mercoledì 27 aprile 2016

Cari Professori del No…


Elisabetta Gualmini
Salvatore Vassallo
L'Unità 27 aprile 2016
Dal documento non traspare la minima sensibilità verso il contesto in cui la riforma è maturata e verso gli effetti di una bocciatura basata sulla ricerca di un ottimo metafisico che pare nemico assoluto del bene per i contemporanei
Cari emeriti,
proprio non vi capiamo. Abbiamo grande rispetto per voi e per il documento diffuso qualche giorno fa. Per questo, avendolo letto con attenzione, abbiamo deciso di dedicare uno spicchio del nostro 25 aprile a scrivervi. Siete tutti accademici accreditati, molti di voi hanno ricoperto alti incarichi istituzionali. Essendo però come noi, prima di tutto, dei ricercatori, di sicuro considererete normali il contraddittorio e le confutazioni. Avendo deciso di agire in gruppo per una iniziativa politica troverete anche ovvio che essa sia oggetto di un giudizio pubblico appassionato.
Alcuni tra voi 56 sono membri di un club di cauti riformatori a cui ci siamo sempre ispirati, che però non hanno trovato nel loro tempo la finestra di opportunità per riformare. Altri sono convinti da sempre che la Costituzione sia intoccabile, che fuori dal sistema proporzionale non c’è democrazia, come un tempo fuori dalla Chiesa non c’era salvezza, e che in ultima istanza sulle cose veramente importanti, piuttosto che la politica, sia meglio che decidano istituzioni di sapienti, di nobili coltivati da colte letture, messi al riparo dalla becera necessità di conquistare il consenso e governare giorno per giorno gli interessi in conflitto.
Ci scuserete se abbiamo fatto due conti sulla vostra età, che in media è di 69 anni. Quattordici di voi sono stati giudici costituzionali. Ben dieci hanno goduto delle vorticose rotazioni alla presidenza della Consulta basate sull’anzianità – tre nel solo 2011 – su cui si è soffermato Sabino Cassese nel suo istruttivo Dentro la Corte (Il Mulino, 2015) e sono dunque “emeriti”, con le annesse prerogative. In questo sottogruppo di supersaggi, l’età media supera gli 81 anni. Siete tutti invidiabilmente lucidi. Non è questo il punto che vogliamo sollevare. Né noi due siamo particolarmente giovani, a dirla tutta. Ci pare però significativo il criterio in base al quale il gruppo si è autoselezionato, uno specchio di certe istituzioni italiane, un po’ decadenti, che ci è capitato di frequentare. A maggior ragione ci pare stonato il messaggio di fondo che proponete, di fronte a un Paese che sta cercando affannosamente di ricominciare a crescere. Il messaggio suona più o meno così: “noi che deteniamo le massime conoscenze teoretiche sull’oggetto, noi che siamo la quintessenza della saggezza, noi che siamo l’empireo dei Professori ci siamo riuniti in concilio, abbiamo attentamente soppesato i pro e i contro della riforma costituzionale, e abbiamo deciso di dire NO. E poi No.” A pensar male, il primo sottinteso pare una rivalsa, condita di un certo disprezzo, verso Renzi-ilplebeo, uno che parla in maniera approssimativa e irruente, che schifa i tecnici e ancora di più i professoroni, i loro convegni e le loro tartine. Non li invita a cena, non li promuove a ruoli importanti, se può ne fa volentieri a meno. O verso la Boschi-così-leggera, una neo-laureata senza nemmeno un dottorato di ricerca in diritto pubblico che, ciononostante, non ha sentito il bisogno di convocare un Concilio di emeriti prima di proferire verbo sulla materia (come se poi non fossero bastati tutti i precedenti, dalla Bicamerale Bozzi del 1982 alla Commissione dei Saggi del 2013).
Ma veniamo al merito. Il vostro documento, forse per la combinazione di idee tanto diverse, per quanto accomunate dallo status, presenta a nostro parere una serie di contraddizioni evidenti proprio sui punti politicamente più rilevanti.
La prima è che alcuni di voi, nel giro di poche settimane, hanno dovuto sotterrare la bomba-bufala della “svolta autoritaria” e hanno imbracciato lo spadino-di-cartoncino del diavolo che si annida nei dettagli. Il prof. Gustavo Zagrebelsky, in un documento del 31 marzo 2014 intitolato proprio in quel modo, sosteneva che «stiamo assistendo impotenti al progetto di stravolgere la nostra Costituzione […] per creare un sistema autoritario che dà al Presidente del Consiglio poteri padronali». E in un altro del 6 marzo 2016  parlava della riforma come “la razionalizzazione d’una trasformazione essenzialmente incostituzionale, che rovescia la piramide democratica”. Il documento dei 56 di cui Zagrebelsky è cofirmatario pone invece questioni minori sulla ripartizione dei poteri tra senato e camera o tra stato e regioni, da cui solo con molta fantasia e una sviluppata propensione alle teorie del complotto si possono far discendere i pericoli di cui sopra.
Avreste voluto un Senato con maggiori poteri, ma allo stesso tempo un processo legislativo più semplice. Uno studente del primo anno verrebbe inchiodato di fronte alla banalità della contraddizione. Per dare più rilevanza al Senato bisognerebbe stabilire in quali altre materie ha maggiori poteri, chi ha la prerogativa di smembrare i progetti di legge che le contengono, con quali procedure e quali maggioranze il senato le esamina o le approva. Il sistema proposto dalla Boschi-Renzi è comunque semplicissimo. Ha solo due procedimenti, pienamente bicamerale per norme ordinamentali e di rango costituzionale, a prevalenza della Camera per il resto. E in ogni caso, per evitare in radice le incertezze e i conflitti di cui vi state preoccupando ci sono solo due strade: il monocameralismo o il bicameralismo perfettamente paritario.
Avreste preferito inoltre che in Italia fosse trapiantato il Bundesrat tedesco. Non lo dite apertamente, ma lamentate che nel Senato voluto dalla riforma “non si esprimerebbero le Regioni in quanto tali, ma rappresentanze locali inevitabilmente articolate in base ad appartenenze politico-partitiche”. Ora, l’unico senso che si può dare a questa frase è: “sarebbe stato molto meglio un Senato composto solo dai Presidenti delle Regioni e da loro delegati, come in Germania”. A meno che non pensiate ad un Senato di supersaggi, scelti non si sa come, capaci di rappresentare meglio dei Presidenti, eletti dai cittadini, le Regioni “in quanto tali” e non “in base ad appartenenze politico-partitiche”. Ci chiediamo che cosa avrebbe scritto del Bundesrtat italiano, cioè di un Senato più forte, che sarebbe composto oggi all’80% da Presidenti del Pd-di-Renzi, il prof. Zagrebelsky sul Fatto Quotidiano…
Sembrate considerare una mera eventualità il fatto che il referendum riguardi l’intera legge approvata dal Parlamento, mentre proponete una votazione per parti, mettendo in dubbio quanto scrive a chiare lettere la Costituzione ed è già stato fatto nel 2006. Ci chiediamo sommessamente: quale magistrato della Cassazione o della Corte costituzionale avrebbe il potere di preparare lo spezzatino? Come è possibile che poniate un problema del genere? Sollecitate forse un rimpallo tra Cassazione e Corte costituzionale per rinviare? Ne avete già discusso con qualcuno che siede in quelle istituzioni?
Ma ancora di più ci stupisce, o forse no, quello che nel documento manca.
Non c’è nessuna preoccupazione verso la possente ondata di riprovazione popolare di cui sono oggi oggetto la politica e le istituzioni, e la necessità oggettiva di dare meditati segnali di sobrietà. Evidentemente per voi i costi della politica non sono un grosso problema e comunque sono altrove. Avreste voluto un altro Cnel al posto del Cnel. E sempre secondo voi non è così importante ridurre il numero dei parlamentari. Decostituzionalizzare le province (che non vuol dire abolire per forza e dappertutto un ente di area vasta, come voi scrivete) non va bene.
Dal documento non traspare la minima sensibilità verso il contesto in cui la riforma è maturata e verso gli effetti di una bocciatura basata sulla ricerca di un ottimo metafisico che pare nemico assoluto del bene per i contemporanei. Nessun accenno al fatto che senza l’entrata in vigore della riforma costituzionale e dell’Italicum entro il 2016, cioè almeno 18 mesi prima della scadenza naturale della XVII legislatura, i successivi governi sarebbero destinati a dibattersi tra instabilità e inconcludenza, e il parlamento tornerebbe a essere un suq. Anche a causa di quei giudici della Corte costituzionale che con la sentenza numero 1 del 2014 hanno reintrodotto di loro pugno, contraddicendo la volontà ripetutamente espressa con chiarezza dai cittadini italiani e dal parlamento, un sistema elettorale proporzionale, simile a quello della Prima Repubblica.
Nel documento nemmeno si intravede il fosso in cui Paese si sarebbe piantato senza l’impuntatura a schiena dritta del canuto-Re-Giorgio e il testimone preso dal giovane-Renzi-il-plebeo. Come se voi non sapeste che solo la determinazione congiunta del ragazzo che sta a Palazzo Chigi e dell’anziano ex-inquilino del Quirinale ha potuto rompere le fortissime resistenze sotterranee che hanno impedito per trent’anni di fare quanto Costantino Mortati considerava ovvio già nel 1972, e cioè trasformare il senato in una sede di rappresentanza degli enti territoriali. Perso questo treno, difficilmente ne passerà a breve un altro.
Noi, contrariamente a voi, siamo molto preoccupati per questa eventualità, non per il governo Renzi, ma per chiunque dovrà governare e vivere in Italia dopo. E siamo anche consapevoli, nel nostro piccolo, che le riforme ottime non esistono, come insegnano i buoni manuali di diritto pubblico e di politica comparata, che tutte sono perfettibili e che farle con un governo di compromesso uscito fuori per miracolo da una situazione di completa paralisi non era un’operazione semplice. E quindi diciamo SI. E poi Sì.

