domenica 30 novembre 2014

Legge di stabilità

Correzione del deficit da 4,5 miliardi, modifica del bonus bebè, allentamento del patto di stabilità interno per i comuni, incremento degli ammortizzatori sociali, riduzione dell'Irap e dei contributi. La legge di stabilità, nel corso dell'esame in commissione Bilancio a Montecitorio, viene modificata con un pacchetto di misure che tocca quasi tutti i capitoli della manovra. Restano fuori novità fiscali, con al primo posto la local tax, che saranno inserite a palazzo Madama.

LE MILLE FACCE DELLA TERZA VIA.


Corriere della Sera 30/11/14
corriere.it
Il quindicesimo anniversario di un incontro che vide riuniti a Firenze i leader della sinistra allora al governo in alcuni grandi Paesi — Bill Clinton negli Usa, Tony Blair in Gran Bretagna, Lionel Jospin in Francia, Enrique Cardoso in Brasile, Prodi e D’Alema in Italia — è stato subito associato alla benedizione che Tony Blair ha offerto a Renzi in occasione della cena svoltasi mercoledì scorso a Palazzo Chigi: ritorna la «Terza via»? Si tratta di una linea politica che la sinistra può ancora adottare? E oggi, in Italia, ne è Matteo Renzi un interprete adeguato? Massimo D’Alema, intervistato ieri da Paolo Valentino sul Corriere , risponde «no» a tutte e tre le domande.

«Terza via» è denominazione diffusa, e che non riguarda solo la politica, bensì ogni problema in cui si scartano le soluzioni estreme e se ne adotta una intermedia, che cerca di conservare gli aspetti positivi e ridurre quelli negativi associati alle soluzioni polari. Insomma, un compromesso accettabile. Nella politica della sinistra si tratta di una vecchia storia, che risale almeno alla fine dell’800, a Eduard Bernstein, poi rinverdita dagli austro-marxisti dopo la Prima guerra mondiale. Tony Blair e il suo ideologo Tony Giddens è da questi ultimi che hanno ripreso l’espressione «Terza via» per affrontare (e nobilitare) un problema politico particolare: dato che la sinistra tradizionalista e statalista dominante nel Labour Party era stata battuta per quattro volte di seguito dai neoliberali di Thatcher e Major, non era forse il caso di adottare una linea politica intermedia tra i tradizionalisti e i liberali estremi del partito conservatore? È sull’onda del suo successo nelle elezioni del 1997 che Blair venne all’incontro di Firenze e che Tony Giddens cominciò a fare il piazzista — un piazzista di alto livello — della Terza via in tutt’Europa. Dopo di che le cose non andarono bene: il Labour vinse sì le due successive elezioni — cosa mai avvenuta in precedenza — ma Blair divenne così impopolare, soprattutto per le sue posizioni sulla guerra in Iraq, che oggi il suo nome è impronunciabile in Gran Bretagna, anche nell’ambito della sinistra moderata. E la stessa espressione di Terza via, a lui troppo associata, ha perso gran parte del suo fascino.

Ma il problema del contrasto e del necessario compromesso tra capitalismo e assetto politico liberale — da una parte — e democrazia, eguaglianza di opportunità, benessere per i ceti più disagiati — dall’altra — rimane e anzi è diventato più acuto con gli sviluppi più recenti della globalizzazione, dopo la grande crisi del 2008, nel contesto di un’Unione Europea che ha fatto propri i precetti del liberismo più estremo e di un rampante populismo di destra.

Tutte le sinistre europee che aspirano a governare sono costrette a questo compromesso, a tante e diverse «terze vie» a seconda delle loro storie e del bagaglio di attività e passività che si portano appresso. Questo D’Alema, che ha governato, lo sa benissimo, come sa che il fardello che si porta appresso l’Italia è particolarmente pesante e il compromesso rischia di essere più sfavorevole ai ceti popolari che in altri Paesi più efficienti e meglio governati del nostro.

E allora non tiriamo in ballo la Terza via o altre questioni di principio e lasciamole agli studiosi e agli ideologi, bravi come Tony Giddens o meno bravi come i suoi omologhi italiani. D’Alema e Renzi sono politici puri, opportunisti come i politici devono essere, pronti a servirsi di tutti i suggerimenti culturali che si prestano ai loro fini. Non credo che Renzi abbia un pregiudizio ideologico contro l’uso di strumenti pubblici e dello Stato, se solo fossero, nel nostro disgraziato Paese, un po’ più efficienti e meno inquinati dalla politica: e dunque una riforma della politica (abolizione del bicameralismo identico e legge elettorale) e della pubblica amministrazione sono in testa ai suoi obiettivi. Quanto alle finalità che Renzi persegue in Europa o a livello internazionale credo siano identiche a quelli che perseguirebbe D’Alema: non lo fa con sufficiente forza e competenza? Ma allora, sulla base di esempi concreti, di questo si parli, non di astratte terze vie.

Il lavoro dei detenuti che nessuno sfrutta per risarcire lo Stato.


Corriere della Sera 30/11/14
Virginia Piccolillo
Un detenuto costa tra i 100 e i 200 euro al giorno, più le spese processuali che spesso non è in grado di pagare quando esce. Perché non utilizzarlo gratis per spalare il fango dei fiumi esondati, ridipingere le scuole, o fare i lavori di manutenzione nei penitenziari?

La proposta «provocatoria e forse per qualcuno addirittura sovversiva» la lancerà stasera Milena Gabanelli in una puntata di Report che squarcia il velo dell’ipocrisia. Il sistema penitenziario pesa sul contribuente per 2 miliardi e 800 milioni di euro. Lo scorso anno, solo per il vitto e i prodotti per l’igiene, sono stati spesi 132 milioni. Lo Stato ne ha recuperati poco più di 4,5 dalle spese di mantenimento attribuite ai 54.200 detenuti di quest’anno: 1,69 euro al giorno. La legge dice che l’amministrazione dovrebbe dare un lavoro a ciascun detenuto definitivo, ma quasi nessun istituto ha i soldi per pagarlo e favorire così il suo reinserimento. Anche per questo 7 su 10 tornano a delinquere.

Dunque perché non utilizzare i detenuti non pericolosi per lavori di pubblica utilità e trattenere gran parte della paga come risarcimento per le spese dell’amministrazione penitenziaria? A sorpresa, nella puntata firmata da Claudia Di Pasquale e Giuliano Marucci, i più favorevoli all’idea sono proprio i detenuti, colti nella loro attività quotidiana: «Giochiamo a carte, ci facciamo una chiacchierata, 23 ore su 24 non facciamo nulla», raccontano, abbrutiti e avvolti dal degrado di bagni fetidi, muri cadenti, strutture fatiscenti.

Mentre dalle istituzioni chiamate a risolvere una situazione che ci è costata già la condanna della Corte europea arriva il consueto scaricabarile: «Tocca al Dap», «no al governo», «no al Parlamento». Più un’alzata di sopracciglio, quasi come se si volesse tornare ai lavori forzati: «Incostituzionale: il lavoro va pagato», tuona il garante Angiolo Marroni.

Eppure una legge che prevede il lavoro volontario e gratuito esiste dal 2013. Ma sembra che lo sappiano solo al carcere di Bollate dove il 50% dei detenuti ridipinge le scuole o fa varie attività, pagati o anche gratis. In altri Paesi, come gli Stati Uniti, l’Austria, l’Irlanda, poi, è già così. L’obbligo di lavorare non c’è. Ma con apparente soddisfazione generale, quasi tutti lavorano. «L’amministrazione trattiene le spese e lascia al detenuto circa 50-60 euro in tasca. Noi facciamo l’esatto contrario», evidenzia Milena Gabanelli. In più all’estero lo sconto di pena arriva solo a chi lo merita, lavorando. A Portland, nell’Oregon, squadre di detenuti, più o meno sorvegliati, a seconda della pericolosità, fanno manutenzione di strade e giardini, o fabbricano scarpe.

L’amministrazione penitenziaria non è in rosso e ci sono persino celle De Luxe per chi lavora di più. In Irlanda a tutti, in laboratori interni, si insegna a lavorare il legno o altro. In Austria si producono internamente fabbriche per topi, componenti auto e molto di più. Da noi solo il 4% dei detenuti lavora per i privati Modificare le norme per seguire l’esempio estero? «Compito del governo, per la presidente della commissione giustizia della Camera, Donatella Ferranti. E il sottosegretario Cosimo Ferri concede: «E’ una proposta di buon senso».




