giovedì 28 maggio 2015

Elezioni Regionali: imperativo.... vincere


Riccardo Imberti
Mai come in questi giorni lo scenario che ci si presenta risulta confuso al limite del caos. A tre giorni dalla tornata elettorale si stanno manifestando segnali di grande preoccupazione e le buone e tante cose finora realizzate dal Governo a guida PD, paiono lasciare il posto ad una guerra più che a una normale competizione democratica. 

Cercando di dare la giusta misura alle cose mi pare d'obbligo sottolineare come, ancora una volta, lo scontro che dovrebbe interessare le regioni che vanno al voto, i programmi di chi si candida a guidarle, i volti presentabili e non, sono passati in secondo piano e hanno lasciato il posto alla politica nazionale. L'obbiettivo dichiarato è quello di indebolire il governo e in particolare Matteo Renzi reo di essere decisionista e quindi da fermare. 

Certo non è che il Partito Democratico sia immune da responsabilità. Se pensiamo a ciò che sta avvenendo in Campania credo che qualche sforzo di più si poteva e doveva fare per evitare la candidatura tanto discussa come De Luca. Certo ha vinto le primarie, ma allo stesso tempo ha in corso un processo e condannato in primo grado per abuso di ufficio. L'annullamento delle primarie avrebbe sicuramente favorito un immagine meno discutibile del partito. Al di la dei sondaggi e del risultato della prossima domenica, resta sullo sfondo la questione morale e la capacità dei gruppi dirigenti nazionali di porre mano alle periferie, laddove fatica a farsi strada una pratica politica capace di affermare, trasparenza, pulizia e  rinnovamento, oltre che delle facce, anche nei metodi del fare politica. 

Se andiamo al nord la Liguria presenta un'altra situazione al limite della sopportabilità. Anche in questa regione le primarie sono state l'elemento scatenante e anche qui, forse è il caso di mettere mano a regole condivise, a partire da un registro  dei votanti che ponga fine a comportamenti inaccettabili quali quelli del signor Cofferati. Perse le primarie con la new entry Paita, ha cercato in tutti i modi di vendicarsi dello sfregio della sconfitta inaspettata e con l'aiuto di Civati è riuscito a candidare Pastorino, parlamentare europeo del PD, che naturalmente non si dimette dal suo scranno e pur non avendo alcuna possibilità di riuscita, l'unico risultato di questa operazione sarà quello di far perdere voti al centrosinistra, confermando il comportamento masochista  delle "sinistre" italiane. In questo modo daranno un grosso contributo a resuscitare un centrodestra ovunque moribondo, come si è visto nei risultati delle elezioni trentine ma,  reso ancor  più visibile dalle immagini cartapecorite del ritorno in campo del suo padre padrone Silvio Berlusconi. I signori Cofferati e Civati rischiano con la loro scelta, di consegnare la Liguria al duo Toti-Salvini.

In questo clima rimane sullo sfondo quanto di buono è stato fatto in questi anni dalla classe dirigente amministrativa che per la sua qualità diffusa, rappresenta l'ossatura del nostro sistema democratico, contro il populismo dilagante e l'antipolitica. 

L'auspicio è che il risultato di domenica sappia consegnarci un segnale che consolidi il consenso al Partito Democratico che resta, nonostante le difficoltà e qualche incertezza, l'unica forza capace di assecondare i piccoli segnali di ripresa registrati in questi giorni, per farci uscire finalmente da una crisi che dura da troppo tempo e che ci ha relegato nella parte bassa dei paesi dell'Unione Europea.



