono convinto. Questo Paese non è in grado di sopportare oltre misura, una situazione di così grave difficoltà e ciò che può capitarci, se restiamo fermi, è di consegnare il Paese ad un populismo che rischierebbe di stravolgere il sistema. Questo non possiamo permetterlo.

SARAJEVO VENT'ANNI DOPO: STORIA DI UNA FOTO



30 settembre 1993, la ragazza che corre, foto di Mario Boccia. A Sarajevo sotto assedio da 17 mesi, un giorno qualsiasi sotto i bombardamenti e il tiro dei cecchini.

La fine del governo della follia

Crisi

L'esecutivo delle larghe intese si fondava sull'illusione che Berlusconi potesse diventare un politico moderato e responsabile. Finito quel sogno, Letta è costretto ad abbandonare i panni del pacificatore per attaccare il Caimano e portare il Pdl alla spaccatura. Con l'obiettivo di una nuova legge elettorale

di Marco Damilano
L'Espresso 30 settembre 2013 

"I mesi che abbiamo alle spalle segnano le nostre mosse di oggi. Abbiamo visto che con Berlusconi non si possono fare accordi, ha fatto tutta la campagna elettorale come se lui fosse sempre stato all'opposizione, assegnandoci la croce di aver votato i provvedimenti più impopolari del governo..." Era la mattina del 27 febbraio, a meno di quarantotto ore dal voto il Pd era ancora sotto shock per la mancata vittoria e l'allora vice-segretario del partito mi consegnò queste riflessioni da pubblicare sul numero dell'Espresso post-elettorale in chiusura. Si chiamava Enrico Letta.
Dopo sette mesi oggi siamo tornati al punto di partenza. Il Letta governante lascia il posto all'Enrico uomo di partito che aveva capito tutto. Ha provato a baciare il Giaguaro, a trascinare l'Italia "bellezza senza navigatore", come aveva detto il premier nel suo discorso di fiducia alla Camera citando Ligabue, in compagnia dell'Alleato di Arcore. E si è ritrovato con il bel regalo che il Cavaliere ha fatto a se stesso e al Paese per i suoi 77 anni (auguri...): una crisi di governo dalle conseguenze incalcolabili.

Eppure non si può dire che sia un gesto a sorpresa. Ieri Letta ha picchiato duro sul Berlusconi "folle", " bugiardo", "irresponsabile", un ritrattino veritiero che fotografa alla perfezione l'essenza del berlusconismo. La sciagura e' che l'ex partner di governo e' sempre stato così, dal suo ingresso in politica, anzi, fin dagli anni della sua ascesa imprenditoriale e televisiva. Folle, semmai, e' aver sperato in un suo mutamento di pelle, da avventuriero a statista. E fondato su una doppia illusione mendace il governo delle larghe intese. Per Berlusconi l'illusione del salvacondotto, dell'impunita' giudiziaria, sventata dalla magistratura che in Italia e' ordine indipendente dalle sottigliezze e dalle convenienze del gioco politico. Per una parte del Pd e per il regista dell'operazione, Giorgio Napolitano, l'illusione che con il Cavaliere si potesse stringere un patto, che la sua ammissione nel circolo del governo lo avrebbe tranquillizzato e placato.

Dopo la tragedia dei 101 di Prodi e il suicidio del Pd si potevano fare due cose. O un governo di scopo, sei mesi per fare una riforma elettorale e via. Oppure una grande coalizione alla tedesca, con un vero accordo di legislatura. Invece si è preferito andare a vista, i 18 mesi per le riforme, i saggi, il traino della crescita, la stabilità trasformata in un valore assoluto... Il fragile ponticello delle politiche, come aveva detto Letta, il sentiero delle cose da fare, il dio delle piccole cose, il pragmatismo contrapposto alla politica, quasi demonizzata come la sfera dell'ideologia, della contrapposizione fine a se stessa.

Ieri il premier, con uno scatto da leader che non ci sta a vedere lo spettacolo osceno di ministri che scattano sugli attenti a un sopracciò del loro Capo e si dimettono, si è ricordato che forse si governa con le politiche ma si diventa leader sul campo con la Politica, con un guizzo, un lampo, un cambio di gioco, un gesto di coraggio. Nel momento decisivo Letta ha abbandonato i panni dello zio Gianni e ha indossato di nuovo quelli del suo maestro Beniamino Andreatta e di Romano Prodi. Quando entrerà in aula per parlare di fronte ai parlamentari avrà alle spalle la lezione del ministro del Tesoro che, unico nella storia repubblicana, da cattolico sfidò il Vaticano sui soldi dello Ior. E quella del Professore di Bologna che per due volte è stato sfiduciato dai voltagabbana a pagamento ma è caduto in piedi, da hombre vertical.

Da uomo delle larghe intese Letta dovrà trasformarsi in samurai anti-berlusconiano, clamorosa metamorfosi. Nella speranza che il Pdl si spacchi e che arrivi qualche senatore in soccorso. Magra prospettiva. "Moderati dove siete?", invoca oggi Pierluigi Battista sulla prima pagina del "Corriere". Domanda interessante, ma di certo non sono nel Pdl.

I parlamentari eletti a febbraio sono quelli sopravvissuti alla scissione di Fini, alla tentazione di Monti, quelli che hanno votato per Ruby nipotina di Mubarak e che non hanno mai battuto ciglio quando si devastava lo Stato di diritto e la Costituzione. Una settimana fa erano tutti li ad applaudire la rinascita di Forza Italia, decisa da un giorno all'altro. Che aiuto può arrivare da li a un eventuale governo Letta bis? L'appoggio di qualche opportunista, di qualche trasformista. O di chi magari non ne può più, tipo Fabrizio Cicchitto, che ora scopre che le decisioni di Berlusconi vengono prese ad Arcore, senza consultare l'ufficio di presidenza, capite?, e dove pensava che si prendessero, a Villa Wanda?

Il rischio è che il governo delle larghe intese diventi il governo dello Stretto, inteso come ministero alla siciliana. Nell'isola già da anni i partiti nazionali non esistono più, ci sono due o tre Pdl, due o tre Pd, non si sa più quanti centri e centrini, interscambiabili, in maggioranza e fuori a seconda dei momenti, con giunte regionali che durano pochi mesi. Non a caso i senatori del Pdl disposti a reggere il Letta-bis arrivano da quelle parti, dall'alfaniano (ex) Castiglione al mitologico Mimmo Scilipoti. Fare un governo Letta- Castiglione-Scilipoti con l'aggiunta di qualche grillino sarebbe un regalo al Caimano. Oggi è disperato, domani potrebbe risorgere con una campagna tutta contro "il governo dei trasformisti, delle manette e delle tasse". Con il Cavaliere ai servizi sociali a fare la vittima, la cosa che gli riesce meglio.

