sabato 31 agosto 2013

La bella Italia che vorremmo

Una ricercatrice, un Nobel per la fisica, un direttore d'orchestra, un architetto. Tutti e quattro di fama mondiale. Per dare lustro alle istituzioni il presidente della Repubblica non ha scelto neppure un politico. Come se il solo possibile antidoto all'idea depressa che l'Italia ha di se stessa fosse cambiare radicalmente prospettiva.
Volgere le spalle ai palazzi del potere e cercare il valore nelle avventure individuali di italiani operosi ed eccellenti.Artisti e scienziati spesso capiti e apprezzati prima all’estero che in patria.
Al di là dei nomi dei quattro senatori a vita (il cui calibro è comunque cento volte maggiore di molti degli esponenti politici che ne commentano la nomina), nella scelta di Napolitano ciò che colpisce è questo compatto rivolgersi “altrove”, a un’Italia cosmopolita e dunque sprovincializzata, che ha vissuto, lavorato, avuto fama e successo a distanza siderale dalle beghe miserabili che paralizzano la vita nazionale, e che cento metri oltre i nostri confini paiono insignificanti, penosi dettagli rispetto al battito del mondo. Che magari sa cosa accade a Parigi o a Londra o a Tokyo, meno che cosa succede a Roma, specie quando ciò che succede a Roma è così poco intellegibile. La sproporzione tra la fama e il peso culturale dei nuovi senatori e la media della rappresentanza parlamentare (anch’essa “nominata”, grazie al Porcellum: ma con quanto merito in meno!) assume, indirettamente, quasi il significato di una denuncia. La denuncia della crisi paurosa della politica, dell’incepparsi patologico dei meccanismi di selezione della classe dirigente attraverso la via più diretta, che è o meglio sarebbe quella elettorale.
Molti dei commenti politici di ieri rimandano, purtroppo, a questa mediocrità. Quasi incredibili, nella loro pochezza da ragionierino astioso, le parole del senatore delle Cinquestelle Alberto Airola, molto seccato perché i quattro neo-nominati «saranno stipendiati a vita senza essere stati eletti da nessuno e saranno i lacché delle larghe intese». Come se Piano e Abbado avessero bisogno, per vivere, di uno stipendio pubblico; e come se il tragitto che ha condotto all’elezione la quasi totalità dei grillini, spesso poche decine di voti cliccati su un sito web ben controllato e filtrato, avesse un qualunque, percepibile significato di democrazia diretta. Chissà se chiederanno gli scontrini del cappuccino, i cinquestellati, anche a Renzo Piano, per altro buon amico di Beppe Grillo.
Stendiamo un velo pietoso sulla dichiarazione della signora Santanché («il solo che doveva essere nominato senatore a vita è Berlusconi»: poco più, anzi poco meno di una battuta di spirito). Ma è impossibile tacere della ciancia meschina, da angiporto della politica, capace di leggere in quelle quattro nomine (e in quei quattro profili italiani) il tentativo di offrire una stampella alle larghe intese. Bisognerebbe spiegare ai tanti parlamentari abituati al piccolo cabotaggio tattico, e qualcuno purtroppo anche alla messa all’asta del proprio voto, che esiste anche un mondo normale. Dove i loro discorsi, i loro sospetti, i loro calcoli paiono trascurabile fanghiglia, e contano zero. Immaginare un Rubbia o una Cattaneo che tramano pro o contro il governo Letta (o pro o contro chicchessia) equivale ad avere perduto il vaglio delle cose, la misura della realtà.
Certo, come accaduto anche in passato, è rintracciabile, nei profili dei nuovi senatori a vita, specie Abbado e Piano, “qualcosa di sinistra”. Ma questo rimanda a una annosa, penosissima questione, che è la gran fatica con la quale “la destra”, genericamente intesa, produce i suoi intellettuali, i suoi artisti, i suoi personaggi illustri. In attesa di udire la solita solfa contro “i comunisti” Abbado e Piano, o le velenose insolenze che colpirono un gigante come la Montalcini, è più serio e più proficuo registrare l’enorme difficoltà che qualunque presidente italiano avrebbe nello scovare e nominare senatori a vita francamente di destra. Non è questo lo spirito con il quale si procede a quelle nomine; ma si può capire che un poco di par condicio in più aiuterebbe a rendere ancora più limpida, ancora più condivisa l’investitura dei senatori a vita. La battuta della signora Santanché ci fa capire quanto manchi, al nostro Paese,una destra di alto 

Michele Serra

La Rebupplica - 31/08/2013

Finalmente ora il Pd è pronto a reagire alla crisi

Stefano Menichini 

Europa  

Renzi corre per la segreteria, lui e Letta uniti nel negare ogni "salvezza" a Berlusconi. La risposta è un preannuncio di caduta del governo: scelta grave ma che non troverà più il Pd subalterno.
Il nodo che pareva il più complicato della stagione si scioglie a Forlì. Matteo Renzi accetta di correre per la segreteria del Pd anche nella prospettiva di una buona durata del governo Letta.
Ma bastano pochi minuti perché la questione si ponga in termini del tutto diversi, opposti a quanto abbiamo raccontato negli ultimi giorni dopo l’esito della trattativa sull’Imu.
Perché, dopo che sia il presidente del consiglio che il più forte candidato alla guida del Pd, da Genova e da Forlì, avevano chiuso ogni discorso sul “salvataggio” di Berlusconi, la risposta dell’interessato è stata l’annuncio che, se le cose dovessero andare come preannunciano Letta e Renzi (e come Epifani ha ribadito più volte senza incontrare alcun dissenso interno), alla sua decadenza da senatore corrisponderà l’immediata caduta del governo delle larghe intese.
Si può osservare che Berlusconi ha già detto questo e l’esatto contrario, più volte, negli ultimi mesi. È vero. Ogni racconto sul Berlusconi privato di questi giorni converge nel descrivere un uomo depresso, confuso, incerto, con forti sbalzi d’umore e d’opinione.
Inoltre quella che potremmo definire – almeno sul piano della propaganda – come la vittoria del Pdl sull’Imu ha dato sostanza alle posizioni dei berlusconiani governisti. Il buon argomento di campagna elettorale – la promessa fiscale mantenuta – si scioglierebbe se la promessa, causa crisi di governo, dovesse rimanere incompiuta.
Quindi nulla ancora può essere dato per definitivo, a questo punto della vicenda.
Tranne ciò che francamente ci sta più a cuore. Molto più a cuore dei destini di Berlusconi.
E cioè che da ieri la marcia di avvicinamento del Pd alla resa dei conti elettorale ha trovato un sentiero diritto. Che non vuol dire che i giochi per Renzi siano fatti ma semplicemente (eppure non pareva così semplice) che nei prossimi tre mesi si sceglie e si consolida, senza pasticci né equivoci, la leadership  incaricata di chiudere da sinistra l’epoca delle larghe intese. Come lo stesso Enrico Letta ha affermato ieri con grande forza.
Questo è il punto chiave.
Berlusconi potrà pensarci, ripensarci, e ripensarci altre dieci volte. La faticosa coabitazione fra Pd e Pdl potrà durare ancora poche settimane, oppure qualche mese. Ma non ci sarà più un Pd frastornato e subalterno, bensì un partito unito nella voglia di vincere, stavolta, l’intera posta.

venerdì 30 agosto 2013

Scalfari...guarda bene....

forse epifani è tra la folla!

non se ne può più!!!

Berlusconi: vogliono togliermi di mezzo "Stop al governo se mi fanno decadere"

Letta: “Non è il governo che volevo”

 

franceschini fioroni marini e rosi bindi....questo è il pd di renzi

che aspettate?

