sabato 28 giugno 2014

L’INGANNEVOLE UGUAGLIANZA.


Michele Ainis
Corriere della Sera 28/06/2014

Uno vale uno, senza un centesimo di resto. È lo slogan del Movimento 5 Stelle, ma è ormai diventato l’inno che intonano tutti gli italiani. Dopo un ventennio di crisi economica e morale, circola difatti un sentimento nuovo, o forse antico quanto il principio d’eguaglianza, che ne prospetta tuttavia la versione più estrema e radicale. Quella che a suo tempo si riflesse nel Manifesto degli eguali di Gracco Babeuf, ghigliottinato nel 1797. O nella formula di Bentham: «Ognuno deve contare per uno, e nessuno per più di uno». Sicché guai a chiunque eserciti un potere d’influenza, un’autorità giuridica o politica. Se siamo tutti uguali, quel potere è un abuso, un privilegio. Sbarazziamocene, e metteremo un piede in Paradiso. 

Le prove? Per esempio il tormentone sull’immunità dei senatori. Cancellata nel progetto del governo, riesumata da un emendamento Calderoli-Finocchiaro: apriti cielo. Come si permette, questo nuovo Senato non eletto, a rivendicare una protezione negata ai comuni cittadini? Poi, certo, possiamo ragionarci sopra, anche a costo d’ottenerne in cambio fischi e pomodori. Osservando che l’immunità non s’accompagna all’elezione, bensì piuttosto alla funzione; altrimenti perché mai ne godrebbero i giudici costituzionali, orfani d’un voto popolare? Ma questi argomenti suonano ormai come sofismi, acrobazie verbali. D’altronde sembra un orpello anche lo Stato di diritto, di cui è figlia la separazione dei poteri, e nipotina la stessa immunità. Brevettata, guardacaso, dai profeti più intransigenti del principio d’eguaglianza: dai giacobini, nel 1790, dopo l’incriminazione del deputato Lautrec. Perché se il Parlamento non può annullare una sentenza, nessuna sentenza può annullare il Parlamento. E a sua volta il Parlamento non è l’unico organo dello Stato di diritto, benché sia l’unico legittimato dalle urne. In una democrazia costituzionale s’aprono altri canali di legittimazione, che investono per esempio la Consulta. O almeno: era così una volta, domani non si sa. Se uno vale uno, quell’uno dev’essere eletto dal popolo votante. Le polemiche sull’elezione del Senato trovano qui la loro scaturigine. Come del resto il sentimento di ripulsa verso l’immunità, l’indennità, l’autorità medesima di chi ci rappresenta. Se vuole il nostro voto, dovrà lavorare gratis, senza protezioni, e con un megafono che registri tutti i nostri umori.

 Errore: nessuna società umana, neanche la più egualitaria, è mai riuscita a bandire il potere dai suoi ranghi. C’è sempre stato chi governa e chi viene governato. E quando i governanti hanno promesso l’assoluta parità fra gli individui, si sono presto trasformati in dittatori. Lenin immaginava che una cuoca potesse reggere lo Stato, ma intanto fucilava i suoi avversari. Da quegli avvenimenti è ormai trascorso un secolo, sarà per questo che ce ne siamo un po’ dimenticati. Invece dovremmo ripassarne la lezione: non si tratta di disarmare il potere, si tratta semmai di controllarlo. Per esempio attraverso la rotazione delle cariche, con un limite di mandati in Parlamento e nel governo. O attraverso il recall, la revoca anticipata degli eletti immeritevoli. Ecco, il merito. Rappresenta l’unica giustificazione del potere, e rappresenta al contempo la cerniera fra eguaglianza e libertà: l’eguale libertà di diventare diseguali, in base ai propri sforzi, nonché ai talenti che ciascuno ha ricevuto in sorte. Ma l’eguaglianza radicale di cui ci stiamo innamorando noi italiani ne è l’antitesi, il rovescio. Perché appiattisce i meriti, e perciò salva i demeriti.

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