giovedì 31 ottobre 2013

Un risultato molto confortante


Riccardo Imberti

Quando tutti pensavano che Antonio Vivenzi fosse un innocuo partecipante al congresso chiuso, uno della serie “l'importante è partecipare” e i suoi accoliti nel migliore dei casi “dilettanti allo sbaraglio”, il risultato del congresso provinciale del pd bresciano, nonostante le mille tessere degli ultimi giorni, non certamente dovute a Vivenzi e amici, ha riservato un risultato sorprendente, assegnando ad Antonio, anche se arrivato terzo, la palma del vero vincitore del congresso.
Vincitore per il risultato, inaspettato e sorprendente, per il modo attraverso il quale è maturata la sua candidatura, per il ragionamento che accompagnava la sua candidatura, per la proposta politica di forte rinnovamento del partito. Uno stile nuovo di cui tanti ne sentono il bisogno e che ha interessato buona parte di iscritti, stanchi di essere chiamati dalle solite facce da troppi anni, anche a Brescia.
C'è stato chi, pochissimi in verità, richiamandosi a Renzi, ha tentato di distrarre gli iscritti, attraverso metodi a dir poco discutibili. Queste persone, dopo aver partecipato ai nostri incontri aperti, hanno potuto esprimere liberamente la loro opinione e poi, trovandosi in esigua minoranza hanno deciso di appoggiare Bisinella, quello che fin dall'inizio avevano deciso di votare. Così va la politica, la vecchia politica, ahimè.
Il risultato che abbiamo conseguito, conferma ciò che da tempo vado dicendo. Vi è un'area carsica del pd che si è liberata delle fedeltà del passato e decide di scegliere quando gli si presenta l'occasione la proposta di rinnovamento nei metodi e nelle persone. Questi sono i fatti ed ora il pd bresciano non può fare a meno di fare i conti con questo risultato e decidere se continuare a perpetuare la guerra fratricida tra gli ex amici e compagni o affidare ad Antonio il compito e la responsabilità di guidare fuori dalle secche il partito anche a Brescia.
Da parte di Antonio e dei tanti eletti nell'assemblea toccherà procedere senza fretta nella direzione della responsabilità, senza farsi condizionare da sollecitazioni che vanno nella direzione di spaccare il partito. Non è questa la strada coerente per noi. Il nostro compito è quello di essere fedeli fino in fondo a ciò che abbiamo detto prima e durante la fase congressuale. Vogliamo che si costruisca un unità vera del partito e oggi, siamo gli unici che possono garantirla. Se qualcuno vuole procedere escludendoci si accomodi, saremo all'opposizione, non consegneremo il messaggio di rinnovamento a chi in questi anni l'ha sempre avversato. Il nostro sarà un atteggiamento costruttivo, in attesa che si creino le condizioni e maturi in tutti la consapevolezza del forte bisogno di superare una fase nella quale, anche a Brescia, il PD ha dato un'immagine incompiuta di sé.
Per questo progetto dobbiamo essere inclusivi, coinvolgendo tutti coloro che hanno a cuore il partito, la sua unità e vogliono rendere concreto l'avvio di una nuova stagione.

bella serata....

sempre tanti...sempre attenti...e uniti per rinnovare il partito

L’ultimo filo rimasto

Stefano Menichini 
Europa  

Da agosto a oggi Pdl e Pd hanno reciprocamente preteso cose impossibili uno dall'altro. Ora il gioco finisce. E intorno al governo si lavora (senza tante speranze) su un'unica residua possibilità.
Sono ore di un lavoro intenso, tutto sotto traccia, mentre in superficie tuona furiosa l’artiglieria berlusconiana contro la prospettiva del voto palese sulla decadenza del fondatore.
Molte cose accadute dopo la sentenza su Mediaset non erano messe in conto dall’entourage di palazzo Grazioli, a dimostrazione di una sorprendente mancanza di lucidità. A chi osservava dall’esterno, fin da agosto è sempre stato chiarissimo che il Pd, già stretto nelle larghe intese come una camicia di forza, non avrebbe mai potuto concedere nulla in termini di salvacondotto personale. L’unico terreno praticabile per riequilibrare almeno un po’ la drammatica situazione nella quale si veniva a trovare Berlusconi era strettamente politico e di governo: ciò che è accaduto infatti, non casualmente, sull’Imu, appunto alla fine di agosto e appunto per la gloria (effimera) della pattuglia dei ministri Pdl.
Non basta, e obiettivamente occorre riconoscere che non poteva bastare. Soprattutto se si considerano i rischi ulteriori che a Berlusconi deriveranno dalla perdita dell’immunità parlamentare e del potere di firma su atti essenziali alla vita del movimento.
Così onestà intellettuale pretende di non scandalizzarsi per la dura reazione dei berlusconiani a una decisione – la modifica del regolamento del senato su voto palese o segreto – che ha molti buoni argomenti ma anche una palese motivazione contra personam.
In un gioco di finzioni, il Pdl per mesi ha preteso dal Pd coperture che doveva sapere di non poter ricevere; e il Pd ora pretende dal Pdl un’impossibile sportività nell’accettare la catastrofe.
Rimane, esilissimo, il filo tenuto da Letta e Alfano in questi mesi. Ove l’unico terreno possibile è ancora solo politico, puntando sul fatto che alla fine crisi ed elezioni a Berlusconi non convengono. Lo scenario di una maggioranza che rimane in piedi grazie a una scissione del Pdl era già debole e si va indebolendo. Oltre tutto, da quel momento in avanti il Pd (più o meno renziano) faticherebbe a sostenere una maggioranza con i «diversamente berlusconiani» sotto il fuoco alzo zero dei «propriamente berlusconiani».
Se un filo è rimasto, il voto del senato non potrà che spezzarlo. Per questo gli sforzi di queste ore si concentrano intorno alla remota possibilità che, appunto per evitare un trauma definitivo, Berlusconi possa dimettersi motu proprio. Ma ci credono in pochi.

mercoledì 30 ottobre 2013

Cuperlo che dirà ora?

Al comitato per Matteo Renzi a Roma sono comparse le bandiere del Pd. La sede di via dei Pianellari 27, inaugurata oggi, a due passi da camera e senato sarà «il cuore organizzativo della campagna» ha spiegato Stefano Bonaccini.