martedì 26 aprile 2016

L'”arco nero” che va da Philadelphia a via Bellerio. Ma il Trump italiano annaspa


Mario Lavia
L'Unità 26 aprile 2016
Salvini “benedetto” dal candidato repubblicano alla Casa Bianca ma ha i suoi guai in Italia
E così Donald Trump ha posato la spada sulla spalla di Matteo Salvini con tanto di auspicio (“Diventerai premier in Italia”), una benedizione che da questo momento diventa croce e delizia per l’uomo con la felpa: delizia, perché che un aspirante alla Casa Bianca ti glorifichi non è cosa da tutti; ma anche croce, perché è indubitabile che il capo della Lega ora sia ufficialmente il punto di riferimento italiano dell'”arco nero” che va da Trump a Marine Le Pen a Viktor Orban sotto lo sguardo compiaciuto di Vladimir Putin: passando, appunto, da via Bellerio.
Salvini , il capo di una destra che non ha grande dimestichezza con i principi liberal-democratici ai quali preferisce istintivamente quelli anti-egualitari, anti-solidaristici, anti-europei, anti-immigrati, è dunque l’uomo su cui punta questa specie di Internazionale reazionaria. D’altra parte, è il leader di una formazione politica che dopo la crisi del bossismo ha abbandonato le idee del federalismo per raccogliere l’umor nero che circola con insistenza nel nostro Paese.
L’improvvisa mossa “americana” di Salvini ha perciò un forte valore simbolico perché lo accredita come il Trump milanese – odio per gli stranieri e armi per tutti – in sintonia con il peggiore sciovinismo del Front National e persino con il nuovo fascismo di Orban e Hofer, e attratto, non a caso, non solo dall’autocrate Putin ma perfino dal pazzo che governa la Corea del Nord.
La sua opa sul centrodestra italiano in un certo senso ora è più robusta e dunque più insidiosa: per Giorgia Meloni, che a Roma rischia di finire male, anche perché se la destra perde perde lei, non lui: a conferma del fatto, come notava ieri Gianfranco Fini, che di destra se ne intende, che Fratelli d’Italia è una copia della Lega: e – diciamo noi – fra la copia e l’originale la gente di solito sceglie l’originale.
Ma a Salvini non mancano gli ostacoli. I fatti dicono che non tocca palla nella sua Milano, dove c’è un centrodestra non guidato dai leghisti che compete per palazzo Marino; e che a Roma c’è un certo Silvio Berlusconi che sta mostrando (per ragioni politiche e personali insieme, come sempre) di tenere una barra “moderata”, ostacolando la vittoria della Meloni e comunque contrastando la deriva della destra nelle mani dei lepenisti in salsa italica.
I sondaggi, poi, lo vedono annaspare sotto il 15%, un po’ poco per aspirare a fare il premier (va spiegato a Trump) e soprattutto surclassato dal M5S, partito della rabbia per eccellenza. Lo spazio vero insomma è stretto, per il rappresentante italiano dell’ “arco nero”, malgrado la benedizione americana.

domenica 24 aprile 2016

Davigo smentito dall’intera magistratura italiana. Ma il Fatto nasconde la notizia


Fabrizio Rondolino
L'Unità 23 aprile 2016
Vorremmo ricordare agli amici del Fatto che l’organo di autogoverno dei giudici – non il signor Legnini – ha seccamente preso le distanze dal neopresidente dell’Anm
Oggi dobbiamo essere delicati e caritatevoli nel rivolgerci a Marco Travaglio: per lui è un giorno di particolare sofferenza. Il brillante Piercamillo Davigo è stato smentito, criticato, isolato e costretto ad un’imbarazzante smentita dall’intera magistratura italiana. E, come se non bastasse, non per l’autointervista di giovedì al Fatto firmata dal suo segretario Travaglio, che nessuno s’è filato, ma per quella di venerdì al Corriere firmata da un giornalista vero, Aldo Cazzullo. Insomma, un completo disastro.
Per rimediare, che c’è di meglio di una sistematica falsificazione dei fatti? Così, in prima pagina il giornale di Travaglio e Davigo titola bellicoso: “Il re è nudo: il leader Anm ricorda che i politici rubano ancora. Legnini e i renziani contro Davigo”. Giovanni Legnini, vorremmo ricordare agli amici del Fatto, non è un passante intervistato per strada, ma il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, e le sue dichiarazioni (le parole di Davigo “rischiano di alimentare un conflitto di cui la magistratura e il Paese non hanno alcun bisogno”) sono state concordate con il Capo dello Stato, nonché presidente del Csm. La notizia, dunque, è un’altra e ben più forte: l’organo di autogoverno dei giudici – non il signor Legnini – ha seccamente preso le distanze dal neopresidente dell’Anm.
Quanto ai “renziani” additati al pubblico ludibrio nel titolo di prima pagina, fatichiamo a individuarne i nomi. È forse renziano Edmondo Bruti Liberati, ex procuratore di Milano? (“Non esiste una magistratura buona contro un’Italia di cattivi: vederla così è in linea di principio sbagliato. È essenziale è che l’Anm non esca dal suo ruolo. Non ci siamo quando si dice o si fa capire che può essere la magistratura a risolvere questioni di costume o di etica pubblica”). O è renziano Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità anticorruzione? (“Non si rivolve tutto con le manette. Anche la magistratura ha le sue colpe. Dire che tutto è corruzione significa dire che nulla è corruzione”). O magari è renziano Nicola Gratteri, neoprocuratore di Catanzaro? (“Se si dice che sono tutti ladri, facciamo il gioco dei ladri”). Oppure il renziano è Luca Palamara, ex presidente dell’Anm? (“Le generalizzazioni non mi piacciono”).
La Caporetto dei giustizialisti non poteva essere più clamorosa. Ai lettori del Fatto la notizia purtroppo è stata nascosta: ma è anche vero che sono sempre di meno.

sabato 23 aprile 2016

SONO TORNATI I "PROFESSORI"