mercoledì 27 maggio 2015

41°anniversario ...non dimentichiamo Piazza Loggia




28 Maggio. Strage di Piazza Loggia: 41°anniversario


Bresciaoggi mercoledì 27 maggio 2015
MA.BI.
Una lunga giornata di celebrazioni. Il volume in ricordo di Alberto Trebeschi, i concerti e l´omaggio di «Brescia non dimentica».
La piazza si riempirà domani. Per la quarantunesima volta. Ancora i bresciani torneranno a chiedere verità e giustizia. La giornata comincerà alle 8.30 con la messa al cimitero Vantiniano, dove sono le lapidi delle otto vittime assieme a quelle dei partigiani. A celebrare don Ivo Panteghini. In centro, le delegazioni scorreranno davanti alla stele sotto i portici guidate dalla voce di don Piero Lanzi, in Loggia si terrà il consiglio dei ragazzi, gli studenti di tutte le scuole e cittadini porteranno un fiore o un pensiero, accompagnati dal coro del Comprensivo sud 3 e i familiari incontreranno l´istituzione in Vanvitelliano.
ALLE 10.12 le campane suoneranno otto rintocchi e tutto sarà silenzio per un minuto. Alle 10.15 la commemorazione ufficiale, con Luca Facciano presidente della Consulta provinciale degli studenti, Margherita Asta, figlia di Barbara uccisa dalla mafia, Elena Lattuada segretaria generale della Cgil Lombardia. Di seguito si inaugureranno due nuove formelle del percorso con i martiri del terrorismo, quella per gli universitari uccisi in Kenia e quella per i morti nell´attentato a Charlie Hebdo a Parigi.
Alle 11.30 nell´auditorium San Barnaba di «Storia, memoria, impegno civile» parleranno il sindaco Emilio Del Bono, Pier Luigi Mottinelli, presidente della Provincia, Giovanni De Luna, lo storico il cui libro «La Resistenza perfetta» viene presentato questa sera alle 20.30 al Sancarlino. In piazza l´esposizione per l´annullo filatelico delle Poste, l´installazione «Segni di libertà» della I B del liceo artistico Tartaglia-Olivieri, l´installazione di Eros Mauroner, una grande sfera coperta di ombrelli.
Alle 15, sempre nella sala di corso Magenta, la Federazione lavoratori della cultura della Cgil traccerà il ricordo di Alberto Trebeschi con il volume a cura di Giuseppe Magurno e Marina Renzi. Coordinerà il segretario Pierpaolo Begni. Quattro liriche da Bertolt Brecht saranno cantate dal soprano Yue Wu con gli allievi del liceo musicale Gambara e del Conservatorio Luca Marenzio. Dalle 17 alle 23 vivranno le iniziative del comitato Piazzadimaggio, con musica, teatro e gli interventi di Andrea Ricci, avvocato di parte civile al processo in corso, del giornalista Domenico Finiguerra, dei ragazzi del liceo Calini, dei migranti di Cross Point, di Cecilia Strada, presidente di Emergency. Alle 19 un altro omaggio alla stele verrà offerto dai runner della manifestazione «Brescia non dimentica». Alle 20.45, nella chiesa di San Francesco, concerto della filarmonica del Festival pianistico diretta da Eduard Topchijan.
Altri due concerti in calendario sono stasera alle 21 in piazza Loggia con la Isidoro Capitanio e il 30 maggio nella chiesa di San Giovanni, a cura dell´università.

Alla fine Bersani andrà in Liguria per spingere Paita (tra i distinguo).


Corriere della Sera 27/05/15
Erika Dellacasa
Ultimi fuochi della campagna elettorale e alla fine anche la sinistra Pd, come dice un militante, «si è messa la mano sul cuore» e corre a Genova a sostegno di Raffaella Paita e di riflesso di Matteo Renzi che in Liguria si gioca un risultato importante. È certo l’appoggio dell’ex capogruppo Roberto Speranza che questo pomeriggio farà un tour fra società operaie e pubbliche assistenze a fianco della candidata alla presidenza della Liguria in uno dei quartieri più popolari (e più bersaniani) del capoluogo, Pontedecimo in Valpolcevera. Per alcune otre si è tinta di giallo, invece, la presenza di Pierluigi Bersani, incerta fino a ieri sera poi l’ex leader ha accettato l’invito del segretario provinciale Giovanni Lunardon (cuperliano) e domani chiuderà la campagna elettorale di quest’ultimo, capolista del Pd, sempre in Valpolcevera. Raffaella Paita si limiterà a portare un saluto e poi lascerà l’ex segretario da solo — ufficialmente chiamata altrove da precedenti impegni — a terminare la serata con Lunardon e con i militanti di base del partito. Definire i particolari della partecipazione di Bersani alla campagna ligure è stato tutt’altro che facile e molto si è speso Lunardon (che nelle primarie aveva sostenuto Cofferati). La carta della sinistra Pd che — nonostante gli scontri romani — scende in campo per la candidata renziana va giocata con grande accortezza sul territorio, non per nulla sia Speranza che Bersani si spenderanno in Valpolcevera considerata una vallata «a rischio» dove i dissidenti Pd anti-Paita sono forti e i grillini alle Europee hanno sfondato il 25 per cento, la lista Tsipras era andata oltre il 5 per cento, mentre il Pd aveva totalizzato un notevole 51,4 per cento, comunque non paragonabile alle percentuali intorno al 70 a cui era abituato il Pci nei tempi d’oro. La vittoria di Paita, che in una Liguria governata dal centrosinistra era data come «più che certa», viene ora considerata «molto probabile», ma questo non è sufficiente a rasserenare gli animi dentro al Pd. Resta un’incognita la chiusura della campagna venerdì: l’ipotesi di una presenza di Matteo Renzi a Savona o Imperia sembra sfumata e si fa avanti l’idea di una iniziativa tutta al femminile a Genova: Serracchiani, Boschi, Madia e Pinotti sul palco con Paita.