Il numero due

Giovanni Cocconi  
Europa 30 ottobre 2013


Il numero dueUn vero numero uno ha sempre bisogno di un numero due. Ma un vero numero due non ammetterà mai di esserlo. Graziano Delrio è quel tipo lì. L’investitura è avvenuta domenica, quando Matteo Renzi lo ha voluto accanto a sé, sul palco della Leopolda, prima di chiudere la quarta edizione. Lo ricordavamo come un tipo mite, saggio, riflessivo, quasi noioso. A Firenze Delrio ha sorpreso tutti, anche con i decibel. «La Leopolda è la nostra storia quotidiana. Voi ragazzi sarete protagonisti, noi saremo alle vostre spalle, vi proteggeremo e vi accompagneremo». E giù applausi. E ancora: «Il partito di Matteo non è il partito di un uomo solo al comando, ma con un uomo al comando rappresenta le speranze di tutti». Altri applausi, tanti, così come quando ha parlato della necessità di toccare le pensioni più alte per aiutare i più deboli.
I collaboratori del sindaco confermano che «oggi Delrio è il suo consigliere più ascoltato, la persona dell’entourage che stima di più». Lo descrivono come un fratello maggiore, un alter ego, l’altra faccia di Matteo, «il suo Gandalf» ha scritto Nomfup su Twitter. Un mese fa, Delrio era l’unico politico invitato alla festa per la Comunione del secondo figlio di Renzi, Emanuele. Giovedì scorso era a Firenze per l’ultimo summit sulla Leopolda, insieme con i fedelissimi Luca Lotti e Maria Elena Boschi.
Medico endocrinologo, ex sindaco di Reggio Emilia, 53 anni, alto, magro, faccia pulita con pizzo da spadaccino di Dumas, Delrio rappresenta oggi una figura chiave del mondo renziano. Il ruolo conquistato smentisce la principale leggenda sul rottamatore, e cioè che il sindaco si circondi solo di yes man e solo di fiorentini. Delrio non è uno yes man e non è fiorentino. «Sosterrò Renzi finché rimane com’è» spiega.
La sua è stata una conversione lunga, lenta, a suo modo tormentata: l’operazione rottamazione lo aveva spaventato. «Ma quando hai così tanti figli che in casa tifano per Renzi è difficile non essere travolti» racconta scherzando un suo amico. I figli sono nove, sei vivono ancora con i genitori, a Reggio Emilia, in una casa organizzata come una piccola azienda: a turno, tutti fanno tutto. Michele, nemmeno vent’anni, detto «Billo», ha il pallino della politica come il padre e già coordina un comitato Renzi nella città emiliana.
Il cattolicesimo di Delrio rappresenta uno dei fili che lo legano al numero uno e meriterebbe un capitolo a parte. Ex ragazzo con simpatie nell’anarchia, cresciuto in una famiglia atea e comunista con un padre muratore e poi artigiano, Delrio si è convertito al cattolicesimo attorno ai vent’anni grazie alla conoscenza di don Carlo Cocconcelli, ex prete partigiano amico di don Giuseppe Dossetti, uno dei padri costituenti. Oggi è ministro dell’eucarestia nella parrocchia guidata dal nipote di Dossetti ed è stato fondatore dell’associazione Giorgio La Pira, il “sindaco santo” di Firenze, ideale punto di riferimento di Renzi che gli ha dedicato la tesi di laurea.
Conosciuto dagli amici come «Cido», Delrio chiama Matteo «Mosè», un po’ scherzando e un po’ no, nel senso che «è quello che ci indica la strada». «Renzi può essere davvero quello che è stato Tony Blair per la Gran Bretagna – spiega – cioè il capo di una sinistra più libera, più amica della società, meno dirigista: è lui la scossa che ci serve».
In campagna elettorale, in vista di un eventuale governo Bersani, il nome di Delrio era l’unico sicuro chiesto da Renzi per un ministero. Oggi, titolare degli affari regionali, è il suo anello di collegamento con il governo Letta. Molto stimato da Giorgio Napolitano, amico di Romano Prodi, il ministro è anche il principale ponte con il mondo dei sindaci, cruciale nella strategia elettorale renziana. D’altra parte il ruolo del sindaco di Firenze fu determinante per far eleggere Delrio presidente dell’Anci, nel 2011, a Brindisi, quando Bersani e D’Alema volevano imporre il nome di Michele Emiliano.
Ma la scintilla non scoccò lì. Fu nella sede dell’Associazione dei comuni italiani, giugno 2012, che Renzi annunciò per la prima volta l’idea di correre per le primarie. Ma anche lì Delrio non si sbilanciò, non disse che era disposto ad aiutarlo. «Dobbiamo costruire una rete di persone sul territorio» spiegò poi il rottamatore al bar-ristorante in via dei Fienili, sempre a Roma, a Roberto Reggi, Angelo Rughetti, Lorenzo Guerini e, appunto, Graziano Delrio che ruppe gli indugi ancora dopo, in un incontro a Bologna.
Ma perché Delrio piace tanto a Renzi? Qui le spiegazioni si sprecano. Perché è una persona seria e solida, non un piacione. Perché è un sindaco come lui, abituato a ragionare di politica a partire dai bisogni delle persone, fuori dal ceto politico. Perché è cattolico come lui. Perché lo completa, gli offre un punto di vista complementare al suo. Perché non lo frena ma nemmeno è un tifoso, schiacciato sulle sue decisioni. Perché Delrio rappresenta quello che Matteo non è, la metà che gli manca. Perché da medico e da cattolico riserva un’attenzione tutta particolare al disagio e al sociale. Perché anche lui a Reggio Emilia ha dovuto combattere con il nocciolo duro del vecchio partitone rosso. Perché un vero numero uno ha sempre bisogno di un numero due.

Salvate il generale D’Alema

Stefano Menichini 

30  

È stato un grande leader, non merita oggi di autoridursi al ruolo del falloso terzino d'esperienza che cerca di fermare in ogni modo il giovane campione che lo ridicolizza.
Giorni fa scrivevamo «salvate il soldato Cuperlo»: s’era acceso sulla sua testa lo scontro fra due grandi elettori, Bersani e D’Alema, e lui rischiava di restarne vittima.
Oggi viene da andare oltre. E da lanciare un altro appello, per il bene dell’interessato e della ditta.
L’appello a salvare il generale D’Alema.
A salvarlo da se stesso e da una condanna che si sta autoinfliggendo. Nel bene (per noi largamente prevalente) o nel male, D’Alema è stato grande protagonista dei tentativi della sinistra post-comunista di riconquistare egemonia nel mondo contemporaneo. Se solo la metà delle sue intuizioni degli anni Novanta avessero avuto un coerente seguito (invece di smarrirsi in un labirinto di tatticismi), oggi Matteo Renzi sarebbe un bravo normale dirigente politico, senza traumi e soprattutto senza rottamazioni.
Gli storici del ventennio spiegano che colui che voleva continuare a essere considerato un «figlio del partito» non avrebbe mai potuto portare fino in fondo gli strappi con la tradizione che pure per primo aveva visto necessari. Ma questa al massimo è una colpa, non un dolo, e D’Alema non merita di punirsi ritagliandosi ora il ruolo del falloso terzino d’esperienza che cerca in ogni modo di fermare il giovane fuoriclasse estroso, facendosene ridicolizzare a ogni azione.
Dopo esser entrato nella gara annunciando «io non ho mai perduto un congresso» (frasi che rimangono timbrate addosso), D’Alema ne ha infilate un altro paio. Fino al regalo di ieri, al paragone che voleva essere sfottente fra Renzi e Virna Lisi, risultato utile solo a consegnare al sindaco un’altra sostenitrice e un’altra chance per relegare l’ex premier nel passato (ancorché onorevolissimo: «Voglio ricordarlo solo come presidente del Roma club Montecitorio»).
D’Alema, che volendo ha ancora una grande carriera davanti, dovrebbe capire che in questo tipo di partita non può toccare palla. Che è un campionato non suo. Come non sarà suo il prossimo (dopo aver tentato di dissuadere Renzi dalla guida del Pd promettendogli palazzo Chigi, ora D’Alema ripiega sul concedergli la segreteria tenendolo però fuori dalla premiership: una veronica troppo difficile).
Senza ironie: ci teniamo al generale D’Alema, non vogliamo vederlo scivolare sul campo. Ha spesso detto lui stesso che il suo gioco ormai è altrove, come minimo in Europa. Allora sia conseguente e saggio, e lasci i ragazzi  a vedersela da soli.