“Siamo almeno cento Prodi è la prima scelta” Il piano per il Quirinale delle minoranze Pd


GOFFREDO DE MARCHIS

Il retroscena Cuperlo, Fassina e D’Attorre si vedono tutti i giorni per coordinare le mosse dei dissidenti “Stavolta Renzi dovrà ascoltare anche noi, in Parlamento contiamo un po’ più di Fitto”

«Stavolta dovrà ascoltare anche noi. Contiamo più di Fitto in Parlamento». La minoranza del Pd giocherà la partita del Quirinale di rimessa, aspettando che sia Matteo Renzi a fare la prima mossa, a indicare al partito un nome su cui discutere. Il coordinamento dei dissidenti continua a vedersi praticamente ogni giorno alle 9 di mattina a Montecitorio. Ne fanno parte Gianni Cuperlo, Pippo Civati, Stefano Fassina, Francesco Boccia e Alfredo D’Attorre. Tutte le aree sono rappresentate. Da questo nucleo è nata la rivolta che ha portato alle 30 uscite dall’aula durante la votazione del Jobs Act. Ma loro giurano di essere molti di più e al momento dell’elezione del presidente della Repubblica il loro peso si farà sentire. Tra Camera, Senato e delegati regionali contano circa 100 grandi elettori. «Forse 101», scherzano evocando il voto su Romano Prodi che provocò un terremoto nel centrosinistra, un anno e mezzo fa.
Prodi è ancora nei discorsi dei ribelli in questi giorni. Ancora oggi è il nome che mette d’accordo tutti. Civati in testa. Ma lo appoggiano anche i bersaniani e il lettiano Boccia. Persino Cuperlo non nega una chance al Professore. Del resto, lui, nella squadra dalemiana, è sempre stato un tifoso dell’ex premier, certamente il meno denigratorio, tanto da immaginare una pace tra D’Alema e Prodi qualche anno fa, attraverso la nomina di quest’ultimo alla presidenza della Fondazione Italianieuropei. Il percorso di Prodi appare fin d’ora accidentato, reso difficile dalla sua sbandierata indisponibilità e dal veto di Berlusconi. In più adesso la sponda grillina non è molto sicura vista la tempesta che scuote i 5stelle. Comunque il coordinamento si prepara anche a un piano B. Sul profilo di Prodi: ossia autorevolezza assoluta, nome alto, autonomia dai partiti. Perché il timore è che nel patto del Nazareno si possa realizzare una soluzione al ribasso, con una candidatura debole. «Il capo dello Stato dev’essere libero e forte. Libero dai condizionamenti delle forze politiche e forte nelle istituzioni», spiega Boccia. «Va cercato un garante per il Paese, non un garante di Renzi, una specie di stampella del governo», insiste D’Attorre. Naturalmente, secondo la minoranza, questo risultato si ottiene solo ribaltando l’intesa del Nazareno e depotenziando il potere di scelta di Berlusconi.
Per neutralizzare il dissenso interno e i franchi tiratori Renzi però ha bisogno di patto blindato o con Berlusconi o con Grillo. Dalla quarta votazione basteranno 500 e rotti voti per eleggere il presidente. Se sono veri i 100 della minoranza, è necessario avere la sponda garantita di Forza Italia e dei centristi oppure del comico. Perché nemmeno i dissidenti grillini saranno sufficienti. La via d’uscita più semplice è trovare un nome talmente alto da impedire a chiunque di battere ciglio. Come avvenne ai tempi di Carlo Azeglio Ciampi. Questo nome è unico: Mario Draghi. Berlusconi dovrebbe inchinarsi e la minoranza dem non avrebbe alternative.
Draghi tuttavia è out almeno per il momento. Girano le candidature di Roberta Pinotti e Paolo Gentiloni in cui i dissidenti non riconoscono l’identikit della personalità autorevole e autonoma che invece corrisponde a Walter Veltroni. Più insidiosa, per l’intero Pd, sarebbe l’indicazione di Dario Franceschini. Il ministro della Cultura, nel toto-Quirinale, è ai margini, «ma non va sottovalutato — dice Boccia — . Può avere i voti di Berlusconi e di tutti i centristi sparsi».
I dissidenti cercano di autonomizzarsi dalla vecchia guardia, eppure non negano che Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema vorranno avere voce in capitolo. «Esiste una necessità di condivisione, anche con noi. Non cerchiamo una situazione di stallo e la titolarità della proposta spetta a Renzi. Poi però si discute», spiega D’Attorre. Non sarà una discussione semplice, intrecciata com’è con la legge elettorale e la riforma costituzionale, oggi osteggiate dalla minoranza. Senza contare la prospettiva del voto anticipato. Renzi e i suoi devono ancora trovare l’interlocutore giusto nel fronte dei ribelli. Per ora regna la massima diffidenza e sospetti nemmeno molto celati a Palazzo Chigi di complotti per far inciampare il premier.

Matteo Renzi “Voglio una sinistra moderna. La Cgil non ci fermerà, pensa solo al suo sciopero Nel Pd nuove regole sulla disciplina interna Il nostro popolo al prossimo voto dovrà scegliere tra noi e Salvini”


