sabato 31 maggio 2014

Perché hanno paura delle idee di Piketty


FEDERICO RAMPINI
La Repubblica - 30/5/2014

L’economista francese, studioso delle diseguaglianze, è oggetto di accuse dagli ultras neoliberisti. Lui si difende e contrattacca

Thomas Piketty è il Nemico Pubblico da abbattere. L’Internazionale neoliberista si mobilita per demolire un economista francese semi-sconosciuto (al pubblico di massa) fino all’altroieri. Dal Wall Street Journal al Financial Times, gli organi più autorevoli del pensiero unico mercatista, è un crescendo di attacchi contro lo studioso parigino, “colpevole” di aver messo le diseguaglianze sociali al centro dell’attenzione nella comunità scientifica.
Il Financial Times ha messo al lavoro per settimane una task force di economisti e giornalisti. La loro missione: scovare errori nel saggio Il Capitale nel X-XI secolo , il monumentale studio che Piketty ha dedicato alle diseguaglianze nel capitalismo degli ultimi due secoli. Gli attacchi pubblicati dal Financial Times — e rintuzzati dall’economista francese con una risposta molto dettagliata, ripres a dal New York Times — lasciano interdetti e perplessi per la loro futilità. Se non fosse che quelle accuse lasciano intuire ben altro; l’accanimento contro Piketty sembra una resa dei conti, il tentativo di mettere a tacere una voce scomoda screditandola sotto il profilo scientifico. Il nucleo sostanziale delle 600 pagine di Piketty è questo: il capitalismo è stato accompagnato da diseguaglianze estreme dalla Rivoluzione francese fino alla prima guerra mondiale; è seguito un periodo di relativo livellamento dei patrimoni e dei redditi fra le classi sociali nel XX secolo (compreso il trentennio “glorioso” dopo la seconda guerra mondiale); infine negli ultimi trent’anni le disparità hanno ripreso a salire a livelli estremi. Anche perché una oligarchia di privilegiati — in particolare i top manager — hanno “fatto secessione” dal resto della società, conquistandosi il potere di auto-determinare i propri compensi senza alcun nesso con la loro produttività reale. Tesi doppiamente scomoda. Sia perché individua cause precise dietro le diseguaglianze. Sia perché dimostra che queste non sono affatto inevitabili.
Gli “errori” che il Financial Times pretende di aver individuato sono marginali e contestabili. Il quotidiano sostiene ad esempio che Piketty avrebbe dovuto usare statistiche sulla tassa patrimoniale svedese del 1920 anziché del 1908; oppure contesta alcune stime sul “differenziale di mortalità” in Francia. La difesa argomentata di Piketty si avvale del fatto che il suo studio non è un exploit individuale: ci hanno lavorato più di trenta economisti di vari continenti, da 15 anni, inclusi docenti di Berkeley, California. Il libro viene accompagnato da sterminate appendici di dati archiviate online per non appesantire oltremodo la lettura. La vera notizia è proprio questo accanimento. Cosa c’è dietro? La gelosia è uno dei possibili moventi visto che Piketty si è imposto come un fenomeno da star-system che non ha precedenti nella “scienza triste” (come viene definita l’economia): invitato da Barack Obama per un incontro coi consiglieri della Casa Bianca; poi dai due Nobel Paul Krugman e Joseph Stiglitz a New York, infine da Harvard. Il suo libro è in vetta alle classifiche negli Stati Uniti.
Ma l’ostilità verso Piketty ha motivazioni più profonde. Il francese non è sconosciuto negli ambienti accademici. Enfant prodige della sua disciplina, brillante matematico, insegnava al prestigioso Massachusetts Institute of Technology quando era ventenne. Poi fece un affronto imperdonabile: voltò le spalle alle università americane e tornò a lavorare in Francia. Con due accuse pesanti: criticando gli economisti Usa per la loro “deriva matematica” (modelli sempre più complessi e sempre meno attinenti ai problemi reali), ed anche per i loro latenti conflitti d’interessi. Quest’ultima accusa venne lanciata, a livello divulgativo, anche dal celebre documentario Inside Job: con nomi e cognomi di illustri economisti arricchiti grazie a consulenze per i big di Wall Street, l’industria petrolifera, ecc.
Il Financial Times è un ottimo giornale, ma non ha mai preso le distanze dall’ideologia neoliberista, neppure dopo il disastro sistemico del 2008. Il mercato è (quasi) sempre la soluzione dei nostri problemi, a leggere i suoi editoriali. Le energie che oggi il Financial Times dispiega per demolire Piketty, non le ha dedicate con la stessa intensità e coerenza a individuare tutti gli errori della scienza economica neoclassica e liberale degli ultimi trent’anni. In questo il Financial Times e il Wall Street si accodano ad un comportamento omertoso che accomuna gran parte degli economisti: una scienza colpevole di tanti danni e incredibilmente avara di autocritiche.
Piketty ironizza sul fatto che «secondo il Financial Times l’Inghilterra di oggi sarebbe una società più egualitaria di quanto lo sia stata la Svezia» nel periodo di massima redistribuzione sotto governi socialdemocratici. Una tesi che contraddice l’evidenza empirica e sbeffeggia il buonsenso comune. Un altro economista controcorrente, l’australiano David Gruen, ha descritto in questi termini il comportamento dell’establishment neoliberista alla vigilia del disastro sistemico del 2008: «È come se sul Titanic, avviato alla collisione finale contro l’iceberg, tutti quelli che avrebbero potuto e dovuto avvistare il disastro, fossero rimasti chiusi dentro una cabina senza oblò, impegnati a disegnare una nuova nave meravigliosa, fatta per un mare senza iceberg». Un grande intellettuale inglese scomparso, Tony Judt, ricordava quel che fu l’austerity del dopoguerra: la ricchezza e il reddito in Gran Bretagna vennero redistribuiti con una fiscalità progressiva che oggi sembrerebbe da esproprio. La quota del patrimonio nazionale detenuta dall’1% dei più ricchi era scesa brutalmente, dal 56% del 1938 al 43% nel 1954. Il 13% di ricchezza redistribuita è un’operazione “livellatrice” di rara potenza. Ben diversa dal segno sociale dell’austerity di oggi. Tutto questo accadde in un’economia capitalistica, che seppe poi sprigionare il boom degli anni Sessanta. Piketty risulta insopportabile alle poderose armate del neoliberismo, perché lui non è un neomarxista, non è un pensatore utopico e radicale. Dimostra che un capitalismo meno diseguale è possibile, perché in realtà è già esistito.



In Francia un libro accusa la «democrazia basata sul clic».