Questa legislatura e' partita con un tradimento che ha ucciso il Pd, quello dei 101, ora dovrebbe proseguire con un altro tradimento, quello di Berlusconi. Letta il guerriero e' abbastanza astuto per schivare la trappola. Chi scrive #lettacontinua deve sapere che non si prosegue con l'armata Brancaleone. L'unica strada è fare subito una riforma elettorale, con chi ci sta, e tornare a votare dopo aver approvato la legge di stabilità. Non facile perché non si può fare una legge qualsiasi.

La crisi di governo si avvita insomma in una ben più grave crisi di Sistema. E tocca ancora una volta al presidente Napolitano rendere l'ultimo servizio alla Repubblica, in coerenza con quanto aveva detto nel messaggio di insediamento- bis il 22 aprile. "se i partiti resteranno sordi non esiterò a trarne le conseguenze davanti al Paese". Ora quel momento e' arrivato.

Netanyahu contro il disgelo Usa-Iran “Smantellare il nucleare o attacchiamo”

Esteri
 
Il premier israeliano pronto ad abbandonare la via diplomatica:
«Teheran vuole solo guadagnare tempo». Martedì sarà all’Onu
 
Il premier israeliano continua ad opporsi ai segnali di disgelo tra Iran e Stati Uniti. Benjamin Netanyahu, domani a New York, avvertirà Barack Obama che ad Israele non basta che il programma nucleare sia posto sotto tutela internazionale: dovrà essere completamente smantellato. 

In caso contrario, Israele abbandonerà la strada diplomatica. Ossia, procederà ad un attacco unilaterale. È quanto ha anticipato la rete tv israeliana “Channel One”, citando fonti vicine a Netanyahu, che nei giorni scorsi ha ripetutamente esortato gli Usa, in primis, e la comunità internazionale a non fidarsi del neo-presidente Hassan Rohani. Per Netanyahu le aperture di iraniane sono solo una tattica dilatoria per guadagnare tempo per dotarsi dell’atomica.  

Il premier israeliano, che domani incontrerà alla Casa Bianca il presidente Usa Barack Obama e martedì interverrà a New York all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ha diffuso una nota nella quale ribadisce il suo scetticismo sulla nuova linea morbida iraniana e afferma: «Rappresenterò i cittadini di Israele, i nostri interessi nazionali e la nostra determinazione nel difendere noi stessi e la nostra speranza di pace».

buone notizie

“Voglio parlare”, ha detto Grillo, “a quei venti milioni di persone che votano ancora per il Pd o il Pdl. Se continuate così il Movimento scomparirà. Se non votate per noi io me ne vado”. Ecco finalmente una buona notizia.

Philippe Ridet corrispondente da Roma di Le Monde

Berlusconi realizza il sogno di Beppe Grillo


Opinioni

Philippe Ridet

corrispondente da Roma di Le Monde 
da Internazionale 30 settembre 2013
 
Servito su un piatto d’argento. Beppe Grillo, che non ha mai saputo che fare del suo successo alle elezioni di febbraio, accoglie la crisi politica in corso e l’ipotesi di nuove elezioni con evidente piacere. Mentre i suoi parlamentari sembravano aver definitivamente perso lo strumento con il quale promettevano di aprire il parlamento “come una scatola di tonno”, consumando le loro energie in dispute interne e in processi interni, il leader del M5s ha subito seguito Berlusconi verso la strada del ritorno alle urne.
I sondaggi non sono molto cambiati rispetto a questo inverno. Il Movimento 5 stelle, nonostante i suoi errori e l’evidente incompetenza di alcuni dei suoi elettori, raccoglie circa il 20 per cento delle intenzioni di voto. Poco meno del Partito democratico (Pd) e del Popolo della libertà (Pdl), accreditati entrambi al 27 per cento. Il paesaggio politico continua a essere diviso in tre partiti inconciliabili.
Il 28 settembre, scatenando il caos per sfuggire ai suoi problemi giudiziari (e non di certo per protestare contro un aumento dell’Iva), Silvio Berlusconi, il forsennato di Arcore, ha realizzato il sogno di Grillo: la crisi permanente, l’happening politico 24 ore su 24, la grande fiera del populismo.
In questo paesaggio politico stravolto, mobile e isterico, dove tutti rivaleggiano in mediocrità, questa situazione è tutta a suo favore. Non c’è più bisogno di dimostrare i benefici dei cambiamenti e delle riforme sostenuti dal suo movimento. Tutto viene cancellato, come su una lavagna magica. Si ricomincia da zero.
In un paese senza punti di riferimento, senza memoria, in balìa di tutte le avventure, eccolo pronto a riscendere in campo per promettere l’uscita dall’euro (“basterà un clic su internet”) e “l’abolizione” del debito italiano (più di duemila miliardi di euro, il 130 per cento del pil). E questo può funzionare.
“Vogliamo le elezioni”, ha detto Grillo domenica 29 settembre, nel giorno del compleanno di Berlusconi. Un bel regalo, non c’è che dire. Contrario finora al sistema elettorale esistente, il famoso Porcellum che ha portato alla catastrofe che tutti abbiamo sotto gli occhi, adesso sembra non avere più così fretta di volerlo cambiare.
“Andiamo a votare e faremo le riforme quando saremo al potere”, continua il comico genovese. Il porcellum infatti è perfetto per Grillo, che tiene insieme il suo partito con il carisma personale. E gli permette di scegliere i suoi parlamentari, nascosto dietro la presunta trasparenza di internet.
“Voglio parlare”, ha detto Grillo, “a quei venti milioni di persone che votano ancora per il Pd o il Pdl. Se continuate così il Movimento scomparirà. Se non votate per noi io me ne vado”. Ecco finalmente una buona notizia.

utopia

Giorgio Tonini
Esattamente 50 anni fa, come ci ricorda la riproduzione della prima pagina di allora sulla "Stampa" di oggi, concludendo i lavori del convegno di studi del partito a San Pellegrino, il segretario politico, Aldo Moro, diceva che l'intento della Dc era quello di contribuire, attraverso il confronto democratico, a "trasformare larghe forze popolari di protesta in forze responsabili di uno Stato profondamente rinnovato". Parole di un'attualità impressionante, che testimoniano da quanto tempo quella italiana sia una "democrazia difficile".