CLAUDIO TITO
“Berlusconi rispetti i patti prima l’Italicum poi il Colle L’Ilva tornerà allo Stato la salviamo e poi vendiamo”. La Camusso? «Alza i toni in vista dello sciopero generale ». Grillo? «Il Pd lo ha rottamato». L’articolo 18? «Bisognerebbe rileggere ciò che scrivevano sindacalisti come Luciano Lama». Prima il Quirinale e poi le riforme? «Non esiste e comunque il mio nome ora per il Colle resta solo Napolitano». Prima di affrontare lo “showdown” di dicembre che per il governo assomiglia a una corsa a tappe forzate tra l’Italicum, il Jobs act e la legge di Stabilità, Matteo Renzi traccia un bilancio di quel che il suo governo e il Pd hanno fatto nel 2014. Chiede al suo partito di abbandonare la vecchia abitudine degli «sgambetti» a Palazzo Chigi e di dar vita ad una «sinistra moderna» senza steccati ideologici.
Al punto di annunciare il ritorno all’intervento pubblico per risolvere una delle più gravi crisi industriali del Paese: quella dell’Ilva. «Poco fa — è la sua premessa — io ho detto che sono eroi gli imprenditori, gli artigiani, tutti i lavoratori. Chi fa il proprio mestiere. Perché le questioni vere sono queste: avere la possibilità di fare impresa e creare posti di lavoro. Questa è la sinistra moderna. Il resto è polemica inesistente».
Sarà pure inesistente ma il segretario della Cgil, Susanna Camusso, l’ha attaccata pesantemente.
«Il segretario della Cgil ha la necessità di tenere alta la tensione e i toni in vista dello sciopero generale. È legittimo e comprensibile. Ma la mia priorità è un’altra: tenere la discussione sul merito delle cose. Capisco la Cgil ma nel frattempo noi dobbiamo cambiare l’Italia e quindi non cado nella polemica».
Lei si pone l’obiettivo di cambiare l’Italia. Ma a volte sembra che voglia farlo contro il sindacato.
«No. Io lo faccio contro chi frena. Se il sindacato ha voglia di cambiare e dare una mano, ci siamo. Ma se pensano di bloccarci, si sbagliano di grosso. Il tema vero oggi è creare lavoro, non farci i convegni. Affrontare crisi industriali come quelle di Taranto, di Terni, quella dell’Irisbus. Dare nuove tutele a chi lavora e non la polemica ideologica. Questo è il governo che ha dato 80 euro a chi ne guadagna meno di 1500 al mese, che punta sui contratti a tempo indeterminato. È semplicemente quel che deve fare una sinistra moderna ».
Gli ultimi dati Istat sulla disoccupazione, però, ci consegnano la percentuale di disoccupati più alta dal 1977.
«Dopo il decreto Poletti, in sei mesi di governo sono stati creati oltre centomila posti di lavoro. È un primo segnale incoraggiante. Flebile ma incoraggiante. Nei sei anni precedenti ne erano stati persi un milione. Ma c’è un elemento in più: un sacco di gente sta tornando a iscriversi alle liste di disoccupazione perché adesso avverte la speranza di trovarlo un lavoro. Questo fa crescere la percentuale ma è anche un segno di attività che prima mancava».
Lei davvero crede che il Jobs act possa essere risolutivo?
«Risolutivo no. Però so che quella legge dà garanzie a chi non ne aveva, come le mamme con un contratto precario. Estende gli ammortizzatori sociali a tutti. Annulla i co.co.co, co.co.pro e quella roba lì. Dunque, si fa. Però non bastano le regole: l’occupazione si rilancia scuotendo il Paese, facendo la lotta alla burocrazia, alla corruzione, all’evasione. Semplificando l’accesso al credito. Tutto questo è il compito di una sinistra moderna».
Anche l’abolizione dell’articolo 18 è un compito della sinistra moderna?
«La nuova norma servirà a sbloccare la paura. Molte aziende non assumono perché preoccupate di un eccesso di rigidità. Mancava certezza nelle regole. Noi stiamo rimuovendo gli ostacoli. È anche un elemento simbolico perché si dimostra che l’Italia può attirare gli investimenti».
Non tutti pensano che sia proprio una riforma di sinistra.
«Per molti è una coperta di Linus. Bisognerebbe rileggersi un intervento di Luciano Lama del ‘78, allora cambierebbero idea. Essere di sinistra è anche garantire agli imprenditori di fare impresa e creare posti di lavoro. Senza steccati ideologici».
In che senso?
«A Taranto, ad esempio, stiamo valutando se intervenire sull’Ilva con un soggetto pubblico. Rimettere in sesto quell’azienda per due o tre anni, difendere l’occupazione, tutelare l’ambiente e poi rilanciarla sul mercato. Non vivo di dogmi ideologici, non sono fautore di una ideologia neoliberista. Il dibattito sull’articolo 18, invece, è quanto di più ideologico. Il sindacato che non ha scioperato contro Monti e la Fornero, lo fa adesso contro il governo che ha fissato i tetti degli stipendi ai manager, ha dato gli 80 euro e ha tagliato i costi della politica. Noi stiamo sul merito, non sull’ideologia: sono sicuro che molti di loro cambieranno idea quando vedranno i decreti del Jobs act».
Facciamo un passo indietro. Che intende per intervento pubblico sull’Ilva?
«Ci sono tre ipotesi. L’acquisizione da parte di gruppi esteri, da parte di italiani e poi l’intervento pubblico. Non tutto ciò che è pubblico va escluso. Io sono perché l’acciaio sia gestito da privati. Ma se devo far saltare Taranto, preferisco intervenire direttamente per qualche anno e poi rimetterlo sul mercato ».
È la teoria sostenuta da molti economisti, a partire da Krugman, negli ultimi anni.
«La vera partita si gioca in Europa. Il Piano Juncker è un primo passo ma al di sotto delle mie aspettative. Glielo diremo al prossimo consiglio europeo. Il paradigma mondiale dovrebbe essere la crescita. Su questo sono d’accordo destra e sinistra: Obama e Cameron, Brasile e Cina. Al G20 in Australia molti di noi lo hanno sostenuto, ma non tutti».
Ce l’ha con la Merkel?
«Io non ce l’ho con nessuno. Ma il dibattito in Europa è molto più complicato rispetto a quanto accade a livello globale».
La flessibilità non può diventare una scusa per aumentare il deficit?
«Senza la flessibilità la politica è finita, morta, inutile. Se governare fosse solo un insieme di regole, potrebbero governare i robot. Se l’Europa non fosse stata flessibile, la prima a saltare sarebbe stata la Germania del post-muro di Berlino. Quanto al deficit, il nostro dato è uno dei migliori al mondo. Preoccupa casomai il debito. Ma in questo caso il problema è la crescita. Solo che la crescita non arriva senza un programma di investimenti pubblici e privati degni di questo nome. Fuori dalla tecnicalità: è un gatto che si morde la coda...».
Ma in questa fase serve o no più mano pubblica nell’economia?
«Dipende. Io ad esempio non sono per la presenza pubblica in così tante municipalizzate come accade da noi. Non vorrei passare da un eccesso all’altro. Bisogna valutare caso per caso».
Una cosa su cui è d’accordo con D’Alema.
«Può accadere persino questo. Ma se penso a come furono fatte certe privatizzazioni in passato non credo che l’accordo reggerebbe molto. Se penso al dossier Telecom, mi rendo conto che l’enorme debito della compagnia telefonica risale a come fu gestita la privatizzazione di quell’azienda. Diciamo che con D’Alema sono forse d’accordo sull’intervento pubblico, ma sono un po’ meno d’accordo sull’intervento privato, diciamo».
In ogni caso lo scontro con una parte del suo partito sulla politica economica del governo e sul Jobs act pone a lei, in qualità di segretario del Pd, un problema. Come comporre le differenze in un partito che aspira a conquistare la maggioranza e che per forza di cose contiene al suo interno più anime.
«Dal punto di vista culturale la diversità aiuta e stimola il dibattito. Dal punto di vista organizzativo invece c’è un gruppo di lavoro guidato dal presidente Orfini. Quando poi ci sarà il premio alla lista servirà una gestione diversa dei processi decisionali. Come si vive la disciplina e la libertà di coscienza nel partito del ventunesimo secolo? Come tenere insieme l’idea veltroniana del partito a vocazione maggioritaria con quello bersaniano che voleva un partito diverso dalla tradizione novecentesca ma più solido?».
E come si fa?
«Ne stiamo discutendo ma questa è la sfida interna del nuovo gruppo dirigente Pd».
Intanto c’è chi le chiede di anticipare il congresso.
«Chi usa strumentalmente questo tema dimentica che alle europee abbiamo preso il 40,8%, abbiamo recuperato 4 regioni su 4 e governiamo l’Italia cercando faticosamente di cambiare linea all’Europa. Il congresso è fissato per il 2017. Se Zoggia o D’Attorre pensano di fare meglio potranno dimostrarlo tra tre anni come prevede lo Statuto. Nel Pd c’è una gestione unitaria. Non è che possiamo fare il congresso perché loro si annoiano».
Veramente c’è chi minaccia anche la scissione.
«Nel Pd ci sta chi ne ha voglia. Chi minaccia la scissione un giorno sì e un giorno pure, deve chiarirsi solo le idee e capire se crede a un partito comunità. La regola dello sgambetto al governo non funziona più».
Lei però deve decidere se il Pd può avere al suo interno tutta la sinistra.
«Una parte di sinistra radicale ci sarà sempre. Ma quando si va a votare, proprio il popolo della sinistra che è già provato da quel che è accaduto in passato, ci penserà due volte a votare per la sinistra radicale rischiando di consegnare il paese a Matteo Salvini. Perché poi si sceglierà tra noi e la destra lepenista. Tra la nostra riforma del lavoro e quella della Troika».
Ha detto Salvini e non Grillo.
«Il Pd lo ha rottamato. Le europee hanno segnato la fine del grillismo. Loro usavano la rabbia, noi abbiamo risposto con un progetto. Ora si tratta di capire come si muoverà la diaspora Cinque stelle. Alcuni di loro sono molto seri, hanno voglia di fare».
Li sta reclutando?
«Non sono per fare campagne acquisti, ma sulla lotta alla burocrazia, la semplificazione fiscale, la scuola, secondo me ci sono i margini per fare qualcosa con una parte di loro. Dovranno decidere se buttare via i tre anni e mezzo che rimangono di legislatura o dare una mano al Paese».
Le ultime regionali hanno rottamato il M5S ma sono state un segnale anche per lei.
«Perché l’astensionismo alle regionali dovrebbe essere messo sul conto del governo? Anche l’idea che ci sarebbe stato lo spaesamento dei lavoratori cozza con la realtà. E allora perché non hanno votato per Sel? Avevano pure la scusa che stava nella coalizione con Bonaccini».
Sarà altrettanto duro con Berlusconi? Al Corriere ha detto che prima si concorda e si elegge il presidente della Repubblica e poi si approva l’Italicum.
«Non esiste. L’Italicum è in aula a dicembre. Lui si è impegnato con noi a dire sì al pacchetto con la riforma costituzionale entro gennaio. Io resto a quel patto».
Berlusconi spesso cambia idea.
«Io no».
Nel frattempo le ha fatto sapere che per il Quirinale vorrebbe Giuliano Amato.
«Io ho un unico nome: Giorgio Napolitano. Non apro una discussione finché il capo dello Stato è al suo posto. I nomi si fanno per sostenerli o per bruciarli. È sempre la stessa storia dal 1955. La corsa è più complicata del palio di Siena. E i cavalli non sono nemmeno entrati nel canapo».
Va bene, ma poiché il problema si aprirà, lei pensa di indicare almeno un metodo?
«È bene che il presidente della Repubblica si elegga con la maggioranza più ampia possibile. E dico “possibile”. Ma non voglio discuterne adesso, sarebbe irriguardoso nei confronti di Napolitano e segno di scarsa serietà verso i cittadini».

sabato 29 novembre 2014

La paura della contestazione, gli insulti con Artini: così Beppe ha deciso di dire basta

