domenica 17 maggio 2020

La sfida per l'Europa

Guido Bodrato
L'Europa è sfatta. questo il titolo di un articolo di Guido Crainz, pubblicato dall'Espresso dell'altra settimana. Crainz rilancia l'allarme sul destino di un'Europa, messa alla prova dalla '"emergenza virus". Doveva essere un'occasione per una prova di solidarietà...ed invece ogni paese si è rinchiuso nelle vecchie frontiere, nell'illusione di difendersi meglio dall'aggressione dell'epidemia, quando la scienza ha detto che "nessuno si difende da solo". Dobbiamo riconoscere che manca un'opinione pubblica europea, cioè una cultura europea, e che il vertice delle istituzioni europee. il consiglio dei ministri, è dominato dal demone del nazionalismo.  
Sul "male oscuro che cova in Europa" aveva scritto una pagina che dovremmo rileggere, nel 1992, Pietro Citati. Cito dall'inizio: "Abbiamo dimenticato che vivere nel tempo presente è una condizione tragica, Non vi regnano i programmi e la sicurezza - ma l'incertezza, la precarietà, la contraddizione, talvolta l'orrore; e se la linea della storia sembra correre per vent'anni, nei vent'anni successivi può inabissarsi in una palude...Così alla fine del ventesimo secolo, abituati a quarant'anni di agi, l'uomo europeo ha perduto la pazienza e la sopportazione. E' divorato dall'ansia. Se incontra una grande o piccola contrarietà, crede che sia giunta la fine dei tempi..." Citati concludeva con una riflessione che riguarda la forma politica (la democrazia) che ci ha dato il benessere, ma non la felicità.
Quando ho concluso, nel 2004, la mia esperienza d europarlamentare l'ho riassunta in un libro dal titolo "Europa impossibile". Avevo visto da vicino un cambio generazionale nel Parlamento di Strasburgo, e mi sembrava che la nuova generazione stesse dimenticando le ragioni storiche dell'Unione, la tragedia del '900, e vivesse anche l'allargamento all'Est senza la consapevolezza dei problemi che quella svolta storica poneva..Eppure l'Europa aveva alle spalle vent'anni di Erasmus, ed ormai per molti giovani vivere a Parigi o a Berlino, era come vivere a Roma od a Londra.. Cosa è accaduto negli ultimi anni? Le elezioni europee del 2018 hanno registrato il dilagare, in tutto il continente, del nazionalismo, di una destra sovranista che ha fatto della questione degli extra-comunitari, della chiusura dei confini, il suo cavallo di battaglia; e la Gran Bretagna è uscita dall'Unione...
Tutto è diventato più difficile, per i governi democratici, di centro-destra o di centro-sinistra. La Merkel ha così sintetizzato la situazione dei governi nazionali e dell''europeismo: camminiamo su una lastra di ghiaccio..
La questione culturale, una seria riflessione sulla storia, una riscoperta delle radici dell'Unione europea, sono essenziali..
Tuttavia questa operazione deve fare riferimento ad un obiettivo politico che si è fortemente appannato: la necessità di riscoprire i valori su cui è fondata l'Unione europea, la sua missione democratica in un mondo caratterizzato da regimi autoritari...E bisogna riflettere sul fatto che i sovranisti non hanno più l'obiettivo di "uscire dell'Unione", ma quello di "conquistare l'Europa", di radicare nei diversi paesi, e nell'Europa, una idea radicalmente diversa di "democrazia": quella "democratura"che si sta sperimentando in Ungheria e in Polonia; che è rappresentata da Le Pen in Francia e da Salvini in Italia; che rischia di affiorare nell'egoismo dei paesi del Nord..Che fa guardare alla Russia, alla Cina..... a Trump.
Ma questa realtà politica richiede che le "famiglie democratiche" che hanno costruito l'Europa "unita nella diversità" sappiano rinascere dalla memoria del '900 e misurarsi con i tempi nuovi ed i problemi imposti dalla globalizzazione e dalla rivoluzione tecnologica; una svolta profonda che richiede una nuova e straordinaria solidarietà. Questo è il tempo che dobbiamo vivere. Questo è il Dopo, anche con la pandemia.
E' impossibile? Dobbiamo renderlo possibile. Questa è la sfida decisiva, se vogliamo che il Dopo sia migliore.

giovedì 14 maggio 2020

grande


SALVINI ALLA BELLANOVA: "sei come la Fornero"
BELLANOVA A SALVINI:
"Mi imbarazzerebbe essere come te"...
fine.