Israele scarcera 26 detenuti palestinesi Più vicino il riavvio dei negoziati di pace


Ad attenderli il presidente Abbas. Festa in Cisgiordania e nella Striscia
Primo passo per la ripresa del dialogo
Passata la mezzanotte, come annunciato, Israele ha liberato 26 detenuti palestinesi come «gesto di buona volontà» per il riavvio dei negoziati di pace. 

Circa 300 palestinesi hanno atteso al valico di Erez, nella Striscia di Gaza al confine con Israele, i detenuti rilasciati. Molti alzavano bandiere e cartelli con scritte come “Non dimenticheremo mai i nostri eroi”, mentre veniva diffusa musica festosa. Cinque prigionieri sono stati rilasciati nella Striscia, mentre altri 21 in Cisgiordania, dove saranno accolti dal presidente palestinese Mahmoud Abbas. La scarcerazione è la prima di quattro previste per dare spinta ai negoziati di pace, in cui in tutto Israele libererà 104 palestinesi che scontano lunghe pene. 

martedì 29 ottobre 2013

Aung San Suu Kyi, un esempio per le nostre democrazie stanche

Emma Fattorini 
Europa  

Non solo una donna prestata alla democrazia, al servizio della democrazia, ma identificatasi con essa
Aung San Suu Kyi è in questi giorni in Italia, ha incontrato il premier Letta, il presidente Napolitano e papa Francesco. Dagli Stati Uniti all’Unione europea agli Stati dell’Asia, tutti guardano con grande attenzione alla nuova fase che si è aperta in Birmania, che è sempre di più un paese strategico tra Cina, India e il Sud-Est asiatico e quindi la sua evoluzione può costituire un grande cambiamento non solo per quell’area. Nel 2014 la Birmania assumerà la presidenza dell’Associazione delle nazioni dell’Asia sudorientale (ASEAN).
Le responsabilità che pesano sulle spalle del presidente Thein Sein e di Aung San Suu Kyi sono enormi. I primi, incerti passi della democrazia convivono con violazioni gravissime dei diritti umani, l’apertura al libero mercato richiama investimenti che interessano moltissimo anche l’Italia. Quali e come avverranno è una grande sfida.
Gli italiani sono sempre stati vicini al popolo birmano. Nel 2007 Piero Fassino è stato inviato speciale dell’Unione europea in quelle terre. Numerose sono le istituzioni locali e le associazioni culturali, ricordo tra queste l’associazione «Amici della Birmania», di cui è instancabile animatrice Albertina Soliani.

2007-2013, un’occasione che ritorna

Stefano Menichini 
Europa  

Come sei anni fa, gli avversari del Pd costretti a rincorrere sul terreno della novità politica. Ma Berlusconi è alla fine, Grillo è indebolito, e Renzi ha più carte di Veltroni
Capitò la stessa cosa proprio di questi tempi, sei anni fa. I giorni del predellino, per capirci. Quando per reagire alla vera grande novità che allora dominava la scena – il Pd veltroniano a vocazione maggioritaria – Berlusconi dovette inventarsi qualcosa di simile, e fondò in una sera il partito che oggi è costretto a sciogliere per fallimento conclamato.
Gli scongiuri sono autorizzati, visto come poi andò a finire, ma l’analisi oggettiva è più interessante della scaramanzia. Perché in questo autunno del 2013 assistiamo alla replica almeno della prima scena di quel 2007-2008, e possiamo sperare che l’esperienza aiuti a costruire un esito diverso.
Di nuovo c’è un Pd lanciato a mille sulla strada dell’innovazione, perché di nuovo si afferma sulla scena un leader capace di incarnare la necessaria rottura di continuità con la tradizione, e quindi di presentarsi terribilmente competitivo in un momento in cui si chiede soprattutto novità. La differenza, per quanto riguarda Renzi rispetto a Veltroni, sta in una corrispondenza più forte fra la promessa di discontinuità e la biografia personale, oltre ai risultati già raggiunti in poco tempo nella rottamazione della sinistra del passato.
Di nuovo gli avversari del Pd sono costretti alla rincorsa affannosa.
Ma quante differenze rispetto al 2007.
Innanzi tutto, ora devono rincorrere in due.
Non c’è più solo l’eterno Berlusconi, perché nel frattempo anche colui che pareva destinato a stravincere la corsa alla nuova politica appare spiazzato, precocemente invecchiato agli occhi degli italiani, già sottoposto a critica interna e alla bocciatura degli elettori.
È risultata troppo smaccata e improvvisata, la mossa di ieri di Beppe Grillo. Per far dimenticare il crollo elettorale in Trentino e per recuperare rispetto all’exploit della Leopolda (di cui conosce l’appeal presso i propri elettori), l’ex comico precipitatosi al senato non sapeva se sforzarsi di più nell’urlare contro Napolitano o nel vendere l’ultima patacca della sua democrazia digitale: gli sono venute male e improbabili entrambe le cose.
Il paragone col 2007 finisce qui, anche se si potrebbe fare qualche riflessione sui problemi del governo Prodi di allora e quelli di Letta di oggi. Ci torneremo su, sapendo che le due situazioni sono comunque non paragonabili. Per ora limitiamoci a constatare che la storia talvolta offre l’occasione di riprovarci: non approfittarne sarebbe stupido.