Il mondo di ieri

Marco Damilano

«Sono venuti a prendermi quasi alla fine del mondo», si presentò il 13 marzo il papa argentino e fu un manifesto programmatico, come quello contenuto nella sua intervista a “Civiltà cattolica”: «Essere profeti a volte può significare fare ruido, non so come dire… La profezia fa rumore, chiasso, qualcuno dice “casino”…». Quella voce in piazza San Pietro sembrò consegnare le cose vecchie al passato e aprire terre e cieli nuovi. La fine di un mondo e l’inizio di un mondo nuovo. Per la politica italiana, invece, è sempre “il mondo di ieri”, come il classico di Stefan Zweig sull’Austria alla vigilia della prima guerra mondiale. Nel mondo di ieri ci sono le larghe intese che si restringono all’improvviso, i voti di fiducia con i transfughi di uno o dell’altro partito da cercare, i comunicati criptici, i minuetti, la faccia feroce in favore di telecamera e le trattative sotto il pelo dell’acqua. Nel mondo di ieri c’è il signore di Arcore che vorremmo nominare sempre di meno e una sinistra sfasciata e incapace di dirsi finalmente la verità sulle cose e se stessa che vorremmo non vedere più. Anche l’ultimo arrivato, l’ex comico che si è fatto rivoluzionario, si è rapidamente adeguato e non vuole più cambiare neppure la legge elettorale. Il mondo di ieri nella settimana che si apre è al colpo di coda finale e perciò più pericoloso, con la dissoluzione del sistema politico o, più modestamente, del partito berlusconiano. «Ogni ombra in fondo è anche figlia della luce e solo chi ha potuto sperimentare tenebra e chiarita, guerra e pace, ascesa e decadenza, può dire di avere veramente vissuto», scriveva Zweig. Per questo da oggi questa conversazione quotidiana si chiamerà Finemondo.

domenica 29 settembre 2013

previsioni del tempo

Domani Enrico Letta sarà ospite di Fabio Fazio alla riapertura di Che tempo che fa.

sabato 28 settembre 2013

O la smettono o finisce qui

Stefano Menichini 

Europa  

Letta sfida il Pdl a una rottura vera. Ma se andare avanti o no a questo punto non lo deciderà Berlusconi, bensì il presidente del consiglio e il suo partito.
I toni verso Napolitano si fanno insolenti, è caduta la maschera di rispetto che la destra mette e toglie quando ha a che fare col capo dello stato. Ora torna a essere il vecchio comunista doppiogiochista venuto meno alla parola data. Già, perché nella loro concezione dei rapporti fra poteri dello stato, i berlusconiani coltivavano davvero l’idea che un governo di larghe intese nato sotto l’egida del Quirinale fosse l’equivalente di un’immunità rispetto alle leggi e alle sentenze.
Insomma, hanno proiettato su Napolitano, su Letta, sul Pd e sul parlamento la selvatica ideologia di un potere illimitato.
Solo questo spiega la rabbia di questi giorni.
E spiega la divaricazione – insanabile, dovessimo dirlo stasera – con il presidente della repubblica e con il presidente del consiglio.
Il chiarimento che si svolgerà in parlamento non potrà infatti vertere solo sugli impegni di governo, per quanto essi siano oggettivamente molto importanti.
Né sarà sufficiente verificare la disponibilità (del Pdl, ma a questo punto anche del Pd) a sforzarsi di lavorare insieme per tutto il 2014: un patto sulla durata è da tempo la richiesta di Letta ai partiti, una sua formalizzazione sarà fra le condizioni poste dal premier.
Ma ci vorrà molto di più di questo. Ecco perché l’impresa di tenere in piedi governo, maggioranza e legislatura sembra in questo momento disperata.
Berlusconi e i suoi dovrebbero rimangiarsi le assurdità pronunciate in questi giorni sui magistrati, sugli avversari politici temporaneamente alleati, sul presidente della repubblica, sullo stato di diritto e sulla democrazia italiana.
I ministri Pdl dicono che nel chiarimento vogliono «impegni sulla giustizia». Bene, perfetto. Infatti dovrebbero impegnarsi ad accettare l’applicazione delle sentenze, e ad affrontare qualsiasi inchiesta giudiziaria con lo stesso atteggiamento che Berlusconi dichiarò a luglio (quando pensava che Napolitano l’avrebbe, chissà come, fatto assolvere in Cassazione): mi difenderò tenendo separati i miei processi dai destini del governo.
Letta ha convocato i partiti in parlamento, martedì. Sfiderà il Pdl a rompere davvero, non coi patetici foglietti di dimissioni in mano a Schifani. Se da quei banchi non si ascolteranno parole solenni di resa alle regole di una vera democrazia, il cammino delle larghe intese sarà finito. E non lo deciderà Berlusconi. Lo decideranno Enrico Letta e il suo partito.

quarant'anni fa

...Quanto ti sarà costato abituarti a me,
alla mia anima sola e selvaggia, al mio nome che tutti allontanano.
Abbiamo visto ardere tante volte l'astro baciandoci gli occhi
e sulle nostre teste ergersi i crepuscoli in ventagli giranti....

venerdì 27 settembre 2013

Cooperazione in Italia, “esperti” inviati nei Paesi poveri. E pagati a peso d’oro

Mentre la cooperazione è al collasso, stormi di professionisti privati vengono mandati in missione all'estero con indennità da diplomatici, pagate coi fondi pubblici destinati ai programmi di svilupppo. Missione dopo missione c'è chi ne ha fatto un mestiere. E chi ne ha approfittato al punto da ritrovarsi in Procura
 