La bella politica

Teresa Bellanova
È vero. Ho pianto. Ho faticato, ho combattuto, e alla fine ho pianto. Hanno accostato le mie lacrime ad altre lacrime: le hanno riportate ad un genere, quello femminile. Io invece ho avuto la forza di piangere - sì, la forza - perché ho fatto una battaglia per qualcosa in cui credevo sin dall’inizio, perché ho chiuso il cerchio di una vita che non è soltanto la mia, ma è quella di tantissime donne e uomini che come me hanno lavorato nei campi.
Però una cosa la voglio dire, a chi sta con me e a chi sta contro di me: le lacrime non le giudicate perché appartengono non a me sola, ma a chi ha ogni giorno il coraggio di sfidare per cambiare, sapendo che si può perdere o vincere. Sono cose che hanno a che fare con la vita, con l’impeto e la forza delle idee. Le lacrime sono il segno costitutivo, generativo della nostra specie. Chi le teme, o chi non ne comprende il senso e la forza, ha perso di vista il carattere più importante dell’umano: la coscienza delle cose, quant’è prezioso mostrarsi vulnerabili. Se abbiamo perso di vista questo, se non sappiamo più riconoscere cosa significa il pianto di chi crede in quello che fa, è preoccupante. Più di ogni battaglia, vinta o persa che sia.
La forza delle donne, ed anche di molti uomini, è proprio saper piangere: non esiste un “pianto di genere“, perché l’unico genere capace di pianto è quello umano. Le donne qui non c’entrano nulla: c’entrano coloro che ogni giorno portano avanti le battaglie in cui credono, magari impopolari ma giuste. Quelli che avanzano il cuore senza bisogno di calcolare le distanze. Spostano la notte più in là. E credono nella politica che guarda in faccia i problemi che attendono risposte.

mercoledì 13 maggio 2020

TOCCHERÀ ARRESTARE I SALLUSTI E GLI SGARBI

Il Fatto Quotidiano
12 / 05 / 2020
Daniele Luttazzi
Silvia Romano è stata liberata, e da destra sono subito arrivate le “felicitazioni, ma”. Maria Giovanna Maglie è trasecolata per via dell’abito tradizionale somalo indossato da Silvia, come se Silvia fosse una corrispondente Rai all’estero che poteva fare shopping compulsivo gonfiando la nota spese. Vittorio Feltri l’ha buttata sui soldi del riscatto, perché in questo modo lo Stato ha finanziato i terroristi. Ma se oggi Aldo Moro è vivo, è perché lo Stato pagò il riscatto. Scusate, esempio sbagliato. Ha ragione Feltri: non finanziando i terroristi di destra, lo Stato impedì le stragi di piazza Fontana, piazza della Loggia, Italicus e stazione di Bologna. Scusate, altro esempio sbagliato. Insomma, quanti soldi sono? 53 milioni? Ah no, quelli sono i soldi pubblici presi da Libero dal
2003 al 2017. 49 milioni? Ah, no, quelli deve restituirceli la Lega. 21 milioni? Ah no, quelli sono i soldi buttati dalla Regione Lombardia per l’inutile ospedale alla Fiera. Insomma, quanti? 4 milioni. Siamo 60 milioni di italiani, quindi 0,06 euro a testa. Vittorio, stacce. Per dirottare l’attenzione su di sé (ne era in astinenza, dato che tutti stavano parlando di Silvia e non di lui), Sgarbi ha proposto che Silvia venga arrestata perché complice dei terroristi, visto che si è convertita all’Islam. Ma l’equazione Islam = al Qaeda è islamofobia; ed è grazie all’islamofobia che al Qaeda fa proseliti. Ovvero, Sgarbi sta facendo il gioco dei terroristi: arrestiamo anche lui? Lo stilista Sallusti, buttandola sul vestito come la Maglie (“È stato come vedere tornare un prigioniero dei campi di concentramento orgogliosamente vestito da nazista. Non capisco, non capirò mai”), non capisce neppure che sta facendo la stessa equazione di Sgarbi (Islam = al Qaeda), che fa il gioco dei terroristi. Arrestiamo pure Sallusti, Vittorio? Alessandro Meluzzi, psichiatra, sminuisce la conversione religiosa di Silvia parlando di “sindrome di Stoccolma”. Ma Meluzzi, che in gioventù ha militato nel Pci, poi nel Psi, poi è diventato parlamentare di Forza Italia, poi è entrato nell’Udr di Cossiga, poi in Rinnovamento Italiano, poi nei Verdi, poi ha fondato i Cristiano Democratici Europei aderendo all’Udeur di Mastella, infine è approdato a Fratelli d’Italia, ma ammira Putin, è stato massone e console onorario del Paraguay, s’è convertito al cristianesimo, è stato diacono cattolico di rito greco-melchita, poi presbitero della Chiesa ortodossa italiana autocefala, poi primate, metropolita e arcivescovo di tale Chiesa con il nome di Alessandro I, e quando va in tv tuona contro l’aborto, il matrimonio omosessuale e l’eutanasia, sostenendo pure che “certi pedofili non commettono reato e nemmeno peccato”, e che Bergoglio è promotore del piano Kalergi (sostituire gli europei con africani e asiatici); Meluzzi, dicevo, di che sindrome soffrirà?