Corriere della Sera 31/05/14
Stefano Montefiori

Non ha vinto le Europee, ma il Movimento Cinque Stelle interessa comunque e da tempo gli osservatori francesi, che spesso giudicano l’Italia il laboratorio politico europeo, il Paese dove si possono scrutare tendenze destinate a ripetersi altrove. A Beppe Grillo è dedicata gran parte di «Les Antipolitiques», saggio in uscita in questi giorni da Grasset, scritto dallo storico del diritto e delle idee politiche Jacques de Saint-Victor. Dopo le opere (edite anche in Italia) su mafie e piccola borghesia, Saint-Victor si avvicina stavolta a Grillo e Casaleggio e soprattutto alla loro utopia web, l’idea di una nuova democrazia diretta efficace e trasparente grazie alla Rete. L’autore non è ottimista. Anzi. «Lo storico del diritto Jacques Ellul ci ha insegnato che le tecniche non sono neutre, come si dice troppo spesso, pretendendo che le macchine sono solo ciò che noi ne facciamo», scrive Saint-Victor. Le nuove tecnologie non sono né buone né cattive in sé, ma hanno il potere di trasformare i nostri comportamenti. L’esempio è l’invenzione della stampa, che nel Cinquecento ha permesso indirettamente la rivoluzione protestante facilitando la circolazione della Bibbia in centinaia di migliaia di esemplari, e la sua libera interpretazione. Così oggi Internet consente ad alcuni di sognare un nuovo mondo, nel quale i partiti politici e gli altri intermediari nati a partire del 700 e dell’800 scompariranno. Se il filosofo Michel Serres vede addirittura i germi di una nuova «primavera occidentale» nel «voto generalizzato per una democrazia generalizzata», Saint-Victor giudica con severità il populismo italiano, «il caso più avanzato di cui disponiamo in questo campo». Cita «Siamo in guerra», il libro di Grillo e Casaleggio, nel quale si propone di risolvere alcuni dibattiti complessi in modo semplicemente democratico: volete trasporti pubblici moderni o la guerra ai Talebani? «Questa democrazia del clic sarebbe la peggiore versione della democrazia degli umori. Come ricordava Kelsen, la libertà, in quanto idea fondamentale della democrazia, non giace nel dominio della maggioranza ma nella discussione che porta alla formazione di una maggioranza». La democrazia diretta online è il contrario stesso di una democrazia matura, dice Saint-Victor: consacrerebbe la tirannia della maggioranza evocata e condannata da Tocqueville.



Vendola, segnale al premier: pronti a votare il decreto Irpef.


Corriere della Sera 31/05/14

Alessandro Capponi

ROMA — Per spiegare il momento di Sel basta forse un passaggio dell’intervento di Ileana Piazzoni (parlamentare, secondo molti sul punto di trasferirsi nel Pd): «Ricevo continui insulti e messaggi minatori da un membro della segreteria provinciale di Roma, è ora di finirla, basta!». Mica facile: le voci si sono rincorse per giorni, «c’è una manciata di parlamentari pronta a passare col Pd», e soprattutto c’è Gennaro Migliore che punta a «un soggetto unico di sinistra» e la maggioranza interna che guarda a Renzi e al governo con spontanea diffidenza. «È folle anche solo parlare di scissione dopo il voto — tuona il vicepresidente del Lazio, Massimiliano Smeriglio — il risultato è che abbiamo anche impedito ai compagni di festeggiare». Infatti non c’è scissione, non ora, non qui: se ne riparlerà all’assemblea di metà giugno, forse, ma per il momento viene approvata solamente la relazione di Nichi Vendola, e in sintesi è ormai ufficiale che non ci sarà la costituente della sinistra, che con la lista Tsipras ci sarà una collaborazione leale ma ognun per sé, e che Sel, adesso, rimane all’opposizione.

Che il discorso sul futuro sia solamente rimandato è abbastanza chiaro. Ciò che faranno i singoli — sembra che almeno due siano sul punto di scegliere il Pd — è tutto da vedere: «Il mio problema è come, adesso — spiega Ileana Piazzoni — il gruppo dirigente legge la realtà italiana, quasi a non cogliere il messaggio che viene dato ai cittadini, di voler cambiare il Paese. Io vorrei invertire la rotta e rimarrò finché non sarò certa che la prospettiva di Sel è quella di chiudersi in un angolo. La mia sensazione è che adesso, dopo il voto, tutto si sia rimesso in moto, anche il Parlamento. Ma non vorrei che l’atteggiamento di altri sia quello di mettere assieme tutto quello che non va di Renzi, come se gli augurassero il fallimento...». In verità qualche parziale apertura parrebbe arrivare anche dai vertici del partito: «Dobbiamo prima leggere il decreto Irpef — sorride Nichi Vendola — io penso che sia sempre positivo dare dei soldi ai lavoratori. Nell’ultimo trentennio la ricchezza è stata trasportata dal lavoro alla rendita. Se ci sono misure che capovolgono questa prospettiva, per noi va bene». Voterete sì? «Bisogna vedere com’è il decreto: si possono scrivere tante cose, buone o meno. Vedremo le coperture, dove il governo ha intenzione di andare a prendere i soldi». Di certo «noi non abbiamo detto che gli 80 euro sono una mancia per il voto di scambio. Non abbiamo fatto questa polemica». Si vedrà, dunque: Vendola si augura che «la leadership del M5S venga rimossa» e tende la mano «a chi, nel Pd, vuole costruire la sinistra, come Civati». Ma di certo le voci contrarie a un avvicinamento al governo sono la stragrande maggioranza. Fabio Mussi aspira una boccata dal sigaro e ragiona: «Il Paese si muove con sveltezza, non è detto che questo sia trionfalismo sia duraturo, gli assetti cambiano, c’è la crisi, ci sono le politiche di austerity dell’Europa, potrebbero arrivare guai...». Nicola Fratoianni: «Entrare in questo governo è una prospettiva insensata». E poi c’è Gennaro Migliore, che nell’intervento ricorda «gli insulti ricevuti sui social network» e poi, mentre Vendola parla, se ne sta seduto sul fondo della sala, non alza mai la testa.



esodo infinito


un genio

“Una coalizione popolare con Berlusconi e la Lega” 

Alfano

Resurrezione

Grillo si fa fotografare con una corona di spine. Gli piacerebbe, ma per lui la resurrezione non sarà tanto facile.