di Thomas Mackinson |  
 
Il Fatto Quotidiano 23 settembre 2013
 
C’è chi scappa dalla Cina per cercar fortuna e chi ha la fortuna di andarci, lavorare 44 giorni e tornare in Italia con 70-80mila euro sul conto. Pagati dallo Stato, con le risorse destinate all’aiuto per i poveri. In Parlamento si stracciavano le vesti per il taglio ai fondi della cooperazione allo sviluppo – per poi approvarli con la benda sugli occhi – e dalla Farnesina partivano “esperti” in missione all’estero con costi di cinquecento, anche mille euro al giorno. Un settore a cui lo Stato destina poche risorse: negli ultimi anni è stato tagliato l’80 percento dei contributi diretti e sono stati chiusi molti uffici, anche con finanziamenti già erogati e progetti ancora in corso. Le Regioni aspettano per anni di vedersi restituire milioni di euro anticipati come crediti d’aiuto, le Ong a corto di fondi richiamano i volontari, gli uffici tecnici per la cooperazione all’estero chiudono. Ma da Roma vanno e vengono come nulla fosse stormi di consulenti privati pagati a peso d’oro. Saranno bravissimi, sicuro i migliori su piazza. Ma c’è da rimanere a bocca aperta per gli importi, ancorché lordi e comprensivi di costi assicurativi.
Scorrendo il “quadro missioni” della Direzione Generale per la cooperazione allo sviluppo (Dgcs) c’è il professore di economia da inviare per quattro mesi in Ghana, dove il 28% della popolazione vive sotto la soglia di povertà internazionale di 1,25 dollari, a 70mila euro per svolgere non meglio precisate attività di “supporto privato”. A un capo progetto che va un anno in Senegal, reddito pro capite non supera i due dollari al giorno, vengono riconosciuti 180mila euro, un appartamento. Un forestale, e dalla Sicilia in su tanti ce ne sono, in Mozambico prende 11-12mila euro al mese. Stando così le cose tanti italiani partirebbero volentieri in missione. Solo che “esperti” non si diventa, non c’è concorso. Esperti ti ci fanno. Ad attribuire gli incarichi sono digli uffici della Dgcs, la direzione che coordina, gestisce e realizza tutte le attività internazionali dello Stato italiano dirette al sostegno dei paesi in via di sviluppo: ospedali, scuole, strade, interventi umanitari d’emergenza tutti finanziati con fondi italiani.
La figura degli “esperti” nasce con la legge n. 49/1987, quella che a parole tutti i governi vorrebbero riformare (compreso quello attuale) e poi mollano il colpo. Esordisce come “legge speciale”, tale cioè da derogare le applicazioni giuridico-finanziarie imposte dalla contabilità generale dello Stato, le norme su assegnazione di incarichi, trasparenza e la tracciabilità dei flussi finanziari. Da qui sembra discendere anche la discrezionalità di selezionare chi inviare in missione come “personale di supporto e assistenza tecnica”.
Gli esperti sono di due tipi, quelli assunti presso le Unità tecniche centrali e quelli esterni. I primi sono stati inizialmente inseriti a termine, con contratti individuali di diritto privato e retribuzioni lorde fino ai 73mila euro che possono arrotondare con le missioni all’estero. La loro carriera da professionisti privati è finita nel marzo 2012 atterrando sul velluto della previdenza pubblica: i contratti sono stati trasformati a tempo indeterminato, nonostante l’età media di 63 anni. Fino al 2011 gli esperti Utc non erano pensionabili e non era raro incontrare ultraottantenni che ancora operavano negli uffici della Farnesina. Visto anche il rischio di cause, s’è deciso poi che erano come dipendenti a tutti gli effetti e ne è stato regolamentato anche il pensionamento, lasciandogli però la possibilità di rientrare come consulenti per compiere nuove missioni con limite di 75 anni. Per gli esperti privati il trattamento economico di base è modesto ma schizza alle stelle con l’indennità di servizio all’estero (esentasse) calcolata secondo il “coefficiente di disagio” della destinazione applicato ai diplomatici.
Qualcuno è riuscito a farne un vero e proprio mestiere e anno dopo anno, a furia di missioni brevi e lunghe, ha girato il mondo e messo via un bel gruzzoletto. Sapere chi fa parte del “club degli esperti” non è facile. Nell’area “trasparenza” del sito della Dgcs c’è una sezione incarichi ma è ferma da due anni e non riporta curriculum e motivo dell’incarico. Per arginare la discrezionalità delle assegnazioni e aprire il più possibile la partecipazione alle selezioni tre anni fa la DGcs ha messo alcuni paletti inderogabili e valorizzato l’esperienza sul campo. Anche perché, nel frattempo, non tutti gli esperti si sono rivelati necessariamente onesti: proprio nel 2010, ma la vicenda è emersa solo l’anno scorso, si è scoperto che 29 di loro dichiaravano residenze fittizie in Italia per intascare indennità da 150-390 euro al giorno cui non avevano diritto perché regolarmente residenti nei paesi di destinazione.
Si andava da compensi tra i 10mila e gli oltre 300mila euro, frutto di varie missioni cumulate. Sono stati denunciati alla Procura di Roma, tra loro c’erano anche stimati professori universitari. Non si capisce se la qualifica di esperto deroghi la legge sull’affidamento di incarichi esterni che dal 2007 obbliga le amministrazioni a verificare preventivamente l’esistenza di analoghe professionalità interne per non creare inutili doppioni a carico dei contribuenti. Possibile che non se ne riescano proprio a trovare in un ministero da 7mila dipendenti o in altri che pullulano di chirurghi, agronomi, forestali e quant’altro? Si dirà che questa storia non è poi una novità per l’Italia, visto che anche nel 2012 siamo riusciti a spendere 1,3 miliardi affidando 300mila incarichi. Ma ancora non si era arrivati a perlustrare il fondo della Repubblica delle consulenze: far soccorre chi campa con un dollaro da consulenti privati che paga anche mille volte di più. Col paradosso che un giorno di missione in meno riempie la pancia a migliaia di disperati. Ma uno sciopero degli esperti, chissà perché, ancora non s’è sentito.

riforma

Pdl

Finalmente qualcuno ha trovato il modo giusto per ridurre il numero dei parlamentari.
27092013

protesta a Brasilia


per la liberazione dell’attivista di Greenpeace Ana Paula Maciel, arrestata in Russia.

Pd, usciamo dalla tenaglia e parliamo di giustizia

Alfredo Bazoli 

 
 
Renzi ha fatto bene a evocare il tema del civile. Ma pure l'obbligatorietà dell'azione penale e la terzietà del giudice...
Nel corso del suo intervento all’assemblea lo scorso sabato Renzi ha evocato, sia pure solo con un accenno, il cruciale tema della giustizia, richiamando l’esigenza di una profonda riforma del settore civile.
E ha fatto bene, perché non vi è dubbio che tentare di mettere mano alle palesi inefficienze organizzative e funzionali della giustizia civile costituisce una condizione essenziale non solo per tutelare efficacemente i diritti dei cittadini, ma anche per recuperare competitività al tessuto economico del paese, che oggi sconta un forte handicap per l’intollerabile durata dei procedimenti a tutela di crediti e obbligazioni.
Credo però che sarebbe un errore concentrarsi solo sulla giustizia civile, e si debba invece raccogliere la sfida lanciata dal presidente della repubblica, affrontando coraggiosamente e con spirito libero tutti i nodi e le questioni che riguardano il funzionamento complessivo del nostro sistema, nessun settore escluso. Ben sapendo che parlare di giustizia oggi è molto difficile.
Stante la destabilizzazione rappresentata da vent’anni di conflitto aperto tra il leader del centrodestra e la magistratura. E tuttavia con la consapevolezza che un partito riformista come il nostro non può rinunciare ad una libera discussione su questi argomenti, uscendo dalla tenaglia giustizialismo-berlusconismo nella quale si è impantanata la politica italiana.
Io credo allora sia doveroso domandarsi se il sistema giudiziario disegnato dalle norme vigenti sia davvero equilibrato, anche con riguardo a talune questioni che troppo spesso, soprattutto nel centrosinistra, sono state eluse o accantonate per non urtare la suscettibilità di una parte dell’opinione pubblica. Vogliamo allora cominciare a riconoscere che quello della obbligatorietà dell’azione penale costituisce un principio nei fatti inapplicabile per la mole di notizie di reato che nessun sistema, per quanto correttamente dimensionato, potrebbe mai smaltire?
E ammettere che quel principio, allo stato, è sostanzialmente stato sostituito da una ampia e incontrollabile discrezionalità delle procure nella scelta dei reati da perseguire, con l’attribuzione agli uffici giudiziari di un ruolo improprio e non sufficientemente disciplinato, che comporta l’obiettivo sacrificio della certezza del diritto?
Allo stesso modo, a me pare che non possano derubricarsi a mere rivendicazioni di categoria i rilievi critici che da tempo l’avvocatura italiana formula con riferimento alla effettiva terzietà e indipendenza  del giudice che, nel sistema accusatorio disegnato dal codice, deve decidere sulle richieste della pubblica accusa, dopo un contraddittorio con difese che dovrebbero trovarsi, ma non sempre sono, su un piano di assoluta parità con i pubblici ministeri.
La questione della terzietà del giudice interessa poi in modo non irrilevante anche il settore della giustizia amministrativa, attesa la evidente ed inaccettabile osmosi tra uffici giudiziari e gabinetti  ministeriali dei membri del Consiglio di stato, ovvero dei giudici di ultima istanza sulle controversie tra pubblica amministrazione e privati, che reca evidente pregiudizio alle garanzie di indipendenza dei magistrati dalla politica.
Non si può ignorare infine il tema della disciplina inerente la responsabilità civile dei giudici, da affrontare in modo serio anche alla luce dei rilievi formulati dalla Commissione europea, che ha aperto una procedura di infrazione a carico dello stato italiano proprio per la inadeguatezza dell’attuale normativa, considerata incompatibile con il diritto comunitario in quanto troppo debole.
Sono temi ovviamente delicatissimi, perché hanno a che fare non solo con le sacrosante esigenze di tutela della legalità e di salvaguardia dell’autonomia della magistratura, ma anche con quella altrettanto importante di garanzia delle libertà personali ed individuali rispetto al potere costituito e rappresentato nell’ordinamento giudiziario, esigenze che devono trovare la loro composizione in un equilibrio non sempre rinvenibile nel sistema attuale.
Confido dunque che il crepuscolo di Berlusconi avvii anche il tramonto dell’avvelenamento della discussione su tutte queste questioni, rendendo possibile dentro il Partito democratico, ed in particolar modo in quello che mi auguro uscirà dal prossimo congresso, un confronto libero da pregiudizi e posizioni precostituite.