Bersani....questo è il pd di Renzi!

basta l'immagine.....

Il campionato nazionale di mongolfiere a Brissac-Quincé, in Francia.


altra buona notizia...

soldati israeliani ballano a una festa palestinese....sospesi
Hanno sentito la musica dello Gangnam Style e non hanno resistito. Un drappello di soldati israeliani che erano in servizio di pattuglia a Hebron si è imbucato in un locale dove si stava festeggiando un matrimonio e, deposti i fucili, hanno iniziato a ballare. Ma qualcuno ha ripreso la scena con il telefonino: si vede un soldato con divisa e elmetto ballare sulle spalle di un giovane palestinese. Il video è stato diffuso, anche perché a quanto sembra, il locale è abitualmente frequentato da membri di Hamas. I soldati sono finiti nei guai: sono stati posti sotto indagine e sospesi in attesa degli esiti.

buona notizia!

Il Parlamento britannico ha bocciato ieri notte la mozione del premier Cameron per usare la forza in Siria

Sfida per l’egemonia sul governo

Stefano Menichini 

Europa  

La sinistra sente la vicenda dell'Imu come una vittoria di Berlusconi. Non è vero, ma il messaggio va ribaltato. Da oggi dovrà pensarci Matteo Renzi
Come gli capita spesso, perché in questo lui è un fuoriclasse, Matteo Renzi ha trovato le parole giuste per esprimere il sentimento diffuso nel popolo del centrosinistra. E l’ha fatto, visto che parlava con un settimanale, prima di conoscere l’esito finale della trattativa di governo sull’Imu.
Che sia vera o no – e noi sappiamo che non è così vera – l’impressione di tutti è in effetti che il governo Letta sia dipendente innanzi tutto da Silvio Berlusconi, nella buona e nella cattiva sorte. Dunque per Renzi il tema d’autunno, il fulcro della campagna per le primarie democratiche, è bilanciare questo squilibrio restituendo al Pd il ruolo che gli spetta di padrone politico della legislatura.
Ovviamente nell’apparente egemonia berlusconiana c’è una logica, al di là della fragilità di questo Pd: risiede nella genesi stessa delle larghe intese. Lui le voleva, il Pd no. Lui le ha avute, il Pd le ha subite. Lui le ha difese, contro i falchi del proprio stesso campo, il Pd si limita a coprirle agli occhi di una opinione pubblica di sinistra rimasta molto diffidente.
La gestione della vicenda Imu da parte di Letta è stata perfetta, il tandem con Alfano ha funzionato benissimo, può perfino darsi che gli effetti per l’economia, per le famiglie e per i comuni siano davvero positivi (se si vigilerà in favore degli inquilini). In più ci sono le sacrosante misure per esodati e cassintegrati. Ma i democratici non riescono a “vendere” le misure di fine agosto come un successo. Un po’ pasticciano con la comunicazione. Come al solito, la posizione della Cgil non aiuta. Risultato: Pd sulla difensiva, di nuovo.
Da stasera, con la parola a Renzi, si cambia marcia.
Non è poi un compito difficile, il suo. Non si tratta di attaccare il governo: farlo ora sarebbe ingiusto, incomprensibile e soprattutto inutile vista l’assicurazione sulla vita che Letta s’è garantita per i prossimi mesi. Si tratta di riscattare il Pd trasformandolo da stanco e poco convinto difensore del governo in duro giocatore d’attacco. Letta è sulla stessa linea.
Il prossimo campo di gioco è già designato: la decadenza dal senato. Perché l’egemonia di Berlusconi sulla legislatura non è ancora arrivata al punto di trasformare governo, parlamento e Quirinale in corte di giudizio di quarto grado. E questo non glielo si può consentire in alcun modo: se vorrà farne discendere la crisi, spiegherà lui agli elettori la brutta fine della mitica abolizione dell’Imu.

'Larghe intese ma anche no'

di Marco Damilano

«Non mi metto di traverso al governo, però l'accordo con il Pdl non può diventare un'ideologia. E basta anche con la tecnocrazia, europea o italiana. La politica deve restituire un po' di speranza». Il sindaco di Firenze cambia marcia: guardando a sinistra e criticando l'esecutivo. L'anticipazione de 'l'Espresso' in edicola domani
L'annuncio è ancora rinviato, il sindaco di Firenze aspetta che finalmente il congresso del Pd sia convocato con l'assemblea del 20-21 settembre per formalizzare la scelta con un evento speciale modello Leopolda, ma la decisione è già stata presa. Matteo Renzi si candiderà alla guida del Pd e in caso di elezione farà il segretario del partito.

Alla vigilia del suo ritorno in scena, alle feste del Pd di fine settimana, 'L'Espresso' rivela piani, strategie, alleanze, amici e nemici del sindaco di Firenze. La sua idea di Pd. E il rapporto con il governo Letta. «Il governo dura», prevede il sindaco. «C'è un unico elemento imponderabile, si chiama Berlusconi. Ma non ha nessuna convenienza reale a tentare la spallata. Poi, cosa farebbe?». E se Letta resiste, «al Pd resta una sola strada: fare il Pd. In questi mesi si è sentita solo la voce del Pdl sull'Imu, questione rilevantissima, per carità, ma non è l'unica cosa che interessa agli italiani».

«Non sarò mai io ad aprire una polemica o a metterlo in crisi, se c'è bisogno di un nemico, spiacente, non sarò certo io a interpretare questo ruolo. Mi metto di lato», ripete Renzi. Ma aggiunge: «Le larghe intese non possono diventare un'ideologia, come vorrebbe qualcuno, la politica deve restituire speranza». E poi: «Se il governo dura e fa le cose, e io spero che sia così, il Pd dovrà incalzarlo ogni giorno con una sua proposta. La legge elettorale su modello di quella dei sindaci, funziona benissimo. Oppure il taglio delle pensioni d'oro. Il governo Letta deve diventare il governo del Pd. E ogni giorno il segretario del Pd, chiunque egli sia, deve spingere perché il governo sia coerente con i suoi programmi».

Nel 2014 si voterà per le elezioni europee, quasi certamente Renzi sarà candidato. La riserva sulla sua candidatura alla segreteria non è ancora sciolta, ma il congresso per il sindaco non è la rivincita delle primarie 2012: «Basta con  la tecnocrazia, quella europea e quella esportata in Italia. Serve restituire dignità alla politica e dignità all'Italia in Europa, l'unico partito che può farlo è il Pd. Un Pd molto diverso da com'è ora, certo. Un partito della base e non del vertice della piramide. Un partito in cui le burocrazie di apparato contano meno degli amministratori locali. Il partito è di chi ha il consenso della gente e si misura con il governo. Un partito così non è leggero, anzi, deve essere più organizzato dell'attuale». 
l'espresso 29 agosto 2013
 

giovedì 29 agosto 2013

no alla guerra...

Una manifestazione a Londra, contro l’intervento militare in Siria da parte di Regno Unito e Stati Uniti.

ditelo a Violante...