martedì 12 maggio 2020

Lettera di Maryan Ismail a Silvia Romano

Maryan Ismail
“Comprendo tutto di Silvia. Al suo posto mi sarei convertita a qualsiasi cosa pur di resistere, per non morire”. Lettera a Silvia Romano di Maryan Ismail, nata in Somalia, in Italia da 35 anni, docente di antropologia dell’immigrazione, tratta dal suo profilo Facebook

Ho scelto il silenzio per 24 ore prima di scrivere questo post.
Quando si parla del jihadismo islamista somalo mi si riaprono ferite profonde che da sempre cerco di rendere una cicatrice positiva. L’aver perso mio fratello in un attentato e sapere quanto è stata crudele e disumana la sua agonia durata ore in mano agli Al Shabab mi rende ancora furiosa, ma allo stesso tempo calma e decisa.
Perché? Perché noi somali ne conosciamo il modus operandi spietato e soprattutto la parte del cosiddetto volto “perbene”. Gente capace di trattare, investire, fare lobbyng, presentarsi e vincere qualsiasi tipo di elezione nei loro territori e ovunque nel mondo.
Insomma sappiamo di essere di fronte a avversari pericolosissimi e con mandanti ancor più pericolosi.
Ora la giovane cooperante Silvia Romano, che è bene ricordare NON ha mai scelto di lavorare in Somalia, ma si è trovata suo malgrado in una situazione terribile, è tornata a casa.
Non è un caso che per mesi ho tenuto la foto di Silvia Romano nel mio profilo fb. Sapevo a cosa stava andando incontro.
Si riesce soltanto ad immaginare lo spavento, la paura, l’impotenza, la fragilità e il terrore in cui ci si viene a trovare?
Certamente no, ma bastava leggere i racconti delle sorelle yazide, curde, afgane, somale, irachene, libiche, yemenite per capire il dolore in cui si sprofonda.
Comprendo tutto di Silvia.
Al suo posto mi sarei convertita a qualsiasi cosa pur di resistere, per non morire. Mi sarei immediatamente adeguata a qualsiasi cosa mi avessero proposto, pur di sopravvivere.
E in un nano secondo.
Attraversare la savana dal Kenya e fin quasi alle porte di Mogadiscio in quelle condizioni non è un safari da Club Mediterranee… Nossignore è un incubo infernale, che lascia disturbi post traumatici non indifferenti.
Non mi piacciono per nulla le discussioni sul suo abito (che per cortesia non ha nulla di SOMALO, bensì è una divisa islamista che ci hanno fatto ingoiare a forza), né la felicità per la sua conversione da parte di fazioni islamiche italiane o ideologizzati di varia natura.
La sua non è una scelta di LIBERTA’, non può esserlo stata in quella situazione.
Scegliere una fede è un percorso così intimo e bello, con una sua sacralità intangibile.
E poi quale Islam ha conosciuto Silvia?
Quello pseudo religioso che viene utilizzato per tagliarci la testa? Quello dell’attentato di Mogadiscio che ha provocato 600 morti innocenti? Quello che violenta le nostre donne e bambine? Che obbliga i giovani ad arruolarsi con i jihadisti? Quello che ha provocato a Garissa 148 morti di giovani studenti kenioti solo perché cristiani? Quello che provoca da anni esodi di un’intera generazione che preferisce morire nel deserto, nelle carceri libiche o nel Mediterraneo pur di sfuggire a quell’orrore? Quello che ha decimato politici, intellettuali, dirigenti, diplomatici e giornalisti?
No non è Islam questa cosa.
E’ NAZI FASCISMO, adorazione del MALE.
E’ puro abominio.
E’ bestemmia verso Allah e tutte le vittime.
I simboli, sopratutto quelle sul corpo delle donne hanno un grande valore. E quella tenda verde NON ci rappresenta.
Quando e se sarà possibile, se la giovane Silvia vorrà, mi piacerebbe raccontarle la cultura della mia Somalia. La nostra preziosa cultura matriarcale, fatta di colori, profumi, suoni, canti, cibo, fogge, monili e abiti.
Le nostre vesti e gioielli si chiamano guntino, dirac, shash, garbasar, gareys, Kuul, faranti, dheego, macawis, kooffi.
I nostri profumi si chiamano cuud, catar e persino barfuum (che deriva dall’italiano).
Ho l’armadio pieno delle stoffe, collane e profumi della mia mamma. Alcuni di essi sono il mio corredo nuziale che lei volle portarsi dietro durante la nostra fuga dalla Somalia.
Adoriamo i colori della terra e del cielo.
Abbiamo una lingua madre pieni di suoni dolci , di poesie, di ninne nanne, di amore verso i bimbi, le madri, i nostri uomini e i nonni.
Abbiamo anche parti terribili come l’infibulazione (che non è mai religiosa, ma tradizionale), ma le racconterei come siamo state capaci di fermare un rito disumano.
Come e perché abbiamo deciso di non toccare le nostre figlie, senza aiuti, fondi e campagne di sostegno.
Ma soprattutto le racconterei di come siamo stati, prima della devastazione che abbiamo subito, mussulmani sufi e pacifici, mostrandole il Corano di mio padre scritto in arabo e tradotto in somalo..
Di quanti Imam e Donne Sapienti ci hanno guidato.
Della fierezza e gentilezza del popolo somalo.
E infine ho trovato immorale e devastante l’esibizione dell’arrivo di Silvia data in pasto all’opinione pubblica senza alcun pudore o filtro.
In Italia nessun politico al tempo del terrorismo avrebbe agito in tal modo nei confronti degli ostaggi liberati dalle Br o da altre sigle del terrore.
Ti abbraccio fortissimo cara Silvia, il mio cuore e la mia cultura sono a tua disposizione..
Soo dhowaw, gadadheyda macaan.