TOMMASO CIRIACO 
ANNALISA CUZZOCREA
La Repubblica 29 novembre 2014
È stata la moglie Parvin, a insistere più di tutti: «Non puoi andare avanti così». Che fosse stanco, esausto, svuotato da questi ultimi due anni di piazze e giornalisti sotto casa, comizi ed espulsioni da decidere, Beppe Grillo lo aveva confessato a tutti quelli che gli sono più vicini. E lo aveva dimostrato nell’ultima campagna elettorale, quando il massimo che aveva voluto fare per la Calabria era stato un video poco riuscito. Mentre in Emilia si era deciso ad andare solo all’ultimo momento, ritrovandosi con 100 persone al circolo Mazzini di Bologna a dire ai suoi: «Dovete camminare con le vostre gambe».
Anche per questo, a un direttorio di persone che possano prendere la guida dei gruppi parlamentari e fare da interfaccia nei territori, Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio pensavano da tempo. Ed erano mesi che i cinque prescelti andavano periodicamente a Milano, suscitando l’invidia degli esclusi. Di chi si considerava più adatto al ruolo di referente interno vinto, invece, dal fedelissimo Roberto Fico, dal tessitore Luigi Di Maio, insieme ai falchi - spesso gaffeur - Carlo Sibilia e Alessandro Di Battista, e all’unica donna Carla Ruocco. I tempi decisi, però, erano altri. Si sarebbe dovuto procedere prima alle espulsioni di chi negli ultimi mesi ha messo in discussione la linea (in quella saletta di Bologna Grillo si era lasciato sfuggire la frase: «È il momento di fare pulizia»), e poi alla nomina dei cinque piccoli leader (che potrebbero essere seguiti da figure analoghe per il Senato).
Non arriva a sorpresa, quindi, il passo indietro. Ma c’è stato qualcosa che lo ha affrettato. L’assedio degli attivisti toscani alla villa di Marina di Bibbona è stato il punto di rottura. Ritrovarsi a chiamare la polizia non per paura di troppi taccuini e telecamere, ma dei suoi stessi militanti, delle loro proteste e delle loro domande, è stato il momento che ha portato Beppe Grillo a dire «basta». Era nella sua casa al mare a cercare tranquillità, l’altro ieri, e si è ri- trovato 50 attivisti a protestare fuori dal cancello. I suoi attivisti. Quelli che nelle tappe toscane lo portavano a cena. Quelli che - dopo i comizi del mattatore che gridava, a Siena, contro lo scandalo Mps - al mattino passavano presto a pagargli l’albergo. Non aveva nessuna voglia di parlare, il capo, ma ha dovuto farlo. Prima con il deputato Samuele Segoni. Poi con Federica Daga, Silvia Benedetti, Massimo Artini. Non voleva, li ha fatti aspettare a lungo, sono stati al telefono 10 minuti: «È assurdo Beppe, siamo qui, aprici ». Lui è uscito, ha fatto varcare ai tre il cancello, ma li ha tenuti un’ora e mezzo lì fuori, al buio, ben lontani dalla porta di casa. E intanto, furibondo, pensava: «Basta».
«Ha fatto una parte indegna - racconta Artini - parlava dei clic sul sito, diceva che ci sono milioni di visualizzazioni e che i voti non contano. Poi mi ha detto di non preoccuparmi, che tanto rimango deputato. Allora gli ho detto vaffanculo, Beppe. Vai a cagare». Avevate un rapporto? «Sì, avevamo un rapporto, ma di questa giornata terribile quell’ora e mezza è stata la peggiore». È stato un vaffa, a far scattare la decisione. Il vaffa di un suo deputato, e le domande della giovane Silvia Benedetti che chiedeva: «Perché ora?». E che ha fatto in modo che all’attore consumato sfuggisse la verità: «Perché se avessimo aspettato l’assemblea non eravamo certi di poterli cacciare». Resta duro a ogni richiesta di ascolto, Grillo. «Non vi fidate più di me?», continuava a chiedere, incredulo. Poi, una volta andati via, chiama Gianroberto Casaleggio - che le cronache del quartier generale raccontano sempre più irritato - e insieme decidono che è il momento. Era stato Casaleggio a chiedere ai falchi in Parlamento di mandar via «le mele marce». Loro gli hanno detto che poteva non essere facile, e allora ogni regola è saltata: quella di far votare prima l’assemblea, e quella (prevista dal non-statuto, la Bibbia del Movimento) di non creare organismi direttivi. Così, con il post in cui Grillo si dice «stanchino come Forrest Gump», e scegliendo i nomi di coloro che dall’inizio sono stati i più coccolati dal blog, i due creano le condizioni per il plebiscito del 91,7 per cento arrivato poco dopo le sette di sera. «Da noi le prime, le seconde e le terze file si decidono in base ai like ottenuti su Facebook », diceva qualche tempo fa il deputato Tancredi Turco. In qualche modo, è stato profetico.
Chi racconta della crisi di Grillo, però, dice che in realtà è cominciata prima di quel brutto giovedì notte. Precisamente, il 14 ottobre scorso, quando - il giorno dopo la riuscita tre giorni del Circo Massimo - era andato a fare un giro nella sua Genova ferita dall’alluvione per sentirsi gridare da un angelo del fango: «Vieni qui, ti sporchi un po’, ti fai fare le foto. Vai via!». Si era infuriato, Grillo. Era fuggito in motorino sulla collina di Sant’Ilario. Dov’è tornato ieri mattina, dopo l’assedio di Bibbona. Tocca ai «ragazzi», come li chiama lui, vedersela con le altre espulsioni. Tocca a loro, ascoltare proteste e lamentele. Il capo è stanco, e - per ora - resta a guardare.




A SANGUE FREDDO


GAD LERNER
La Repubblica 29/11/14
È ricominciata in Italia la caccia al rom, o zingaro che dir si voglia, da sempre il più comodo e popolare dei bersagli con cui prendersela quando anche tu vivi ai margini e te la passi male.
Solo che stavolta la caccia al rom viene orchestrata da piromani a sangue freddo. Smaliziati cercatori della prova di forza a contatto diretto col nemico etnico. Professionisti che mirano all’incendio delle periferie metropolitane, dove si contendono i marciapiedi con i centri sociali antagonisti. È lì, nel vuoto della politica, che costoro hanno intravisto lo spazio in cui costruire un nuovo polo di destra radicale. Una destra verdenera, o fascioleghista, pronta a plasmarsi sul modello di un alleato robusto come il Front National di Marine Le Pen. Il loro credo è l’etno-nazionalismo, il loro faro è Putin, la costruzione da abbattere è l’Europa.
Ma intanto si comincia dal basso: dall’insofferenza degli inquilini delle case popolari quando i nuovi assegnatari o, peggio, gli occupanti abusivi, sono le famiglie rom e sinti che hanno lasciato i campi nomadi, come succede nei quartieri milanesi del Lorenteggio e del Giambellino. Oppure dalla richiesta di chiudere quegli stessi campi nomadi in cui — parole del consigliere comunale vicentino Claudio Cicero — agli zingari piacerebbe «vivere nella sporcizia, come i maiali ».
Ieri a Roma gli studenti organizzati da Casapound hanno bloccato l’uscita ai residenti del campo di via Cesare Lombroso, impedendo ai bambini di andare a scuola. Come sempre avviene, i prevaricatori capovolgono la realtà atteggiandosi a vittime che finalmente trovano il coraggio di reagire. I manifestanti reggevano uno striscione appositamente studiato: “Stop alle violenze dei rom, alcuni italiani non si arrendono”. Sarebbero loro, il drappello d’avanguardia degli italiani coraggiosi. E poco importa che la devianza e la criminalità diffuse nei campi nomadi non rappresentino certo la fonte principale della sofferenza sociale cresciuta con la povertà materiale e la miseria culturale. Sono nemici per lo più inoffensivi ma fisicamente riconoscibili, difenderli risulta impopolare, e quindi vanno additati come corpo estraneo, stranieri anche quando si tratti di rom e sinti con la cittadinanza italiana.
L’operazione politica, studiata a sangue freddo, prevede il gesto ardito, la provocazione, il contatto diretto. Come il blitz mascherato da “ispezione” architettato da Matteo Salvini al campo sinti bolognese di via Erbosa, con il seguito prevedibilissimo dell’aggressione su cui il segretario leghista ha lucrato elettoralmente.
Da allora il meccanismo è stato replicato più volte a favore di telecamere. Ci sono trasmissioni televisive specializzate nella messinscena della rabbia popolare costruita ad arte. Si mettono d’accordo con Mario Borghezio che naturalmente si presta volentieri e finge di voler fare un sopralluogo, di volta in volta a un campo rom o a un centro d’accoglienza per rifugiati stranieri. Ne scaturisce una gazzarra. Oppure si convocano insieme il comitato dei cittadini arrabbiati e un paio di malcapitati rom, scatenando il putiferio.
Borghezio, eletto nella lista romana della Lega Nord con il sostegno di Casapound, rappresenta l’anello di congiunzione ideale di questa estrema destra nascente. Trova sempre un microfono compiacente, proprio lui che definì “vero patriota” il generale serbo-bosniaco Mladic, cioè il boia di Srebrenica; e che ammise di riconoscersi nelle idee del fanatico norvegese Anders Breivik, autore della strage di Utoya. Neanche questo basta a limitare il suo spazio mediatico, nell’autunno della rabbia.
La crisi della destra post-berlusconiana libera pulsioni reazionarie sempre in cerca dell’incidente, alimentando un clima di violenza dagli esiti imprevedibili. La caccia al rom stavolta non è un moto spontaneo, ma un vero e proprio cinico progetto politico.


