lunedì 16 giugno 2014

Se tagliare gli stipendi e anticipare la pensione per i giudici è un attacco all'indipendenza.


Corriere della Sera 14/06/14

Protestarono. Protestarono vivacemente, prima nel 2002 e poi nel 2008, i magistrati che videro nella proposta del governo sul loro trattamento pensionistico una minaccia alla autonomia e alla indipendenza della magistratura. Come in questi giorni. Solo che in quelle due occasioni, «l'attacco alla magistratura» sarebbe stata sferrato con la proposta di aumentare l'età  pensionabile. Ora invece, con la proposta di diminuirla. Esiti opposti, identica veemente protesta: ogni volta che si parla di soldi e carriere, negli organismi sindacali scatta incoercibile la pulsione a dare l'allarme sull'«indipendenza» violata, sull'«autonomia» compromessa. Compromessa per un paio d'anni di pensione?
Fantastica questa attitudine dell'organo sindacale della magistratura, la Anm, di fare di una questione di sacrosanti trattamenti in denaro, una sublime questione di libertà e di indipendenza. Ieri, nella presentazione della bozza che il governo ha preparato per la riforma della Pubblica amministrazione, la riduzione dell'età pensionabile per i magistrati, motivata dall'esigenza di accelerare il turn-over in tutto il pubblico impiego, subito diventato un attentato all'intero assetto giudiziario: «Con la pensione a 70 anni, la Cassazione chiuderebbe». Avete letto bene: a 70 anni, non a 52 o a 60. A 70 anni. La difesa (legittima) di una categoria trasfigurata a difesa di un organo decisivo dello Stato di diritto, nientemeno. Invece quando l'aumento dell'età pensionabile venne proposto con un principio generalizzato di riforma delle pensioni resa necessaria dalla crescita delle aspettative di vita e dall'invecchiamento progressivo della popolazione, un'altra «indipendenza» venne invocata, come se il magistrato costretto a lavorare anziché a godersi il meritato riposo dopo una lunga e soddisfacente carriera fosse l'emblema del giudice calpestato nei suoi diritti fondamentali. Qualche mese fa, quando il neonato governo Renzi, per finanziare la restituzione Irpef degli 80 euro mensili, propose un tetto massimo alle retribuzioni dei supermanager ma anche dei magistrati con oltre 240 mila euro annui di stipendio, da parte dell'Associazione nazionale magistrati non si esitò a legare indissolubilmente la pesantezza della busta paga all'indipendenza dei giudici. O, meglio, «il collegamento che vi è tra lo stipendio dei magistrati e il principio di indipendenza». Collegamento molto avventuroso, che però aveva ricevuto poco prima l'autorevole avallo della Corte costituzionale, secondo la quale l'indipendenza degli organi giurisdizionali si realizza anche con l'apprezzamento di garanzie circa lo status dei componenti nelle sue varie articolazioni concernenti, fra l'altro, oltre alla progressione in carriera, anche il trattamento economico». Non è detto che i magistrati, e anche i giudici della Corte costituzionale, abbiano l'esatta nozione delle reazioni certamente superficiali e ingiuste che queste parole producono sulla cittadinanza. L'idea che un magistrato tanto più sia indipendente quanto più guadagni, faccia carriera e vada in pensione non delinea, a occhio e croce, una considerazione molto alta della fibra morale di chi, piuttosto, dovrebbe custodire la sua indipendenza comunque, anche con uno stipendio più magro (neanche di tanto, poi). Quel collegamento che invece l'organo sindacale dei magistrati istituisce in tutte le occasioni, ultima quella della riforma della pubblica amministrazione. L'indipendenza, del resto, si può conquistare sempre. L'anagrafe non c'entra. E nemmeno il conto in banca.

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