Nuovo scenario per De Luca La Cassazione: incandidabilità, sui ricorsi non decide il Tar.


Corriere della Sera 27/05/15
Fulvio Bufi
Napoli Sospeso in base alla legge Severino dopo una condanna per abuso di ufficio, il sindaco di Napoli de Magistris fu reintegrato dal Tar in trenta giorni. All’attuale candidato pd alla Regione Campania Vincenzo De Luca, quando era ancora sindaco di Salerno, bastò mezza giornata affinché il Tar accogliesse il suo ricorso contro la sospensione dopo una condanna, pure lui per abuso. 
 Altri tempi. Da oggi non è più così. A cambiare la scena è una decisione di ieri delle sezioni unite civili della Cassazione chiamate a esprimersi su un ricorso presentato dal Movimento per la difesa del cittadino. I giudici della Suprema corte hanno stabilito che a esprimersi sui ricorsi contro l’applicazione della Severino da ora saranno i giudici ordinari. 
 Non è un cambiamento da poco. L’effetto immediato è che decadono le questioni sollevate davanti alla Corte costituzionale, che non potrà prenderle in considerazione perché proposte da un giudice (il Tar) non più competente. Ma soprattutto resta da scoprire l’orientamento dei tribunali ordinari di fronte ai ricorsi di quei pubblici amministratori colpiti dagli effetti della legge che porta il nome del Guardasigilli del governo Monti. L’orientamento del Tar finora è stato abbastanza univoco, almeno nei casi più importanti come quelli citati di de Magistris e De Luca, ma anche di altri: accogliere i ricorsi, sospendere le sospensioni e investire i giudici costituzionali. Non c’è invece giurisprudenza che possa far prevedere cosa succederà ora. Difficilmente, però, ci si può aspettare dai giudici ordinari la stessa solerzia che ha contraddistinto, per esempio, il caso di De Luca: in mezza giornata nessun tribunale deciderà mai niente. 
 Ma al di là delle linee generali, sono i casi particolari che ora balzano all’attenzione. Che cosa accadrà a Napoli, dove c’è un sindaco in carica soltanto grazie a un provvedimento del Tar? De Magistris dovrà preparare un nuovo ricorso, e presentarlo entro trenta giorni al giudice ordinario. Nel frattempo dovrebbe poter rimanere a Palazzo San Giacomo. 
 Diversa la situazione di De Luca, che non ambisce a tornare a fare il sindaco, ruolo dal quale, tra l’altro, è stato pure dichiarato decaduto per non aver scelto, come invece era obbligato per legge a fare, tra la carica di viceministro (Infrastrutture e Trasporti nel governo Letta) e quella di primo cittadino di Salerno. In precedenza però De Luca era stato sospeso in base alla legge Severino perché condannato per abuso di ufficio, e questo provvedimento pende tuttora sulla sua eventuale nomina a presidente della Regione Campania. Se cioè De Luca dovesse uscire vincitore dalla consultazione di domenica prossima, potrà, sì, essere proclamato eletto (la Severino non può intervenire prima dell’ufficializzazione del risultato elettorale) ma subito dopo dovrà essere sospeso. E così come avvenne per il presidente della Regione Calabria Scopelliti, dovrebbe essere il presidente del Consiglio Matteo Renzi a firmare il decreto. 
 Se vincerà De Luca la Campania precipiterà quindi nel caos, anzi nel vuoto istituzionale? Chi governerà la Regione? «La Severino rimanda agli statuti regionali, e lo statuto della Campania prevede che il presidente possa nominare la giunta, e quindi anche il suo vice, dopo la prima seduta del Consiglio», spiega l’avvocato Gianluigi Pellegrino, uno dei più esperti amministrativisti italiani, che ha presentato il ricorso accolto ieri dalla Cassazione. 
 Da puramente giuridica, quindi, la vicenda De Luca, rischia di diventare una bomba politica che potrebbe scoppiare nelle mani di Renzi. Sarà lui, scegliendo i tempi del decreto di sospensione (salvo non ci sia un preventivo intervento della Corte d’Appello), a stabilire se il suo candidato (sempre qualora risultasse il vincitore), quello per il quale il premier sta facendo campagna elettorale, riuscirà a o meno a nominare un vice che gli subentrerebbe al vertice della Regione governandola in suo nome? A De Luca non resterà che ricorrere al giudice ordinario e aspettare. Certo non mezza giornata.

Parolin: nozze gay sconfitta per l’umanità.