Far politica nella tempesta, alle radici della Liberazione


Domenico Palermo
Città Nuova
Nel giorno deI 75 anni della Liberazione, pubblichiamo l’anticipazione dell’intervista alla biografa di Tina Anselmi, staffetta partigiana a 17 anni, esempio di impegno nella costruzione della Repubblica. Perché è attuale il percorso della prima donna ministro in Italia e alla quale dobbiamo l’introduzione del Sistema sanitario nazionale
La centralità del Servizio sanitario pubblico davanti all’avanzare della pandemia da Covid-19 ha fatto riscoprire l’opera di Tina Anselmi (1927-2016), ministro della Sanità che introdusse il Ssn in Italia nel 1978. Una donna che ha attraversato le tempeste del suo tempo. Tina Anselmi, seconda da sx, archivio AV Dalla scelta di entrare nella Resistenza a 17 anni davanti alla strage nazista dei giovani impiccati per le strade nel paese dove frequentava la scuola superiore (Bassano del Grappa), fino alla presidenza (1981-1984) della Commissione bicamerale di inchiesta sulla Loggia massonica P2 di Licio Gelli, dove ha combattuto contro le trame occulte che minacciano l’esistenza stessa della nostra Repubblica. Per avvicinarci a tale figura abbiamo intervistato Anna Vinci, scrittrice e saggista. Coautrice del libro autobiografico della Anselmi, Storia di una passione politica (Sperling & Kupfer, 2016), e del libro La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi (Chiarelettere, 2014). La nostra Costituzione è il frutto di una ribellione morale che ha portato molti giovani dell’epoca a partecipare alla Resistenza. Cosa ha significato per Tina Anselmi? Parlerei di una passione per la verità. La sua vita è stata sempre guidata da una capacità di tradurre il pensiero in fatti. Il suo modo di vivere la fede, assieme ai suoi valori, la guidarono a questa scelta, drammatica e dolorosa, della resistenza al nazifascismo. Da che formazione proveniva? Hanno marcato la sua formazione, più di altri pur importanti, la nonna e il padre. La prima, vedova a 24 anni, gestiva un’osteria, era molto attiva e presente. Il papà era un socialista legato alla figura di Matteotti. La scelta della Anselmi di stare dalla parte delle vittime è stata molto chiara. Diceva che se non scegli, se non prendi una parte, finisci per sostenere il carnefice. Una cattolica democratica formatasi nell’Azione Cattolica, leggendo Maritain e i filosofi francesi all’epoca vietati in Italia. Colpisce, nella sua vita, l’amore della sua giovinezza rimasto intatto nel tempo... Aveva un profondo senso di rispetto per la sua vita privata. Era severa, in primis con se stessa, ma capace di tenerezza, che si manifestava in famiglia, con le nipotine amate, con gli amici e le amiche di una vita. Lei si innamorò di un giovane partigiano, Nino, che morì in sanatorio subito dopo la guerra. L’amore a cui rimase legata tutta la
vita. Infatti portò con sé nella tomba il rosario, un fiore del suo giardino e la foto di Nino. Da sindacalista delle lavoratrici delle filande, la Anselmi ha affrontato i problemi dello sfruttamento del lavoro. Cosa dice oggi ai lavoratori precari e sfruttati? Aveva una sensibilità curiosa e attenta agli altri, un “talento” raffinato dalla fede senza orpelli. Riuscì ad avvicinare le lavoratrici grazie a una loro collega e sua amica, Francesca Meneghin. Era naturalmente empatica con i lavoratori e in grado di cogliere la sudditanza femminile dell’epoca nei confronti dei datori di lavoro, padroni in fabbrica e dei “padroni” nelle