Europa

HA VINTO IL PD DI RENZI


Marta Giovannini 
dalla direzione nazionale del 29 maggio
 
Il PD di Matteo Renzi ha stravinto le elezioni di domenica 25 maggio.
Tutti ne siamo stati giustamente orgogliosi anche se giovedì 29 maggio, in Direzione Nazionale, Matteo Renzi ci ha dato una piccola lezione. Dopo l'applauso a chi ha portato il PD oltre il 40% alle Europee (da sempre meno sentite delle altre elezioni) l’invito del segretario è stato quello di mettersi subito al lavoro con la convinzione che le altre forze politiche ma anche la minoranza interna  non si opporranno più alle riforme istituzionali necessarie al Paese. Troppo grande il successo del Governo che sarà però doverosamente rispettoso della dialettica politica come ha fatto sinora.
Non soltanto Renzi sa che il voto è stato prima di tutto un riconoscimento a lui e alla sua politica di rinnovamento, ma è anche consapevole che quel voto ha avuto un effetto a cascata di cui hanno beneficiato anche quelli che sino a ieri nello stesso PD lo criticavano o lo avversavano. Lo testimoniano i voti perché abbiamo dato il meglio proprio alle Europee finendo, addirittura, il partito più votato del PSE.
Molti amici appena eletti a Bruxelles lasceranno quindi ben motivati la vita parlamentare romana e il sole della capitale per impegnarsi a Bruxelles, dove si decidono i destini degli Stati Europei, soprattutto di quelli con maggiori problemi sociali ed economici come l’Italia, la Spagna e la Grecia.
Ed è proprio alle europee che il nostro PD ha preso sia il voto dei volontari della festa dell'unità che quelli del piccolo imprenditore del nord che, superata la rabbia, ha scelto la speranza di un futuro prossimo migliore.
Noi democratici abbiamo cercato entrambi quei voti e desideriamo non tradirli: questa è la vocazione maggioritaria che finalmente si realizza e va gelosamente conservata in modo intelligente perché con essa perdono i compromessi sottobanco di certa politica e vince il voto popolare.
Ma l' impegno e' anche di declinare quel dato nazionale, quel successo di Matteo Renzi, ovunque nel nostro territorio, dove si deve cambiare verso come si vuol fare in Europa, iniziando con la politica economica.
Così il PD di domani, con la sua nuova classe dirigente, potrà davvero essere il partito della Nazione con le percentuali che furono - per richiamare la battuta di Guerini e Bonaccini  la sera dello spoglio - quelle di Alcide De Gasperi senza però' scordare Enrico Berlinguer e - aggiungerei io - la questione morale senza la quale non si va da nessuna parte.



Con Renzi ha vinto il partito della nazione


di Alfredo Reichlin
l'Unità 29 maggio 2014
 
Non c’è nessuna esagerazione nel dire che il risultato del 25 maggio è un evento di grande portata che oltrepassa i limiti della cronaca politica. Esso fa molto riflettere su questo passaggio cruciale della vicenda italiana ed europea. Ci obbliga finalmente ad alzare il livello del dibattito politico e culturale uscendo da un pesante clima di sfiducia, dalla stupidità delle risse televisive e da quel micidiale senso di rassegnazione secondo cui la politica è solo un gioco di potere per cui le idee non servono a niente.
Non è vero. Il voto ci dice un’altra cosa, rivela la vitalità di un Paese che non si rassegna ma soprattutto rende molto chiara la grandezza della posta in gioco.
Ragioniamo un momento: che cos’è un voto che in certe zone, soprattutto le più avanzate, supera il 40 per cento e si avvicina alla maggioranza assoluta? Di questo si è trattato. Di qualcosa che va oltre il voto per un determinato partito ma che non può nemmeno essere assimilato a certi plebisciti per un uomo solo al comando. A me è sembrato il voto per una forza che è apparsa agli occhi di tanti italiani (anche non di sinistra) come un argine, una garanzia. Contro che cosa? Ecco ciò che ha commosso e colpito un vecchio militante della sinistra come io sono. L’aver sentito che il Partito democratico veniva percepito come la garanzia che il Paese resti in piedi, che non si sfasci, che abbia la forza e la possibilità di cambiare se stesso cambiando il mondo.
Un Paese che si europeizza ponendosi il grande compito di cambiare l’Europa.
Si è trattato di una parola d’ordine molto alta e molto difficile che è gran merito di Renzi aver posto con tanta semplicità e chiarezza. Una scelta molto grossa, davvero cruciale. Non restare sulla difensiva e respingere l’assalto sovversivo contro l’organismo nazionale e contro uno Stato (sia pure pessimo) ma che rappresenta tuttora un «ordine» (leggi, istituzioni, rapporti internazionali) che non può essere travolto da una folla inferocita senza finire nel nulla e senza travolgere gli interessi anche immediati dei lavoratori.
Grillo rappresentava questa minaccia. La protesta va capita e rispettata ma quella di Grillo non era solo un movimento antieuropeo di protesta come quella di tanti altri Paesi. Non era nemmeno come la signora Le Pen (il peggio di quella vecchia cosa che è lo sciovinismo francese). Esprimeva un oscuro sentimento di odio per la democrazia che in Italia ha radici profonde, il rifiuto dell’ordine civile, la rabbia contro tutto e tutti. Era un attentato allo stare insieme pacifico degli italiani.
Io ho sentito molto questa minaccia, forse perché sento molto la fragilità dello Stato e ormai anche della nazione italiana. Sentivo che se Grillo si permetteva questo modo di essere e di parlare non era per caso. Era perché la crisi italiana era giunta a un punto estremo. Non era solo una crisi economica e sociale. Era diventata una crisi morale, di tenuta della democrazia repubblicana e parlamentare. Questo era il tema delle elezioni. E qui io ho misurato il grande merito di Matteo Renzi. Non è vero che faceva il gioco di Grillo scendendo sul suo terreno, come qualcuno mi diceva. Egli ha avuto l’intelligenza e la forza di affrontare quella che non era affatto una sfida sui «media» e nel salotto di Vespa. Era il dilemma reale tra speranza o sfascio. Certo, ha contato moltissimo anche la singolare figura di quest’uomo di cui non spetta a me fare l’elogio. Dico però che il suo straordinario successo personale non è separabile dal fatto che Renzi si è presentato come il segretario di quel «partito della nazione» di cui discutemmo a lungo ma senza successo anni fa con Pietro Scoppola al momento della fondazione del Pd.
Il problema di adesso è che allo straordinario successo deve corrispondere la consapevolezza delle responsabilità enormi che pesano sul Pd e in particolare sulle spalle di Renzi il quale - tra l’altro - è diventato, di fatto, il leader della sinistra europea. Renzi lo sa. Egli stesso ha detto che adesso non ci sono più alibi per non fare le riforme. Ma bisogna smetterla con la vergogna di chiamare «riforme» l’austerità e il massacro dei diritti del lavoro. È il modo di essere della società italiana che va messa su nuove basi, anche sociali. Si tratta davvero di dar vita a un «nuovo inizio». So benissimo che i margini sono strettissimi e certi vincoli vanno rispettati. Ma un nuovo inizio (lo dico anche a certi amici del Partito democratico) è reso necessario dal fatto che è finita l’epoca dell’economia del debito e del mercato senza regole. Anche per l’Europa.