la lega buona

Aung San Suu Kyi per il 25° anniversario della fondazione della Lega nazionale per la democrazia, a Rangoon

roma ladrona....muta

Moretti in silenzio davanti al gip

L'ex consigliere regionale si è avvalso della facoltà di non rispondere

Si è avvalso della facoltà di non rispondere l'ex consigliere regionale della Lega Nord, Enio Moretti, davanti al gip Cesare Bonamartini in sede di interrogatorio di garanzia. Ai domiciliari da martedì, l'ex presidente di Chiari Servizi è accusato di associazione a delinquere finalizzata alla frode fiscale, distruzione di scritture contabili e caporalato.
corriere della sera ed. brescia

Basta, non si gioca più

Stefano Menichini

 

Napolitano e Letta mettono Berlusconi e un Pdl nevrastenico di fronte alla scelta. O separano i processi dal governo, oppure ognuno per sé. E a sinistra ci sarà sollievo
Adesso basta, non si gioca più. Finite le sedute di autocoscienza a palazzo Grazioli. Finiti gli ultimatum seguiti dal nulla. Finito il lancio di guano fra falchi e colombe. Finite le intimazioni di Brunetta dall’alto di non si sa quale podio. Finite le stupidaggini di Schifani su colpi di stato e attentati alla democrazia.
E finita soprattutto, visto che è questa la scintilla della crisi, la pagliacciata delle false dimissioni di massa, una firmetta apposta su un foglio senza valore da parlamentari sicuri che nessun capogruppo potrà mai schiodarli dal loro scranno.
Giorgio Napolitano ed Enrico Letta mettono Berlusconi e il suo nevrastenico partito di fronte alla realtà: se vogliono continuare a partecipare al governo del paese devono rassegnarsi ad accettare le sentenze e le conseguenze delle sentenze, separando – come perfino lo stesso Berlusconi s’era impegnato a fare appena due mesi fa – la vicenda processuale dai destini del governo e dell’Italia.
Se il Pdl è in grado di compiere questo salto senza nascondersi agli occhi dei propri elettori dietro una cortina di frasi roboanti, bene. Detto stasera sembra impensabile che accada, ma la paura può generare imprevedibili atti di coraggio.
Altrimenti ognuno per la sua strada, a cominciare da Letta che sta semplicemente, con coerenza e dignità, dando seguito a ciò che aveva annunciato: non rimarrà attaccato alla poltrona a ogni costo.
Se il «chiarimento» dovesse avere questo esito (nell’ora in cui scriviamo il più probabile), state certi che da sinistra si leverebbe un sospiro di sollievo tanto forte da spostare le montagne.
La fine del tentativo di Letta dopo appena cinque mesi potrà essere deleterio per l’Italia e per la percezione che se ne ha all’estero: i segnali da questo punto di vista sono inequivocabili, fra rialzo dello spread e crolli in Borsa.
L’agenda delle cose da fare resterà con tanti spazi vuoti, assai superiori ai risultati conseguiti.
Ma nulla potrebbe essere più dannoso, e offensivo per il paese, che consentire il dispiegarsi sfrenato degli effetti della disperazione berlusconiana: se Alfano e i suoi non sanno fare di meglio che eccitarsi in raduni autoconsolatori, ne pagheranno le conseguenze.
Forse in elezioni ravvicinate, oppure nel corso di un processo politico-istituzionale più tormentato, tutto da inventare. Ma almeno nella chiarezza. Cioè, senza che ci si debba più mischiare fra pazzi e savi.

giovedì 26 settembre 2013

EXA E DINTORNI


Riflessioni di Anselmo Palini
da Città e Dintorni

A Exa 2013, “Mostra internazionale di armi sportive, security e outdoor”, che si è svolta presso la Fiera di Brescia nel mese di aprile, è stata presente con un proprio stand anche una scuola, precisamente l’Istituto di Istruzione Superiore “C. Beretta” di Gardone V.T.. Tale presenza offre lo spunto per alcune riflessioni riferite in specifico all’opportunità che una scuola partecipi ad una mostra di armi e più in generale al fatto che in tale fiera siano esposte non solo armi sportive e da caccia, ma anche armi leggere, ossia materiale bellico.

Armi, non pentole
Diverse aziende hanno esposto ad Exa 2013 armi leggere. Per stare alla “Beretta Holding spa” - una multinazionale che nel bilancio 2012 ha dichiarato di avere 2600 dipendenti per un fatturato netto di 566 milioni di euro - il comparto ordine pubblico e difesa incideva sul giro d’affari totale del bilancio 2012 per il 16%.
Produrre armi non è come produrre pentole: le armi sono costruite perché sparino, cioè per essere usate contro qualcuno. Le pentole normalmente non sono fatte per essere rotte in testa a qualcuno. Il problema che qui si vuole porre non riguarda il settore delle armi sportive, da caccia, da tiro o quello delle repliche di armi antiche, ma esclusivamente il settore delle armi leggere: pistole, fucili mitragliatori, mitragliatrici, cioè il settore della produzione bellica. Perché ad Exa anche tali armi continuano ad essere esposte? Non è forse giunto il momento di rendere Exa una mostra basata esclusivamente sul settore sportivo, da caccia e sulle repliche di armi antiche?
Scriveva Mazzolari nel 1955:

Le armi si fabbricano per spararle (a un certo momento, diceva Napoleone, i fucili sparano da sé). L’arte della guerra si insegna per uccidere. Se vuoi la pace, prepara la pace: se vuoi la guerra, prepara la guerra. È dunque tutto fatalmente logico” (da “Tu non uccidere”, prima edizione 1955, p. 99).