Sandro Albini
leggo, sul "Corriere" di oggi, la notizia di un documento, sottoscritto da 56 costituzionalisti "di peso", i quali contestano i principali punti della riforma Boschi fornendo argomenti al fronte del no. L'autorevolezza dei firmatari è tale da conferire credibilità a tesi che invece non ne meritano. Non ho letto il documento, mi rifaccio quindi al testo dell'articolo. 1. Ne è uscito un Senato indebolito: ma non era quello l'obiettivo della riforma? Configurare il Senato come "Camera delle Regioni" togliendogli la duplicazione delle funzioni della Camera. Poi magari il testo avrebbe potuto essere migliore, ma a volte l'ottimo è nemico del buono. 2. Si ridimensiona il ruolo legislativo delle Regioni: ma in questi ultimi 30 anni non abbiamo criticato tutti la deriva per cui in Italia ci sono 20 servizi sanitari differenti, una pletora di provvedimenti applicativi regionali degli indirizzi nazionali con la nascita di modelli diversi in tutti i campi dell'agire amministrativo? Con conflitti infiniti dovuti alla legislazione concorrente sulle stesse materie? 3. Si vogliono ridurre i costi diminuendo il numero delle cariche pubbliche, denunciano i professori. Ma non è così che si deve fare dato che ogni carica pubblica diventa necessariamente un centro di spesa? Infine la valutazione politica: è una riforma fatta a maggioranza mentre c'era bisogno di un consenso più ampio. Ma se il procedimento è partito con il 70% di consensi delle forze in Parlamento e poi una parte si è sfilata per ragioni che non hanno nulla a che vedere con il merito della riforma, cosa doveva fare il Governo? Si capisce, alla fine, qual'è il vero obiettivo dei firmatari: mandiamo tutto a monte e andiamo avanti alla vecchia. Dopo che per decenni i "professori" hanno criticato la normativa attuale proponendo soluzioni simili a quelle adottate. Perché? Poi ho capito: siccome il Governo non si è rivolto a loro, unica fonte legittimata a parlare di Costituzione, qualsiasi cosa si faccia non è da fare. Mi ricorda una vicenda personale: quando esattamente 20 anni fa la Giunta Regionale Lombarda approvò il testo della radicale riforma sanitaria della Lombardia (scritta da me, e da un collega, allora responsabile della programmazione sanitaria) la Bocconi diffuse un libello attaccando la proposta, salvo, quando divenne legge regionale n. 31/97 tentare di metterci il cappello (non furono gli unici). Tradotto: qualsiasi cosa venga fatta saltando il corpo accademico (sostanzialmente il vero potere forte in tutti gli ambiti) è per principio sbagliata e va combattuta. Poi delle conseguenze, chi se ne frega, lor signori il loro scranno con relative prebende non glielo toglie nessuno.

martedì 19 aprile 2016

Gli sconfitti che si nascondono


Mario Lavia

L'Unità 19 aprile 2016
Il giorno dopo da parte di chi ha scambiato il referendum come occasione di sferrare un ko al governo ci si aspetta qualche riflessione. E invece niente
Il giorno dopo, ti aspetteresti qualche autocritica o – più dolcemente – qualche riflessione. Invece è rimasto sulla scena solo Michele Emiliano, oltre ogni ragionevole dubbio impavido a rivendicare una performance solo per lui “straordinariamente positiva”, provando a fare un mesto gioco delle tre carte (“Prima del voto avevamo già vinto 5 a 0”: ma che vuol dire?).
Però a Emiliano in qualche modo va dato atto di saper tenere alta la sua bandierina, anche se lacerata dal vento delle astensioni, a differenza di tutti gli altri compagni di cordata, uno dopo l’altro repentinamente spariti, chi con una scusa chi con un’altra come alle feste piene di gente antipatica. Una sfilza di io non c’ero e se c’ero dormivo, vero Salvini? Dove l’hai messa la maglietta con “Io voto”? E lei, gentile Brunetta, dov’è finito con i suoi amici o ex amici di Forza Italia e di Fratelli d’Italia (eh già, dov’è Giorgia Meloni, sempre combattiva tranne quando si perde). E soprattutto, dove è Grillo e dove sono i grillini?
Quelli che avevano scambiato il referendum per una specie di Ok Korral dove far sparire il governo. Dove sono il Dibba e la Lombardi che sui social evocava il povero Borsellino per motivare al voto? E dov’è il potenziale ma già bocciato premier Di Maio? Ecco dov’era ieri mattina: a teorizzare che il referendum in fondo non era roba loro ma un episodio della “guerra per bande” interna al Pd, insomma chi se ne importa se non siamo riusciti a convincere nemmeno i nostri cari e i nostri elettori ad andare a votare, l’importante è gettare vangate di contumelie sul Pd, sui suoi dirigenti, sui suoi militanti, intossicando social e talk – e bisognerà che le persone serie si adoperino per riportare un minimo di civiltà politica in ogni ambito, compresi talk e social, perché questa isteria non fa bene a nessuno, tantomeno al Paese.
E questi qui vorrebbero governare l’Italia muovendo guerra (a parole o parolacce) contro tutti quelli che non la pensano come loro? Politici che fuggono dinanzi alle difficoltà, alle proprie sconfitte, ai propri errori, quanto è affidabile? E purtroppo qui il discorso vira anche sulla sinistra più a sinistra. Quella esterna al Pd e quella interna. C’è proprio da usarla, l’espressione “purtroppo”.
Già: purtroppo a questa sinistra sta clamorosamente venendo meno l’abc di una grande storia politica, rifiutandosi di aprire una riflessione vera su quel che accade fuori di sé, sulle ragioni per le quali non riescono a persuadere una parte rilevante del popolo italiano, sul perché a fronte di tante critiche e denunce all’indirizzo di Renzi non riescano a crescere né politicamente né organizzativamente.
Ma è destino che tutto ciò che nasce a sinistra debba sempre rifluire nel settarismo e nell’autoreferenzialità? Che non ci sia mai un granello di autocritica? Spiace ricordarlo, ma quando nel 1978 il Partito comunista italiano perse le amministrative di Castellammare di Stabia (non di Milano o Roma: di Castellammare di Stabia) tenne una riunione della segreteria e poi della direzione per discuterne. Questi di oggi stra-perdono un referendum e sono contenti, o al massimo danno la colpa del proprio insuccesso agli altri.
E sulla sinistra Pd il problema resta quello, mai risolto compiutamente, del senso di una battaglia politica che ormai viene condotta in permanenza pur senza vincere mai, senza allargare mai il proprio perimetro. Sia chiaro: il giorno dopo un risultato così chiaro pensavamo di non polemizzare con nessuno. La campagna elettorale è finita, i cittadini non hanno seguito i referendari bensì l’indicazione di Renzi ad astenersi. Stop alle discussioni, è un altro giorno. Poi, però, vedi la voglia di rivincita, le bocche che schiumano rabbia, la tensione che non si allenta, la caccia alla prossima imboscata. Lezioni da trarre per loro dalla sonora sconfitta? Nessuna. Ecco, questa è cattiva politica.

lunedì 18 aprile 2016

Non ha vinto Renzi, hanno perso gli antirenziani


Fabrizio Rondolino
L'Unità 18 aprile 2016
Politicizzare il referendum contro il premier è stato un errore clamoroso
Un buon modo per prepararsi alla prossima battaglia, dopo averne perduta una, è ammettere la sconfitta, far tesoro dell’accaduto e provare a correggere gli errori commessi: non a caso fra i discorsi di Renzi che più sono piaciuti (anche ai suoi avversari) c’è quello con cui, quasi quattro anni fa, accettò senza infingimenti e senza alibi la sconfitta alle primarie che scelsero Bersani come candidato premier del centrosinistra.
Fingere di aver vinto – come da ieri sera va urlando in giro Michele Emiliano – non è soltanto un’offesa all’intelligenza degli elettori e dell’opinione pubblica: è un errore politico. Così come è un errore fabbricarsi un alibi e nascondervisi dietro, incolpando gli altri anziché riflettere sulle proprie manchevolezze. Se si perde soltanto per colpa degli altri, vorrei dire a Travaglio e agli altri sconfitti di domenica, non si potrà mai vincere: se invece la sconfitta è anche una mia responsabilità, correggendomi ho la possibilità di rovesciare in futuro il risultato.
“Davide e Golia” è il titolo dell’editoriale con cui il direttore del Fatto assolve gli sconfitti e accusa i vincitori. La tesi è rozza, forse perché né Travaglio né altri perdenti seriali hanno troppa stima dei propri (e)lettori, e si può riassumere così: abbiamo perso perché contro di noi s’è scatenato l’universo mondo e perché i cattivi sono sempre più forti.
A favore della partecipazione al referendum, oltre al Fatto, si sono schierati tutti i partiti presenti in Parlamento, tutti i partiti non presenti in Parlamento, la minoranza del Pd, i presidenti del Senato, della Camera e della Corte costituzionale, i conduttori di tutti i talk show, la magistratura militante, il sindacato, tutti i quotidiani d’opinione. Dall’altra parte c’era Renzi. Il quale sarà anche Superman – Travaglio ha un debole per gli uomini forti, oltreché per le belle donne – ma di sicuro sul referendum di domenica non ha avuto l’aiuto né l’appoggio di nessuno.
Negli ultimi vent’anni ci sono stati 28 referendum in sette tornate. La media dei votanti è stata del 34,4%. Domenica è successo esattamente quello che è successo negli ultimi vent’anni: è così difficile da capire? L’errore dei mujaheddin antirenziani è stato quello di politicizzare contro Renzi un referendum che tutti sapevano del tutto inutile. Non ha vinto Renzi: avete perso voi.