«Berlusconi ideatore del giro illecito sui diritti Mediaset»

Sono state depositate le motivazioni della sentenza che ha condannato il leader del Pdl a 4 anni di reclusione. Tutto il collegio ha deciso di firmare il documento che, di norma, viene siglato solo dal presidente

mercoledì 28 agosto 2013

'I have a dream'', 50 anni fa il discorso di Martin Luther King

Renzi chieda trasparenza sulla scelta dei vertici Mps

Tito Boeri , Luigi Guiso 

Europa   

Le fondazioni bancarie continuano a perpetuare un sistema in cui la politica ha un ruolo primario di controllo sul sistema bancario
Le nostre banche vivono un momento difficile. Otto di loro sono state messe sotto sorveglianza speciale dalla Banca d’Italia, perché hanno accantonamenti insufficienti a coprire i crediti deteriorati. Il passaggio al sistema di supervisione bancaria unica presso la Bce comporterà controlli ancora più stringenti.
Negli anni a venire la maggior parte dovrà ristrutturarsi pesantemente per abbattere i costi e riguadagnare efficienza. Le banche dovranno rafforzare il loro patrimonio e selezionare meglio i loro impieghi. Prima lo fanno, tanto meglio è, non solo per le banche in sé ma per l’economia italiana che senza un sistema bancario ben funzionante rischia di trasformare la ripresa in una lunga stagnazione. Le interferenze politiche cui il sistema bancario italiano è soggetto possono però bloccare e distorcere il processo.
A poco sembrano essere servite le lezioni di questa crisi: le perdite patrimoniali patite dalle fondazioni per aver concentrato il loro investimento nella banca di riferimento, gli effetti sulla gestione delle banche della presenza delle fondazioni, di cui il caso Mps è la rappresentazione plastica. Oggi tanto quanto ieri la politica non molla la presa sulle fondazioni bancarie e, attraverso queste, sulle banche. Tre casi ne sono la testimonianza.
Primo quello della Fondazione Carige, che si è opposta strenuamente all’aumento di capitale di 800 milioni di Banca Carige richiesto da Banca d’Italia, pur di non vedere troppo diluita la propria quota (47 per cento) nel capitale azionario della banca ligure. Per questo ha fatto dimettere tutti i propri rappresentanti nel consiglio d’amministrazione di Banca Carige forzando il rinnovo dei vertici dell’istituto. Sarà ancora una volta la fondazione a scegliere i vertici della banca, che ha storicamente distribuito almeno 7 euro su 10 di utile alla Fondazione invece di usarli per rafforzare il patrimonio, avendo ai posti di comando una serie di politici locali, da ultimo il fratello dell’ex ministro Scaloja. L’esito più probabile è che a guidare l’istituto saranno messi il vice-presidente della Fondazione – già candidato sindaco per il Pdl – assieme a un esponente dell’attuale comitato esecutivo della banca. Diversi politici locali (dal governatore Burlando all’ex senatore Luigi Grillo), a parole, chiedono che la politica si astenga dall’intervenire, ma da che pulpito viene la richiesta?
A Sassari l’avvicendamento, nei mesi scorsi, ai vertici del Banco di Sardegna e della sua fondazione, appannaggio da anni di politici di centro sinistra, è stato caratterizzato da una transumanza di poltrone: il presidente in scadenza della Fondazione, Antonello Arru, diventa presidente del Banco e si fa sostituire alla presidenza della Fondazione da Antonello Cabras, ex senatore Pd non rieletto. Nessun cenno a una dismissione della sostanziosa e per questo rischiosa partecipazione nel capitale del Banco (49 per cento del capitale). Anzi, è stata riaffermata ostinatamente la volontà di mantenerla per “meglio difendere il credito locale dal tentativo di erogarlo altrove” cedendo il risparmio dei sardi agli “stranieri”, questi ultimi essendo presumibilmente i modenesi della Bper che esercitano il controllo. Non c’è dubbio, i politici sono bravi a toccare le corde del localismo e del nazionalismo isolano; è il loro mestiere. Meno bravi a fare i banchieri e garantire rendimenti più elevati alle fondazioni che amministrano. Le uniche voci critiche all’operazione si sono levate da alcuni spiriti liberi del centro-sinistra; l’opposizione di centro-destra avrebbe avuto vita facile nel denunciare il gioco di poltrone fra la Fondazione Banco di Sardegna e la banca omonima, ma ha taciuto. Il silenzio talvolta parla più forte delle parole. In questo caso annuncia che quelle pratiche non destano scalpore perché sono essenzialmente condivise: i politici, siano di centro-destra o di centro-sinistra, non hanno alcun dubbio che uno di loro (politico buono o cattivo che sia) possa anche essere un ottimo banchiere. O, forse più correttamente, il dubbio lo hanno ma non gli conviene ammetterlo.
Il terzo caso è quello senese. A Siena si procede al rinnovo del consiglio della Fondazione che ha portato il Monte dei Paschi sull’orlo del fallimento come se niente o ben poco fosse avvenuto. Il rinnovo avviene sullo sfondo delle rivelazioni del presidente uscente della Fondazione, Gabriello Mancino, che ha tolto il velo al re testimoniando ai giudici inquirenti – e quindi ufficializzando a tutti quello che tutti sapevano ma non ammettevano – come le nomine siano sempre state fatte dai “maggiorenti della politica locale e regionale, con l’approvazione del Pdl all’opposizione, con la condivisione della politica nazionale ai massimi livelli (Gianni Letta, sentito Silvio Berlusconi)”. Analogo discorso per le nomine nelle società controllate, soggette a “una forte ingerenza dei partiti” e per i “finanziamenti dei progetti da parte della Fondazione” oggi vicina a portare i libri in tribunale.
Questi tre esempi provano l’esistenza di un sistema, condiviso dall’intero arco dei partiti tradizionali, in cui la politica ha un ruolo primario di controllo sul sistema bancario attraverso il “mercato” delle nomine nelle fondazioni bancarie e (attraverso queste) nelle banche. Il mercato avviene nell’ombra, forse nemmeno nelle segreterie, ma spesso in limitati gruppi di controllo all’interno dei partiti che accettano scambi trasversali. È un controllo fine a se stesso, serve solo a estendere le carriere dei politici. Tipico il caso della Fondazione Cassa di Risparmio di Macerata che ha bruciato il proprio patrimonio investendo il 70 per cento del proprio capitale in BancaMarche, lasciando peraltro che la banca, ignorando i richiami della Banca d’Italia, contravvenisse a ogni principio di sana e prudente gestione. Oppure della Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara che, pur detenendo il 54 per cento della Cassa di Risparmio, l’ha docilmente accompagnata al commissariamento. Oggi la Fondazione si trova costretta a mettere i propri dipendenti in cassa di integrazione. Oppure ancora della Fondazione del Monte di Parma, salvata solo dall’intervento di Banca Intesa, che ha acquistato la sua quota di controllo in Banca Monte Parma.
I casi Mps, Carige e Sassari sono perciò tutt’altro che isolati. E l’assenza della politica dalle fondazioni è l’eccezione non la norma, come dovrebbe essere. Per questo, infatti, le fondazioni furono create: per dare alle banche un padrone diverso dal Tesoro e lontano dalle segreterie dei partiti. Purtroppo, la storia ha preso fino ad ora un’altra piega.
Ma non è mai detta l’ultima parola. La politica che interferisce può decidere di smettere di farlo, ma occorre la volontà di operare in tale senso, denunciando un sistema improprio e dichiarando di volerlo abbandonare. Matteo Renzi oggi si presenta come una persona esterna agli inciuci locali che pervadono la politica nazionale, giungendo talvolta fino a condizionare gli equilibri per la formazione di maggioranze di governo in un momento molto delicato per il nostro Paese. Se Renzi vuole dimostrare nei fatti di avere queste caratteristiche, può segnalarlo prendendo una semplice iniziativa. Chieda al sindaco di Siena, definito “renziano” dalla stampa, che il rinnovo dei vertici della Fondazione Mps avvengano in modo trasparente, con la definizione di criteri di competenza e l’adozione di bandi aperti a tutti coloro che soddisfino i requisiti. Chieda che si adottino per le fondazioni bancarie gli stessi criteri di apertura e trasparenza che lui giustamente pretende per le primarie del suo partito. Con un mandato chiaro: separare la fondazione dalla banca.