Trentino, tre vincitori nel segno del centrosinistra

Giorgio Tonini 

Europa  

Il grande sconfitto è il centrodestra, vittima delle cure di Micaela Biancofiore 
 

Con quasi il 60 per cento dei voti, Ugo Rossi sarà il nuovo presidente della piccola, ma ricca e potente, orgogliosa e rispettata Provincia autonoma di Trento. Rossi è stato fino ad oggi assessore alla sanità nella giunta presieduta da Lorenzo Dellai e retta negli ultimi mesi, dopo il salto di Dellai in parlamento nelle file di Scelta civica, dal democratico Alberto Pacher, che ha scelto di non ricandidarsi. Oggi Rossi è il vero vincitore delle elezioni in Trentino.
Insieme al senatore Franco Panizza, è stato protagonista di un profondo rinnovamento del suo partito, il Partito autonomista trentino tirolese (Patt), che oggi ha portato al record storico del 17 per cento, seconda forza politica trentina, a cinque punti dal Pd.
Rossi e Panizza hanno radicato il Patt nel centrosinistra, superando la tradizionale postura “terzista” del partito delle stelle alpine. Grazie anche al superamento, da parte dei potenti cugini sudtirolesi della Svp, della linea “blockfrei” (libera dai blocchi, equidistante a Roma tra centrodestra e centrosinistra).
Avevano sottoscritto con Bersani un accordo che ha consentito al Pd di conquistare il premio di maggioranza, al centrosinistra autonomista di stravincere le politiche in Trentino Alto Adige, conquistando 16 seggi sui 19 in palio, e agli “autonomisti” Svp-Patt di portare in Parlamento 8 eletti.
Soprattutto, Rossi ha impresso al Patt una svolta pragmatica, superando la tentazione che Alcide De Gasperi definiva del “gretto cantonalismo”, in favore di una concezione aperta e riformista dell’autonomia. Su questa piattaforma innovativa, Rossi ha selezionato anche un gruppo dirigente rinnovato e ringiovanito e nel luglio scorso ha vinto le primarie del centrosinistra autonomista, superando di un’incollatura il candidato del Pd, Alessandro Olivi.
Insieme al Patt, il Pd è l’altro vincitore: unico partito sopra il 20 per cento, in un contesto di esasperata frammentazione, il Pd conferma il suo primato, agli stessi livelli del 2008. Soprattutto, il Pd conferma il suo ruolo di architrave della coalizione di centrosinistra autonomista e di unica grande forza politica nazionale presente in Trentino, dunque anche principale nodo di connessione tra autonomia provinciale e governo nazionale.
Ma la “vocazione maggioritaria” del Pd, in Trentino è rinviata a tempi migliori. Il Pd non conquista la maggioranza della coalizione, dopo aver mancato, alle primarie, l’obiettivo di conquistarne la guida. Al Pd del Trentino manca infatti un leader capace di parlare a tutta la comunità provinciale e a tutta la coalizione di centrosinistra. Alberto Pacher, ex-sindaco di Trento e presidente reggente dopo Dellai, avrebbe potuto svolgere questo ruolo, ma ha preferito, con una scelta disinteressata che gli fa onore, ma che ha lasciato orfano il Pd, fare un passo indietro, “autorottamarsi” dopo vent’anni di impegno amministrativo.
Il terzo vincitore è dunque sempre lui, Lorenzo Dellai. È vero, la sua Upt è stata superata anche dal Patt, oltre che dal Pd. Ma ha retto bene la “scissione al centro” del suo ex-assessore Silvano Grisenti, che ha sfondato solo nel centrodestra, mentre è stato respinto con perdite lungo il confine di centrosinistra. Soprattutto, Dellai ha visto la sua creatura, la coalizione di centrosinistra autonomista a guida non-Pd, sopravvivere alla sua uscita di scena come presidente della Provincia e resistere alle ambizioni del Pd e al disegno neo-centrista.
Il grande sconfitto delle elezioni trentine è il centrodestra, vittima delle cure di Micaela Biancofiore. La pasionaria berlusconiana è riuscita a portare il centrodestra al minimo storico numerico e all’assoluta irrilevanza politica, sia in Trentino che in Alto Adige. In provincia di Trento, in particolare, Forza Italia al suo debutto nazionale si attesta su un umiliante 4 per cento, battuta perfino dalla Lega, che pure deve accontentarsi di un modesto 6. Il neo-centrismo di Grisenti, sconfitto nettamente dal centrosinistra autonomista può dunque consolarsi: a destra potrebbe trovarsi davanti una prateria.
Resta un ultimo dato, quello di Cinque Stelle: come il centrodestra senza Berlusconi, anche il grillismo senza Grillo non va lontano. A Trento si è fermato al 5 per cento.

lunedì 28 ottobre 2013

Elezioni in Trentino-Alto Adige: centrosinistra avanti a Trento, Svp al 44,7%. Crolla il centrodestra

28 ottobre 2013

Guido Rossi, candidato del centrosinistra, è il nuovo presidente della Provincia di Trento. In Alto Adige l'Svp regge l'urto del dopo-Durnwalder e, ma cede terreno alla destra populista del Freiheitlichten. Il nuovo presidente della giunta provinciale alto atesina salvo colpi di scena in sede di fiducia sarà Arno Kompatscher. Nel capoluogo più a nord di Italia si chiude l'era di Luis Durnwalder: dopo cinque legislature e 24 anni il «Kaiser» cede lo scranno più alto del parlamentino di Bolzano.
Trento, Rossi al 58%. Centrodestra azzerato
Rossi, sostenuto dal Pd ma esponente degli autonomisti del Patt (Partito autonomista trentino tirolese) ha trionfato con il 58%. I democrats si affermano come primo partito, al 22%. L'autonomista Diego Mosna (Progetto Trentino e altri movimenti locali) segue con ampio scarto al 19%, il leghista Maurizio Fugatti non va oltre il 6,6%. In coda Filippo Degasperi del M5S (5,7%), Giacomo Bezzi di Forza Trentino-Forza Italia (3,86), Emilio Arisi di Sel (1,71%), Cristano de Eccher di Fratelli d'Italia (1,62%).
Dal confronto con il 2008, il centrodestra esce azzerato: il candidato della coalizione che comprendeva Pdl, Lega Nord, La Destra e altri, aveva sfondato il 35% di consensi (36,5%. )Anche nei voti di lista Forza Trentino/Pdl scende dal 14.80 % (2008) al 5,2%; la Lega Nord da 17,05% al 6%. Tra le liste, boom del Patt che trainato da Rossi vola oltre il 17%.
Deludente il risultato del Movimento 5 Stelle, in picchiata rispetto al 20% delle elezioni nazionali di febbraio. Grillo si è mostrato comunque entusiasta: «Per il Movimento è un risultato straordinario: finalmente abbiamo anche un nostro eletto in consiglio».
Bolzano, vince la Svp. Destre populiste in crescita
In Alto Adige la Suedtiroler Volkspartei (Svp) si conferma primo partito della provincia di Bolzano(45,6%) nonostante un calo di 2 punti rispetto alle elezioni del 2008. Crescita importante dei secessionisti di lingua tedesca: il Die Freiheitlichen, scissione a destra della Stella Alpina, vola al 18 %. I separatisti capitanati della "pasionaria" Eva Klotz, la Suedtiroler Freiheit (7,2 %). Bene i Verdi (sopra l'8%), regge il Pd. Il centrodestra rasenta lo zero, con la coalizione Forza Alto Adige (Pdl)-Lega Nord-Team Autonomie sotto il 3%. Supera di poco il 2% anche il Movimento Cinque Stelle (alle Politiche aveva sfondato il tetto dell'8%.
Affluenza in calo: a Bolzano vota il 65%
Le elezioni provinciali corrispondono, di fatto, a quelle regionali. Gli eletti nelle due province vanno a formare il parlamentino della Regione ed eleggono con voto autonomo il presidente. Il dato più eclatante, per ora, è il calo di affluenza rispetto alla sessione del 2008. In Trentino non si è andati oltre il 62,82% (261.759 persone), giù di quasi 10 punti rispetto al 73,13% del 2008. Più contenuta la flessione in Alto Adige: il 77,7% degli iscritti al voto (289.766 votanti) contro l'80,1% certificato cinque anni fa. Record negativo a Bolzano, ferma a meno del 65%.
Biancofiore: dai partiti nazionali poca attenzione agli italiani
Michela Biancofiore, coordinatrice regionale di Forza Italia e già sottosegretaria del Governo Monti alla Pubblica Amministrazione, commenta così il segno meno di voti italiani: ««Il dato del calo di elettori nelle città italiane è molto grave ma i partiti nazionali dovrebbero avere più attenzione nei confronti della comunità italiana dell'Alto Adige e del disagio degli italiani». Lo scivolone del centro-destra? «Paghiamo la divisione - sottolinea Biancofiore - causato da chi ha voluto fare partiti territoriali».