Così l’Armata è andata a sbattere


Fabrizio Rondolino
L'Unità 18 aprile 2016
Poteva essere un tranquillo referendum di primavera e invece…
Poteva essere un tranquillo referendum di primavera, uno di quelli che non interessano a nessuno, uno spettacolino inscenato in gran fretta da qualche ambientalista apocalittico e dalla Grillo e Casaleggio Associati srl in cambio di un po’ di visibilità: e invece l’hanno trasformato nell’ennesima battaglia finale tutti-contro-Renzi.
Poteva andare a finire come al solito – negli ultimi vent’anni, 24 referendum su 28 non hanno raggiunto il quorum – senza danni per nessuno né effetti collaterali (giusto un’esecrabile spreco di denaro pubblico e l’ennesima picconata ad un istituto in crisi dagli anni Novanta): e invece ne hanno fatto una vittoria politica di Renzi, tanto più grandiosa e destinata a pesare perché si consuma quando tutti gli indicatori – media, sondaggi, Bar Sport televisivi – lo davano per debole, isolato, persino prossimo alla caduta.
Chi sono gli autori di questo capolavoro politico? Chi sono i geni che hanno saputo ridare ossigeno, smalto e consenso popolare ad un governo e ad un leader che essi stessi giudicavano già spacciati? L’Armata Brancaleone degli anti-renziani è, sulla carta, uno schieramento capace di far impallidire gli anni gloriosi dell’antiberlusconismo militante. In ordine sparso, e per limitarsi ai più rappresentativi, ne fanno parte la sinistra radicale e la destra radicale, la Lega e il Movimento 5 stelle, quel che resta di Forza Italia e la minoranza del Pd, i più autorevoli editorialisti e tutti i conduttori dei talk show, la burocrazia sindacale e la magistratura militante, i salotti e i tinelli, la caste e le castine.
Sulla carta, però: perché nel Paese reale, fra le decine di milioni di italiani che non guardano i talk show né tantomeno comprano un giornale, ma lavorano e studiano e vogliono una vita normale, l’Armata Brancaleone dei conservatori e dei garantiti non è altro che una minoranza rumorosa e rancorosa. Intendiamoci: i milioni di italiani che sono andati diligentemente a votare meritano almeno lo stesso rispetto di quelli che si sono astenuti (e che pure sono stati addirittura accusati di tradire il patto di cittadinanza). Ognuno si comporta come crede, e ha sempre le sue buone ragioni.
Ma l’Armata Brancaleone che s’è intestata la battaglia referendaria, e che ieri sera ha assaporato il sapore amarissimo della sconfitta, qualche riflessione dovrebbe pur farla. La politicizzazione di un referendum palesemente inutile è scattata quando il Pd – non Renzi, non il governo – ha formalizzato la propria scelta a favore dell’astensione.
E’ insorta la minoranza del partito, è insorto il governatore Emiliano – che, sbagliando, ha cavalcato il referendum per presentarsi come leader alternativo a Renzi –, sono insorti i grillini, è insorto il Fatto. Se il Pd sceglie l’astensione, devono essersi detti, vuol dire che Renzi ha paura del referendum: ma noi siamo furbi, l’abbiamo capito e adesso spieghiamo agli italiani che bisogna andare a votare sulla chiusura anticipata di una manciata di piattaforme che non hanno mai avuto problemi perché così si dà una bella lezione a Renzi. Da qui la scelta di spostare l’attenzione sul premier, di trasformare il referendum nell’antipasto di quello di ottobre, di personalizzare e politicizzare lo scontro.
Renzi, che è pieno di difetti ma non è stupido, ha colto la palla al balzo, è stato perfettamente al gioco, ha accettato la sfida con baldanzoso entusiasmo, e ha sfruttato, più che la propria, la forza degli avversari per conquistare la vittoria. La scelta dell’astensione non era né una sfida né tantomeno il segno di una paura: era semplice buonsenso. L’Armata Brancaleone ne ha fatto un casus belli, s’è inventata un nemico che non c’era sperando così di ingrossare i consensi, ed è andata clamorosamente a sbattere.
Ora diranno che comunque il risultato è stato buono, che i votanti sono stati comunque più numerosi che nel 2009, che comunque 10 milioni di italiani non seguono gli inviti di Renzi. Contenti loro, contenti tutti. Avversari così farebbero la gioia di chiunque, figuriamoci di un ragazzo impertinente come il nostro presidente del Consiglio.

Perché non vincano i muri


Walter Veltroni
L'Unità 16 aprile 2016
Ci sono due elezioni che segneranno il futuro del mondo occidentale. La prima, In ordine di tempo, è quella che si svolgerà in Gran Bretagna nel prossimo mese di giugno
Ci sono due elezioni che segneranno il futuro del mondo occidentale. La prima, In ordine di tempo, è quella che si svolgerà in Gran Bretagna nel prossimo mese di giugno. Avrà per oggetto, in definitiva, la permanenza di quel paese nell’Europa. Avrà, come conseguenza, quella di rafforzare o di indebolire per sempre la prospettiva di un continente forte, unito, autorevole nelle sue politiche. Se vincerà la posizione euroscettica le conseguenze sulla già debole economia continentale potranno essere drammatiche. Non siamo fuori dalla crisi, in Europa. Se Cameron, pure indebolito dalla vicenda Panama papers, dovesse perdere, il rischio di un nuovo precipitare della crisi si potrebbe fare molto reale. Questo spiega l’allarme di un uomo saggio e decisivo per la prospettiva europea come Mario Draghi.
La seconda elezione si terrà il primo martedì di novembre negli Stati Uniti. Lì si deciderà se continuerà un’ esperienza di presidenza democratica oppure se se gli americani decideranno di cambiare radicalmente governo e politica. Radicalmente, tanto quanto non è mai accaduto nella storia di quel paese. Il passaggio dalla presidenza Clinton a quella di Bush fu molto meno traumatica di quanto potrebbe essere la transizione dalla politica di Barack Obama a quella di Donald Trump o di Ted Cruz.
Martedì si voterà nello stato di New York per le primarie democratiche e repubblicane. Sanders è reduce da una serie impressionante di vittorie e sembra aver prevalso nel recente confronto televisivo con Hillary Clinton che pure resta la favorita nello stato della grande mela. Davvero il voto dei newyorchesi democratici potrebbe segnare l’esito definitivo delle primarie , in un senso o nell’altro.
In campo repubblicano lo scontro è, diciamocelo, tra due candidati le cui piattaforme si assomigliano sempre di più e sempre più in modo drammaticamente radicale. L’esito della convenzione repubblicana è del tutto imprevedibile, al momento. Certo la vittoria di Trump e il suo confronto con un candidato democratico indebolito dalle divisioni interne può mettere il mondo di fronte al rischio che le follie programmatiche e valoriali proposte dal magnate americano divengano la politica della più grande potenza mondiale. E, con Cruz, le cose non sarebbero molto diverse. L’America si sposterebbe a destra, quella populista e non quella conservatrice e moderata, come mai nella sua storia.
Riflettiamo bene su quello che sta succedendo negli Usa. Non solo nella politica, nella coscienza degli elettori. Cosa spinge milioni di cittadini a ritenere credibili le proposte più strampalate, i toni più violenti . Noi ci siamo passati, in Italia. Tutti nel mondo pensavano che fosse impossibile che vincesse le elezioni Berlusconi, con le sue proposte tanto demagogiche da non essere mai state realizzate in tredici anni di governo. E invece ha vinto, anche perché ha saputo interpretare umori profondi e fragilità dell’elettorato in un momento di transizione . E , si badi bene, Berlusconi è un moderato a petto di Trump o Cruz.
Gli Stati Uniti hanno avuto un grande presidente. La storia, ormai, si incarica di rendere giustizia solo dopo la morte o dopo un tempo infinito. Barack Obama, voglio dirlo oggi, è stato e rimane un grande presidente. Ha cominciato a lavorare mentre venivano portati via gli scatoloni delle potenze finanziarie tracollate, ha conosciuto una turbolenza internazionale non governabile attraverso un accordo tra potenze. Oggi gli Usa sono in una grande ripresa economica, cresce il lavoro e, lo dicono i dati recenti, si riduce il ricorso al sussidio di disoccupazione. E’ stata approvata la riforma sanitaria da sempre rinviata. Si è scelta una politica internazionale fatta non di muscoli sganciati dal progetto politico, come nell’era Bush, ma del costante ricorso all’intelligenza della politica. Pensiamo sia stato facile per il Presidente degli stati Uniti favorire un accordo con l’Iran, decisivo per la pace mondiale, e mettere piede a l’Havana stringendo la mano al Presidente cubano? Il tempo ci dirà se la strategia di attacco militare nei confronti dell’Isis darà i suoi risultati. Certo è che Obama ha lavorato per evitare che attorno al califfato si stringessero solidarietà di governi e paesi dell’area. Ci sono stati limiti, indecisioni? Potrebbero non esserci quando il mondo ha perso il suo vecchio ordine e non riesce a trovarne un altro? Quando leggo, nel nostro paese ,commenti aspramente critici verso Obama penso che se noi europei, che siamo a un passo dal focolaio della crisi, avessimo fatto un millesimo del nostro dovere politico e strategico la situazione sarebbe diversa. Abbiamo cominciato noi in Europa con i muri, e non smettiamo. Trump ha seguito, non preceduto. Contro quei muri e la loro disumanità si è levata come mai nella storia la voce del Papa che ha chiamato le coscienze di tutto il mondo a praticare la virtù dell’integrazione, non la pratica della discriminazione.
A Washington c’è, fino alla fine dell’anno, il saggio Obama. E questo è, per la pace del mondo, una garanzia.
Poi, può accadere davvero qualcosa di inedito e terribile. Ci sono momenti della storia in cui le opinioni pubbliche si innamorano della propria rabbia e diventano prede di un demone che le alberga: la supina accettazione della demagogia e dell’odio verso l’altro.
Stati Uniti e Inghilterra sono due paesi in cui non sono mai esistite dittature. Due grandi democrazie che non hanno esitato a far morire i loro figli per dare la libertà a chi aveva applaudito demagoghi e portatori di odio e di intolleranza. Oggi dobbiamo tornare a guardare a quei paesi. Perché , in questo tempo smemorato, non perdano il senso della loro storia e della loro grandezza.