«Taglierò il welfare agli immigrati».


Corriere della Sera 29/11/14

f.cavalera
David Cameron va ancora all’attacco: taglierò il welfare ai migranti che arrivano dall’Unione Europea. Propone, nel caso di riconferma a Downing Street, di congelare per quattro anni i crediti d’imposta e gli aiuti sulla casa ai lavoratori a basso reddito che arrivano dalla Ue. Ipotizza di rispedire in patria chi non trova occupazione entro sei mesi. Promette di rimuovere i contributi per i figli a carico se risiedono fuori dal Regno Unito. E prefigura il blocco per i cittadini dei nuovi paesi aderenti alla Ue se «le loro economie» non convergeranno coi parametri europei. Le parole sono pesanti e, a prima vista, mettono Cameron di nuovo in rotta di collisione con l’Europa.

Ma dietro al discorso che il leader conservatore ha fatto ieri, tutto centrato sulla necessità di disincentivare i flussi d’ingresso attraverso la soppressione dei generosi benefici sociali oggi previsti per la manodopera non qualificata (soprattutto dall’Est), c’è una lunga mediazione sia con la cancelliera Merkel, con la quale Cameron si è consultato fino a poco prima del suo intervento, sia con il presidente della Commissione, Juncker.

Ed è stato proprio il pressing congiunto di Berlino e Bruxelles a mitigare i contenuti della posizione del premier britannico che infatti ha rinunciato a porre la questione delle «quote» (il tetto annuale alle immigrazioni), poi a riconoscere la fondatezza del principio della «libera circolazione» delle persone nell’area europea (cardine dei trattati), infine a ribadire che comunque occorrerà negoziare coi partner dell’Europa, escludendo atti unilaterali. Così il commento di Juncker è morbido: «La sua posizione va ascoltata senza drammi».

La sortita di Cameron, in sostanza, occorre leggerla in doppia chiave. Per quello che non dice (ad esempio non cita provvedimenti che sarebbero incompatibili con lo spirito dei patti europei), allineandosi con i «consigli» della signora Merkel ed evitando di isolarsi in un angolo. E per quello che dice, con vigore, ma che risponde tanto alla necessità di lanciare un manifesto elettorale quanto all’esigenza di nascondere il fallimento della sua promessa del 2010. Allora, correndo per Downing Street e incalzando i laburisti, disse: taglierò il saldo migratorio e lo conterrò in poche migliaia.

Sfortunatamente per Cameron i dati, che l’Ufficio Nazionale di Statistica ha diffuso proprio alla vigilia del suo discorso, sono una solenne bocciatura di quei vecchi impegni. Nell’ultimo anno, dal giugno 2013 al giugno 2014, sono stati registrati 583 mila immigrati (228 mila sono cittadini Ue) e 323 mila emigrati.

Il bilancio parla di uno squilibrio di 260 mila unità, con un più 78 mila (quasi la metà rumeni e bulgari) rispetto ai dodici mesi precedenti. Cinque anni di coalizione fra conservatori e liberaldemocratici hanno prodotto un risultato opposto a ciò che era stato proclamato con enfasi. La forza lavoro di provenienza Ue è di 1,7 milioni su 2,9 milioni complessivi di lavoratori immigrati. Sono i numeri che spiegano gli ultimi strappi di Downing Street.

Il leader tory deve destreggiarsi fra l’arrembante Nigel Farage che lo accusa di avere fatto sempre «promesse disoneste», il mondo del business che lo invita a «non calpestare il valore europeo della libera circolazione di manodopera» e i partner, Merkel in testa, che lo spingono a maggiore cautela. L’intervento di ieri, forte e populista ma non di irrimediabile rottura, è un gioco d’equilibrio e d’azzardo insieme. La cui efficacia sarà verificata con il voto di primavera.



Scuola Puond


La Stampa 29/11/2014
massimo gramellini
L’immagine rilanciata dai titoloni dei media sembra l’inizio urticante di un film dove nessuno si salverà. Eccola: in un punto della sterminata periferia romana appaiono cinquecento ragazzi che inalberano cartelli dai caratteri fascisti inneggianti all’italianità offesa e cercano di impedire ai bambini del vicino campo rom di andare a scuola. Nella totale assenza di qualsiasi rappresentante dello Stato, per esempio la polizia.  
Poi fioccano le ricostruzioni. I manifestanti di Casa Pound sostengono di essersi limitati a picchettare due istituti superiori, bersaglio nei giorni scorsi di un lancio di pietre da parte dei rom. Le cooperative di sinistra che lavorano con i nomadi negano il lancio di pietre e ribadiscono la versione emotivamente più dura: il picchetto fascista ha impedito ai bambini rom che frequentano le elementari di uscire dal campo per raggiungere le loro classi. Mi auguro con tutto il cuore che abbiano torto, perché picchettare una scuola è la cosa più feroce e stupida che si possa fare. La scuola è l’unica timida speranza che abbiamo di porre fine a queste guerre tra poveri che non si parlano, non si capiscono e perciò si odiano. Altro che impedire ai piccoli rom di frequentarla. Bisognerebbe trascinarvi anche quelli, purtroppo ancora moltissimi, che vengono indotti a sfuggirla per andare a mendicare. Quanto ai fascisti di Casa Pound, non riesco a credere - ma nemmeno a dimenticare - che Grillo e Salvini li abbiano legittimati come interlocutori democratici, in questa Repubblica che ha ripudiato i propri genitori e vaga sbandata e vergognosa in cerca di identità. 