Il cuore della questione sta qui, sta nel fatto che la partita, oggi, si deve giocare attorno alla capacità dei sistemi socio-economici di integrare la crescita economica con un nuovo sviluppo sociale e umano. Io penso che sta qui il banco di prova dei nuovi dirigenti del Pd. Sta nella necessità di costruire un partito e non solo una organizzazione elettorale, un partito-società, un luogo dove si forma una nuova classe dirigente e dove si possa elaborare un disegno etico e ideale. Senza di che ce le scordiamo le riforme.
Io ho vissuto la catastrofe dell’8 settembre del 1943. Ho visto come allora un gruppo di politici giovani (meno di 40 anni) si rivolsero a un popolo che allora era ridotto a una massa di profughi in fuga dalla guerra e dal collasso dello Stato. Quei giovani riuscirono a unire quel popolo sotto grandi bandiere, bandiere politiche e ideali, non tecnocratiche. So bene che tutto è cambiato da allora. Ma l’Italia di oggi è ancora uno dei Paesi più ricchi del mondo e al governo ci siamo noi. Non basta sostenere il governo in Parlamento.
Occorre spingerlo verso nuove scelte di fondo partendo dal paese, dai bisogni e dalle sofferenze della gente. La prudenza, il realismo vanno benissimo, sono virtù che servono anche nelle situazioni «eccezionali». Ma non bastano. L’Italia è in un pericoloso stato di «eccezione». Il voto di domenica è consolante ma esso ci chiede un messaggio forte che dia un senso ai sacrifici e al rigore. Stiamo attenti. La crisi sta intaccando il tessuto stesso della nazione, e io uso questa grande parola quale è «nazione» perché è di questo che si tratta. Non solo dell’economia e nemmeno solo delle Istituzioni. Si tratta di un oscuramento delle ragioni dello stare insieme. Sono troppi, non solo tra i giovani, quelli che vogliono andare a vivere all’estero.
È una crisi «morale», di sfiducia nel Paese, aggravata dalla latitanza delle elite e dalla pochezza delle classi dirigenti politiche. Tutta la questione del Pd e di chi lo guiderà ruota intorno alla capacità o meno di dare una risposta a una crisi di questa gravita.

Sciopero Rai, basso gradimento

Stefano Menichini 
Europa  

Tutti i sindacati aziendali in piazza contro Renzi e la spending review. Non era mai successo, neanche contro Berlusconi. Ma difendono l'indifendibile e fanno un favore al premier.
Una rivolta così non s’era mai vista. Neanche contro l’editto bulgaro di Berlusconi. Tanto meno contro il Grillo urlante di Sanremo. Perché, diciamocelo: la libertà d’informazione è importante. Ma gli stipendi dei dirigenti e dei conduttori Rai, la proliferazione delle redazioni locali e la tutela del consenso dei sindacati interni sono ben più preziosi. Sicché anche solo la remota minaccia che la spending review possa occuparsi di Saxa Rubra e viale Mazzini giustifica il gesto clamoroso: sciopero generale, con annessa manifestazione, di tutti i lavoratori Rai. Contro il governo e contro la richiesta all’azienda di partecipare per 150 milioni (il 5 per cento del bilancio) ai piani di riduzione della spesa pubblica, magari vendendo una quota (minoritaria) della società degli impianti di trasmissione e senza alcuna riduzione del personale.
L’11 giugno sarà il primo sciopero nazionale unitario convocato in Italia contro Renzi. Nelle piazze dove non hanno ritenuto di mobilitarsi metalmeccanici, pensionati o disoccupati, ecco  presentarsi agguerriti giornalisti, impiegati, tecnici e dirigenti di Mamma Rai.
È una notizia che a palazzo Chigi hanno salutato con silenziosa soddisfazione. La reazione dei sindacati Rai arriva infatti a confermare e rafforzare il messaggio di Renzi verso un’opinione pubblica insofferente verso chi difende l’indifendibile in termine di sprechi, inefficienze e anche veri privilegi.
La sfortuna di Usigrai e soci è che nessuno cade più nell’equivoco (riproposto nella loro piattaforma) di assimilare la difesa della Rai così com’è alla difesa della democrazia dai conflitti d’interesse e dalle tentazioni autoritarie di Berlusconi. Questo è il passato. Col disarmo di Forza Italia vanno in archivio anche il partito Rai, il partito delle procure, i giornali partito, la rete di interessi e di poteri che s’è avvinta alla sinistra e alla quale la sinistra s’è avvinta per vent’anni.
Nessuno è più disposto a pagare il prezzo del conflitto tra berlusconismo e antiberlusconismo col quale s’è giustificato e silenziato di tutto. Sicché ora rimangono nude (alla Rai come a Mediaset, si badi bene) questioni meramente industriali: calo della pubblicità, recupero e uso del canone, obsolescenza dei prodotti, elefantiasi aziendale, dirigenze strapagate, costosi accordi commerciali sui quali indaga anche la magistratura.
Libero il sindacato di scioperare, ci mancherebbe. Temo però che stavolta audience e gradimento saranno molto bassi.

venerdì 30 maggio 2014

Prodi e il Papa: la sua azione politica non ha precedenti.

Corriere della Sera  30/05/14

ROMA — «Il rifiuto totale della guerra è comune a tutti i Papi ma in più ora c’è un’azione politica che altri Pontefici non avevano tentato», ha detto ieri l’ex premier Romano Prodi intervenendo alla presentazione del libro

di Massimo Franco

Il Vaticano secondo Francesco (Mondadori) nella sede della stampa estera. Presenti, tra gli altri, l’ambasciatore italiano presso la Santa Sede Francesco Maria Greco, il cardinale Raffaele Farina e Guzman Carriquiry, segretario della Pontificia commissione per l’America latina. Un’azione, quella di papa Francesco, che sembra riscuotere simpatia anche in aree storicamente lontane dal Vaticano, come la Cina. E Prodi ha citato il giornale della comunità anglofona di Hong Kong, il South China Morning Post , secondo il quale Bergoglio in Medio Oriente in soli tre giorni ha fatto fare più progressi alla pace che anni e anni di mediazione e di «diplomazia americana ed europea». Per Francesco «il mondo è pluripolare», ha continuato Prodi, e importante è «l’apertura ecclesiale» su mondi nuovi come la Russia e appunto la Cina. Per il presidente dell’Ansa Giulio Anselmi, se il Santo Padre ha conquistato il mondo, più difficile è la sua accettazione da parte della Curia. «Certo, Bergoglio è un Papa che conta nel mondo, riempie le piazze e le chiese. Fa gol e finche farà gol anche la parte più gattopardesca della Chiesa lo terrà. Il rischio è che continui a giocare in campo da solo».