Certo, qualcuno la pensa diversamente, come il ministro della difesa Mario Mauro il quale, nel mese di luglio 2013, in occasione del dibattito sugli F35 ha detto testualmente: “Per amare la pace bisogna armare la pace”. Sarebbe interessante capire come Mario Mauro, che si è sempre fatto paladino della dottrina sociale della Chiesa, riesca a coniugare con tale dottrina la sua posizione di Ministro della Difesa e il suo sostegno all’acquisto di F35.
Sulla stessa linea, a livello locale, anche l’ex vice sindaco di Brescia, Fabio Rolfi, della Lega Nord, il quale, proprio in occasione dell’inaugurazione di Exa 2013, a cui ha partecipato anche l’Istituto Beretta di Gardone V.T., nel lamentare l’assenza dell’allora candidato sindaco Emilio Del Bono alla cerimonia, ha detto:

Non sono lontani i tempi della giunta Corsini durante la quale il Consiglio Comunale era impegnato in noiose e lunghe discussioni, volute dalla sinistra radicale e da buona parte dei DS oggi PD, su come limitare l’accesso a Exa per famiglie e bambini”. Continuava poi Rolfi: “Come potrà, nella disgraziata eventualità in cui Del Bono vincesse le elezioni, Exa continuare a svolgersi nella nostra città?” (In merito a queste affermazioni di Rolfi si vedano i quotidiani locali del 13-14 aprile 2013) .

Fortunatamente quella “disgraziata eventualità” si è realizzata: Emilio Del Bono è diventato sindaco e Fabio Rolfi ha tolto il disturbo dalla Giunta comunale di Brescia. E forse ora il Consiglio Comunale di Brescia potrà ritornare a riflettere sui limiti da porre a famiglie e minori per la visita a una fiera come Exa. E potrà chiedere agli Enti che organizzano Exa di escludere le armi leggere, qualificando l’esposizione come mostra di armi sportive, da caccia e di repliche di armi antiche.

Armi leggere italiane, e bresciane, usate in contesti di guerra e nelle attività di repressione
Fino agli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso le armi leggere italiane sono state usate in tutti i contesti di guerra e nelle attività di repressione attuate dai regimi dittatoriali, come in Brasile, in Argentina, in Cile, in Perù e in Sudafrica ai tempi dell’apartheid.
Il 17 marzo 1983, nel corso del dibattito parlamentare sulla produzione e la vendita di armi leggere italiane, nel suo intervento il sen. Raniero La Valle, riferendosi all’assassinio di Marianella Garcìa Villas, presidente della Commissione per i diritti umani in Salvador e collaboratrice di mons. Romero, avvenuto pochi giorni prima, nel chiedere un ripensamento della politica italiana in materia di armamenti, domandava:

«Contro chi sono rivolte le armi che vengono fornite ai regimi dittatoriali dell’America centrale se non contro gli indigeni, i contadini, gli intellettuali? Quelle armi sono state usate in Salvador domenica scorsa per uccidere Marianella Garcìa Villas. La voglio ricordare tanto più perché non era una guerrigliera, non era una “radicale palestinese”, non era una “sorella mussulmana”, non era una “negra sudafricana”, non era nessuno di quelli che alla nostra cultura esclusivista sembrano persone tanto singolari e lontane, sembrano strani personaggi che, chissà perché, pretendono qualcosa che noi non possiamo dargli, quasi fossero degli ET che turbano i nostri sogni atlantici e infantili. Marianella non era una straniera, era una di noi. Aveva padre spagnolo, aveva studiato in un collegio di suore in Spagna, era avvocato, aveva lavorato, codici alla mano, per strappare la gente alle prigioni, aveva militato nella Democrazia Cristiana, aveva collaborato con il vescovo Oscar Romero, aveva esercitato con i poveri, i feriti, gli scomparsi, i torturati ed i morti – le sette opere di misericordia corporale – ed infine aveva fondato un’istituzione i cui fini sono al culmine e al centro di tutti i nostri discorsi sulla civiltà e la democrazia ed anche sulla difesa del nostro sistema. Aveva fondato e presiedeva la Commissione per i diritti umani. Ebbene, l’hanno ammazzata selvaggiamente con le nostre armi, con le armi che servono alla difesa della civiltà occidentale e con il viatico del nostro maggiore alleato. E non solo uccisa, torturata, e con le braccia e le gambe spezzate» (Dal resoconto stenografico della seduta pomeridiana del 17 marzo 1983 al Senato della Repubblica) .

Il sindacato e la riconversione dell’industria bellica
L’uso di armi italiane da parte di feroci dittature militari o comunque in contesti di guerra pose problemi di natura etica anche a livello sindacale ed infatti tra gli anni Ottanta e Novanta si organizzarono tre convegni sindacali sulla riconversione dell’industria bellica. L’ultimo è datato novembre 1989 e venne organizzato dalla Fiom CGIL di Brescia sul tema Pace, disarmo e riconversione dell’industria bellica. Esso faceva seguito all’approvazione di un documento unitario, datato 10 maggio 1989, a firma di Fim-Fiom-Uilm nazionali dal titolo Industria bellica. Fim, Fiom e Uilm per la riconversione.
L’attenzione a queste tematiche raggiunse anche le aule parlamentari e nell’aprile 1989 il ministro delle Partecipazioni Statali, Carlo Fracanzani, istituì una Commissione ministeriale di studio e l’anno successivo una Commissione per la riconversione.
A conferma di questa sensibilità, si ricorda anche, nel 1994, l’istituzione dell’Agenzia per la riconversione dell’industria bellica ad opera della Regione Lombardia. Questa Agenzia ha lavorato per alcuni anni ed ha finanziato progetti di riconversione, salvo poi essere chiusa nel 2003 da Roberto Formigoni.
Allo stesso modo una grande mobilitazione ha portato a far sì che l’Italia aderisse (Legge di ratifica ed esecuzione 26 marzo 1999, n. 106) al trattato di Ottawa per la messa al bando delle mine antiuomo, che venivano prodotte anche nel bresciano a Ghedi e a Castenedolo dalla Misar e dalla Valsella. Ora, proprio per la sottoscrizione di quel trattato, in Italia non è più possibile produrre tali mine e le due aziende di cui sopra hanno riconvertito la propria produzione. Come dire che talvolta i sogni si realizzano! Giova comunque ricordare che le mine bresciane, disseminate in decine di Paesi del mondo, continuano a fare vittime e a mutilare bambini ed adulti che, inavvertitamente, le calpestano. Queste mine, infatti, se non disinnescate, rimangono attive per decenni. Ora sono in atto in vari Paesi (es. Mozambico, Angola…) programmi di sminamento (costosissimi), ma ancora per molti anni le mine rimarranno e continueranno a causare morti e feriti.