Ma chiedere la grazia resta l’unica chance

“LIBERO” di fare politica, ma da condannato. Il peggio, alla fin fine, per uno come Berlusconi. Pure con l’incubo della legge Severino. Costretto alla perenne gratitudine verso Napolitano. Cui comunque, lui o i suoi avvocati, questa mini-grazia dovranno necessariamente chiederla.
PERCHÉ, come ha scritto il presidente nella sua nota del 13 agosto, «questa è la prassi». Un atto tutto politico e poco giuridico che, lo diranno i sondaggi, potrebbe non piacere affatto alla gente comune.
Tra i poteri del capo dello Stato c’è anche quello di dare la grazia e scegliere che tipo di grazia dare?
Il Presidente, in materia di grazia, ha potere praticamente assoluto. Come insegnano le oltre 42mila grazie che si contano in Italia dal 1948 a oggi, il primo inquilino del Colle può agire di sua iniziativa, si può muovere su richiesta (la prassi più recente, dopo il caso Sofri), può scegliere che tipo di beneficio concedere.
Napolitano può decidere di non cancellare la condanna a 4 anni (ridotti a un anno per via dell’indulto2006) e intervenire solosulla pena accessoria?
Sì, può farlo. Deve indicarlo espressamente. Può lasciare intatta la pena principale e intervenire soltanto su quella accessoria, nel caso di Berlusconi l’interdizione dai pubblici uffici che la Corte di appello di Milano dovrà ricalcolare dopo lo stop della Cassazione.
Ma Napolitano “vuole” farlo?
Nella nota di agosto egli parlava solo di «pena principale» e i giuristi lessero il passaggio come espressione della sua volontà di non toccare le pene accessorie.
Quanto “pesa” l’interdizione di Berlusconi?
È ben pesante. In primo e secondo grado Milano aveva chiesto 5 anni. Il pg della Suprema corte ne ha proposti 3.
In che tempi il ricalcolo potrebbe essere definitivo?
Si può stimare che le motivazioni della sentenza Mediaset siano depositate per la metà, al massimo la fine di settembre. Tra Corte di appello e Cassazione l’interdizione sarebbe “chiusa” per gennaiofebbraio 2014. Ma gli avvocati del Cavaliere potrebbero non fare ricorso anticipando i tempi di un paio di mesi.
Berlusconi deve chiedere comunque la grazia anche per vedersi cancellare solo la pena accessoria?
Il passo è obbligato. Berlusconi recalcitra perché per lui chiedere la grazia è come ammettere la colpa. Ma Napolitano è stato perentorio con tutti quelli con cui ha parlato, niente domanda niente grazia.
Si può commutare anche l’interdizione?
Una condanna da scontare si può commutare in un corrispettivo in denaro che viene calcolato per ogni giorno di detenzione. Ma questo ovviamente non si può fare con l’interdizione che non può essere commutata, bensì cancellata.
Cancellare l’interdizione che valore ha?
Una potente valenza politica trattandosi di Berlusconi. Per la prima volta in Italia verrebbe consentito a un condannato per un reato grave come la frode fiscale di evitare l’interdizione solo perché egli è il leader di un partito. Sarebbe un precedente — questo sì giuridico — che peserebbe molto sui rapporti tra magistratura e politica.
La grazia cancellerebbe anche legge Severino?
No, perché essa è del tutto sganciata dall’interdizione, cammina su un binario parallelo per “punire” chi vorrebbe entrare nei palazzo della politica e rappresentare i cittadini pur avendo una fedina penale sporca. La Severino ristabilisce il principio dell’uguaglianza fissato dall’articolo 3 della Costituzione, come il cittadino condannato non può più fare il bidello, così lo stesso cittadino non può diventare deputato o senatore.
Berlusconi, graziato da Napolitano, potrebbe finire vittima della Severino?
Sì, con tempi diversi a seconda del destino della norma. Se la giunta e l’aula del Senato votano la decadenza, la grazia del Colle è inutile. Se la legge viene spedita alla Consulta Berlusconi guadagna tempo. Ma la Consulta potrebbe non ammettere il ricorso.
Berlusconi resterebbe a tutti gli effetti un condannato?
Assolutamente sì, in questo modo Napolitano realizzerebbe il compromesso di non cancellare la condanna definitiva della Cassazione e non smentirebbe i giudici, ma consentirebbe a Berlusconi di continuare a fare polit
Berlusconi potrebbe ricandidarsi?
Per la legge Severino non potrà farlo per sei anni.

Liana Milella

La Repubblica - 28/08/2013

venti di guerra

l'occidente...