M.A.C.

Carro del vincitore? C’è qualcosa di più

Stefano Menichini 
Europa  

La foto di gruppo del Pd vincente è l'icona della logica inclusiva di Renzi. Ma guardando oltre il suo partito, vale anche come metafora del disegno bipolarista, che ora deve completarsi nelle riforme istituzionali
La foto di gruppo della notte di domenica 25 rimarrà l’icona del trionfo europeo del Pd, forse dell’intera vicenda renziana. È legittimo ironizzarci su, ma in quello scatto c’è un condensato di sentimenti e storie personali che sono il succo della politica: vittorie, sconfitte, rivincite, ripensamenti, riappacificazioni, opportunismi.
A Matteo Renzi, che in qualche modo l’ha voluta, quella foto serve a qualcosa di più sostanzioso, anche oltre la contingenza dell’ingresso della minoranza nel gruppo dirigente del Nazareno: è la metafora della sua logica inclusiva, di una politica che procede non per separazioni ma per aggiunte, rese possibili e “garantite” dal carisma di un leader vincente. Esattamente l’opposto di quanto è accaduto ad altre leadership, anche nei momenti alti del loro successo: Berlusconi e Grillo, per citarne solo due.
Renzi sente di doversi emendare da due peccati. Uno, più presunto che reale, è il “tradimento” ai danni di Letta. L’altro è la dinamica da piccolo gruppo di sodali che ha segnato la sua ascesa: modalità inevitabile finché si marcia in partibus infidelium; tratto incancellabile, se di mezzo ci sono amicizie antiche e vere; immagine da correggere, ora che il carico di responsabilità è pesante e c’è bisogno di tanta gente per sostenerlo.
Ciò che sta accadendo è molto più serio della caricatura a proposito del «carro del vincitore». È ovvio che chi vede il proprio partito spiccare il volo non possa – se è affezionato alla “ditta” più che al proprio orgoglio – non riconoscere che nello scontro degli ultimi due anni evidentemente qualcuno aveva ragione e qualcun altro meno.
Ma il movimento centripeto si estende oltre i confini del Pd. Gli elettori di Monti e di Vendola hanno anticipato le scelte di una parte di ceto politico al quale ieri Renzi ha aperto le porte essendo interessato alla semplificazione delle sigle. La crisi di M5S e il ritrovarsi tra Forza Italia e Lega (con quest’ultima egemone) è un altro effetto collaterale del voto, che rafforza Renzi nell’obiettivo strategico di rilanciare il bipolarismo battendo definitivamente le tentazioni neoproporzionaliste.
Le prossime settimane diranno se il processo si completerà con una accelerazione su riforme costituzionali e riforma elettorale (con opportune modifiche, come già sta accadendo sul senato) che vadano nella direzione perseguita da Renzi fin dalle sue prime ore come segretario. Gli italiani hanno fatto capire di essere d’accordo.

giovedì 29 maggio 2014

Petroliera esplode in mare Maxi-incendio in Giappone


Vittoria posticipata



La Repubblica - 29/5/2014

SEBASTIANO MESSINA

Il Maalox ha fatto effetto. L’autocritica di Beppe Grillo è arrivata. Una strana autocritica, però. Il guru ci informa che le elezioni europee non sono state per lui «una Caporetto o una Waterloo» ma un grande successo. Il Movimento è addirittura «il secondo partito del Paese», è «la prima forza di opposizione» e può vantare «la maggioranza relativa» tra gli italiani «che hanno tra i 18 e i 29 anni». Dunque, conclude, presto al Pd e a tutti gli altri partiti «non resterà che piangere», perché la vittoria arriverà: «E’ solo una questione di tempo». Il ragionamento non fa una grinza. Il calendario lavora per Grillo: gli basterà solo aspettare che si tolgano di mezzo, per morte naturale, gli elettori che oggi hanno più di trent’anni. Renzi dunque non si monti la testa: ha i decenni contati.


Umiltà

"Rischio espulsioni? Non si può escludere. Ma non c'è un cerchio magico. Io, Di Battista o Morra andiamo sui palchi o in tv perché siamo più bravi di altri"

Roberta Lombardi

Bene pubblico

La Stampa 29/05/2014
Massimo Gramellini

L’immagine del ministro Boschi formato madonna, con in grembo la bimbetta congolese che le arrotola i capelli biondi in una treccia, è già entrata di diritto nella galleria dell’era renziana. Il premier è riuscito a sdoganare quasi tutti i bambini adottati dalle famiglie italiane, trattenuti da tempo nei luoghi di nascita, e ha mandato a prenderli l’icona del suo governo e il fotografo di palazzo Chigi. Subito si sono sollevati centinaia di indici a deprecare la spettacolarizzazione del lieto evento, il suo utilizzo a scopi politici. Resiste, persino in un Paese sguaiato come il nostro, un certo fastidio per l’ostentazione del bene. Il male può essere mostrato in ogni sfumatura morbosa, con l’ottima scusa di denunciarlo. Invece il bene è circondato da una bolla di pudore e chiunque osi spezzarla viene lapidato dai ghigni del cinismo. Ma a furia di rimuovere il bene, molti di noi hanno finito per credere che non esista.  

D’Alema si vantò di avere rinunciato a una foto irresistibile, quando da premier riportò in Italia due bambine rapite dal padre libico e anziché esibirle come un trofeo le nascose dentro una macchina dai vetri oscurati. Vezzi o valori di un’altra generazione, di un’altra sinistra. Quella di Renzi non si vergogna di sventolare i suoi successi. Forse è anche per questo che vince.