venerdì 15 aprile 2016

Eppur si deve decidere


di Sabino Cassese
Corriere della Sera 14 aprile 2016
Le vicende del giacimento Tempa Rossa, venute agli onori della cronaca nazionale, offrono uno spaccato del modo in cui si decide in Italia. Siamo in Basilicata, una delle regioni più povere d’Italia («terra senza conforto e dolcezza»: Carlo Levi) con la più vasta area di estrazione di idrocarburi a terra di tutta l’Europa occidentale. Una decina di compagnie petrolifere, molte straniere, iniziano negli anni 80 le procedure per ottenere le concessioni. Queste passano attraverso quattro ministeri nazionali e la Regione. L’«iter» riguardante Tempa Rossa subisce un arresto di due anni, nel 2008, a causa di un intervento della Procura locale. Solo nel 2014 il Comune rilascia il permesso di costruire l’impianto. Si ferma nuovamente a causa di un intervento del Tribunale amministrativo regionale. Dalla domanda all’autorizzazione sono passati sette anni. Nel frattempo sono intervenute negoziazioni complesse con le amministrazioni territoriali, Regione e Comuni, che hanno portato nelle casse di questi enti cifre cospicue. È stato calcolato che la Basilicata dal 1998 al 2014 abbia incassato dall’insieme delle concessionarie petrolifere 1.350 milioni di euro; sono stati previsti sconti carburanti per residenti, piani di promozione sociale ed economica, persino redditi di cittadinanza, tutto a carico delle compagnie petrolifere. Ma il petrolio non deve essere solo estratto, deve anche essere trasportato e raffinato. Qui sorge un altro problema.
Bisogna costruire un oleodotto lungo 8 chilometri collegato a quello che conduce a Taranto, che è in una regione confinante, la Puglia; questa lamenta che le royalties vadano alla Basilicata, i rischi ambientali siano pagati dalla Puglia. I conflitti locali rischiano di bloccare l’estrazione di idrocarburi. Il governo decide di applicare alle opere strumentali (tra cui l’oleodotto) la stessa procedura unificata e centralizzata che era stata usata per l’impianto petrolifero, perché è irragionevole procedere speditamente per l’infrastruttura per poi rimanere bloccati per le opere strumentali. Interviene nuovamente il sistema giudiziario: procura, giudici amministrativi; viene tirato in ballo anche il giudice costituzionale. Il resto è noto.
Il costo dei soli ultimi eventi è stato stimato in 10 miliardi, che non includono l’effetto annuncio sugli investimenti stranieri in Italia e non valutano il costo e i rischi ambientali derivanti dal maggiore ricorso all’importazione di idrocarburi mediante trasporto navale. Ecco qualche lezione che si può trarre da tutta questa vicenda. Innanzitutto, i tempi. È possibile che in una nazione che ha bisogno di investimenti, occupazione e fonti di energia, ci voglia più di un quarto di secolo per portare a regime una attività produttiva?
In secondo luogo, gli «attori» di questa vicenda. Troppi uffici, troppi enti, troppe «voci». Decisioni prese al centro vengono messe in discussione in periferia. Scelte fatte dopo attento esame dall’amministrazione vengono poste in dubbio dai giudici. Ognuna di queste «voci» ha un suo diverso interesse, alcune sono pronte a partecipare al banchetto. Si diceva una volta che troppi cuochi facessero una pessima cucina.
Terzo punto debole: nessuna sequenza predefinita, la possibilità per tutti, dal più piccolo Comune all’associazione ambientalista, dal Ministero alla Regione, di intervenire e re-intervenire, in ogni momento, mettendo sempre in discussione le decisioni prese. Per un confronto, l’Autostrada del Sole fu costruita in meno di dieci anni, le linee dell’Alta velocità ferroviaria in circa quaranta anni. Dobbiamo pensare che i tempi di realizzazione delle infrastrutture seguano in futuro una progressione di tempi come questa? Da ultimo: gli effetti sistemici: lunghezza delle procedure di decisione, perenne ridiscussione di tutto, continuo ritornare sulle scelte fatte, costante riaffacciarsi di impedimenti, continui contrasti tra amministrazione e giustizia, conflitti tra Regioni e tra Comuni producono sfiducia nello Stato, disaffezione, protesta, e finiscono per ricadere con costi enormi su quegli stessi enti ed organismi che hanno suscitato queste reazioni. I rimedi a questa impossibilità di decidere sono molti, ma sopra gli altri ce n’è uno, quello di canalizzare la partecipazione degli interessati (paradossalmente, anche quella delle procure, visto che ormai sono entrate a pieno titolo nel percorso delle decisioni collettive) prima che questa si trasformi in opposizione: sono parole che si possono leggere in un eccellente studio condotto da un gruppo di bravissimi ricercatori, guidati da Luisa Torchia, in un libro appena uscito su I nodi della pubblica amministrazione (Editoriale scientifica, Napoli, 2016).

Casaleggio, tra utopia e fumisteria. I 5 Stelle sul crinale fatale tra movimento e partito