Un territorio sensibile e attento ai temi della pace
La Consulta per la pace del comune di Brescia, la Commissione Giustizia e Pace e il Centro Missionario della diocesi di Brescia, l’Università cattolica, i Missionari comboniani, la CGIL, Pax Christi, l’associazione Brescia solidale hanno costituito da alcuni anni Opal, “Osservatorio permanente sulle armi leggere”, proprio con l’obiettivo, dati alla mano, di monitorare continuamente il commercio delle armi leggere, denunciare le contraddizioni politiche e morali connesse con tale commercio e porre il tema della riconversione delle aziende belliche.
Il Comune di Brescia, negli anni in cui era retto dal prof. Paolo Corsini, in accordo con la Diocesi di Brescia (Ufficio di pastorale sociale) e con altre numerose realtà associative, ha cercato di modificare il regolamento di Exa affinchè si prevedesse la presenza alla mostra solamente di armi sportive e da caccia, escludendo le armi leggere. Il coordinamento dei gruppi interessati a questa proposta venne affidato ad una donna di scuola, una preside, che era anche consigliere comunale a Brescia, Rosangela Comini. La modifica del regolamento non è riuscita, a testimonianza della forza della lobby delle armi nella provincia di Brescia.
Un importante comune del bresciano (Concesio) ci richiama ogni anno al valore del messaggio di Paolo VI, al suo invito rivolto dalla tribuna dell’Onu (4 ottobre 1965) a lasciar cadere le armi dalle proprie mani e a impegnarsi nell’educazione alla pace. Sempre nel paese natale di Paolo VI (Concesio) viene assegnato ogni anno un premio per la pace: è stato assegnato a don Panizza, un sacerdote bresciano impegnato in Calabria contro la n’drangheta; a mons. Mazzolari, morto in sud Sudan.
Ecco, una scuola deve decidere se partecipare a una fiera dove si pubblicizzano armi che anche la n’drangheta usa e che anche nel sud Sudan sono state usate, oppure se seguire il pensiero di Paolo VI, di don Panizza e di mons. Mazzolari. Non si possono fare entrambe le cose; non si possono tenere i piedi in due scarpe così diverse.
In molte scuole bresciane, e anche all’Istituto Beretta di Gardone V.T., in questi anni sono stati realizzati diversi progetti proposti da “Bresciamondo”, una realtà che raggruppa varie decine di associazioni, tutte fortemente attive sul versante dell’educazione alla pace e alla mondialità. Come si fa a conciliare le attività di educazione alla pace e alla mondialità con la partecipazione a Exa?

Una legge di civiltà
Grazie alla mobilitazione di associazioni, Chiese e gruppi politici, nel 1990 è stata approvata la Legge 185, una legge di civiltà, che ha posto precisi limiti alla vendita delle armi vietando esportazioni non conformi alla politica estera e di difesa italiana e vietando la vendita a Paesi che violino i principi della Costituzione italiana e che non rispettino i diritti umani.
Tuttavia questa legge è stata diverse volte aggirata, vendendo ad esempio armi non considerate militari ma poi usate nella repressione delle rivolte, come più volte documentato da Opal nei suoi Rapporti.
Negli anni della guerra nella ex Jugoslavia ingenti forniture di armi Beretta sono andate all’Albania, che sosteneva direttamente vari gruppi come l’Ukk.
Nel febbraio 2005 i servizi segreti statunitensi comunicavano ai colleghi italiani di aver trovato un certo numero di armi Beretta in Iraq in mano a gruppi vicini a AlQaida.
Le commesse militari italiane destinate alla Libia sono passate dai 15 milioni di euro del 2006 ai 112 milioni del 2009 e ciò ha portato il nostro Paese ad essere il primo fornitore europeo di armi al regime di Gheddafi.
Nel novembre 2009, due mesi dopo la coreografica visita di Gheddafi in Italia, la Beretta ha venduto 11.500 tra pistole, carabine semiautomatiche e fucili a presa di gas alla Libia, armi classificate come “civili” ma in realtà usate dalla polizia di Gheddafi per la repressione delle rivolte.
Armi Beretta sono in dotazione a forze armate e dell’ordine di un centinaio di Paesi, e in diversi di questi sono usate anche per l’attività di repressione del dissenso.
Allo stesso modo armi leggere di altre aziende italiane sono ancora oggi usate nei vari conflitti sparsi per il mondo o dalle polizie e forze armate di vari Paesi per reprimere le proteste popolari.
Nel mese di luglio 2013 Opal, Osservatorio permanente sulle armi leggere, ha segnalato che nel 2011, 2012 e anche nei mesi iniziali del 2013 armi italiane, e bresciane, sono state esportate in Kazakistan, il Paese diventato famoso per la vicenda dell’espulsione dall’Italia della moglie del dissidente Ablyazov e della figlia di sei anni. Il Kazakistan è stato più volte denunciato da Amnesty International per la violazione diffusa e sistematica dei diritti umani; il suo presidente Nazarbaev sta usando tutti i mezzi possibili per stroncare l’opposizione. Nella repressione delle manifestazioni del dicembre 2011, operate dalle forze dell’ordine, vi furono ad esempio almeno 15 vittime e oltre 100 feriti gravi. Hanno dichiarato i responsabili di Opal: “Siamo sorpresi nel vedere che, nonostante le ripetute denunce di violazione delle libertà democratiche e civili da parte delle forze dell’ordine kazake, continuano le esportazioni di armi verso quel paese dall’Italia e soprattutto da Brescia, la provincia in cui si concentra la maggiore produzione di armi italiane” (Bresciaoggi, 20 luglio 2013) .

La National Rifle Association, una potente lobby delle armi
Negli Usa il possesso delle armi è diffusissimo; chiunque abbia compiuto 21 anni può acquistare un’arma da fuoco e ciò è possibile grazie ad un’interpretazione estensiva del II emendamento che garantisce il diritto di possedere armi a chiunque. Originariamente, il secondo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America, era stato formulato per le milizie cittadine che, durante gli anni delle grandi colonizzazioni europee, vedevano nelle armi da fuoco l’unico strumento che gli americani avevano per difendere territori, case e famiglie.
Un ruolo di primo piano nella diffusione delle armi negli Usa viene giocato dalle lobby delle armi che spesso finanziano le campagne politiche. La National Rifle Association, NRA, è una delle più potenti organizzazioni degli Stati Uniti. È una influente lobby che finanzia campagne politiche e si batte per la difesa del diritto costituzionale al possesso ed al porto delle armi da fuoco. Negli Stati Uniti il possesso e il porto di un’arma costituisce un diritto civile protetto dalla Carta dei Diritti statunitense (in particolare dal secondo emendamento). Molte leggi sul controllo delle armi sono state bloccate da questa lobby.
La Beretta è presente in modo significativo negli Stati Uniti e fa parte della National Rifle Association.
Recentemente, anche a seguito di tragici fatti di sangue avvenuti nelle scuole statunitensi, pure il presidente Obama ha sostenuto la necessità di una legislazione più restrittiva in materia di vendita di armi negli Usa, ma per il momento la lobby delle armi ha avuto la meglio e nessuna norma restrittiva è ancora stata approvata. (Sul ruolo di questa lobby si veda l’articolo di Paul Arpaia, apparso sulla rivista mensile “Mosaico di pace” di luglio 2013, dal titolo La lobby delle armi. Paul Arpaia è docente presso l’Indiana University di Pennsylvania) .