Lasciate dormire la vecchia Dc

Stefano Menichini 
Europa  

Più assurdo ancora dell'evocazione grillina di Berlinguer, l'assimilazione del Pd alla Dc è frutto di pigrizia o caricatura politica. Cerchiamo di guardare alla modernità
Avete trovato fastidioso, assurdo, inappropriato, antistorico il dibattito sull’eredità di Enrico Berlinguer rivendicata da Beppe Grillo e dalle sue piazze? Bene, allora per favore lasciate anche la Dc a riposare nei libri di storia, e a proposito di ciò che sta diventando il Pd di Renzi fate qualche sforzo di immaginazione in più.
La supplica vale soprattutto per i commentatori, imitati da mediocri esponenti politici troppo giovani o troppo ignoranti per sapere di che cosa si sta parlando.
È vero, ed è l’unica concessione che si può fare al confronto storico, che dopo la Dc e il Pci l’Italia non ha più conosciuto un partito nazionale come pare (pare) possa diventare il Pd: forte in maniera omogenea in ogni area del paese, votato da gente di tutte le età e di tutti i ceti sociali, luogo di convergenza e mediazione di spinte ideali e di interessi materiali diversi.
Fare un passo oltre questa importante constatazione (proposta sull’Unità anche da Alfredo Reichlin, cioè da chi se ne intende) rischia però di diventa stucchevole.
Nei casi migliori, insistere troppo sul paragone conferma la pigrizia degli intellettuali italiani, sempre lesti a convergere su gustosi luoghi comuni da rimasticare fino a farne poltiglia.
Nei casi peggiori, accompagna la più banale caricatura disegnata intorno a Renzi e al Pd: il giovane ex dc che s’impossessa di un partito moderato, senza nerbo, interprete di un pensiero e di politiche sostanzialmente di destra.
È incredibile – e va a danno dei commentatori, non del Pd né di Renzi – che ci si debba inchiodare al passato remoto, e che non si riesca a elaborare interpretazioni più contemporanee. Magari leggendo due o tre libri, quattro documenti di think tank, roba che si scrive dappertutto in Occidente intorno alle nuove radicalità e alle faglie di conflitto nella politica post-ideologica, e dando un’occhiata alle posizioni del Pd su questi temi.
Un giovane passatista ha scritto che il 40 per cento di Renzi scioglie i dubbi sul quesito se il Pd sia ancora «di sinistra»: la risposta per lui è ovviamente no. Perché (si intuisce) la sinistra oltre una certa soglia di consenso popolare non può più essere tale. Col che surclassiamo la già nota (e praticata) vocazione minoritaria: siamo al puro autolesionismo. Un vizio in effetti sconosciuto sia ai vecchi democristiani che al giovane Renzi. E dal quale finalmente si va emancipando anche la sinistra, intendo dire il Pd.

La piazza, le bandiere, i volti

Alfredo Bazoli

Non è un rituale stanco il nostro 28 maggio.
Non lo è per noi familiari, costretti a rivivere la lacerazione dell’amputazione degli affetti, il senso di vuoto, le immagini terribili dei nostri cari riversi sulle pietre.
Costretti a riannodare i fili dei ricordi, a ricostruire nei racconti di chi c’era le violente emozioni personali di quegli istanti, di quei minuti, di quelle ore, di quei giorni.
Cercando di capire, noi che eravamo bambini piccoli, e passammo attraverso il nostro dramma personale con la leggerezza e la serenità di chi vive solo la dimensione del presente, senza poter comprendere, e senza conservare ricordi.
Ma non è un rituale stanco nemmeno per la città, per chi visse il dramma, per chi sopravvisse in piazza, per gli amici dei caduti, per chi è nato successivamente, per tutta intera una comunità civile che allora venne brutalmente sfregiata, nel modo più vile e terribile. Con una bomba nella piazza del municipio, che colpì al cuore la città durante l’esercizio più semplice e fondamentale di una democrazia, la manifestazione pacifica delle proprie idee.
Quello sfregio, quel sangue che allagò i portici della piazza, che colorava di rosso i ruscelli di pioggia che scendevano verso via X giornate, sono diventati una parte della nostra storia, della nostra memoria civile, della nostra democrazia.
Allora il ricordo, partecipato dalla città in modo corale, le bandiere nella piazza, i nomi e i volti dei morti e dei sopravvissuti, la commozione sincera anche di chi non c’era, le testimonianze e l’impegno, le dichiarazioni di fedeltà ai valori della convivenza civile, tutto contribuisce a non disperdere il significato di ciò che è accaduto di fronte alla Loggia 40 anni fa.
Resta poi il silenzio, per noi.

mercoledì 28 maggio 2014

Che ambientino

BuongiornoMassimo GramelliniLa Stampa 28 maggio 2014 






Ci sarà un giorno in cui nessun politico o funzionario di Stato finirà sotto inchiesta per avere intascato soldi pubblici a palate. Però oggi non è ancora quel giorno. Oggi è il giorno di Corrado Clini, direttore generale e già ministro dell’Ambiente del sobrio Monti, dislocato agli arresti domiciliari con l’accusa di avere sobriamente collezionato mazzette per il risanamento ambientale di Iraq, Cina, Montenegro, insomma del mondo intero tranne che dell’Italia, dove più che di un risanamento ci sarebbe bisogno di un sanatorio per rinchiudervi i pochi pazzi che si ostinano a volerle bene. Nella danarosa vicenda non manca nessuno degli elementi classici della trama: le false fatture, i conti cifrati in Svizzera dai nomi creativi (Pesce e Sole, un tocco d’ambientalismo), il coinvolgimento di una «femme fatale», la compagna del protagonista che a Cosenza fa l’assessore alla sostenibilità ambientale e, a parere degli inquirenti, si sosterrebbe benissimo da sola, molto meglio dell’ambiente.  
Auguriamo a Clini e famiglia di uscire invitti dalle inchieste o, in caso contrario, di restituire ai contribuenti il maltolto moltiplicato per dieci. Ma la sua disavventura inquadra la vera sfida su cui si giocherà la renzitudine di Renzi nei prossimi mesi. Il socialista Clini è direttore generale del ministero dell’Ambiente dal 1991. Persino un santo cederebbe alle tentazioni se vivesse incollato alla stessa poltrona dai tempi di Andreotti. L’acqua che non scorre inquina. E troppi ministeri in Italia sono stagni. Una sana politica ambientale impone di cambiare ovunque l’acqua e possibilmente anche l’aria. 

piazza ...bella piazza...Loggia

persone care...

Sconfitta

Come è giusto fare dopo una pesante sconfitta elettorale, una dura resa dei conti si è aperta a Roma nel Pd.

Per sei mesi contro l’europalude

Stefano Menichini 
Europa  

La trattativa che s'è aperta a Bruxelles sarà lunga, barocca, incomprensibile. Per dimostrare che la vittoria elettorale non è stata inutile, Renzi dovrà forzare durante il semestre di presidenza italiana.
I tempi e i riti della politica europea non s’addicono a Matteo Renzi. Col vertice informale di ieri sera s’è aperto un processo decisionale barocco, interminabile, che condurrà al completamento della commissione solo fra ottobre e novembre. Il governo dell’Unione nascerà al culmine di trattative incomprensibili ai più, con incroci fra interessi nazionali, di famiglie politiche, di singoli partiti e naturalmente personali. Basti dire che il primo passo della vicenda è la sostanziale esclusione dalla rosa per la presidenza della commissione di coloro che s’erano candidati per il posto davanti agli elettori, a cominciare dal vincitore Juncker.
In questo contesto non sarà facile per Renzi dare agli italiani il riscontro rapido dell’utilità della sua vittoria elettorale. Se Montecitorio è una palude, Bruxelles sono le Everglades, dove possono affondare le migliori intenzioni di «cambiare verso».
Un po’ come in Italia nell’ultimo anno, la crisi di credibilità delle istituzioni e delle politiche Ue sarà alleata di colui al quale si guarda ormai da molte parti come al campione della rinascita europeista.
Ecco allora che il famoso semestre di presidenza italiano acquisisce – in piena vacatio degli altri poteri comunitari – un significato imprevisto. Dopo il voto di domenica il ruolo formale si riempie di sostanza, oltretutto nelle mani di un fuoriclasse della comunicazione. Dal primo luglio vedremo all’opera Renzi formato esportazione, il cui nuovo traguardo da appassionato di cronoprogrammi diventa il 31 dicembre. Quando a trarre il bilancio – non solo europeo, e non solo del semestre – sarà Giorgio Napolitano.