Grillo, il patrimonio dilapidato


Gian Antonio Stella
Corriere della Sera 29 novembre 2014
Crisi di un leader che si era illuso di poter avere il Paese in pugno
«Sono un po’ stanchino», ha scritto sul suo blog citando Forrest Gump. C’è da credergli: come Tom Hanks nel film di Robert Zemeckis era partito così, senza una meta precisa («Quel giorno, non so proprio perché decisi di andare a correre un po’») e si era ritrovato con l’illusione di avere in pugno il Paese. Dove abbia cominciato, Beppe Grillo, a sprecare l’immenso patrimonio che di colpo si era ritrovato in dote alle elezioni del 2013 non si sa. Forse il giorno in cui apparve sulla spiaggia davanti alla sua villa con quella specie di scafandro, misterioso e inaccessibile come un’afghana sotto il burka. Forse quando, avvinazzato dai titoli dei giornali di tutto il mondo, rifiutò per settimane ogni contatto con la «vil razza dannata» dei giornalisti nostrani compresi quelli corteggiati nei tempi di vacche magre. Forse quando, scartando a priori ogni accordo, plaudì ai suoi che rifiutavano perfino di dire buongiorno agli appestati della vecchia politica o si disinfettavano se per sbaglio avevano allungato la mano a Rosy Bindi. O piuttosto la sera in cui strillò al golpe e si precipitò verso Roma invocando onde oceaniche di «indignados»: «Sarò davanti a Montecitorio stasera. Dobbiamo essere milioni. Non lasciatemi solo o con quattro gatti. Qui si fa la democrazia o si muore!». Dopo di che, avuta notizia di un’atmosfera tiepidina, pubblicò un post scriptum immortale: «P.s. Arriverò a Roma durante la notte e non potrò essere presente in piazza. Domattina organizzeremo un incontro...». E le barricate contro i golpisti? Uffa...
Certo è che mai ora, dopo aver perso tra abbandoni ed espulsioni 15 senatori e 7 deputati con la prospettiva di perderne altri ed essere uscito a pezzi dalle ultime regionali che aveva solennemente annunciato di stravincere («Ci dobbiamo prendere Calabria ed Emilia-Romagna. Sarà un successo, mai stato così sicuro») Grillo si ritrova a fare i conti con un dubbio: non avrà perso il biglietto della lotteria? Non sarebbe il primo. Smarrì il suo biglietto vincente Guglielmo Giannini, dopo aver portato con l’Uomo Qualunque trenta deputati (tantissimi: il quadruplo degli azionisti) all’Assemblea costituente. Lo smarrì Mario Segni, che dopo il referendum pareva destinato a raccogliere l’eredità della Dc. Lo ha smarrito Antonio Di Pietro, del quale Romano Prodi disse «quello si porta dietro i voti come la lumaca il guscio».
I voti perduti
Il guaio è che lui stesso sembra sempre meno convinto di esser ineluttabilmente destinato a vincere. E fa sempre più fatica a spacciare per vittorie certe batoste. E in ogni caso, ecco il problema principale, sono sempre meno convinti di vincere quanti avevano visto in lui l’occasione per ribaltare tutto. Non ripassano, certi autobus. Una volta andati, ciao. Prendete la Calabria: conquistò 233 mila voti (quasi il 25%), alle politiche del 2013. Ne ha persi l’altra settimana duecentomila. E quando mai li recupererà più? Con questa strategia, poi! «Non ci sono più parole per descrivere il lento e inesorabile, ma tutt’altro che inevitabile, suicidio del Movimento 5 Stelle», ha scritto ieri Marco Travaglio, che pure non faceva mistero di averlo votato. «Un suicidio di massa che ricorda, per dimensioni e follia, quello dei 912 adepti della setta Tempio del Popolo, che nel 1978 obbedirono all’ultimo ordine del guru, il reverendo Jim Jones, e si tolsero la vita tutti insieme nella giungla della Guyana».
Citazione curiosamente appropriata. Basti riprendere un numero di «Sette» del 1995. Il titolo di un’intervista all’allora comico diceva tutto: «Quasi quasi mi faccio una setta». Beppe Grillo non era già più «soltanto» un istrione da teatro. Girava l’Italia in 60 tappe con lo show «Energia e informazione», irrompeva all’assemblea della Stet rinfacciando all’azienda telefonica i numeri hot a pagamento, attaccava le multinazionali, incitava ad «accelerare la catastrofe economica. Per l’esplosione del consumismo. Potremmo comprare cose inesistenti: elettroseghe per il burro, spazzolini da due chili monouso che dopo esserti lavato una volta li butti in mare per ammazzare i pesci...». Faceva ridere. E spiegava che proprio per quello gli andavano dietro: «Perché sono un comico. Perché non fabbrico niente. Perché chi parla contro i gas fabbrica le maschere antigas. Invece io, non vendendo né gas né maschere antigas, sono credibile. Che ci guadagno?». Ed è su questa domanda che è andato a sbattere. Brutta bestia, il potere. Guadagnato quello, il bottino più ambito di chi fa politica, è andato avanti sparandola sempre più grossa. Nella convinzione che ogni urlo, ogni invettiva, ogni insulto portasse ancora voti, voti, voti...«Ogni voto un calcio in culo ai parassiti che hanno distrutto il Paese». «Facendo a modo nostro saremo più poveri per i prossimi 4-5 anni, ma senza dubbio più felici». «Apriremo il Parlamento come una scatola di tonno». «Il Parlamento potrebbe chiudere domani. È un simulacro, un monumento ai caduti, la tomba maleodorante della Seconda Repubblica». «Bisogna ripulire l’Italia come fece Ercole con le stalle di Augia, enormi depositi di letame spazzati via da due fiumi deviati dall’eroe».
Parole pesanti
E via così. Anche sui temi più ustionanti, dove non è lecito esercitare il battutismo: «La mafia è emigrata dalla Sicilia, è andata al Nord, qui è rimasta qualche sparatoria, qualche pizzo e qualche picciotto». «Hanno impedito a Riina e Bagarella di andare al Colle per la deposizione di Napolitano per proteggerli: hanno già avuto il 41 bis, un Napolitano bis sarebbe stato troppo». «La mafia è stata corrotta dalla finanza, prima aveva una sua condotta morale e non scioglieva i bambini nell’acido. Non c’è differenza tra un uomo d’affari e un mafioso, fanno entrambi affari: ma il mafioso si condanna e un uomo d’affari no». Una cavalcata pazza. Perdendo uno dopo l’altro amici, simpatizzanti, osservatori incuriositi. Di nemico in nemico. «Adesso Schulz dice che io sono come Stalin. Ma un tedesco Stalin dovrebbe ringraziarlo, altrimenti Schulz sarebbe in Parlamento con una svastica sulla fronte. Schulz, siamo un venticello, lo senti? Arriva un tornado, comincia a zavorrarti attaccato alla Merkel perché ti spazzeremo via». «Noi non siamo in guerra con l’Isis o con la Russia, ma con la Bce!». «Faremo i conti con i Floris e i “Ballarò”... Io non dimentico niente. Siamo gandhiani ma gli faremo un culo così...».
E poi barriti contro le tasse: «Siete sicuri che se pagassimo tutti le tasse questo Paese sarebbe governato meglio? Ruberebbero il doppio». Contro l’ultimo espulso: «Un pezzo di merda». Contro Equitalia: «È un rapporto criminogeno tra Stato e cittadini». Contro l’inceneritore di Parma: «Chi mangerà il parmigiano e i prosciutti imbottiti di diossina?» Contro gli immigrati: «Portano la tubercolosi». Sempre nella convinzione che il «suo» movimento potesse prendere voti a destra e a sinistra, tra i padani e i terroni, tra i qualunquisti e i politicizzati al cubo. Un «partito-tutto» contro tutto e tutti. Finché, di sconfitta in sconfitta, non si è accorto che qualcosa, nel rapporto col «suo» popolo, si stava incrinando. Che lui stesso stava smarrendo l’arte superba di saper mischiare insieme la potenza della denuncia e la leggerezza dei toni. Finché arrivò il momento che, in una piazza qualsiasi, si accorse che la solita battuta non tirava più. Capita anche ai clown più ricchi di genio. Ma loro, se vogliono, possono inventarsi un altro numero.


venerdì 28 novembre 2014

Lo stipendio nascosto (dal manager).


Corriere della Sera 28/11/14
corriere.it
«Ho chiesto: dato che la Regione è l’unico azionista dell’Aeroporto, posso sapere che stipendi avete? Spiacenti, mi hanno risposto, c’è la privacy!». Lo ha raccontato sere fa, scandalizzata, la governatrice del Friuli Venezia Giulia Debora Serracchiani: «Ma se sono soldi pubblici!»

 La Presidente della regione autonoma, che ha anche il ruolo di vicesegretaria del Pd, ospite della Camera di Commercio di Udine che premiava i protagonisti dell’economia friulana, era intervistata dal direttore del Messaggero Veneto, Tommaso Cerno. Il quale insisteva su due problemi, il degrado inaccettabile della fortezza veneziana di Palmanova (nonostante la buona volontà dell’amministrazione comunale, della protezione civile e di migliaia di cittadini coinvolti come volontari nella pulizia delle mura) e la crisi dell’aeroporto di Ronchi dei Legionari sul quale il quotidiano spara a zero da settimane. È lì che la governatrice si è tolta quel sassolino dalla scarpa. Rivelando di avere inutilmente chiesto quali fossero i compensi ai vertici dell’Aeroporto, cioè al presidente e amministratore delegato nominato dalla vecchia maggioranza di destra Sergio Dressi (che dopo essere stato in gioventù un camerata duro e puro ha da anni optato per giacca, cravatta e poltrone da Grand Commis) e al direttore generale Paolo Stradi. 

Risposta: picche. O meglio, parte degli stipendi è stata comunicata ed oggi è on-line sul sito della Regione alla voce amministrazione trasparente. Ma non quello del direttore generale. Il più pagato di tutti. Nella sua casella c’è scritto: «compenso deliberato: dati non trasmessi». E poi «compenso effettivamente percepito: dati non trasmessi». 

Secondo lui, infatti, come ha scritto in una lettera alla presidenza regionale, è vero che la Regione possiede tutte le quote della società, ma la società aeroportuale resta comunque una S.p.A. regolata dalla legge per le società per azioni. Quindi, dice, non ha nessunissimo dovere di fornire informazioni al socio proprietario. Un parere dell’Avvocatura dello Stato dice il contrario? Lui non è d’accordo. Se la regione insiste, chiude a brutto muso, si rivolga al suo avvocato. Fine. 