case, padri, mariti, fratelli. Le donne all’epoca erano sottomesse non solo dal punto di vista psicologico ed economico, ma anche giuridico. Era in grado di cogliere quel dettaglio in grado di fare la differenza, come le mani “lessate” delle lavoratrici delle filande. Quanto incise questo impegno nella sua successiva azione politica? Al primo posto poneva le necessità degli altri. Appena arrivò al ministero della Sanità fu attenta a tenere le distanze, togliendo, con garbo e decisione, potere ai corrotti e riuscendo a istituire il Sistema sanitario nazionale la cui realizzazione aspettava da 14 anni per i troppi “interessi” che giravano
intorno. Durante un viaggio di scambio fra giovani democratici di Europa e Stati Uniti, fu ricevuta alla Casa Bianca, dove incontrò il presidente John Fitzgerald Kennedy e suo fratello Robert. Cosa si dissero? I fratelli Kennedy volevano sapere il perché delle riserve dei giovani
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europei verso la democrazia statunitense. Tina rispose sinceramente che non potevano essere attratti da un sistema dove i Rockefeller e gli altri imprenditori americani finanziavano eserciti per reprimere le lotte sociali. Tina Anselmi archivio vdp Come poteva la Anselmi far politica in un partito dalle tante contraddizioni come la Dc? A questa domanda avrebbe risposto con un sorriso ironico. Poi avrebbe detto che la Democrazia cristiana nella quale si era iscritta era quella che guidò, non certo da sola, il Paese fino alla morte di Aldo Moro. Evento che ha segnato la fine di un progetto politico decisivo per la crescita della democrazia in Italia. Dagli inizi degli anni ’80, la Dc si trasformò in altro, ma Tina rimase fedele alla sua appartenenza cercando di tradurre la sua moralità in azione e contribuire a cambiare l’Italia. Ancora oggi, con tutti gli attacchi verso la sanità pubblica,
l’impalcatura disegnata dalla Anselmi regge anche di fronte al coronavirus. Negli anni ’80 guidò la commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 e nel 1992 non fu ricandidata nel suo collegio di Venezia-Treviso. Una persona del genere doveva essere nominata almeno senatrice a vita. E invece cosa è accaduto? Ha pagato la sua azione forte contro la P2. Andò fino in fondo, contro un muro di potere maschile che metteva insieme pezzi dello Stato, banche, potere dello Ior sotto la guida di Marcinkus e molto altro. Con i servizi segreti “devianti”, non deviati. Questo lavoro contraddistinse la sua tenuta morale fondata sulla lotta partigiana, impegno che ha pagato, come tanti eroi borghesi. Tina diceva che per capire le radici della Repubblica bisogna leggere le lettere dei condannati a morte della Resistenza e il loro amore per la vita. LaPresse - P.G
La folla nell'ultimo saluto alla Anselmi nel 2016 Un anno fa è uscita la notizia della realizzazione del film sulla vita di Tina Anselmi con Rai Fiction. A che punto è? I grandi progetti hanno spesso bisogno di lunghi tempi. Raccontare la sua vita vuol dire rivivere una parte della storia d’Italia. Le sorelle, Maria Teresa e Gianna Anselmi, io stessa, coloro che si riconoscono nella storia, non solo politica ma umana di Tina, i cittadini di Castelfranco, noi tutti abbiamo una grande fiducia in Rai Fiction e rispetto nei confronti della sua direttrice, Eleonora Andreatta. Tina Anselmi si ritroverebbe, certo, in un film che narra la sua vita con “carne”, passione e ironia. Non amava la retorica né “i santini”.