Pd Brescia, il segretario scelto dall’assemblea

Qui Brescia 28 ottobre 2013  

(red.) sarà L’assemblea provinciale ad eleggere il segretario del Partito Democratico di Brescia. Nella giornata di domenica 27 ottobre, durante la consultazione degli iscritti, non ci sono stati candidati in grado di ottenere il 50% più una preferenza. Dei 4584 aventi diritto di voto, il 35% ha scelto Michele Orlando. Il 34% ha votato per Pietro Bisinella. Il 30%, invece, ha preferito Antonio Vivenzi. Di fatto il Pd è spaccato in tre parti quasi uguali, e il prossimo 9 novembre sarà l’assemblea provinciale a discutere e scelgliere il coordinatore. In verità si tratta di un risultato inaspettato. Alla vigilia del congresso, infatti, erano in pochi a pensare che Vivenzi potesse ottenere percentuali importanti. Ora il sindaco di Paderno Franciacorta avrà un ruolo di primo piano per la scelta del segretario. Orlando, sindaco di Roncadelle, è stato il più votato ma, certamente, non è il vincitore. Infatti una srie di previsioni lo proiettavano con una percentuale ben oltre il 40%. Bisinella, invece, ha tenuto saldamente in città, dove ha ottenuto il 42% delle preferenze, mentre in provincia le sue preferenze sono state disomogenee. Il 9 novembre sono 103 i delegati che, a maggioranza, dovranno scelgliere un leader provinciale per il prossimo triennio. Orlando può contare su 35 delegati, Bisinella su 35 e Vivenzi 30.

Oltre Renzi

Marco Damilano


113011203-4364bd9c-93cb-4f00-af55-cc985b0f3906Si chiude con un irresistibile Jovanotti, «in questa notte fantastica/che sembra tutto possibile/ribalteremo il mondo», la gigantesca ex stazione Leopolda diventa un enorme discoteca in cui migliaia di corpi ondeggiano. Il momento in cui Matteo l’icona pop che per tre giorni introduce video di Benigni e di Bisio, quello che «se avesse le tette farebbe anche l’annunciatrice», come diceva Enzo Biagi di Berlusconi, e Renzi il politico scafato abilissimo nella manovra e micidiale nell’esecuzione tornano a essere una sola persona. Perché la Leopolda vista in questi giorni è qualcosa di più dell’ormai arcinota cattedrale post-rivoluzione industriale, caotica, affollata, di giovani, anziani, bambini, amministratori, telecamere, circo mediatico scatenato e finalmente a suo agio nel suo habitat naturale, dove messaggi, suggestioni, seduzioni rimbombano senza limiti. È il cuore pulsante del progetto Renzi per cambiare il Pd e poi, chissà, il Paese. È il suo partito. Tanto più significativo ora che in apparenza il Leader non avrebbe bisogno di tenerlo vivo, gli basterebbe aspettare e prendersi il potere, tra quaranta giorni, l’8 dicembre, in un altro partito: il Pd.
Ero tra quelli che temevano alla Leopolda l’assalto di combattenti, reduci e riciclati, i colonnelli e qualche generale dell’esercito sbagliato, quello del centrosinistra degli anni Duemila che ha perso tutte le battaglie. E credevo che questa sarebbe stata l’ultima edizione del raduno fiorentino: si spiegava quando Renzi era un outsider, un sindaco fuori dai circuiti romani con l’esigenza di farsi sentire e di dare voce a quelli come lui, una minoranza in un partito che a ogni edizione, puntualmente, organizzava una contro-programmazione, un altro evento nazionale del Pd per condizionare o oscurare l’appuntamento renziano. Ma ora che, come sembra, tra qualche settimana Renzi conquisterà il vertice del Pd, mi chiedevo, che bisogno avrà di continuare a riunirsi alla Leopolda?
Mi sbagliavo. E la risposta alle mie domande è arrivata fin dalla prima sera, ai cento tavoli programmatici riuniti sotto la volta della stazione. Tavoli tondi a metà strada tra il ricevimento di nozze, il bingo e il condominio. Una babele, chi parlava di stabilimenti balneari e chi di polenta, chi di marketing e chi di riforme, chi di femminicidio e chi, Dio lo perdoni, di packaging for news, talmente criptico che perfino i partecipanti di quel tavolo avevano preferito parlare d’altro. Neppure un tavolo sul Pd. Eppure i tavoli già erano un indizio per capire come sarà il Pd di Renzi. I politici di professione, deputati e senatori, renziani e non, della prima e dell’ultima ora, si perdevano nel colpo d’occhio del grande dibattito a cielo aperto. La contromisura presa dal Bimbaccio alla Leopolda, qui le regole le detta lui. Nessun politico di professione al microfono, se non i sindaci come Piero Fassino o Michele Emiliano, e il segretario del Pd Guglielmo Epifani che si sta dimostrando di una pazienza infinita. Ci voleva capacità di sopportazione senza limiti per non scomporsi troppo di fronte alla sequenza di accuse che piovevano dal palco sulla testa dell’ex segretario della Cgil. «I sindacati hanno rubato il futuro ai giovani», sparava Davide Serra, il finanziere della City di Londra che un anno fa aveva provocato una campagna dell “Unità”, di Ugo Sposetti, del gruppo bersaniano contro il sindaco amico dei paradisi fiscali. E poi botte contro «l’accozzaglia di gerontocrati perdenti» che governa il “Corriere” e contro i capitalisti italiani «che truccano le regole del gioco». Quando è intervenuto Epifani sembrava appartenere a un’altra epoca, quella della Cinquecento e della Vespa in mostra fuori la Leopolda e sul palco.
Come sarà il Pd di Renzi, solido o liquido? Né l’uno né l’altro, sarà un partito disciolto. Con i suoi vecchi dirigenti condannati a sparire nel mare magnum della Leopolda, come Nicola Latorre o come Dario Franceschini che entra in sala proprio mentre sul palco si evoca la parola coerenza. I protagonisti continuano a essere altri: i non invitati, un popolo costruito in anni di lavoro, che a questo punto ha un linguaggio, un progetto, un percorso comune, qualcosa di molto raro nella politica italiana degli ultimi anni. Un’appartenenza. Un’identità. Ma flessibile, magmatica, mobile, non bloccata dalle ideologie, in grado di assorbire, accogliere, ascoltare, rimettere in circuito.
«Noi siamo quelli che scommettono sulla politica», ed è la cosa più di sinistra detta dal sindaco-rottamatore. Dopo anni di atti di fede e di innamoramenti per la società civile, gli imprenditori, i tecnici e gli attori comici, Renzi si candida a governare l’Italia da puro, purissimo professionista della politica, uno che alla politica ci crede e ne fa una scelta di vita. Renzi, presentato a ragione come il distruttore della forma-partito, il destrutturatore degli antichi apparati, è la vera alternativa della politica alla dissoluzione del Pdl, diviso tra gli antichissimi riti dei consigli nazionali e dei documenti di corrente senza più un partito forte in grado di sostenerli come erano la Dc o il Psi o il Pci e la soluzione monarchico-ereditaria Marina Berlusconi, ma anche alle piramidi tecnocratiche sostenute dall’alto, il collante comune delle larghe intese alla Monti e alla Letta, e al ciclone del Movimento 5 Stelle. È Renzi l’anti-politico il difensore della nobiltà smarrita della politica. Solo un politico strutturato può permettersi il lusso di fare l’elogio della semplicità. Uno che si è costruito negli anni, non solo come comunicatore, uno che ti offre la Nutella ma è abituato alle asprezze delle guerre politiche, una sofisticatissima macchina da combattimento.
«Che cosa c’entra la Leopolda con la politica?», si chiede infatti il ministro Graziano Delrio, qualcosa di più di un numero due della gerarchia renziana, per Matteo una specie di fratello maggiore saggio, paziente e giusto, con l’esperienza del medico e del padre di nove figli, l’ideale per un leader che divora colonnelli e mal sopporta consiglieri. «Il partito è uno spazio pubblico, come la sanità o la scuola, ma io vorrei che si riunisse per parlare di Imu o della Siria, non solo per eleggere i segretari di circolo, porco boia!». L’Onda renziana, per la prima volta, si misura con la possibilità di vincere. Ma anche con la necessità di attendere: il tempo delle elezioni si allontana. E l’agenda si aggiorna,si infittisce: riforma elettorale in senso maggioritario, eliminazione del Senato, chiusura delle amministrazioni provinciali. La novità più forte: la riforma della giustizia, «ineludibile, ce lo dice la storia di Silvio», spiega Renzi, trattiene il fiato come tutta la platea, «nessun fischio, bene: dico Silvio Scaglia, l’amministratore di Fastweb ingiustamente detenuto, non l’altro Silvio», meno male. L’Europa e l’attacco ai parametri e all’assenza da Lampedusa e dal Mediterraneo, «lady Ashton è stata un disastro» (D’Alema sarà stato contento). Il lavoro, con l’attacco alla sinistra e ai suoi tabù, «una sinistra che non aiuta a creare posti di lavoro in più non è sinistra, la sinistra che conserva non è sinistra, è destra». E la cultura, con la riapertura di un fronte polemico evocato a Verona al momento di lanciare la candidatura a premier il 13 settembre 2012: gli intellettuali, «dai sovrintendenti agli editorialisti», i conservatori del pensiero che «con la storia del ‘68 continuano a raccontare una storia non vera». La sera prima era stato un altro intellettuale a regalare a Renzi un paio di forbici per tagliare le corde che tengono imprigionato Gulliver: lo sceneggiatore Umberto Contarello, un ex ragazzo della Fgci di D’Alema. Con toni e stili diversi lo stesso aveva fatto l’amministratore delegato di Luxottica Andrea Guerra, uno dei volti da copertina della tre-giorni renziana. Volti di un’Italia psicologicamente fuori dalla crisi, né vuotamente ottimisti e neppure succubi della propaganda governativa, tipo «la ripresa è arrivata, siamo fuori dal tunnel» ecc.
Chi farà tutte queste cose? Il governo Letta? Mai nominato. Il Pd formato Renzi? È un’incognita. Le elezioni anticipate si allontanano dal radar, almeno per ora. Non si possono fare perché non le vuole Napolitano e non le vuole l’Europa. Ma il sindaco non smette di pensarci, in realtà. La sua apertura di credito verso questo Parlamento è tutta renziana, «è tra i Parlamenti tra i più giovani d’Europa», sono i parlamentari ragazzini, spiega Renzi, ad avere tutto l’interesse a passare alla storia come quelli che hanno fatto le riforme. Non la commissione dei saggi, e neppure il governo, ma «la commissione dei bischeri», che a Firenze non è una parolaccia, anche se i bischeri persero tutto. Come in bilico tra trionfo e sconfitta resta Renzi. «Se pensate che uno da solo possa cambiare tutto vi sbagliate», conclude il candidato segretario ed è l’ultima ammissione, quasi intimista. «Ma non ho paura della leadership, troppi a sinistra la temono, la leadership non è una parolaccia». Come ha scritto il politologo Mauro Calise nel suo ultimo libro (Fuorigioco, Laterza), da troppo tempo la squadra del centrosinistra tarda a passare la palla alla sua punta d’attacco, finendo per metterla in fuorigioco. Ecco uno che occupa tutte le zone del campo e che la palla va a cercarsela da solo. Con il rischio, solito, di finire affondato in un terreno di gioco impraticabile e infido. Nelle prossime settimane Renzi dovrà guardarsi da serpenti e coccodrilli che affollano il Pd. La Palude che un anno fa era esterna al partito ora Renzi ce l’ha in casa. Per questo non smetterà di guardare altrove, verso un elettorato più largo, che non si riconosce in nessun partito o è stato deluso da tutti. La Leopolda è la metafora che tutti contiene, il suo partito senza bandiere e senza simboli. E la verifica degli impegni presi ieri nella ex stazione sarà fatta l’anno prossimo ancora qui, ancora una volta in una nuova edizione della Leopolda. Fuori dalle sedi ufficiali del partito, lontano dal Pd. Oltre le larghe intese, l’anno da far passare, oltre questo quadro politico, oltre il Pd, come da tempo è il candidato segretario. Forse, perfino, almeno come l’abbiamo conosciuto in questi anni, oltre Matteo Renzi.