martedì 27 agosto 2013

Perché al Pd è mancata una Bad Godesberg

Pierluigi Castagnetti 

Europa  

Com’è potuto accadere che nonostante la serietà del nostro programma ancora una volta non abbiamo vinto? Se non sopportiamo il “dolore” di questo interrogativo non ne verremo a capo
Parlare di congresso e di identità del Pd in queste ore così incerte e convulse può sembrare un lusso ozioso, ma non lo è.
Le prossime elezioni infatti, siano quando siano, e sia chi sia il nostro candidato, non saranno una passeggiata, dovremo munirci di corde e scarponi. Del resto mi sento obbligato a tornare sul tema perché nei giorni scorsi Stefano Fassina dalle pagine dell’Unità ha interloquito con il mio articolo qui apparso il 14 agosto scorso (oltreché con Fioroni e Boccia) in modo molto puntuale e rigoroso.
In particolare ha ripreso, contestandolo duramente, il passo in cui sostenevo che la «sinistra storica cammin facendo si è convinta che il Pd potesse essere l’ultima forma della sequela di forme-partito realizzate nel corso di un secolo, sempre evitando il trauma di una Bad Godesberg…» chiedendosi e chiedendo: «Quali sono state le posizioni assunte durante la segreteria Bersani che hanno riproposto la continuità comunista, la conservazione, la vetero-socialdemocrazia?».
Dirò subito che non risponderò a questa domanda sia perché non coglie il senso delle mie osservazioni, sia perché io ho votato Bersani alle primarie e ne ho condiviso il programma puntigliosamente richiamato da Fassina, sia infine perché ho molto rispetto per il percorso compiuto dalla sinistra storica italiana.
A me pare che la domanda che dovremmo porci sia un’altra: com’è potuto accadere che nonostante la serietà del nostro programma ancora una volta non abbiamo vinto? Se non sopportiamo il “dolore” di questo interrogativo non ne verremo a capo. Alle ultime elezioni abbiamo registrato infatti il dato elettorale, in valori assoluti, peggiore degli ultimi venti anni, tre milioni di voti in meno del solo Pds (io stavo altrove) di Occhetto nel 1994. Ma veniamo a confronti più vicini e omogenei: nelle elezioni del febbraio scorso abbiamo preso come coalizione 10.047.808 (3.641.552 in meno rispetto al 2008) e come Pd 8.644.523 (3.450.783 in meno rispetto al 2008). E, se proprio vogliamo continuare a soffrire, possiamo aggiungere che come coalizione abbiamo preso 8.954.790 (!) in meno rispetto al dato di Uniti nell’Ulivo del 2006.
Se ci fermassimo alle giustificazioni da propaganda (tipo: la destra ha perso il doppio di voti di noi, l’astensionismo è un dato comune alle democrazie moderne, molti nostri elettori passati al M5S torneranno alle prossime elezioni) riveleremmo scarsa intelligenza oltreché scarsa attitudine a sopportare il male. Dobbiamo invece, ora che la ferita è aperta, proseguire la nostra analisi per cercare le cause in profondità.
Secondo uno studio recente di Ipsos metà dei nostri ultimi elettori ha più di 55 anni, un terzo più di 65 anni. Il movimento di Grillo è il primo partito in quasi tutte le segmentazioni dell’elettorato compresi gli operai (29% contro il 20% del Pd e il 24% del Pdl), i disoccupati (33% contro il 18% del Pd e il 25% del Pdl), gli studenti (37% contro il 23% del Pd e il 25% del Pdl). Il Pd è il primo partito (37%) solo tra i pensionati.
Vorrei che ci fermassimo su questi numeri che valgono assai più dei nostri filosofemi e delle nostre polemiche. Sono numeri che non ci parlano della divisione all’interno del Pd fra social-democratici e cattolico-democratici, ma che, al contrario, rivelano una dislocazione dell’elettorato assai “laica” e secolarizzata rispetto alle ideologie che sono alle nostre spalle.
Le fasce demografiche giovanili e quelle intermedie stanno prevalentemente altrove, le fasce sociali più deboli (operai e disoccupati) stanno prevalentemente altrove, le fasce dei nuovi lavori e dei nuovi ceti produttivi pure. Perché? Perché non hanno letto il nostro programma? Perché abbiamo fatto qualche errore nella comunicazione? Perché non hanno apprezzato la chiusura orgogliosa e la ristrettezza del gruppo dirigente del Pd? Perché abbiamo letto poche encicliche del magistero sociale della Chiesa?
E si potrebbe proseguire con tante altre domande più o meno retoriche, ma inutilmente, poiché è evidente che non di questo si tratta. Io non so dare la risposta. Personalmente posso solo osare, tentare, con tutti i rischi del caso. Penso che le tante risposte/ipotesi possibili possano essere riassunte da una: perché siamo visti, nel nostro complesso, come un pezzo di storia nobile ma ormai passata. Il nostro (gran parte) personale, il nostro linguaggio, il nostro argomentare, evocano un altro tempo. Destra/sinistra, moderati/progressisti, neoliberisti/neosocialisti, credenti/non credenti, sono categorie importanti e io credo non superate, eppure sembrano diventate insopportabili quando sono declinate nel linguaggio politico.
La modernità sembra pretendere la priorità del linguaggio della concretezza e la conoscenza dei problemi. Una concretezza che abbia incorporata (senza che sia declinata autonomamente) la dimensione etica. La politica si vorrebbe fosse progetto ma soprattutto comportamento. La “pedagogia sociale” di papa Francesco ha molte cose da insegnare: non la dottrina, ma il comportamento che incorpora la dottrina. Con la misura di radicalità necessaria a trasmettere l’idea della propria alterità/diversità. Siamo in una nuova epoca, caro Fassina.
Il «cambiamento epocale», di cui parla con tanta sapienza Alfredo Reichlin, nella società italiana (e non solo in quella ovviamente) è già avvenuto, e la politica non può pensare/sperare che sia ancora in corso: è avvenuto!
Non mi sorprende che in questo particolare momento Letta e Renzi siano i nostri maggiori interpreti di questa novità. So bene che entrambi sono figli di una “storia” che numericamente è minoritaria nell’impasto originario del Pd, e questo oggettivamente può fare problema, e non ritengo affatto che questa loro origine dia loro titolo per impartire lezioni di modernità ad altri, semplicemente constato che chi proviene da una storia politica “non ideologizzata” si trova oggi meno a disagio nel comprendere le domande della modernità. Mi riferisco ovviamente alle domande compatibili con la serietà e la responsabilità della politica. In questo senso deve essere interpretato il mio riferimento alla Bad Godesberg mancata alla sinistra italiana. Cioè quel lavacro culturale e mentale che è condizione di vera laicità, nel senso di vera libertà di sguardo rispetto al reale.
Le socialdemocrazie nordeuropee, quella tedesca, il laburismo britannico, godono della libertà di parlare di “neue mitte” o di “new welfare” senza aprire dibattiti su presunti cedimenti ideologici e accuse di tradimento, semplicemente perché si pongono solo il problema di interagire più efficacemente con i dati della realtà. Non è pragmatismo.
È senso della realtà. Con ciò significa rinunciare all’ambizione/responsabilità di raddrizzare il “legno storto” (la «mutazione antropologica» di cui parlò a suo tempo Pasolini) di questo tempo “berlusconizzato” in cui l’eccesso pulsionale affascina materialisticamente tanti elettori? In cui, come osserva Massimo Recalcati, il padre non è più simbolo della Legge ma della sua continua trasgressione? In cui la libertà è l’indice di una volontà di godimento che rifiuta ogni esperienza del limite? In cui sembrano accettate le leggi ad personam come leggi che rifiutano la Legge? Sicuramente no.
Ma bisogna sapere che il tempo della semina dei valori, della induzione di nuovi costumi e atteggiamenti mentali virtuosi necessita di spazi lunghi, di pazienza, di coerenze confermate nel tempo, di coltivazione delicata e rispettosa della coscienza collettiva di un popolo e, soprattutto, di un linguaggio contemporaneo che consenta ai cittadini che ci osservano (e, purtroppo, poco partecipano) di capire e distinguere, perché nessuno possa più dire l’insulto inascoltabile: «Siete tutti uguali». Ciò su cui vorrei riflettessimo è il dato difficilmente declinabile della nostra essenza e del percepito della nostra essenza.
Non è necessario riferirisi a una specifica enciclica sociale o parlare bene di Cl (!) per manifestare il nostro riconoscimento dei diritti connessi alla libertà religiosa, né – vorrei dire – affermare come è scritto nel documento dei socialdemocratici tedeschi a Bad Godesberg che per quanto riguarda l’impianto valoriale ci si riferisce alla tradizione cristiana, basta che le proposizioni politiche manifestino tale “sentiment”. La stessa cosa vale per le politiche economiche, e non solo. È il “percepito” di noi che conta e che dovrebbe essere al centro dell’analisi del nostro deludente e preoccupante risultato elettorale. Spero che al congresso se ne possa parlare, finalmente in modo serio e laico.

ci risiamo....dopo il conflitto di interessi...che genio!!!!

la legalità, ha ricordato Violante al partito legalitario, «impone di ascoltare le ragioni dell'accusato».

vale la pena di affidarsi a lui ha già dato prova di avere le idee chiare nel caso del conflitto di interessi togliendo l'ostacolo a Berlusconi.... credo che sia uno da non ascoltare più. non è un tribunale ma il parlamento. i tribunali hanno già espresso il loro verdetto. basta!!!!
ric

lunedì 26 agosto 2013

Nessuno mi può giudicare....