sabato 9 maggio 2020

Moro, l’inattualità attualissima della sua lezione


Sono passati 42 anni dall’assassinio dello statista democristiano. Una vicenda ancora parzialmente oscura, ma che ha offuscato la parabola di un uomo che è stato il vero perno dell’evoluzione politica della Repubblica in Italia
di Guido FORMIGONI
Docente di Storia contemporanea - Prorettore Iulm
La vicenda ancora parzialmente oscura del sequestro e dell’assassinio di Moro, di cui ricordiamo in questo periodo i 42 anni, ha oscurato per molto tempo la sua parabola di politico e di statista. Nella memoria degli italiani resta la R4 amaranto con il suo mesto carico, non un percorso di vent’anni in cui Aldo Moro fu il vero perno dell’evoluzione politica della Repubblica in Italia. La sua morte tragica ha dato il suggello definitivo a un ruolo storico che egli pensava nel senso dell’evoluzione, della crescita, del pacifico e ordinato movimento verso obiettivi condivisi. E che invece è stato segnato dalla contrapposizione aspra e dall’incomprensione sul fronte esterno, ma anche da una interna tensione e da una drammaticità esistenziale crescente, di cui abbiamo la possibilità di cogliere solo alcuni bagliori.
Il giudizio sugli esiti della sua parabola esistenziale può essere anche molto diverso a seconda dei punti di vista e dei giudizi storici, ma questo non dovrebbe impedire di considerare né l’originalità delle sue intenzioni e delle sue motivazioni, né gli esiti di questo impegno. In termini di progetto, il suo pervicace tentativo fu quello di rendere la «Repubblica dei partiti» capace di realizzare quel modello ideale che restò sempre la sua stella polare: lo Stato democratico-sociale avanzato delineato nella prima parte della Costituzione del 1948. Lo perseguì costruendo le strategie del primo centro-sinistra e poi della «solidarietà nazionale» degli anni 1976-’78: allargare a sinistra il consenso, quindi, tentando però di evitare che si creassero contraccolpi e rotture. Egli riteneva indispensabile che non si divaricasse dal governo del Paese il peso di quel moderatismo italiano che era a rischio di involuzioni destrorse e financo autoritarie: per questo fu un sostenitore continuo dell’unità della Dc. In termini di risultati, siamo sempre più consapevoli che la sua scomparsa coincise con la fine di un periodo tutto sommato evolutivo della storia repubblicana, cui fece seguito una crisi sempre più grave della politica, precipitata infine nel baratro di Tangentopoli.
Cosa resta ai giorni nostri di quella esperienza e della lezione di quell’impegno? Il suo magistero intellettuale è vasto. Si tratta di scritti tutt’affatto che difficili e oscuri (come una certa retorica polemica è usa a dire), magari un po’ lenti e noiosi per i ritmi moderni, ma molto logici e addirittura pedagogici nei loro contenuti.
Certamente, a tratti sembra di essere ormai troppo lontani dai suoi giorni per poter parlare di una lezione viva. Anche perché purtroppo la brusca troncatura della sua presenza non ha aiutato una possibile continuità delle sue intuizioni, dei suoi metodi e della sua ispirazione. E ancor di più, perciò, molta parte delle lezioni che scaturiscono dalla sua vita ci sembrano segnate dall’inattualità di una stagione molto lontana. Non ci sono più i riferimenti vitali della politica di Moro: il quadro internazionale della guerra fredda, i partiti di massa, una Chiesa capillarmente viva negli strati popolari, una società in tumultuoso e ottimistico sviluppo.
Ma credo senz’altro che la società e la politica attuale potrebbero imparare parecchio proprio da questa inattualità: confrontarsi con qualcosa di totalmente diverso dovrebbe aiutare a comprendere i limiti del presente. Pensiamo alla sua capacità di intuire i grandi problemi storici senza farsi condizionare troppo dall’attualità contingente, alla fiducia nella lentezza dei processi più che nell’apparente rottura del decisionismo astratto, all’uso mite della parola e della ragione per ricondurre sempre le tensioni su un terreno di dialogo civile, all’arte della mediazione non finalizzata semplicemente alla propria sopravvivenza ma all’evoluzione lenta di un sistema fragile come la democrazia italiana, alla sua tensione interiore nell’essere fedeli al  Vangelo assumendo la responsabilità di scegliere nella storia i passi ad esso coerenti (in una sorta di permanente «principio di non appagamento» verso una meta di giustizia e di libertà). Sono elementi del passato? Forse, ma quanto potrebbero insegnare all’oggi!