Renzi alla Leopolda: “Mai più inciuci Legge elettorale? Quella dei sindaci”

La Stampa27 ottobre 2013
 
Matteo Renzi a tutto campo nell’ultimo giorno della convention alla Leopolda: il sindaco non si tira indietro di fronte ai temi più spinosi come appoggio al governo, legge elettorale, riforma della giustizia, elezioni. Renzi comincia subito con il tono battagliero di chi non ne può più delle polemiche che non colgono l’essenza della sua sfida. E allora le prime battute le usa per liquidare chi ha fatto notare la mancanza di bandiere democrat sul palco: «Il problema non sono le bandiere, ma le croci sul simbolo del Pd» alle elezioni, quando arriveranno. Per il Pd non mancano, poi, altri richiami, come quello sul danno prodotto dal centrosinistra sul Titolo V: «Anch’io ho sbagliato -ammette- ad aver votato al referendum» per qualcosa che ha prodotto i paradossi delle competenze concorrenti in temi come l’energia o il turismo. Il Sindaco conferma l’appoggio al governo, ma fa una promessa: «Mai più larghe intese. Noi crediamo nell’alternanza e nel bipolarismo». In questo quadro, Renzi è tornato a parlare di legge elettorale, dopo i colpi di avvertimento dei giorni scorsi contro chi vorrebbe il ritorno al proporzionale. E un’idea precisa lui ce l’ha: «La legge elettorale che funziona è quella dei sindaci: è educativa, responsabilizza» ma va integrata con misure opportune sul piano nazionale: «Alla fine si deve sapere chi ha vinto, e chi ha vinto deve avere i numeri in Parlamento per poter governare e, infine, chi governa è per cinque anni responsabile».

Renzi ha assunto quattro impegni da mantenere se vince le primarie del Pd: «Italia, Europa, lavoro ed educazione: faremo iniziative su ognuno di questi impegni e alla prossima Leopolda si farà la verifica«assicurato». Il Sindaco non ha eluso i temi più problematici, arrivando a toccare la questione del rapporto con l’Europa: «Rimettere in discussione i parametri europei? Sì. E lo si dovrà fare dopo aver dimostrato che l’Italia mostra di saper affrontare i problemi: i conti a posto non li deve mettere per la Merkel ma per noi stessi». Infine, ancora parole per il suo partito. «Le correnti -avverte- vanno rottamate e diciamolo subito: la prima corrente da rottamare sarà la corrente dei renziani. Noi siamo per le correnti delle idee, non dei cognomi». E questo perché è altrove che bisogna guardare: «Le prossime elezioni le vinciamo se recuperiamo gli otto milioni che hanno votato Grillo, oltre a recuperare i nostri elettori, ma anche quelli del Pdl».  

Ma bisogna crederci, superando vecchie idiosincrasie: «Sbaglia chi pensa che uno solo possa risolvere i problemi, dopo i disastri che sono stati provocati, ma -ha affermato Renzi- non bisogna avere paura della parola leadership. Lo dico a tanti nel Pd: `leadership´ non è una parolaccia. Tiene insieme la voglia di provarci con la consapevolezza che sei uno dei tanti...»..

domenica 27 ottobre 2013

Congressi e Leopolda, due Pd inconciliabili?