Giovanni Cominelli
dal blog Santalessandro 15 aprile 2016  

L’incontro tra un pensiero e un movimento socio-culturale può, a volte, generare un movimento/partito politico. La storia dei partiti politici è esattamente questa. Senza tornare fino all’800, basterà fermarsi agli ultimi 50 anni. Il movimento più imponente – quello del ’68 – è stato il primo. Ha prodotto, alla fine, alcuni piccoli partiti politici. Negli anni ’80 i Verdi. Poi è arrivata la Lega. Poi Di Pietro. Poi Alleanza democratica. Poi la Rete. Poi i Girotondini, poi gli Arancioni, poi Azione civile, poi Rivoluzione civile, poi il M5S… Di tutto questo vortice di sigle, alla fine sono rimasti a galla la Lega, ormai istituzionalizzata in partito, e, per ora, il M5S, sul crinale fatale tra movimento e partito. Fatale, perché assai spesso è lì, in questo periglioso passaggio a Nord-Ovest, che i movimenti socio-politici si dissolvono. Benché il sistema dei partiti abbia subito mutazioni radicali (nessuno dei partiti classici dell’arco costituzionale è sopravvissuto alla svolta storica dell’89), ha tuttavia resistito all’azione corrosiva della storia e all’assalto dei movimenti extra-partitici. Il filo che lega queste diverse esperienze è quello dell’alterità al sistema dei partiti. Sulle ragioni di questa insoddisfazione radicale verso i partiti non c’è bisogno qui di tornare. Da capire è, semmai, perché l’antipartitismo diffuso e la rivolta antipolitica, che da decenni percorrono il sottosuolo della società italiana e della politica, siano così copiosamente venuti a galla e si siano condensati nel M5S. Ciò che amalgama le forze, alla fine, non sono principalmente le determinazioni socio-economiche, ma la coscienza di sé, cioè il pensiero.
IL CASALEGGIO PENSIERO
È qui che arriva Casaleggio. Il quale è riuscito a creare il canale ideologico dentro il quale convogliare umori sociali e culturali plurali e, spesso, reciprocamente contraddittori. Il video postato in rete, dal titolo Gaia, sintetizza i pensieri, che ha costituito il M5S. Si tratta di pensieri tutt’altro che nuovi o originali. Appartengono al filone utopico/distopico della fine ‘800 – si pensi a Marx e a Comte,- e di tutto il ‘900 –  si pensi al bio-comunismo di Trostky o a Aldous Huxley -, che ha trovato nuove ragioni negli scenari della terza/quarta rivoluzione industriale. Uno dei massimi pensatori di questo filone è Ray Kurzweil, che, a dispetto del cognome ebraico-teutonico, è un puro yankee. Un ricercatore e uno scienziato geniale dell’informatica, che ha scritto nel 1990 The Age of Intelligent Machines, nel 1998 The Age of Spiritual Machines, nel 2005 The Singularity is near, un volume di 652 pagine, il cui Prologo è intitolato The Power of Ideas. Quasi tutti questi libri sono stati tradotti in italiano. Nel 2013 è stata pubblicata la traduzione italiana del suo ultimo volume How to Create a Mind.
“L’UOMO È DIO”
Lo scenario è quello di un’integrazione crescente tra intelligenza artificiale e biologia umana, fino al trascendimento della biologia. La “singolarità” è un nuovo tipo umano, la cui apparizione nella storia dissolve religioni, filosofie, conflitti… La data cruciale di Kurzweil è il 2030. Quella prevista dalla Gaia (è il nome del futuro governo mondiale) di Casaleggio è il 2054 (a 100 anni dalla nascita dell’autore). Per completezza di informazione, va aggiunto che al 2020 scoppierà una guerra mondiale, che durerà vent’anni e che lascerà su questa terra solo 1 miliardo di persone, gli altri 6 miliardi saranno bruciati nel fuoco atomico mondiale. Qui l’Huntington del Crash of Cvilizations del 1993 non è così lontano. Fortunatamente, a partire dal fatidico 2054, incomincerà una nuova era della storia umana, che F. Fukuyama faceva iniziare già dopo l’89 con il suo The End of History and the last man del 1992. Scrive Casaleggio: “L’uomo è Dio. È ovunque, è tutti, conosce tutto”. La società umana si è trasformata in un unico flusso di conoscenza, un immenso cervello (o alveare?) collettivo. La politica coincide con il perenne flusso dell’esperienza qui e ora.
TRA PROVOCAZIONE E GIOCO INTELLETTUALE
Simili previsioni stanno consapevolmente tra la provocazione e il gioco intellettuale. Ma da questa antropologia/sociologia segue una più contingente e attuale teoria della democrazia e della politica, che Casaleggio fa risalire a Rousseau: un rapporto diretto tra il singolo e la Volonté générale, che le nuove tecnologie per la prima volta consentono in tempo reale. D’altronde, proprio Rousseau si chiama la piattaforma informatica del M5S, attivata nei giorni della sua morte, che Casaleggio ha lasciato in eredità. A questo punto, non servono più enti intermedi, quali i partiti. Si discute, si decide e si governa in tempo reale. Questa teoria della democrazia, in cui si recupera su scala nazionale e mondiale l’agorà ateniese, è ciò che ha fornito la base ideologica al confuso movimento antipolitico del M5S, gli ha fornito un orizzonte.
UN PO’ DI SAVONAROLA. LA POLITICA SACRALIZZATA E IL RISCHIO TOTALITARISMO
Dentro stanno la decrescita felice degli anti-trivelle, la religione new age del corpo, la politica come convivialità, l’indignazione per le insopportabili brutture del mondo, la voglia di purificazione e di rinascita, la nostalgia di una “polizia del costume” alla Savonarola, la descrizione apocalittica dell’Italia e dell’Europa… Come non ricordare il De ruina mundi  e il De ruina Ecclesiae del succitato frate domenicano? Un osservatore più informato di molti incolti articolisti, che hanno esaltato in questi giorni il genio visionario di Casaleggio, potrebbe agevolmente mettere in evidenza le radici lontane e ricorrenti dell’utopismo apocalittico, che percorre da sempre le grandi transizioni epocali delle società umane. E quella che stiamo vivendo lo è. Ma potrebbe anche far notare come, finora, dei due corni del dilemma formulato dallo stesso Padre fondatore: “la democrazia diretta con la partecipazione collettiva e l’accesso a un’informazione non mediata, oppure una neo-dittatura orwelliana in cui si crede di conoscere la verità e di essere liberi, mentre si ubbidisce inconsapevolmente a regole dettate da un’organizzazione superiore?”, il M5S abbia prediletto il secondo. Resta da chiedersi come sia possibile che le giovani generazioni e non solo si aggrappino in tempi di crisi epocale a queste grandiose quanto labili visioni utopico/distopiche. La risposta, forse semplicistica, è che abbiamo bisogno di una filosofia o di una teologia della storia. Cerchiamo disperatamente un senso al nostro agire privato e pubblico. Tramontate le grandi ideologie del ‘900, resta un grande vuoto. Di qui la tentazione sempre emergente – accadde già all’indomani della Prima guerra mondiale e della Seconda – di una sempre nuova “teologia politica”, nella quale la politica viene sacralizzata ora dai credenti ora dai neo-pagani come riduzione definitiva della complessità sociale, delle sue contraddizioni, delle sue miserie. La storia è semplificata in due fasi: quella della distruzione apocalittica e quella di un nuovo paradiso terrestre. Ma, il nome esatto della tentazione? Totalitarismo.

giovedì 14 aprile 2016

La deriva dell’apocalittico Travaglio, “votare non serve”


Fabrizio Rondolino
L'Unità 14 aprile 2016
Una visione disperata, con l’inevitabile previsione dei “ducetti” in arrivo
La disperazione è una cattiva maestra, perché non lascia altre opzioni se non se stessa. Non guarda al futuro, ma anzi ne sbarra l’accesso. Non produce consenso ma marginalità, emarginazione, riflusso. Eppure i cattivi maestri ne fanno un uso massiccio, un po’ perché a corto di argomenti e un po’ perché così si sentono assolti dall’insuccesso che li attende inesorabile. Se non c’è più niente da fare, se tutto è perduto, se il Male ha vinto e sempre vincerà, a che serve combattere?
La deriva apocalittica di Marco Travaglio rischia insomma di danneggiare la sua stessa causa, di spingere all’abbandono definitivo, di indurre alla più desolata passività. Sentite che cosa scrive oggi: “I partiti strutturati, soprattutto il Pd, hanno capito che l’unico modo per restare abbarbicati alla poltrona mentre intorno tutto crolla è quello di scoraggiare il voto di opinione […] ben sapendo che a chi detiene il potere non mancheranno mai i voti controllati, comprati, scambiati”.
A dar forma a tale tremenda visione è l’invito a non partecipare al referendum. Ma quello stesso invito è stato ripetuto infinite volte negli ultimi quarant’anni da chiunque, da Bettino Craxi alla Cei, passando per il Pds, ed è una scelta come le altre che appartiene alla storia politica d’Italia. Che bisogno c’è di ricavarne la notizia dell’avvenuta morte della democrazia?
L’Italicum e il nuovo Senato – aggiunge il sempre più apocalittico Travaglio – sono “le ennesime riprove del fatto che votare non serve”. E dunque bisogna “raccogliere il testimone dei partigiani contro i vecchi duci e i nuovi aspiranti ducetti”. Amen.
Se ci fosse la dittatura, non ci sarebbero le elezioni né i referendum. E se votare non servisse a nulla, invitare a non votare sarebbe la cosa più ragionevole. Possibile che Travaglio non si accorga di queste evidenti contraddizioni nel suo modo di ragionare? Possibile che non capisca che a forza di alzare il tiro non resta più nulla, se non, appunto, la disperazione?
I cattivi maestri farebbero meglio a fermarsi per un istante, e a riflettere, prima che sia troppo tardi.

mercoledì 13 aprile 2016

Riforma del Senato, il sì dei costituzionalisti: “Svolta attesa da decenni”