Uno smacco, per la Serracchiani. Tanto più che, racconta, aveva fatto della trasparenza delle buste paga e della battaglia per abbassare gli stipendi perché nessuno possa più prendere una pubblica prebenda più alta dello stipendio del governatore regionale, una questione di principio. Macché: come ha rivelato giorni fa sullo stesso «Messaggero» Maurizio Cescon, uno degli autori dell’inchiesta sull’aeroporto, l’assai abbottonato direttore generale prenderebbe (comprese le integrazioni per un altro paio di incarichi) 255mila euro. Cioè non solo più del presidente della giunta regionale (circa 150mila euro lordi) ma dello stesso Giorgio Napolitano. Il tutto a dispetto dell’impegno solenne preso da Matteo Renzi: nessun pubblico funzionario, in uno Stato serio, può guadagnare più del Capo dello Stato. Va da sé che la polemica divampa. Ed è giusto che sia così. Al di là della busta paga del signor Paolo Stradi, dei cui destini personali non ci interessa un fico secco, la domanda è: in quale altro Stato il padrone unico di una società non ha il diritto di sapere quanto viene pagato un dipendente? Sono o non sono soldi pubblici? Cioè dei cittadini italiani?

 Sul tema l’Authority della privacy ha già risposto più volte. Stufa di come veniva «spesso lamentato che le pubbliche amministrazioni giustificano la propria decisione di non fornire informazioni ai giornalisti dietro una supposta applicazione della legge sulla privacy», il garante ha ricordato ad esempio qualche anno fa alla Regione Trentino Alto Adige, di aver già chiarito che la legge 675/96 sulla tutela dei dati sensibili e poi il «Codice privacy» non avevano per niente «inciso in modo restrittivo sulla normativa posta a salvaguardia della trasparenza amministrativa». Dunque «la disciplina sulla tutela dei dati personali non può essere in quanto tale invocata strumentalmente per negare l’accesso ai documenti». A farla corta: un conto sono i dati strettamente personali sulle malattie, le preferenze sessuali, la fede religiosa di ciascuno, dati che devono essere assolutamente segreti, un altro le «situazioni patrimoniali di coloro che ricoprono determinate cariche pubbliche o di rilievo pubblico». Ed è o non è, l’aeroporto triestino, una struttura pubblica pagata con soldi pubblici da un ente pubblico?

 Non bastasse, la tignosa resistenza avviene a fronte di risultati sconfortanti. Basti rileggere le accuse: voli sempre più rari, prezzi stratosferici (fino a 613 euro per un biglietto Trieste-Monaco di Baviera: il costo di un andata e ritorno per New York), un calo del 16% dei passeggeri, clienti in fuga verso gli scali di Venezia o Lubiana, parti dell’aerostazione che si allargano ad ogni acquazzone un po’ più forte, sindacati furibondi perché il contratto integrativo dei lavoratori «è bloccato per la parte economica dagli anni 90»... E la Regione lì, costretta a tappare i buchi e a pagare 6,7 milioni di euro nel 2015 per tenere in vita l’aeroporto distribuendo denaro alle compagnie purché non se ne vadano. 

Eppure, ecco la reazione di Sergio Dressi alla fuga di notizie sugli stipendi: «Chi ha diffuso quelle notizie, che non sono note neanche al Consiglio di amministrazione, non ha fatto bene all’aeroporto...» Ma come: neppure il CdA ne sapeva niente? Evviva la trasparenza.

Per tangenti 5 anni a Guarischi 
Expo, patteggiano Greganti e Frigerio.


Corriere della Sera 28/11/14
Luigi Ferrarella
Giornata di sentenze a Milano nei processi per tangenti. Su Expo, nell’inchiesta dei pm Gittardi e D’Alessio coordinata dal pm Boccassini, dall’arresto ai patteggiamenti ratificati dal gup Ambrogio Moccia sono passati appena 200 giorni: 3 anni e 4 mesi inflitti all’ex parlamentare dc e Forza Italia Gianstefano Frigerio, 3 anni (e 10 mila euro di risarcimento) all’ex funzionario pci Primo Greganti, 2 anni e 8 mesi (e 50 mila euro) all’ex senatore pdl Luigi Grillo e all’ex udc e ncd ligure Sergio Cattozzo; 2 anni e 10 mesi all’imprenditore Enrico Maltauro, 2 anni 6 mesi e 20 giorni (con 100 mila euro) all’ex general manager di Expo Angelo Paris. Altri giudici di primo grado (presidente Oscar Magi) hanno condannato, per tangenti nella sanità scoperte dai pm Gittardi e D’Alessio, l’ex consigliere regionale di Forza Italia, Massimo Gianluca Guarischi, a 5 anni, 447 mila euro confiscati, e 1 milione di danni alla Regione, il cui ex presidente Roberto Formigoni è coindagato di Guarischi (che pagò parte di vacanze comuni in Croazia, Sudafrica e Sardegna) in un separato filone per corruzione e turbativa d’asta. Assolto Luigi Gianola, ex dg dell’ospedale di Sondrio, che fece 3 mesi in carcere e 6 ai domiciliari.




La base contesta il blog che tutto controlla: Beppe e Casaleggio, non vi reggiamo più.


Corriere della Sera 28/11/14
corriere.it
Il giorno del dramma collettivo via web. L’anima, la base dei Cinque Stelle, torna — come già accaduto dopo il post contro Federico Pizzarotti — in massa sul blog: per contarsi, commentare, dar vita a una sorta di flusso di coscienza virtuale. Gli attivisti protestano, in larga parte, contro il sito. E osteggiano chi sostiene la linea dettata da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. La votazione su Massimo Artini e Paola Pinna spiazza i militanti. «Che amarezza, mi son sentito tradito...», commenta Raffaele Carbone. È la sintesi di un malessere diffuso.

Qualcuno chiede tempo. «Difficile giudicare in poche ore....con una cosa che ti piomba dal nulla», dice Elena Mazzoni. Molti, moltissimi si schierano in difesa dei due dissidenti, chiedono un approfondimento, dibattono — in modo acceso — sui documenti pubblicati dai due deputati esposti alla graticola del voto. «A occhio e croce (Pinna, ndr ) si è tenuta più o meno il doppio di quanto stabilito», assicura Franco Red. Una fetta dell’elettorato Cinque Stelle è compatta con gli ortodossi. Per Floriana «gli infedeli non devono rimanere». «Due avidi in meno nel movimento per tanti cittadini un po’ più forti», commenta Giorgio Montagna. Ma quello che prevale è la rabbia e lo sconforto.

«Autogol», «delusione» e molte parole dalle tinte oltremodo accese: tracima di tutto dalla Rete. Chi contesta, sbatte la porta. Come Sandro Devescovi: «Complimenti per la solita infamia targata Grillo — dice —. Adesso basta, io mi riprendo volentieri il mio voto. Ora potete andare tranquillamente a svanire nei meandri della già tormentata storia d’Italia». Il tono è quello di un commento, lapidario, «Beppe e Gianroberto nun ve regghe cchiù». Emerge anche la preoccupazione di chi vede svanire un modello politico in cui crede. Qualcuno avverte: «Stiamo facendo il gioco di Renzi e Berlusconi». E ancora: «Complimenti a tutti, ci stiamo autodistruggendo». Il film della giornata scorre sui byte. Si nutre della Rete, che fagocita velocemente le frasi. Il contatore dei commenti sale a ritmo vorticoso, quasi duemila in pochissime ore, battendo record anche dei tempi d’oro, quando il Movimento veleggiava verso il boom delle Politiche o quando Grillo sfornava il primo V-Day, alba dei (futuri) meet-up.

Quando arriva l’esito della votazione si ha l’idea della voragine che sta squarciando il mondo Cinque Stelle. A votare sui 500 mila registrati sul blog e sugli oltre 100 mila accreditati sono solo 27.818, che sanciscono un (quasi) plebiscito per le espulsioni (pari al 69,8%). Ma il dato non sfugge alla Rete: solo lo scorso febbraio, per decretare l’addio forzato di Fabrizio Bocchino, Francesco Campanella, Lorenzo Battista e Luis Alberto Orellana, si contarono 43.368 elettori.

I ventisettemila che ieri hanno fatto sentire la loro voce sono il 62% rispetto a febbraio, un 38% è diventato invisibile. Numeri, solo numeri ma che danno l’idea di uno scollamento, che comunque travalica le mura del blog. E invade anche i social network. Molti pungono («A me le dinamiche di epurazione all’interno del #m5s generano grosse risate e zero riflessioni», afferma Domenico Marcella).