Il giorno della memoria


Le parole del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella

«Nel "Giorno della Memoria", che il Parlamento italiano ha voluto dedicare alle vittime del terrorismo, la Repubblica si inchina davanti alle vite spezzate dal fanatismo politico, dalle violenze di gruppi brigatisti e neofascisti, dagli assalti eversivi alle istituzioni democratiche e alla convivenza civile.
Tragicamente lunga è la sequela delle persone uccise negli anni di piombo: servitori dello Stato, donne e uomini eletti a simbolo di funzioni pubbliche, cittadini impegnati nella vita sociale, testimoni coerenti che non hanno ceduto al ricatto. Il legame della memoria rinnova e rafforza il sentimento di solidarietà con i familiari, ma richiama anche un impegno che vale per l'intera comunità.
Ricordare è un dovere. Ricordare le strategie e le trame ordite per destabilizzare l'assetto costituzionale, le complicità e le deviazioni di soggetti infedeli negli apparati dello Stato, le debolezze di coloro che tardarono a prendere le distanze dalle degenerazioni ideologiche e dall'espandersi del clima di violenza. Ed è giusto ricordare il coraggio di chi non si è piegato, di chi ha continuato a difendere la libertà conquistata, il diritto e la legalità, le istituzioni che presidiano la vita democratica. Il terrorismo è stato sconfitto grazie al sacrificio e alla rettitudine di molti, e grazie all'unità che il popolo italiano ha saputo esprimere in difesa dei valori più profondi della propria civiltà. La storia ci ha dimostrato che l'unità e la coesione degli italiani sono gli strumenti più efficaci di fronte ai pericoli più gravi.
Nel tempo sono state accertate responsabilità dirette e indirette. Gli autori dei delitti sono stati sottoposti a processi e condanne. Ma non ovunque è stata fatta piena luce. La verità resta un diritto, oltre che un dovere per le istituzioni. Terrorismo ed eversione sono stati battuti con gli strumenti della democrazia e della Costituzione: la ricerca della verità, dunque, deve continuare laddove persistono lacune e punti oscuri.
Il 9 maggio è il giorno in cui Aldo Moro venne ucciso. La barbarie brigatista giunse allora all'apice dell'aggressione allo Stato democratico. Lo straziante supplizio a cui Moro venne sottoposto resterà una ferita insanabile nella nostra storia democratica. Respinta la minaccia terroristica, oggi ancor più sentiamo il dovere di liberare Moro e ogni altra vittima da un ricordo esclusivamente legato alle azioni criminali dei loro assassini. Nel riscoprire il pensiero, l'azione, gli insegnamenti di Moro e di tanti altri giusti che hanno pagato il prezzo della vita, ritroveremo anche talune radici che possono essere preziose per affrontare il futuro».