Federica Fantozzi
L'Unità 12 ottobre 2015
Studiosi e politologi promuovono il ddl Boschi: “Con la fine tardiva del bicameralismo l’Italia smette di essere un’eccezione. Non ci sono squilibri”
Un passo avanti importante, atteso da almeno trent’anni, che mettendo fine al bicameralismo paritario allinea l’Italia agli altri Paesi europei. Un impianto che (valutato insieme all’Italicum) rafforza la centralità del governo prevedendo però contrappesi quali il ruolo del Quirinale, lo statuto delle opposizioni, il rafforzamento degli strumenti di democrazia diretta. Una buona riforma con alcuni nei sui quali si potrà tornare in futuro. È il parere di svariati costituzionalisti, politologi e studiosi, alcuni auditi durante l’iter del ddl Boschi, altri tra i “saggi” voluti da Giorgio Napolitano.
«È una riforma eccellente. Certo perfettibile giacché frutto di mediazione politica. Io, ad esempio, sostengo l’elezione pienamente indiretta dei senatori» argomenta Carlo Fusaro, professore di diritto Parlamentare ed Elettorale all’università di Firenze. Alle obiezioni di incostituzionalità ribatte: «Non ne vedo nemmeno un barlume. Alcuni colleghi argomentano sulla collisione con principi supremi della Costituzione, ma qui siamo nell’ambito dell’organizzazione dei poteri dello Stato». Quanto al potenziamento della governabilità, è un obiettivo: «Non prendiamoci in giro. Va semplificata e rafforzata».
Di «ottimo risultato» parla anche il costituzionalista Augusto Barbera: «La scelta di senatori che siano anche consiglieri regionali è un punto fermo iniziale nato con l’obiettivo di collegare la legislazione statale con quella regionale ed evitare i disastrosi conflitti del passato di fronte alla Consulta. È un bene che sia stato mantenuto». Anche Barbera rammenta un cavallo di battaglia storico del centrosinistra: «Cito Pietro Ingrao sulla sovranità popolare che si esprime pienamente se non viene dimezzata in due Camere. Viene valorizzato il governo? No, l’assemblea nazionale, cioè Montecitorio. Gli equilibri si spostano a suo favore in quanto unica depositaria della sovranità popolare». Neppure Francesco Clementi, docente di Diritto Pubblico alla facoltà di Scienze Politiche a Perugia, non condivide le accuse di squilibrio dei poteri a favore dell’esecutivo rispetto al legislativo: «Sono frutto di un’errata interpretazione della Carta, di un parlamentarismo all’italiana. Il ddl Boschi difende tre punti chiave: i poteri del capo dello Stato sullo scioglimento delle Camere, l’intangibilità del potere giudiziario, il rafforzamento delle autonomie nel Senato e degli strumenti di democrazia diretta quali il referendum propositivo e le leggi di iniziativa popolare». In sostanza, Clementi nota come i maggiori modelli di democrazia parlamentare abbiano «una Camera bassa che dà la fiducia, in questo l’Italia era un’eccezione alla regola e un Senato non federale bensì federatore dato che siamo un Paese ancora diviso». Ultimo punto positivo, il terzo comma dell’articolo 116 nel Titolo V che premia le Regioni “virtuose” nei bilanci. Nessuno sbilanciamento di poteri anche per Cesare Pinelli, professore di Diritto Costituzionale alla Sapienza: «Il Senato eletto dai cittadini si trasforma in luogo che coinvolge le autonomie nel processo di rappresentanza a livello nazionale». Quanto ai pericoli del combinato disposto con l’Italicum, invita a guardare a lungo termine: «Se oggi dalle urne uscissero maggioranze diverse tra Camera e Senato sarebbe il caos, il presidente della Repubblica dovrebbe sciogliere. Il Senato delle Autonomie invece sarebbe una garanzia e potrebbe dare filo da torcere alla maggioranza». Quanto alle accuse di Forza Italia che la riforma va avanti con 140 voti segreti, Pinelli guarda il contesto: «Le strategie della maggioranza sono estreme ma spiegabili con l’atteggiamento di parte delle opposizioni che hanno giocato allo sfascio o tentato forzature vane». Peppino Calderisi, esperto di sistemi elettorali oggi vicino a Ncd, considera «assolutamente condivisibile» l’impianto della riforma: «È lo stesso individuato dai 35 saggi del governo Letta, di cui faceva parte anche Mario Mauro (che oggi, passato all’opposizione, è contrario, ndr). Con una sola Camera che vota la fiducia e l’altra che rappresenta gli enti territoriali. Anche la mediazione sull’elettività dei senatori è buona». I punti problematici, per Calderisi, sono altri. A partire dall’articolo 21 sulla platea di elezione del capo dello Stato: «Serviva una norma di chiusura, così si rischia lo stallo». E sul ruolo delle opposizioni, reale contrappeso della maggioranza, si poteva fare di più: «servivano una commissione di valutazione della finanza pubblica guidata dalle minoranze e una norma per sottrarre le Autority indipendenti agli indirizzi della maggioranza».
Sergio Fabbrini, direttore della Luiss School of Government, dà un giudizio «abbastanza positivo» di una riforma che «è un grande passo avanti, atteso dagli anni ‘50». Ma le riforme costituzionali hanno successo «se c’è un’iniziativa forte del governo. In Italia ci siamo portati dietro a lungo la retorica parlamentare: meno male che Renzi non ne è rimasto prigioniero, ha capito che nessun parlamento potrà mai riformare se stesso. In modo brutale: i capponi non accelerano il Natale». Quanto ai rischi di squilibrio dei poteri, derivano dalla debolezza dell’attuale opposizione: «L’italicum favorirà forme di aggregazione, spero che non cambi». Ida Nicotra, docente di diritto costituzionale a Catania, promuove l’impianto complessivo che elimina il bicameralismo simmetrico e migliora la ripartizione delle materie tra Stato e Regioni: «Bene accentrare le competenze sull’energia, eliminare la potestà concorrente foriera di liti dinanzi alla Consulta, e prevedere una clausola di salvaguardia». Da componente dell’Anac, l’Autorità Anticorruzione, sottolinea l’introduzione del principio di trasparenza per gli atti della Pubblica Amministrazione e degli enti territoriali nell’articolo 118: «Contributo per la legalità». Infine il politologo Roberto D’Alimonte: «Una buona riforma che scioglie nodi importanti, semplifica le procedure di formazione del governo e delle leggi. L’Italia la aspettava da tempo». Squilibri tra i poteri? «Assolutamente no», spiega, dato che i poteri del Quirinale ma anche quelli del capo del governo – la forma di governo – non vengono toccati. E la valutazione complessiva non cambia neppure nel combinato disposto con la nuova legge elettorale.

Al referendum vince o perde l’Italia (non Renzi)