martedì 27 maggio 2014

adesso europa


Un altro 28 maggio


Adriana Apostoli

Brescia 28 maggio 2014

Non è la prima volta che quel che avvenne il 28 maggio di quarant'anni fa in Piazza Loggia a Brescia viene fatto oggetto di riflessione storica, politica, filosofica e religiosa.
Un evento così spaventoso non può non continuare a suscitare mille domande, cui è tuttavia ancora difficile dare risposte. Certo continuiamo ad avere “bisogno – come ripete Manlio Milani - di approfondirla fino in fondo la nostra storia, di far emergere tutta la verità di questi anni”.
Dietro ogni vita stroncata in quella Piazza c'era un universo di affetti e di progetti che è stato irrimediabilmente distrutto. Ma non vorrei, anche se è molto difficile, giocare sul filo dell’emozione, della memoria interna. Così come non vorrei affrontare l’aggrovigliato ma non inconcludente cammino processuale, fatto di verità storiche calpestate, di acquisizioni giudiziarie disperse, di punti di certezza ribaltati.
Quello che vorrei è ricondurre la “storia di una strage” nell’alveo della Costituzione italiana, legge fondamentale, nata dalle macerie del Secondo conflitto mondiale.
Innanzitutto perché la memoria esterna, quella che passa attraverso il ruolo giocato dalle istituzioni e dalla generalità delle persone, necessita e induce inevitabilmente ad un confronto diretto con le regole costituzionali.
Allo stesso modo, parlando della strage di Brescia, non si può prescindere da un confronto con quanto sancito nel Patto costituzionale, per comprendere quanto quell’accordo abbia tenuto alla prova dei fatti, quanto abbia retto all’uso politico della forza, alla violenza stragista.
Non va inoltre dimenticato che la manifestazione del 28 maggio - quella di allora innanzitutto ma poi tutte le successive - parla di Costituzione, è una manifestazione in difesa della Costituzione, dei suoi principi, dei suoi valori irrinunciabili: libertà, uguaglianza, giustizia, solidarietà, lavoro, scuola.
Parlare della strage di Brescia significa toccare con mano le difficoltà di una giovane democrazia che ha sofferto e soffre di molte imperfezioni ed assiste quotidianamente ai ripetuti strappi del suo tessuto costituzionale, perché troppi dei suoi principi, troppe delle conquiste che hanno e dovrebbero continuare ad alimentarla vengono ogni giorno impoveriti. Una giovane democrazia che ha pagato un prezzo molto alto per la difesa dei principi e dei valori sui quali si è fondata.
Quel patto costituzionale non è stato sempre rispettato. Troppe volte è stato violato. E doppiamente violato, non solo per l'abietta violenza di cui la nostra Piazza è stata testimone, ma anche perché, se è vero che l'unico modo che gli uomini hanno di riparare un torto è quello di rendere giustizia, il grande torto del 28 maggio 1974, pur essendo trascorsi quarant'anni, non è stato del tutto riparato. Democrazia incompiuta e bloccata, anche offesa, deviata e violentata.
Democrazia che, abbiamo bisogno di credere, abbia fatto tesoro dei suoi stessi errori.

europee


L'aria che tira

Le elezioni europee appena concluse ci hanno regalato un risultato straordinario ed insieme una grande responsabilità ma in giro per l'Europa i risultati non sono stati così rosei per molti. 

Il PPE perde 60 seggi ma resta il primo partito all'interno dell'Europarlamento, il PSE mantiene e incrementa leggermente la sua posizione grazie anche all'incredibile risultato italiano e alla piccola ripresa dei socialisti in Germania, i movimenti euroscettici ottengono grande affermazione e portano al parlamento oltre 100 seggi mentre l'astensione resta comunque uno dei tratti dominanti anche di queste elezioni.

La sconfitta dei socialisti franscesi e del PSOE in Spagna sembra inoltre porre sul tavolo, anche negli altri paesi europei, quella stessa necessità di rinnovare la classe politica di cui forse il Pd è stato il pionere.

Ora resta da capire chi, come, con quali maggioranze e con quali obiettivi sarà alla guida dell'Unione.
Quest'oggi prima riunione del Consiglio Europeo, dove i primi ministri dei 28 stati membri cominceranno a  confrontarsi per l'assegnazione dei tre incarichi di vertice dell'Ue ( Presidente della Commissione, Presidente del Consiglio Europeo e Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza ), il tutto cercando anche l' accordo con il Parlamento che, grazie all'incremento di potere datogli dal trattato di Lisbona, non resterà certo alla finestra a guardare.

In attesa dei primi sviluppi proviamo a capirci qualcosa con lo speciale elezioni europee di Europeizziamoci a cura del circolo PD Bruxelles,  che raccoglie anche  interessanti commenti dei Circoli PD di Monaco di Baviera, Madrid e Parigi.

Vediamo, in Europa, l'aria che tira.
 

quattro giorni fa....un secolo

«Andremo al Quirinale per chiedere a Napolitano di sciogliere le camere, e lui si deve dimettere e il nuovo parlamento eleggerà un altro presidente della repubblica»
Grillo

Foto di gruppo


"Renzi ha voluto trasmettere a tutti l'immagine di un gruppo vincente, tirandosi fuori da quella foto di gruppo, ma tutti sanno bene che questo risultato è il suo risultato, non certo di un messia o di un guru ma quello di un uomo che si è messo in gioco, che lo ha fatto senza reti di protezione e con un enorme rischio personale". Roberto Giacchetti

Ucraina, “uccisi 100 filorussi a Donetsk”