Stefano Menichini 

Europa  


Non è una questione di qualità, né di linea politica. La Leopolda è, come nelle edizioni passate, un momento molto coinvolgente e un format divertente. I congressi di partito sono molto meno di entrambe le cose, ma li animano militanti in carne e ossa altrettanto motivati ed essenziali di coloro che sono convenuti a Firenze (oltre tutto, appunto, si tratta spesso proprio delle stesse persone).
È che i due eventi sono come l’alfa e l’omega, perfette rappresentazioni di due modalità opposte di concepire e praticare la passione politica.
Il Pd della vecchia stazione fiorentina è agile, orizzontale, aperto fino a smarrire il senso dell’appartenenza di partito (da cui le inutili piccole polemiche sull’assenza delle bandiere), veloce e semplice nei suoi riti. Quindi forse semplicistico e illusorio, ricreazione dalla politica più che creazione di politica.
Il Pd dei congressi, che lo ripetiamo a fare, è una macchina respingente, faticosa, opaca nelle sue liturgie: ovviamente momento essenziale della democrazia interna, ma altrettanto inutile ai fini della creazione di politica, tanto è vero che in giro per l’Italia stanno nascendo gruppi dirigenti locali patchwork, frutti di cordate e alleanze estemporanee che nulla hanno a che vedere col congresso nazionale. Senza parlare dell’aspetto odioso dei tesseramenti sospetti, che stanno dando motivo di decine anzi centinaia di ricorsi: il vero profondo fallimento della gestione organizzativa uscente.
Chiaro, la iper-frammentazione locale è stata anche voluta, con l’obiettivo di limitare il potere del futuro probabile segretario nazionale. Egualmente, sta di fatto che, se toccherà a Matteo Renzi, fra poco più di un mese lui si troverà a essere il segretario di tutti e due i Pd. Quello cool della Leopolda e quello old fashioned dei congressi vinti a colpi di tessere.
Nessuno ha ancora capito come il segretario in pectore pensi di riunificare i due Pd, anzi a dirla tutta c’è il sospetto che neanche lui l’abbia capito. E che quindi sia tentato di sorvolare, di fare da qui a dicembre un po’ di surf lessicale sul tema del partito, poi si vedrà: magari la crisi politica nazionale potrebbe sollevarlo presto dall’incombenza.
Non si può neanche fargliene una colpa più di tanto. Comunque lo consideri, il Pd dei congressi appare irriformabile. La sua espressione più significativa sono state le recenti assemblee nazionali: inquietanti per il loro nevrotico svolgimento, organismi non inutili bensì pericolosi.
Avendo già consumato con Veltroni il fallimento del tentativo del partito liquido, nessuno ha in tasca un valido modello alternativo. Non c’è dubbio che un Renzi segretario farebbe gesti eclatatanti di discontinuità, a partire dal suo rimanere sindaco e dal tenersi lontano da Nazareno (anzi auspicabilmente chiuderlo e cambiare sede). Ma che cosa sia, e come possa praticamente funzionare, quello che lui chiama “partito dei sindaci e degli eletti dal popolo”, nessuno l’ha capito. Forse neanche l’interessato.
C’è grande attesa per il discorso domenicale di Renzi, soprattutto per le indicazioni che non potrà non contenere quanto alla crisi politica in corso, alle prospettive della legislatura, alle scelte da compiere immediatamente sulla legge elettorale sotto la pressione dell’iniziativa del capo dello stato e nel mentre delle convulsioni berlusconiane.
Dal candidato in testa nei sondaggi ci si aspetta una visione d’insieme dell’Italia che ha in mente (e questo sarà sicuramente la parte più efficace del suo intervento) e lo scioglimento di alcune importanti incertezze sulla contingenza politica. Ma possiamo fin d’ora scommettere che una incertezza almeno ce la dobbiamo tenere anche dopo la Leopolda: non abbiamo la medicina per la sindrome schizofrenica dei due Pd.

parlare chiaro...

Il patto di Matteo Renzi per cambiare il Pd e il paese 

Il discorso conclusivo della Leopolda rovescia alcuni stereotipi della sinistra di questi anni, a partire dalla giustizia penale, la cui riforma è "ineludibile". Il sindaco parla già da segretario in pectore e dà appuntamento al prossimo anno per verificare il rispetto dei suoi impegni.

sabato 26 ottobre 2013

rieccoli.....

Pd, impennata di tessere e pioggia di denunce. Arrivano gli “osservatori”

Ricorsi e veleni nelle battaglie per i segretari locali. In provincia di Catania, tre congressi sono stati sospesi perché le iscrizioni di alcuni partecipanti erano pagate da terzi: a vigliare sul corretto svolgimento delle assemblee è stato mandato il bersaniano Nico Stumpo. Episodi poco limpidi anche in Campania, Puglia e Abruzzo

Quel centrosinistra «imparentato» con le larghe intese.

Dario Fertilio

Corriere della sera - 26/10/2013
 
Ma il riformismo, che cos’è? Lo inseguivano cinquant’anni fa i leader del centrosinistra, da Moro a Nenni, e lo cercano tutt’ora i partner al governo delle larghe intese. Tuttavia, superfluo dirlo, nessuno è ancora riuscito ad afferrarlo. Ed è proprio in questa coazione a ripetere, e impossibilità a realizzare, che i partecipanti al convegno storico di Bologna individuano le più inquietanti analogie tra passato e presente. Chiamati a raccolta ieri all’Università di Bologna da riviste gloriose come il Mulino e mondoperaio , studiosi del calibro di Ernesto Galli della Loggia, Angelo Panebianco, Gianfranco Pasquino o Michele Salvati concordano pur tra diverse sfumature nel giudicare sostanzialmente fallita l’esperienza di centrosinistra che per circa un decennio, fra il ‘58 e il ‘68, fece sognare una parte degli italiani e arrabbiare un’altra fetta consistente di elettori posti alle ali estreme dello schieramento politico. Fallimento fu perché in sala di regia c’era l’iperconservatore Aldo Moro e perché socialisti e dc furono indotti forzatamente all’alleanza senza reale convinzione, secondo Galli; perché alle ottime premesse programmatiche non fu possibile dare seguito, secondo Pasquino; e anche perché i tempi lunghi della politica italiana sfiancarono inevitabilmente le energie di tutti, ha ricordato Panebianco. Ancora: pesarono le incertezze e cautele del Pci togliattiano, ha ammesso Emanuele Macaluso; il cuore ideologico del partito socialista pulsava in sintonia con «l’unità di classe», ha riconosciuto Piero Ignazi; semplicemente il Psi non era socialdemocratico, è stata una delle osservazioni di Simona Colarizi; mentre Gennaro Acquaviva ha posto l’accento sugli effetti negativi provocati dal crollo del cattolicesimo sociale, seguito al tentativo fallito di creare un partito a sinistra in grado di ridimensionare la Dc. Ne consegue, inevitabilmente, un parallelo con l’oggi. Purtroppo le condizioni per una politica riformista appaiono alquanto peggiorate: al posto del miracolo economico, c’è la crisi globale; invece che la guerra fredda con il suo sistema di alleanze e solidarietà, domina un clima da tutti contro tutti; e niente più fedeltà elettorale ai partiti, ridotti a semplici contenitori intercambiabili. Senza contare la divisione in «tribù» e corporazioni (a cominciare da quelle sindacali) più interessate a opporsi e bloccare che a favorire il nuovo. Eppure, ha ricordato Salvati, una somiglianza fra i due momenti storici esiste: così come ai tempi del centrosinistra, i protagonisti della politica di oggi stanno insieme non per convinzione, ma per forza. Come dire: metti il Pdl al posto della Dc, e il Pd a quello del Psi, e il gioco è fatto. Rimedi? Non se ne vedono altri, per sfuggire al gioco dei veti e degli ostruzionismi incrociati: solo una decisa riforma elettorale in senso maggioritario e un presidenzialismo forte (se all’americana o alla francese, si vedrà) potrebbe salvarci. Utopia, probabilmente, ma anche unica speranza di riuscire a mettere in campo due soggetti politici concorrenti fra i quali sia possibile scegliere, giudicabili anche sul piano del riformismo realizzato.