Michele Ainis  
Corriere della Sera 12 aprile 2016
Chi l’avrebbe detto? Un Parlamento espresso con una legge elettorale (il Porcellum) annullata poi dalla Consulta; sbucato dalle urne senza una maggioranza chiara, anzi con tre grandi minoranze (Pd, FI, 5 Stelle) armate l’una contro l’altra; lì per lì incapace perfino d’eleggere il capo dello Stato, tanto da confermare l’uscente (Napolitano), episodio senza precedenti, prima di eleggere Mattarella; ecco, quelle Camere impotenti timbrano la riforma più potente, consegnando agli italiani una Costituzione tutta nuova. Sicché adesso tocca a noi, ci tocca la parola. Ma è una parola secca: sì o no, prendere o lasciare. Per non sprecare quel monosillabo dovremmo ragionarci sopra, dovremmo soppesare la riforma, senza furori ideologici, senza tifo di partito.
Al referendum vince o perde l’Italia, non Matteo Renzi. La Costituzione gli sopravvivrà, a lui come a noi tutti. Dunque la scelta investe il nostro destino collettivo, non le fortune di un leader. E dietro l’angolo non c’è affatto il rischio d’un ducetto; semmai rischiamo un’altra Caporetto. Perché le istituzioni repubblicane, dopo settant’anni d’onorata carriera, hanno vari acciacchi sul groppone; la cura ri-costituente può guarirle, ma può altresì accopparle. Sarebbe stato giusto concederci l’opportunità di rifiutare o d’approvare questa riforma per singoli capitoli, nei suoi diversi aspetti. Non è così, il nostro è un voto in blocco: se vuoi la rosa, devi prenderti le spine. Ciò tuttavia non cancella l’esigenza d’esaminare il testo «nel dettaglio», come auspica un folto gruppo di costituzionalisti su Federalismi.it. Scorporando le questioni, magari in ultimo potremmo stilare una pagella, mettendo su ogni voce un segno meno o più. Se le promozioni superano le bocciature, voteremo sì; altrimenti bocceremo tutta la riforma. Se invece la somma è pari a zero, significa che non è cambiato nulla. In Italia succede di sovente.
Ma intanto ecco l’elenco degli esami. Primo: il potere. La riforma lo concentra, lo riunifica. Una sola Camera politica (l’altra è una suocera: elargisce consigli non richiesti). Un governo più stabile e più forte, senza la fossa dei leoni del Senato, che ha divorato Prodi e masticato tutti i suoi epigoni, nessuno escluso. E uno Stato solitario al centro della scena. Via le Province, pace all’anima loro. Via le Regioni, cui la riforma toglie di bocca il pasto servito nel 2001, sequestrandone funzioni e competenze: dal federalismo al solipsismo. Perciò il decisionista Carl Schmitt voterebbe questo testo, l’autonomista Carlo Cattaneo lo disapproverebbe. Voi da che parte state? Secondo: l’efficienza. Una maggior concentrazione del potere dovrebbe assicurarla, però non è detto, dipende dalle complicazioni della semplificazione. L’iter legis, per esempio: qui danno le carte soltanto i deputati, tuttavia il Senato può emendare, la Camera a sua volta può respingere a maggioranza semplice, ma talora a maggioranza assoluta. Mentre rimangono pur sempre 22 categorie di leggi bicamerali. Insomma, dalla teoria alla prassi il principio efficientista rischia di rivelarsi inefficiente. E voi, siete teorici o pragmatici?
Terzo: le garanzie. Nessuno dei 47 articoli nuovi di zecca sega le attribuzioni dei garanti: la magistratura, la Consulta, il capo dello Stato. Ma sta di fatto che quest’ultimo dimagrisce quando mette pancia il presidente del Consiglio, giacché in una Costituzione tout se tient. Con un’unica Camera dominata da un unico partito (per effetto dell’Italicum), addio ai governi del presidente, quali furono gli esecutivi Dini, Monti, Letta. Ma addio anche al potere di sciogliere anzitempo il Parlamento: di fatto, sarà il leader politico a decretare vita e morte della legislatura. E addio alla garanzia del bicameralismo paritario, che a suo tempo bloccò varie leggi ad personam cucinate da Berlusconi. In compenso la riforma pone un argine ai decreti del governo, promette lo statuto delle opposizioni, aggiunge il ricorso preventivo alla Consulta sulle leggi elettorali. Ma il compenso compensa lo scompenso?
Quarto: la partecipazione. Quali strumenti di decisione e di controllo restano in tasca ai cittadini? E quanto sarà facile tirarli fuori dalla tasca? Intanto aumenta la fatica di raccogliere le firme: da 50 a 150 mila per l’iniziativa legislativa popolare; da 500 a 800 mila per il referendum abrogativo, in cambio dell’abbassamento del quorum. Però i regolamenti parlamentari dovranno garantire tempi certi per i progetti popolari, però s’annunziano altre due tipologie di referendum (propositivo e d’indirizzo). Peccato che la volta scorsa ci sia toccato pazientare 22 anni (la legge sui referendum è del 1970). Dunque è questione d’ottimismo, di fiducia. E voi, siete ottimisti o pessimisti?

lunedì 11 aprile 2016

Via libera alla riforma Boschi: come cambia la Costituzione


L'Unità 11 aprile 2016
Dalla fine del bicameralismo perfetto al Titolo V: tutte le modifiche introdotte in attesa del referendum)
Il nuovo Senato rappresenterà le istituzioni territoriali, sarà composto da 100 membri e avrà compiti diversi dalla Camera dei deputati. Scompare la legislazione concorrente tra Stato e Regioni. Viene abolito il Cnel. Queste le principali novità del ddl Boschi che modifica 36 articoli della Costituzione, in attesa della celebrazione del referendum confermativo, previsto per il prossimo mese di ottobre.
Fine del bicameralismo perfetto Camera dei deputati e Senato della Repubblica avranno composizione e funzioni differenti. Solo alla Camera, che resta composta da 630 deputati, spetta la titolarità del rapporto di fiducia e la funzione di indirizzo politico, nonché il controllo dell’operato del Governo. Il Senato rappresenta invece le istituzioni territoriali.

Senato dei 100 I nuovi senatori saranno 100, 74 consiglieri regionali, 21 sindaci e 5 senatori di nomina presidenziale. I membri del nuovo Senato saranno scelti “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi”, secondo le modalità che verranno stabilite con una legge che verrà varata entro 6 mesi dall’entrata in vigore della riforma costituzionale. Le regioni avranno altri 90 giorni di tempo per adeguarsi alla normativa nazionale. I cinque senatori di nomina presidenziale non saranno più in carica a vita ma saranno legati al mandato dell’inquilino del Colle, ossia sette anni e non possono essere rinominati. Restano invece senatori a vita gli ex presidenti della Repubblica.

Immunità e indennità La durata del mandato dei senatori coincide con quella degli organi delle istituzioni territoriali nei quali sono stati eletti. Ai senatori resta l’immunità parlamentare come ai deputati. I nuovi senatori non riceveranno indennità se non quella che spetta loro in quanto sindaci o membri del consiglio regionale. L’indennità di un consigliere regionale non potrà superare quella attribuita ai sindaci dei comuni capoluogo di Regione.
Iter delle leggi La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per le leggi costituzionali, per le minoranze linguistiche, il referendum popolare, per le leggi elettorali, per i trattati con l’Unione europea e le norme che riguardano i territori. Le altre leggi sono approvate dalla Camera. Ogni disegno di legge approvato dall’Aula di Montecitorio è immediatamente trasmesso al Senato che, entro dieci giorni, su richiesta di un terzo dei suoi componenti, può disporre di esaminarlo. Nei trenta giorni successivi il Senato può deliberare a maggioranza assoluta proposte di modifica del testo, sulle quali la Camera si pronuncia in via definitiva e che potrà bocciare solamente con un voto a maggioranza assoluta dei propri componenti.
Stato di guerra Deliberare lo stato di guerra, con la riforma, spetterà alla sola Camera dei deputati: servirà la maggioranza assoluta dei voti e non più solo quella semplice.
Leggi di iniziativa popolare Le novità riguardano le proposte di legge di iniziativa popolare per le quali sarà richiesta la raccolta di 150mila firme invece di 50mila ma si stabilisce anche che la deliberazione della Camera sulla proposta deve avvenire entro termini certi e passaggi definiti dai regolamenti parlamentari.
Referendum propositivi Si introducono in Costituzione i referendum popolari propositivi e di indirizzo ma spetterà alle Camere varare una legge che ne stabilisca le modalità di attuazione.

Presidente della Repubblica Cambia il quorum per l’elezione del Capo dello Stato. Nelle prime tre votazioni resta due terzi dei componenti l’assemblea. Dalla quarta si abbassa a tre quinti dei componenti dell’assemblea e dalla settima ai tre quinti dei votanti. Sarà il presidente della Camera (e non più del Senato) a sostituire il presidente della Repubblica ‘ad interim’.
Alla Camera nasce lo Statuto delle opposizioni Viene introdotta una nuova disposizione che attribuisce ai regolamenti parlamentari la garanzia dei diritti delle minoranze in Parlamento. Si attribuisce, al solo regolamento della Camera, anche la definizione di una disciplina dello statuto delle opposizioni.
Giudici Costituzionali I cinque giudici della Consulta di nomina parlamentare verranno eletti separatamente dalle due Camere. Al Senato ne spetteranno due, ai deputati tre. Per l’elezione è richiesta la maggioranza dei due terzi dei componenti per i primi due scrutini, dagli scrutini successivi è sufficente la maggioranza dei tre quinti.
Novità anche per il Titolo V della Costituzione. Il ddl Boschi abolisce il Cnel e le Province.
Titolo V Viene soppressa la competenza concorrente, con una redistribuzione delle materie tra competenza esclusiva statale e competenza regionale. Viene introdotta una ‘clausola di supremazia’, che consente alla legge dello Stato, su proposta del governo, di intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero la tutela dell’interesse nazionale.
Abolizione del Cnel e delle province Viene integralmente abrogato l’articolo 99 della Costituzione che prevede, quale organo di rilevanza costituzionale, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL). Dal testo della Costituzione viene eliminato anche il riferimento alle Province che vengono meno quali enti costituzionalmente necessari, dotati, in base alla Costituzione, di funzioni amministrative proprie.
Giudizio preventivo sulle leggi elettorali Le leggi che disciplinano l’elezione dei membri della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica possono essere sottoposte, prima della loro promulgazione, al giudizio preventivo di legittimità costituzionale da parte della Corte costituzionale. In caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale, la legge non può essere promulgata.