Riccardo Imberti

Non se ne può più!!!!
Devo confessare che non avevo nessuna voglia di parlare del condannato, ma la situazione mi è parsa tanto grottesca, che non mi sono sentito di tacere (senza utilizzare termini scurrili) per esprimere la mia forte irritazione leggendo i titoli di tutti i più importanti giornali della settimana politica trascorsa. Pagine e pagine per informarci dell'indulto, della grazia, dell'agibilitá politica, degli incontri tra falchi e colombe e narrare degli umori di un personaggio che, dopo una condanna definitiva, dovrebbe solo tacere e ritirarsi di buon ordine.
Nei paesi democratici seri succede...da noi no.
Io spero tanto che il 9 di settembre non accada l'irreparabile, che il pd voti compatto la decadenza da senatore del condannato e convochi al più presto il suo congresso.
Se il pdl ritirerá i suoi ministri e fará la scelta di mettere in crisi questa anomala maggioranza, il pd non perda altro tempo, si attrezzi al meglio, trovi i numeri per modificare la legge elettorale, denunci senza timori la responsabilitá e i motivi della crisi e si prepari alle elezioni.
Vi pare che l'Italia con i problemi drammatici che vive, possa sostenere a lungo una situazione di questo genere?
Di fronte ai gravi problemi internazionali, con il ritorno del terrorismo nell'area mediorientale, con la situazione esplosiva in Egitto e la drammatica situazione della Siria con possibili minacciosi venti di guerra, possiamo continuare ad interessarci d'altro?
Mai come in queste ore mi sono chiesto quando potremo vivere in un Paese normale. Un Paese nel quale la consapevolezza delle difficoltà, affermata e condivisa da tutti, si traduca in comportamenti responsabili, l'interesse generale prevalga sugli interessi particolari e i privilegi di pochi siano sostituiti dalla garanzia dei diritti essenziali di tanti giovani e tante famiglie.
Perchè questo possa accadere è necessario che la classe dirigente politica, sindacale ed economica, sia credibile agli occhi dei cittadini e con l'esempio sappia dimostrare di essere al servizio di questo Paese malmesso, togliendo privilegi fin troppo stridenti, in un periodo di profonda crisi come il nostro.
Non servono atti eroici ma piccoli segni non più rinviabili, che diano la misura della volontá di voltare pagina: la riduzione dei costi della politica, la trasparenza dei comportamenti tra ciò che si dice e ciò che si fa, saper dire di no a rivendicazioni di carattere corporativo e premiare attività produttive in grado di procurare occupazione regolare, snellire la burocrazia asfissiante della nostra pubblica amministrazione. rimettere in agenda un progetto di valorizzazione del nostro patrimonio artistico, ambientale e culturale.
Da quanto tempo ci sentiamo fare promesse e programmi in questa direzione? Il governo Monti pareva rappresentare l'occasione per far fronte ad alcuni di questi problemi. Non è riuscito nell'intento. Ora non c'è più tempo da perdere, se le larghe intese servono solo per salvare il padrone del pdl, e peggiorare la credibilitá dell'Italia nei confronti dei partner europei e mondiali, è meglio chiudere qui l'esperimento, e ricorrere alla volontá popolare. Credo che sia la cosa più utile per il nostro Paese.

La questione giustizia che imbarazza il Pd

I primi a patire per la mala giustizia sono i disoccupati. Se burocrazia e amministrazione rimangono le stesse i disincentivi sistemici che le aziende hanno adesso ad investire da noi rimarranno invariati
  
Il malfunzionamento della giustizia è tra le voci indicate in cima alla lista dei fattori che scoraggiano gli investimenti in Italia. Burocrazia e corruzione, le fanno compagnia. Disservizi giudiziari, burocrazia asfissiante e dilagare della corruzione evidentemente si tengono.
Con un’amministrazione della giustizia incapace di amministrare il servizio fondamentale cui è deputata non si hanno investimenti. E senza investimenti non si cresce nel senso che non si genera né lavoro né ricchezza da far circolare. Se si vuole crescere bisogna mettersi in animo di dover lavorare ad una giustizia efficiente, responsabile, non infervorata, giusta.
Il Pd ritiene che il governo Letta garantisca al paese la chance di riprendersi beneficiando del doppio vantaggio: il brand Letta che funziona all’estero, e l’esistenza di un governo che per il suo stesso esistere rassicurerebbe i mercati. L’obiettivo del governo Letta, d’altronde, è quello di ristabilire le funzioni vitali minime per, appunto, permettere a ciascun pezzo di paese di tornare a respirare senza marchingegni artificiali.
Se burocrazia e amministrazione della giustizia rimangono le stesse di prima, però, i disincentivi sistemici che le aziende hanno adesso ad investire da noi rimarranno saldamente intonsi. E quindi hai voglia a fare provvedimenti zanonateschi a sostegno di non sa più quale filiera industriale dimenticata, o cogliere il meglio delle photo-opportunity tardo agostane per mantenere alto lo standing sui media europei.
Il sistema giustizia che il Pd ha sin qui strenuamente difeso è quello in cui si rinuncia a far causa per un credito mai riscosso o, al contrario, si fa causa appunto nella convinzione – comune nei due casi – che il sistema è talmente perverso che fare il giusto può costare un danno. E lasciamo perdere De Magistris, Ingroia – per carità.
Ecco, i primi a patire per questa mala giustizia non sono i Berlusconi ma i disoccupati.
Parlare di giustizia è imbarazzante per il Pd. Difendere un sistema castale debordante, discrezionale e ingiusto è stata una scelta politicamente invereconda, più subita che perseguita, ma pur sempre coltivata da vent’anni almeno con la lucidità prospettica di una zanzara attratta dal sangue di un umano con il baygon in mano. Non avrebbe dovuto risultare così difficile, invece, per il Pd cogliere il bisogno reale di giustizia giusta che c’è e viene dalla “parte migliore del paese”.
E tuttavia, riuscite a immaginare nulla di più ipocrita, retorico ed irritante della proposta avanzata alle ultime elezioni – Il programma fondamentale del partito democratico per la giustizia si chiama Costituzione.
Urticante ignavia, quella, che costa al Pd pro-crescita di oggi, quindi pro-Letta, l’impossibilità di capitalizzare il vantaggio dello sbarellamento del Pdl, presentando lui, entro mercoledì, quello che avrebbe dovuto fare già vent’anni fa: un piano giustizia coerente con gli obiettivi generali di civilizzazione del paese – che, poi, collimano con gli obiettivi più immanenti di tenuta di questo governo, e gli obiettivi politici più ambiziosi di generare nel Pd un pensiero forte ispirato al senso misconosciuto dell’aggettivo che nel logo segue la parola “partito”.

Simona Bonfante

Europa Quotidiano - 26/08/2013

domenica 25 agosto 2013

promozione turistica!!!

dopo venezia anche la sardegna si allinea....

In questo scenario si esibiscono ballerini e performe


Nella Mongolia cinese c'è un deserto dove le dune sono chiamate "sabbie che cantano" per il suono particolare prodotto dal vento.

IL GOVERNO ALLA PROVA

“La destra punta allo sfascio ma il Ventennio di Silvio è finito via il Porcellum e poi al voto”
Veltroni: Pd unito, Renzi sia in campo per la segreteria