venerdì 25 ottobre 2013

Guida alla Leopolda 2013. Dove il Pd torna a diluirsi in un “nuovo collettivo”

Rudy Francesco Calvo 
Europa  

Bari sembra essere un passo falso dimenticato: cambia tutto e il segnale distintivo torna a essere quello dell'apertura all'esterno. I simboli sono la piazza, dove nasce la politica, e la Vespa, che richiama il boom degli anni Cinquanta
INVIATO A FIRENZE – Ci sono i tavoli, quelli già numerati per i confronti tematici e quelli già apparecchiati per il buffet. C’è il wi-fi, quello free e quello per gli addetti ai lavori. Ci sono i banchi per gli accrediti, presi d’assalto già più di due ore prima dell’apertura annunciata, e il merchandising pronto a essere esposto. Non quello in vendita a Bari, apparso allestito in tutta fretta da Proforma e da ripensare per il resto della campagna, ma quello specifico della Leopolda edizione 2013. E qui il sindaco ha fatto tutto da solo, con il braccio operativo affidato a Maria Elena Boschi. E le distanze da Bari sono enormi, non solo geograficamente: il clima è più “caldo”, nei colori, nell’edificio storico, negli oggetti.
Se a Bari gli organizzatori avevano perfino ostentato la presenza delle bandiere del Pd, quello organizzato nell’ex stazione fiorentina è ancora un evento che si sforza di apparire esplicitamente aperto a tutti. Non ci sono loghi di partito o politici, non c’è un podio perché ciascuno è libero di intervenire e tutti, big o nuove proposte, avranno lo stesso tempo a disposizione, 4 minuti (l’“uno vale uno” grillino non è poi così originale…). Tutto condensato in un logo, il microfono radiofonico davanti a uno sgabello, che spiega tutto: rapidità, parità, spazio a voci e contenuti. Ma all’audio si aggiungeranno anche immagini, sia video che foto.
Sul palco, a emergere è una Vespa anni Cinquanta che, nell’ideale renziano, vuole rappresentare gli anni migliori del nostro paese, quelli del Dopoguerra, del boom economico, ma anche della solidarietà di un popolo che usciva dal disastroso Ventennio fascista e si ritrovava a stringersi in maniera solidale per ricostruire il proprio destino. Dietro, sullo sfondo, un quadro in movimento, una finestra sul mondo: la rappresentazione di una piazza in cui si vede gente che passeggia, le luci dei bar, i lampioni, una chiesa. È il simbolo della vita quotidiana non solo dei singoli individui, quanto di una comunità. Ed è da lì, dalla piazza, dalla comunità, che nasce la politica.
In alto a sinistra campeggia lo slogan, già noto: «Diamo un nome al futuro». In esso si alternano il verde, colore della speranza, con l’arancio, della creatività. L’analisi semantica, invece, lascia trapelare la volontà di costruire un collettivo, un futuro migliore in cui identificarsi. Ed è qui, ancora una volta, che il Pd c’è, ma anche no: di quel collettivo i Democratici faranno certamente parte, ma non possono pretendere di averne l’esclusiva, soprattutto in una fase di dissoluzione delle altre forze politiche. Renzi, d’altra parte, lo ha già detto: il suo obiettivo sono i delusi, tutti i delusi, del Pd ma non solo.

...vietato creare illusioni....

''abbiamo fatto un sogno
che volavamo insieme,
che abbiamo fatto tutto
e tutto c'è da fare,
che siamo ancora in piedi
in mezzo a questa strada''

Datagate, Prodi spiato dal grande orecchio «Le mie telefonate intercettate già 10 anni fa»

LO SCANDALO ECHELON

«Captata la conversazione con l’allora presidente Eni
in gara con gli Usa per una concessione petrolifera»


Romano Prodi (Ansa)

Leader europei intercettati dai servizi Usa? Non è una novità. Soprattutto non lo è per Romano Prodi, che dieci anni fa, da presidente della Commissione Europea, scoprì di essere finito nella rete di Echelon, il «grande orecchio» progenitore di Prism, oggi al centro del data-gate. «Il suono della mia voce era stato inserito nel grande cervello - ha scritto Prodi in un articolo per il Messaggero - e quindi ogni mia conversazione veniva automaticamente registrata da qualsiasi apparecchio telefonico fosse generata». In quel caso si trattava di una conversazione con l’allora presidente dell’Eni, Gian Maria Gros-Pietro: «Mi parlò dell’utilità di intervenire presso un governo di un Paese produttore di petrolio a difesa degli interessi dell’Eni stessa», ha ricordato l’ex premier. Spiegando che si accertò che non ci fossero altre imprese europee in gara: «Altrimenti mi sarei dovuto astenere». Ma in lizza era rimasto solo un produttore americano. «Ascoltai con cura le ragioni che rendevano opportuno l’intervento e promisi che, appena tornato a Bruxelles, avrei fatto quanto mi si chiedeva». Ma poi, come ha ricostruito lo stesso Prodi, l’intervento della commissione europea non fu più necessario perché l’azienda italiana riuscì ad ottenere la concessione in tempi rapidi. «Mi destò tuttavia una certa sorpresa vedere che, poche settimane dopo, l’intero verbale della conversazione veniva pubblicato da un settimanale a forte tiratura, preceduto dalla precisazione: dalle nostre fonti americane».
CONCORRENZA SLEALE - A parere del Professore, per quanto pervasivi, certi metodi possono essere giustificati dal pericolo terroristico. Ma in quel caso la chiacchierata captata dal sistema anglo-americano non aveva nulla a che vedere con Al-Qaeda o con la minaccia terroristica, allora anche più avvertita di oggi. «Con ondate che si succedono con crescente intensità - ha quindi concluso Prodi - si ha notizia di controlli illegittimi sulle comunicazioni da parte di alcuni Paesi a danno di altri. Ciò infrange non solo le regole giuridiche internazionali ma gli stessi diritti fondamentali dei cittadini».
IL PROGENITORE DI PRISM - Anche Echelon è una creatura della National Security Agency. Venne scoperto nel 1998, anche in quel caso grazie ad alcune rivelazioni giornalistiche. Era considerato in grado di setacciare comunicazioni in voce e digitali in tutto il mondo, al ritmo di 3 miliardi di contatti al giorno.
IL RAPPORTO UE - Il 20 marzo 1998 ilMondo rivelò i contenuti di un rapporto della Direzione generale ricerca del Parlamento europeo intitolato «Valutazione delle tecnologie di controllo politico». Evidentemente lo stesso a cui fa riferimento Prodi nel suo intervento sul Messaggero: «In Europa tutte le telefonate , i fax e i testi di posta elettronica sono regolarmente intercettati, e dal centro strategico inglese di Menwith Hill le informazioni di interesse vengono trasferite al quartier generale della Nsa».