Italiani? Complimenti, le vostre armi sono le migliori!”.
Suor Annarita Brustia, della Consolata, durante una recente veglia missionaria a Novara, ha raccontato che alcuni anni fa ritornando in Liberia, ad un posto di blocco, le hanno chiesto il passaporto e, vedendo che era italiana, i militari le hanno detto: “Ah, italiani! Complimenti! Guardate qui le vostre armi, sono le migliori!”.
E mons. Luis Sako, arcivescovo caldeo di Kirkuk in Iraq, eletto lo scorso 1° febbraio patriarca della Chiesa Caldea, ha scritto:

Gente del Primo Mondo, gente istruita e saggia, gente nobile che costruisce aerei e altri strumenti di morte: questa è una cosa vergognosa, una cosa inammissibile. Basta armi e distruzioni! C’è gente che muore ogni giorno. La vita è bella! Il mondo è bello, bisogna rispettarlo e renderlo ancora più bello. A causa delle armi fabbricate da voi e con i vostri soldi, in Iraq ogni giorno ci sono 100 morti, molti feriti e migliaia di profughi…Lo stesso accade in Somalia, Palestina, Siria e in altri Paesi” (Dichiarazione riportata nel dossier Armi made in Europe pubblicato sul mensile “Popoli e Missione” di marzo 2013).

Conclusione
La partecipazione di una scuola ad una fiera come Exa trasmette l’idea che si tratti di una fiera come tante. Ma in realtà non è così. Esporre delle armi non è come esporre degli elettrodomestici.
Ha scritto Giovanni Paolo II nel messaggio per la Giornata della pace del 1999:

Le armi non possono essere considerate come gli altri beni che vengono scambiati sul mercato globale, regionale o nazionale. Il loro possesso, produzione e scambio ha profonde implicazioni etiche e sociali e deve essere regolamentato prestando la dovuta attenzione agli specifici princìpi di ordine morale e legale”.

Le armi leggere sono le principali protagoniste nelle guerre dimenticate e nei conflitti “a bassa intensità” per una serie di motivazioni: la relativa facilità di trasporto, l’ampia disponibilità, il facile impiego e la lunga durata, il basso costo, la manutenzione elementare.
Ogni anno l’abuso di armi leggere determina un aumento dei morti, dei feriti e dei traumi psicologici sia nel contesto dei conflitti nazionali e internazionali, sia degli abusi nell’applicazione della legge, nella repressione violenta dei diritti democratici e nella violazione del diritto all’autodeterminazione dei popoli. Le armi leggere incrementano la violenza (esemplare il caso degli Stati Uniti), l’insicurezza, la paura, l’instabilità. La diffusione delle armi leggere per la difesa personale diffonde l’idea della giustizia “fai da te” e della visione dell’altro come potenziale nemico da cui difendersi con ogni mezzo.
Ha scritto Benedetto XVI ai partecipanti al seminario internazionale organizzato dal Pontificio consiglio per la giustizia e la pace sul tema Disarmo, sviluppo e pace. Prospettive per un disarmo integrale, 20 aprile 2008:

È infine richiesto ogni sforzo contro la proliferazione delle armi leggere e di piccolo calibro, che alimentano le guerre locali e la violenza urbana”.

Alberto Tridente (1932-2012), sindacalista torinese della Fim-Cisl, di cui divenne segretario nazionale, come lo fu successivamente della Flm nazionale (la Federazione unitaria dei metalmeccanici), all’interno della quale occupò l’Ufficio delle relazioni internazionali, è stato un protagonista del movimento sindacale italiano. Al cuore del suo impegno vi è stata la battaglia per la riconversione, parziale e progressiva, delle produzioni belliche in produzioni civili. Su tale tema si è scontrato con molte resistenze, anche interne al sindacato, ma Alberto Tridente non ha desistito, anzi ha provocato apertamente il sindacato e gli stessi lavoratori. In una assemblea tenuta nel 1974 alla Oto Melara, fabbrica bellica di La Spezia che aveva inviato cannoni  al Cile di Pinochet senza che nessuno del sindacato o della sinistra locali avesse avuto da eccepire, Tridente ha lanciato una provocazione che è diventata uno slogan da lui ripetuto in ogni occasione:

Produrre armi nella settimana e poi manifestare il sabato per i popoli contro i quali quelle armi saranno usate, è semplicemente incoerente e vergognoso” .

Ecco, parafrasando Alberto Tridente, posso concludere dicendo che una scuola non può da un lato educare alla pace, alla tolleranza, al rispetto, ai diritti umani, e nello stesso tempo partecipare ad una fiera che pubblicizza anche produzioni belliche che nulla hanno a che fare con la pace, la tolleranza, i diritti umani, il rispetto degli altri.
Allo stesso modo una città non può, attraverso le sue associazioni, proporre attività di educazione alla pace, al rispetto dei diritti umani, alla mondialità, all’intercultura e nello stesso tempo permettere che si pubblicizzino in una fiera armi da guerra.

P.S.
Quanto qui di seguito riportato non è presente nell’articolo di Città e Dintorni in quanto il materiale della diocesi, cui si fa riferimento, è stato diffuso quando ormai il numero della rivista era in tipografia per la stampa. Lo riporto perché serve a completare l’articolo e a confermare le idee che vi sono sostenute.
In occasione della Giornata di preghiera e di digiuno per la pace in Siria, indetta da papa Francesco per il 7 settembre 2013, la diocesi di Brescia ha diffuso tra i gruppi e le parrocchie del materiale per riflessioni e celebrazioni, dove si denuncia «l’ipocrisia della comunità internazionale che, dopo due anni di guerra civile in Siria con oltre 93mila morti e due milioni di sfollati, si accinge ora ad un intervento militare nel Paese». Prosegue il documento della diocesi di Brescia:«Dovevano essere fermate prima le esportazioni di armi leggere che l’Italia, in particolar modo dalla provincia di Brescia, e diversi Stati europei hanno continuato ad inviare nei Paesi confinanti con la Siria. Le armi leggere sono le vere “armi di distruzione di massa” che hanno alimentato il conflitto».