IL ventennio del Cavaliere è finito con la sentenza della Cassazione: adesso il Senato dovrà solo applicare rapidamente la legge, “punto e stop”. Il Pdl si rassegni al dopo-Berlusconi e diventi una vera forza moderata. Ma il bipolarismo va salvato a tutti i costi.
DUNQUE il governo Letta vari subito la riforma del Porcellum e poi si vada al voto in primavera. Magari con Renzi, che però deve candidarsi alla segreteria del Pd. Dal suo buen retiro senese, Walter Veltroni osserva da lontano — ma non troppo — le turbolenze della politica romana, e registra sconsolato le bellicose dichiarazioni che Alfano spedisce da Arcore a Enrico Letta. «Il Pdl sembra voler precipitare il Paese in una crisi drammatica, ancora una volta facendo prevalere gli interessi di una persona su quellidel Paese», commenta.
Gli anni passano, ne sono trascorsi quasi venti, eppure sembra che non riusciamo a liberarci di quello che nel 2008 lei definiva «il principale esponente dello schieramento a noi avverso»...
«Però secondo me si è chiuso un ciclo. La sentenza della Corte di cassazione è la conferma della conclusione del ventennio berlusconiano. Questo sarebbe dovuto avvenire sul piano politico, se la sinistra non avesse compiuto una serie di errori che hanno impedito la vittoria alle elezioni di febbraio. Questo ventennio si sta concludendo, si è concluso, e al di là dei suoi rantoli e dei suoi sussulti bisognerà che i due principali soggetti po-litici, il Pdl e il Pd, lo capiscano e agiscano di conseguenza».
A giudicare dall’esito del vertice di Arcore, il Pdl sembra piuttosto intenzionato a difendere fino all’ultimo il padre-padrone del partito. Cosa dovrebbe fare, invece, secondo lei?
«Non dovrebbe seguire Berlusconi sulla linea della radicalizzazione estrema e dell’esasperazione. Dovrebbe invece cambiare natura al soggetto di centro-destra italiano, che non può continuare a essere un soggetto populista e irriguardoso delle regole ma cominciare a prefigurarsi per il futuro di questo Paese come un soggetto moderato analogo a quello di altri Paesi europei. Le ultime dichiarazioni di Alfano da Arcore sembrano purtroppo andare in una direzione opposta».
E lei ritiene davvero immaginabile un Pdl senza Berlusconi?
«Lo devono immaginare loro, in primo luogo, come è naturale che sia. In nessuna parte del mondo le leadership sono infinite e illimitate nel tempo. In ogni caso loro avrebbero dovuto porsi il problema nel corso di questi anni, e lo debbono fare adesso, con tanta più urgenza».
Qualcuno di loro chiede addirittura un’amnistia ad personam.
«Io penso che non sia possibile nessuna della soluzioni che la destra chiede in questo momento, perché in questo Paese esiste il principio di legalità che vale per tutti i cittadini e al quale tutti gli uomini politici coinvolti in vicende giudiziarie si sono attenuti. Bisogna prendere atto che c’è stata una sentenza».
E cosa dovrebbe fare, secondo lei, un Berlusconi che accettasse questa sentenza?
«Lui può continuare, se vuole, a esprimere le sue idee sulla vita pubblica di questo Paese. Ma esistono leggi, se non codici morali minimi, che sanciscono che chi ha subìto condanne definitive non possa svolgere funzioni istituzionali. Punto e stop. Naturalmente è giusto che la giunta delle elezioni del Senato approfondisca in qualche giornotutti gli elementi di valutazione. Non bisogna dare l’impressione che ci sia una specialità al contrario. Il senatore Berlusconi non va trattato diversamente da come si tratterebbe qualunque altro parlamentare. Ma poi si decide, e si decide lì. E si deve decidere in ottemperanza alle leggi esistenti».
E se Berlusconi, privato del seggio e ridotto gli arresti domiciliari, decidesse di continuare a guidare comunque il suo partito? Se anche da lì facesse la campagna per le prossime politiche?
«Questo è un problema del Pdl, non mio. Sono loro che devono decidere se identificare il loro futuro con il destino personale di un uomo che ha avuto una sentenza di quelle dimensioni, o se invece vogliono reinventare la loro fisionomia politica. Non vorrei però che alla fine di questo ventennio, insieme a Berlusconi finisse anche il bipolarismo. Identificare il bipolarismo con Berlusconi può essere un errore tragico per l’intero Paese. Noi non abbiamo bisogno di tornare ai governi contrattati della Prima Repubblica, alla proporzionale e ai partiti padroni della vita pubblica. Il bipolarismo è un valore, come lo è l’alternanza. Se usciamo dal bipolarismo, se torniamo alla proporzionale, cadiamo in un baratro nel quale ci sono solo governi contrattati o larghe intese. E io non so quale delle due cose siapeggiore dell’altra».
Ma se il Pdl facesse cadere il governo, lei ritiene possibile la ricerca di un’altra maggioranza, magari per un Letta-bis, o pensa invece che sarebbero inevitabili le elezioni anticipate a novembre?
«Penso che quelli del Pdl sarebbero dei pazzi e degli irresponsabili a far cadere il governo. Io credo comunque che prima di andare a votare, anche nei prossimi mesi, bisogna assolutamente cambiare la legge elettorale. Come ha giustamente detto il presidente della Repubblica».
A giudicare dai toni che il Pdl usa in queste ore, non sembra che l’orizzonte dell’esecutivo sia lunghissimo...
«Questo governo è un’anomalia, però in questo momento deve fronteggiare l’emergenza economica e quella della legge elettorale. Quindi faccia ciò che deve fare per aiutare la ripresa dell’economia italiana ma al tempo stesso si impegni subito per la riforma elettorale».
E se invece la situazione precipitasse, il Pd dovrebbe affrontare le elezioni candidando Enrico Letta o Matteo Renzi?
«Le dico quale sarebbe lo sviluppo ordinato di questa vicenda. Si fa subito la legge elettorale che cambia il Porcellum e poi all’inizio del prossimo anno si va a nuove elezioni. Alle quali va il candidato che viene scelto da elezioni primarie del Pd».
Da fare quando, queste primarie?
«Subito. Io sono perché il Pd convochi subito il congresso. Sono perché Renzi si candidi a segretario del partito, perché sono contrario alla separazione dei ruoli tra segretario e candidato premier. Ma sono favorevole a istituzionalizzare la norma in base alla quale, come è successo per Renzi con Bersani, al momento delle elezioni anche altri possano candidarsi alla premiership con apposite primarie. Una cosa però ci tengo a dirla: non sopporto le discussioni su “ex dc” ed “ex pci”. Questo è il contrario del Partito democratico, che è nato per superare questa distinzione. Basta con questa storia: ciascuno rappresenta tutti, quale che sia la storia dalla quale viene. Il Pd non è nato per mettere insieme due mezze mele, l’una diversa dall’altra: nessuno mangerebbe una mela metà rossa e metà verde, o bianca, perché apparirebbe come un frutto malsano. Se vogliamo essere un’alternativa credibile al centro-destra, se non vogliamo che sia solo Papa Francesco a parlare dei valori in una società, se vogliamo recuperare una coerenza tra valori e programmi che la sinistra ha perduto o dimenticato, dobbiamo essere innanzitutto un partito unito. E dobbiamo essere più di sinistra, parola che per me, come ho cercato di argomentare nel mio libro, significa cambiamento e non conservazione, società aperta e non bloccata, eguaglianza e opportunità diffuse. Questa sinistra può arrivare al 40 per cento, non al 25. È la vocazione maggioritaria senza la quale il Pd non ha ragione di esistere».
Lei è per Renzi segretario. E non pensa che la scelta di un altro candidato premier indebolirebbe automaticamente il governoLetta?
«Io penso che Renzi e Letta possano convivere, e mi auguro che convivano. Sono due energie, due risorse utilissime. E non sono le sole. Anche per il futuro si possono trovare delle forme di convivenza. Se uno fa il candidato premier, e l’altro il ministro degli Esteri o dell’Economia, è una cosa che accade nei grandi partiti. Ricordo che Obama e Hillary Clinton duellarono aspramente, alle primarie, poi uno ha fatto il presidente e l’altra il segretario di Stato... «.

Sebastiano Messina

La Repubblica - 24/08/2013

sabato 24 agosto 2013

Nel silenzio assordante del mondo

"Circa 355 persone che "presentavano sintomi neurotossici" sono morti in Siria negli ospedali in cui lavora l'organizzazione Medici senza frontiere. Lo riferisce l'ong precisando che dal 21 agosto nelle strutture sono state ricoverate 3.600 persone". L’Onu stima che almeno in 7mila sono stati uccisi. Il numero di bambini rifugiati fuggiti dal conflitto in Siria ha raggiunto oggi la drammatica soglia del milione. Lo rivelano gli ultimi dati dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) e dall’Unicef resi noti oggi a Ginevra.

puntuale....come sempre!