L’ombra di una frattura, a qualcuno, appare anche il preludio di un nuovo progetto: «Chi parla di scissione sappia che io, ex elettore #M5S, sono pronto a rivotare qualsiasi cosa nasca dal M5S senza Casaleggio. E come me tanti», commenta Piero Giovatti. I pentastellati critici usano contro Grillo e il blog le stesse armi che lo hanno aiutato a crescere, a esplodere. Su Twitter impazzano hashtag coniati apposta: 
#nerimarràsolo1,#grandefratello,#BeppeQuestaVoltaNonCiSto... L’amarezza della base qui si mescola all’ironia. «Scissione nel Pd scissione nel centrodestra ed ora scissione anche nel #m5s è questa l’Italia che #riparte», scrive Angelo Sica. Qualcuno, anche tra chi sostiene i pentastellati, prova a riderci sopra. A scacciare lo spettro di una divisione con una battuta, più o meno salace. I sorrisi non cancellano la delusione, ma resta la speranza che domani sia davvero un altro giorno. Per cambiare orizzonti .

«Combatto il terrorismo anche per voi 
Se vince in Libia arriva fino a casa vostra».


Corriere della Sera 28/11/14
corriere.it
Dal nostro inviato Al Marj (Libia) 
Generale Haftar, state per conquistare Bengasi?


«Lo spero. L’importante è che il parlamento libico lasci Tobruk e torni a lavorare nella città liberata dalle milizie islamiche. Il mio compito è di portarcelo. Mi sono dato una deadline: il 15 dicembre…». 


Di colpo, salta la luce e gli uomini della sicurezza gli sono subito addosso. Nel buio, il generale dice «è la guerra a Bengasi, afwan »: scusate… L’unico sorriso che ci concede è di sollievo, quando la stanza si riaccende. Vecchio uomo nuovo della rivoluzione libica, una faccia socchiusa alle emozioni, a 71 anni Khalifa Haftar sa maneggiare la paura. Il più osservato dai lealisti di Tobruk e dalle milizie di Zintan, che sospettano della sua ambizione. Il più odiato dai fratelli musulmani di Tripoli, che hanno messo una taglia su di lui temendone i grandi protettori al Cairo e nel Golfo. Vive nascosto tra questa casamatta color senape dell’eliporto di Al Marj, l’antica Barca alle porte di Bengasi, e decine di rifugi che cambia ogni notte. Sospettoso di tutti, irraggiungibile da molti. Ci vogliono due settimane d’appuntamenti mancati, i fedelissimi della brigata 115-S che ti svitano pure la biro, e controllano ogni pulsante del fotoreporter Gabriele Micalizzi, prima d’arrivare a stringergli la mano e chiedergli un’intervista in esclusiva per il Corriere . Tre figli al fronte con lui. Due figlie all’estero sotto copertura. Dopo vent’anni d’America, a metà fra la guerra lampo e il golpe, lo scorso febbraio il generale è spuntato dal nulla e ha lanciato la sua Operazione Karama (dignità) contro gl’islamisti di Alba libica e Ansar al Sharia. Alle spalle ha un piccolo mappamondo. In mente, una Libia senza barbe fanatiche. Nel cuore, un antico condottiero dell’Islam: «Khaled Ibn Al Walid. Lo conosce? E’ il più grande stratega della storia. Prima combatté i musulmani, poi si convertì e si mise con loro. Senza perdere mai una battaglia. Ancora oggi uso certe sue tattiche…».


Come quella su Tripoli? 

«Con Tripoli è solo l’inizio: ci servono più forze, più rifornimenti. Mi sono dato tre mesi, ma forse ne basteranno meno: gl’islamisti d’Alba libica non sono difficili da combattere, come non lo è l’Isis che sta a Derna. La priorità resta Bengasi: Ansar al Sharia è ben addestrata, richiede più impegno. Anche se non ha grandi strateghi militari e ormai siamo in vantaggio: controlliamo l’80 per cento della città».


A Vienna i leader mondiali hanno detto che il vuoto di potere, in questa guerra civile, fa paura.

«Finalmente se ne accorgono. Il parlamento a Tobruk è quello eletto dal popolo. Quella di Tripoli è un’assemblea illegale e islamista che vuole portare indietro la storia. Ma la vera minaccia sono i fondamentalisti che cercano d’imporre ovunque la loro volontà. Tripoli s’affida a loro, lascia che combattano contro di noi a Bengasi. Ansar al Sharia usa la spada in tutto il mondo arabo ed è appena finita nella lista Onu del terrorismo. Se prende il potere qui, la minaccia arriverà da voi in Europa. Nelle vostre case».


Vuol dire che lei sta combattendo per noi?

«Certo. Combatto il terrorismo nell’interesse del mondo intero. La prima linea passa per la Siria, per l’Iraq. E per la Libia. Gli europei non capiscono la catastrofe che si rischia da questa parte di Mediterraneo. Attraverso l’immigrazione illegale, ci arrivano jihadisti turchi, egiziani, algerini, sudanesi. Tutti fedeli ad Ansar al Sharia o all’Isis: quanti italiani sanno che davanti a casa loro, a Derna, è stato proclamato il califfato e si tagliano le teste? L’Europa deve svegliarsi».


S’aspetta un sostegno in armi, come quello dato ai curdi?

«Non c’è bisogno di venire e dirvi: per favore, aiutatemi. Siete voi che dovete capire se è il caso di aiutare Haftar. L’Egitto, l’Algeria, gli Emirati, i sauditi ci mandano armi e munizioni, ma è tecnologia vecchia. Non chiediamo che ci mandiate truppe di terra o aerei a bombardare: se abbiamo le forniture militari giuste, facciamo da noi. Il mondo vede i nostri soldati decapitati, le autobombe, le torture: potete accettare tutto questo?».


Vuole ricacciare in un angolo i fratelli musulmani: Haftar si candida a essere per la Libia quel che è stato il generale Al Sisi per l’Egitto?

«L’Egitto e Al Sisi sono una cosa molto diversa dalla Libia. L’unica cosa in comune è che finalmente sono i popoli a scegliere. Poi, c’è la mia posizione politica. Ho iniziato Karama per rispondere alla richiesta dei libici che non ne potevano più. Se sarà necessario, continueremo insieme la nostra battaglia militare e poi politica».


Operazione Dignità: l’ha inventato lei, questo nome?

«Certo. Ci sono due parole: operazione, che significa il percorso militare per raggiungere un risultato; karama, che nasce dalla domanda “di che cosa abbiamo bisogno?”. L’ho chiesto ai miei ufficiali. Molti suggerivano il nome d’Omar Mukhtar, l’eroe libico. Ma quello che stiamo affrontando è più di quel che affrontò Mukhtar. Dignità è una parola che dà la speranza in qualcosa che i soldi o il petrolio non ti possono dare».


Amnesty ha avuto parole molto dure sulle sue milizie. E si dice che lei sia pagato dagli Usa: gli americani che la liberarono da una prigione del Ciad, quando Gheddafi l’aveva mollata; la Cia che le diede casa a pochi chilometri dalla sua sede di Fort Langley…

«Karama non è legata ad altri Paesi. Nasce dai libici. Io sto combattendo una guerra chiara e trasparente a pochi chilometri da dove sono nato. Ho fatto molte campagne, dal Kippur al Ciad, sono abituato alla vita militare, ma questa è la mia sfida più dura. Purtroppo, ci sono politicanti che mestano nel torbido, m’associano alla Cia per screditarmi».


Si può dire almeno che gli americani l’apprezzeranno, se riuscirà a vendicare l’uccisione del loro ambasciatore a Bengasi, Chris Stevens…

«Deborah Jones, l’ambasciatrice Usa, non mi sponsorizza, tutt’altro. Quando l’ho sentita parlare, ho pensato che piuttosto sostenesse i Fratelli musulmani: Washington sta giocando una partita ambigua e doppia, come gli europei…».


Ha parlato della sua guerra del Kippur: accetterebbe un aiuto da Israele?

«Il nemico del mio nemico è mio amico. Perché no? Ma non credo che Israele mi appoggerebbe, sono troppo impegnati a destabilizzare la Libia attraverso il terrorismo».


Sa che si dice in Italia? Che piuttosto di questo caos, era meglio tenersi Gheddafi.

«Questo caos è figlio di Gheddafi. Del suo regime. D’una certa mentalità in cui ha cresciuto i libici. Io ero molto amico suo. L’ho aiutato a salire al potere nel 1969, gli ho insegnato molte cose militari. Poi mi sono distaccato e non lo volevo più al potere, ma non mi è piaciuto com’è stato eliminato. In quel modo barbaro. Senza un processo, che invece sarebbe stato un esempio da dare al mondo. Ci sono popoli che non hanno un leader e ci sono leader che non hanno un popolo: l’avessimo processato, avrei voluto chiedergli perché aveva rinunciato al popolo».


Lei ce l’ha, un popolo?

«In Libia molti mi amano. Ma tengo sempre a mente che un leader dev’essere come un genitore o un buon insegnante: si fa rispettare, senza seminare il terrore».