Redazione Il Fatto Quotidiano | 27 maggio 2014
A due giorni dalle elezioni presidenziali, che hanno sancito la vittoria dell’oligarca Petro Poroshenko, non accenna ad arrestarsi la guerriglia nell’est dell’Ucraina. I miliziani separatisti, spiega il ministro dell’Interno ucraino Arsen Avakov, hanno subito “grosse perdite” nei combattimenti di lunedì a Donetsk. Fonti mediche nella città parlano di almeno 30 morti, senza precisare se si tratti di civili o miliziani, ma secondo  i responsabili dell’autoproclamata Repubblica popolare (Dnr) le vittime sono almeno cento. “Forse più della metà la metà sono civili. Non riusciamo ancora a recuperare i cadaveri, siamo sotto il tiro dei cecchini”, ha annunciato il leader Denis Pushilin. Inoltre le autorità della Dnr hanno diramato un ordine di evacuazione per i civili in alcune zone della città, comprese quelle prossime al palazzo dell’amministrazione ribelle.
A seguito delle forti tensioni a Est, il Cremlino lancia l’allarme e il ministro degli Esteri russo Serghiei Lavrov si dice “molto preoccupato” perché “le elezioni si sono svolte sullo sfondo delle azioni militari” e perché “subito dopo il voto è stato dato l’ordine di intensificare la cosiddetta operazione anti terroristica” nell’est. Lavrov ha ribadito che Mosca rispetta l’espressione della volontà degli elettori nelle presidenziali ucraine, ma ha rinnovato l’appello per porre fine a qualsiasi violenza, come previsto dagli accordi di Ginevra. Anche Vladimir Putin, in una telefonata con il premier Matteo Renzi, ha sottolineato la “necessità di porre fine immediatamente all’operazione militare punitiva nelle regioni sud-orientali e di stabilire il dialogo pacifico tra Kiev e i rappresentanti delle regioni”.
Le forze armate governative hanno inoltre ripreso “pienamente il controllo” dell’aeroporto di Donetsk. Secondo la tv russa Rossia 24 e il Financial Times, non è però chiaro chi controlla lo scalo e si sentono ancora spari ed esplosioni. Gli scontri sono iniziati per il controllo dell’aeroporto di Donetsk, in un tentativo di impedire l’arrivo di Poroshenko, che domenica sera aveva annunciato l’intenzione di compiere il suo primo viaggio nell’est dell’Ucraina. All’assalto dei filorussi, Kiev ha risposto con attacchi aerei e con un assalto dei militari alle postazioni dei separatisti. Il neo presidente aveva confermato ieri la volontà di continuare “le operazioni antiterrorismo” nell’est, che “non possono e non devono durare due o tre mesi, ma ore”. L’est dell’Ucraina “non sarà trasformata nella Somalia“, aveva scandito.

Il Pd è diventato il “partito nazione”

Pierluigi Castagnetti 
Europa  

La vittoria è tutta di Renzi: ha dimostrato di avere intelligenza, passione, pazienza e capacità di mediazione. Ha saputo convincere gli italiani che l'Europa va cambiata e non buttata a mare
Parliamo dell’Italia prima ancora dell’Europa. La vittoria di Renzi di queste dimensioni nessuno poteva immaginarla, perché non conosciamo più il paese, e non da oggi per la verità. Il circuito chiuso fra ceto politico e mezzi di comunicazione continua a tenere a distanza la realtà, nell’illusione che sia quella che si immagina e descrive tutti i giorni, senza averla mai seriamente frequentata.
L’esaurimento delle tradizionali forme-partito che in anni lontani consentivano di avere “in casa” uno spaccato fedele della società e un maledetto sistema elettorale che non impone più un ancoraggio serio degli eletti con il territorio, costringono infatti nel migliore dei casi a un effimero tentativo di conoscenza della realtà attraverso la mediazione della letteratura sociologica o giornalistica. Ma non è questo il modo.
Occorre rimettere le mani nella morchia del motore italiano. Non conoscevamo infatti la rabbia del paese un anno fa quando è stata intercettata e canalizzata dal M5S, non ci siamo resi conto oggi della domanda di un nuovo baricentro politico che desse un minimo di stabilità e sicurezza. Renzi invece aveva colto questa attesa anche se, immagino, lui stesso sia stato sorpreso da un risultato di questa forza.
A lui va, dunque, il merito del coraggio e della generosità riversata in campagna elettorale, ma soprattutto quello dell’intuizione di uno spazio colmabile solo con una rivoluzione-responsabile. La vittoria è sua, inutile chiosare. Una vittoria ancora più clamorosa se si considera che al Pd, e a Renzi in particolare, era assegnata la parte più difficile in queste elezioni: convincere gli italiani, che più di altri avevano pagato il prezzo alto della crisi economica e delle ricette europee, che l’Europa andava cambiata e non buttata a mare, e che l’Italia avrebbe dovuto in questo passaggio elettorale mettersi in condizione di poter giocare l’iniziativa di un tale cambiamento, non con gli slogan elettoralistici e con l’isolamento nelle istituzioni comunitarie. Gli italiani hanno capito e risposto in misura superiore al prevedibile.
Quel 40,8% è ora un capitale, una forza, uno straordinaria possibilità. È il ritrovato baricentro del sistema politico. È cioè il “contenitore” delle risorse morali e politiche dell’Italia, come in una certa misura lo fu per tanti anni la Dc. Non che il Pd stia diventando simile alla Dc ma, come la Dc, è diventato ora il “partito nazione”, come non era mai stata la sinistra, che rappresenta ovviamente da una prospettiva diversa democratica e di sinistra, lo spirito del paese, di tutto il paese, in cui si riconosce il paese.
In questo risultato ci sono dentro probabilmente tanti pezzi dell’Italia contemporanea, in una certa misura oltre le tradizionali categorie di destra e sinistra, oltre le ideologie del passato, un’Italia secolarizzata ma non priva di valori, disponibile a sostenere un disegno politico non amorfo ma solido e proiettato verso il futuro.
Bisogna ora riflettere seriamente su quanto è avvenuto e sapere che titubanze e nostalgie non ci sono consentite.
Il Pd è diventato un altro partito, forse è diventato il partito che volevamo quando l’abbiamo fondato. Ora dobbiamo dare forma e fede politica a questo pezzo ampio della società italiana che scommette su di noi.
Ed è giusto che Renzi vada in Europa con tutto questo bagaglio di forza, mobilitando le energie intellettuali e professionali che possono aiutarlo a ideare le strade di un ricominciamento. Il Pd di Renzi, il più grande partito nazionale del Pes, e la Cdu della Merkel, il più grande partito dell’Epp, dovranno assumersi la responsabilità dell’iniziativa. Purtroppo la Merkel non ha la fede europeista di Kohl (che una volta sentii affermare: «L’euro è utile per ancorare ancor più la Germania al destino comune europeo. È utile agli altri paesi per non dover più diffidare della Germania, ed è utile alla Germania per non poter confidare troppo sulla sua forza»), ma ora dovrà convincersi – anche con l’aiuto dell’Spd – che l’Europa ha bisogno della generosità di tutti i paesi dell’Unione a partire proprio dalla Germania. Occorre intelligenza, passione, pazienza e capacità di mediazione. Mi pare che possiamo dire che Renzi ha già dimostrato di possederle tutte.