"Non voglio la rottura, non voglio lo scontro. In questi mesi di governo ho lavorato con il Pdl e ho visto una classe dirigente di prima qualità".
"La condanna di Berlusconi è stato un fatto negativo non solo per Berlusconi e per il pdl, ma per tutto il sistema politico. Insisto, quasi una maledizione che prova a bloccarci mentre siamo sulla strada giusta".
Fassina

cinquant'anni


Renzi, un leader che deve imparare a fare squadra

Sofia Ventura 
Europa  

La leadership richiede uno sforzo di costruzione attento e faticoso. Il sindaco di Firenze dovrebbe comprendere che non può essere lo spin doctor di se stesso
Un gruppetto di deputati renziani giovedì hanno scritto una letterina all’ambasciatore statunitense denunciando che il nuovo Monopoli inneggerebbe alla “finanza irresponsabile”. Meno divertente è stata la lettera, pubblicata il 9 agosto, che un gruppo di ventisei deputati ha inviato all’Avvenire, e dunque ai vescovi, per spiegare il buon lavoro fatto dai cattolici a proposito della legge contro l’omofobia. Tra i firmatari di questo documento c’è Matteo Richetti, vicinissimo (pare uno dei suoi uomini di fiducia) al sindaco di Firenze, che ha invece sempre rivendicato, da cattolico, la sua laicità.
Si tratta di episodi forse marginali (ma altri potrebbero essere citati), che però mostrano un’oscillazione tra naiveté politicamente corretta e atteggiamenti clericali che mortificano l’autonomia della politica.
Tutte cose che ci si aspetterebbe fossero state “rottamate” almeno all’interno dell’entourage di Matteo Renzi e che ci costringono ad interrogarci sul modo in cui lo sfidante dell’apparato Pd sceglie il proprio personale politico.
Ma questa è solo una delle domande che chi ancora spera che la sua vittoria, nel Pd e nel paese, possa fare la differenza, o almeno aprire ad una speranza, è costretto a porsi.
Anche a fronte non solo degli sbandamenti del suo entourage, ma dei suoi stessi sbandamenti, di certe sue affermazioni un po’ infantili, come quella recente circa l’ipotesi di ricandidarsi a sindaco di Firenze (tanto per suscitare il sospetto che non abbia una precisa strategia) o, peggio, di quel suo continuo ripetere che la sua candidatura alla segreteria del Partito democratico è subordinata alle regole che saranno adottate, come se con la definizione di quelle regole lui non dovesse avere nulla a che fare.
Certo, tutto questo non significa non riconoscere il ruolo giocato fino ad ora da Renzi e il suo coraggio nello sfidare un apparatčik che preferisce morire post-comunista piuttosto che vivere e vincere riformista. Ma come ha scritto Giovanni Cocconi, non basta essere «un magistrale solista, un leader dal fiuto formidabile, in grado come pochi di mettersi in ascolto e in sintonia con il paese».
Renzi dovrebbe comprendere una volta per tutte che la leadership richiede uno sforzo di costruzione attento, lungo e faticoso. A partire da se stessi. Nessun leader può essere lo spin doctor di se stesso. Berlusconi rappresenta l’eccezione, ma Renzi non è Berlusconi – nel bene e nel male – e soprattutto il solipsismo berlusconiano ha condotto al disastro al quale oggi assistiamo nel centrodestra. Il leader è anche il frutto dell’incontro con persone con capacità fuori dal comune che sanno potenziare e incanalare qualità e capacità. Se Obama, Blair e Sarkozy hanno avuto bisogno di Axelrod, Campbell e Guaino, chi è Renzi che pensa di poter “disegnarsi” tutto da solo?
Poi c’è la squadra. Renzi ha dei collaboratori (alcuni molto bravi), con i quali intrattiene rapporti individuali, non ha una squadra. Ma per tracciare la strategia (e in questo momento non sbagliare i passaggi sarebbe fondamentale), costruire un progetto ed essere presenti nei luoghi decisionali con donne e uomini all’altezza, la squadra è una condizione necessaria, nessuno può permettersi il lusso di farne a meno, nemmeno il talentuoso Renzi. Una squadra fatta di persone anche più capaci, nel proprio settore, del leader (l’ho già scritto altrove, mi si perdonerà se mi ripeto, ma pare che più che giovare, la ripetizione sia necessaria), con il coraggio di contrapporsi a lui – anche duramente – se pensano che stia sbagliando. Ed è da quella squadra che devono poi emergere le figure chiave per l’eventuale futuro governo.
L’intelligenza del leader sta anche nella capacità di costruire il gruppo con il quale affrontare le sfide e nella consapevolezza che se il leader è uno, la leadership è un’impresa alla quale molti collaborano e quei molti devono essere scelti con i criteri giusti.
Ha voluto la bicicletta, ci ha fatto sperare che almeno su di una bicicletta avremmo potuto contare per vedere avanzare l’Italia, ora, per favore, senza sbandamenti, Matteo Renzi pedali.

venerdì 23 agosto 2013

Siria, il dramma dei bimbi in guerra. L'Onu: 7 mila uccisi, un milione rifugiati

La Repubblica 23 agosto 2013



Dai dati in possesso delle due agenzie Unicef e Unhcr risulta che circa i tre quarti, 740mila, dei profughi minorenni hanno meno di 11 anni. Altri due milioni sono sfollati all'interno del Paese in preda alla guerra civile 
 
ROMA - Il numero di bambini rifugiati fuggiti dal conflitto in Siria ha raggiunto oggi la drammatica soglia del milione. Lo rivelano gli ultimi dati dell'Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur) e dall'Unicef resi noti oggi a Ginevra. Del milione di bambini e minorenni costretti a fuggire dal proprio Paese, circa i tre quarti, 740mila, hanno meno di undici anni, precisano le due agenzie specializzate delle Nazioni Unite.
"Questo milionesimo bambino rifugiato non è solo un altro numero. E' un vero bambino in carne ed ossa strappato alla sua casa, forse anche alla famiglia, di fronte a orrori che possiamo solo cominciare a capire", ha dichiarato il direttore generale dell'Unicef Anthony Lake denunciando il "fallimento della comunità internazionale" di fronte alle sue responsabilità.

"Dobbiamo tutti condividere la vergogna", ha aggiunto. Per l'Alto Commissario Unhcr Antonio Guterres, sono "in gioco la sopravvivenza ed il benessere di una generazione di innocenti". I giovani siriani "hanno perso la loro casa, i loro familiari ed il loto futuro. Anche dopo aver attraversato il confine verso la sicurezza, sono traumatizzati, depressi ed ha bisogno di un motivo di speranza", ha aggiunto.
Secondo gli ultimi dati delle due agenzie specializzate delle Nazioni Unite, circa 3.500 bambini e minorenni siriani sono giunti in Giordania, Libano e Iraq non accompagnati o separati dalle loro famiglie e globalmente i minorenni costituiscono circa la metà dei due milioni di profughi fuggiti dalla guerra in Siria e giunti in Libano, Giordania, Turchia, Iraq ed Egitto. Sempre più spesso, i siriani approdano anche in Nord Africa e in Europa.
Il prezzo pagato dall'infanzia siriana al conflitto, entrato nel suo terzo anno, è enorme. Al milione di bambini rifugiati si sommano infatti oltre due milioni di bambini e minorenni sfollati all'interno del loro Paese e l'Onu stima che almeno in 7mila sono stati uccisi. I bambini e minorenni rifugiati sono inoltre esposti a minacce quali il lavoro forzato, il matrimonio precoce e lo sfruttamento sessuale. Unhcr, Unicef e l'Onu si sono mobilitate per assistere i rifugiati siriani, ma molto resta da fare e solo il 38% dell'appello di fondi per finanziare gli aiuti ai profughi fino alla fine dell'anno è stato ricevuto.