70 anni...festa dell'Europa

Marco Bentivogli
Oggi ricorrono 70 anni dalla Dichiarazione Schuman, ideata con Jean Monnet. È l’inizio di un percorso che porterà alla firma del trattato della CECA dando inizio al processo di integrazione europea. La Fim è e sarà sempre europeista.
Razzismo, neofascismo e populismo saranno sempre inconciliabili col sindacato.
Oggi il sentimento antieuropeista va di pari passo con quello populista che ci ha abituati alla dialettica dell’odio, a cercare sempre un nemico all’esterno per poter risolvere i nostri problemi: l’immigrato, il cinese, il lombardo, l’Europa. Quello di cui non si parla è che Commissione e Parlamento Europeo hanno ben poco potere rispetto al Consiglio, per cui il potere decisionale è nelle mani dei singoli stati membri e non dell’Unione Europea.
Da una parte c’è disinformazione sul funzionamento delle istituzioni, dall’altra, se l’UE non si evolverà verso una maggiore integrazione politica, gli interessi particolaristici prevarranno sempre all’esterno per nascondere le nostre responsabilità.

venerdì 1 maggio 2020

primo maggio



Il 1 maggio del 2020 non è una giornata di mobilitazione, i lavoratori non hanno riempito le piazze; spero sia stata una giornata di riflessione sui radicali cambiamenti imposti dall'epidemia che ha colpito anche il mondo del lavoro. Nel suo messaggio, il Presidente della Repubblica ha notato che ci aspetta un futuro in cui "nulla sarà come prima". Non si tratta di una semplice svolta, ma di un cambiamento profondo nella vita della società, che dobbiamo prepararci ad affrontare con scelte lungimiranti. "riprogettando" il nostro futuro. Nella consapevolezza che per consolidare i risultati - certo non definitivi - ottenuti nella lotta contro il virus , dobbiamo evitare che la ripresa, inevitabilmente difficile, sia paralizzata da contrasti politici, mentre è necessaria la massima unità.
Anche Massimo Cacciari, che nei dibattiti televisivi è diventato un forte riferimento, concorda nel ritenere il coronavirus "un incredibile acceleratore del cambiamento", ma è pessimista sul futuro, poichè ritiene che "questa volta la rivoluzione riguarderà l'essenza del capitalismo", cioè del sistema economico e delle regole che lo caratterizzano, e la crisi sociale metterà alla prova la stessa democrazia. E guardando le piazze vuote del 1 maggio, si chiede se "con i lavoratori a casa da soli, anche il sindacato non rischi di sparire". Cacciari ricorre spesso ad immagini forti, ma in questo caso mette giustamente in discussione la formula "dopo niente sarà come prima".
Ascoltando l'ultimo dibattito parlamentare, anch'io sono tentato da un pessimismo che non riguarda la possibilità di vincere la sfida della vita e poi l'esito della ripresa economica: il comportamento degli italiani -in questa prima fase - dice che l'Italia ce la può fare; ma il fatto che la politica sembra no comprendere l'importanza di una rinascita dei valori cui facciamo riferimento, quando confrontiamo "questo dopo guerra", con quello caratterizzato dal 25 aprile del '45, dalla Costituzione del '48., dalla rinascita del paese.
Dopo aver ascoltato la relazione di Conte, e poi gli interventi della Meloni, di Renzi e di Salvini , ho avuto l'impressione che la politica sia rinchiusa in un labirinto dal quale non riesce ad uscire...Che sia afferrata dalle polemiche del passato, prigioniera della contesa sui "pieni poteri". Chi sogna per se' il potere, chi teme che il virus stia favorendo Conte, la sua popolarità, e nello stesso tempo lo considera il "Re Tentenna", sta assumendosi pesanti responsabilità, mentre - come ha esortato a fare anche Francesco, bisogna porre al centro di ogni decisione, il bene comune. Di una situazione simile ha scritto alcune rime satiriche Giuseppe Giusti, alla fine dell''800 . Rileggiamole. Dobbiamo uscire da questo incubo.
Deve esserci un Dopo, che sia caratterizzato da una rinascita democratica, un Dopo anche per la politica.

Buon primo maggio


L'unico modo di fare un ottimo lavoro è amare quello che fai. Se non hai ancora trovato ciò che fa per te, continua a cercare, non fermarti, come capita per le faccende di cuore, saprai di averlo trovato non appena ce l'avrai davanti. E, come le grandi storie d'amore, diventerà sempre meglio col passare degli anni. Quindi continua a cercare finché non lo troverai. Non accontentarti. Sii affamato. Sii folle.
Steve Jobs