Corriere della Sera 27/05/15
G.G.V.
«Credo che non si possa parlare solo di una sconfitta dei principi cristiani, ma di una sconfitta dell’umanità». Il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, non la manda a dire a proposito del referendum che in Irlanda ha detto «sì» alle nozze omosessuali, prevedendo il matrimonio «tra due persone, senza distinzione di sesso» nella Costituzione: «Sono rimasto molto triste di questo risultato, la Chiesa deve tener conto di questa realtà ma nel senso che deve rafforzare tutto il suo impegno e tutto il suo sforzo per evangelizzare anche la nostra cultura». 
 Guardare la realtà, come diceva l’arcivescovo di Dublino Diarmuid Martin, non significa accettarla. Proprio ieri, in Vaticano, il Consiglio del Sinodo — presieduto da papa Francesco — ha concluso due giorni di riunione per fare sintesi dei contributi arrivati dalle diocesi del mondo in vista della seconda tappa di ottobre, anch’essa dedicata alla famiglia. Tra l’altro si è deciso che ci sarà ancora più spazio per la discussione e i gruppi di studio. 
 Il documento di lavoro verrà pubblicato il mese prossimo ed è chiaro che il caso Irlanda entrerà nel dibattito. «La famiglia rimane al centro e dobbiamo fare di tutto per difenderla, tutelarla e promuoverla: il futuro dell’umanità e della Chiesa, anche di fronte a certi avvenimenti successi in questi giorni, rimane la famiglia», ha scandito il cardinale Parolin: «Colpirla sarebbe come togliere la base dell’edificio del futuro». 
 Al Sinodo si continuerà a parlare anche dell’«accoglienza» nella Chiesa degli omosessuali. Ciò che la Chiesa non accetta è il riconoscimento del matrimonio e quindi l’«equiparazione» con la famiglia formata da un uomo e una donna, con relativa possibilità di adottare figli. Questa è la linea invalicabile. Più controverso, tra i vescovi, il giudizio sulle «unioni civili» distinte dal matrimonio: c’è chi le vede come un «cavallo di Troia» e chi invece le considera un riconoscimento di diritti dovuto da parte di uno Stato. 
 Dopo le considerazioni sull’Irlanda, del resto, Parolin ha parlato anche del caso Stefanini: «Il dialogo è ancora aperto e speriamo si possa concludere in maniera positiva». Parole che confermano un «disgelo» sulla vicenda dell’ambasciatore designato a gennaio dalla Francia presso la Santa Sede. Dal Vaticano era seguito il silenzio, i media francesi avevano parlato di un rifiuto perché il diplomatico, un cattolico praticante, è gay. Il mese scorso il ministro dell’Interno Cazeneuve era arrivato a Roma per la canonizzazione di una suora francese e aveva visto il Papa. Francesco, il 17 aprile, ha voluto incontrare di persona Stefanini: hanno pregato assieme.

«Anche molti fedeli vogliono le unioni civili La Chiesa esca dal silenzio e accetti la sfida».


Corriere della Sera 27/05/15
Gian Guido Vecchi
«Uno Stato democratico deve rispettare la volontà popolare, mi pare chiaro, se la maggioranza del popolo vuole queste unioni civili è un dovere dello Stato riconoscere tali diritti. Ma non possiamo dimenticare che anche una legislazione simile, pur distinguendo fra il matrimonio e le unioni omosessuali, arriva a riconoscere a tali unioni più o meno gli stessi diritti delle famiglie formate da uomo e donna. Questo ha un impatto enorme sulla coscienza morale della gente. Crea una certa normatività. E per la Chiesa diventa ancora più difficile spiegare la differenza». 
 Il cardinale Walter Kasper, grande teologo cui Francesco affidò la relazione introduttiva al Sinodo dell’anno scorso, e punto di riferimento dell’anima più riformista, tira un lungo sospiro: «Non sarà facile». 
 E perché, eminenza? 
 «Vede, io penso che il referendum irlandese sia emblematico della situazione nella quale ci troviamo, non soltanto in Europa ma in tutto l’Occidente. Guardare in faccia la realtà significa riconoscere che la concezione postmoderna, per la quale è tutto uguale, sta in contrasto con la dottrina della Chiesa. Non possiamo accettare l’equiparazione col matrimonio. Ma è una realtà anche il fatto che nella Chiesa irlandese molti fedeli abbiano votato a favore, e ho l’impressione che negli altri Paesi europei il clima sia simile». 
 E quindi, che farà la Chiesa? 
 «Si è taciuto troppo, su questi temi. Adesso è il momento di discuterne». 
 Al Sinodo di ottobre? 
 «Certo. Se il prossimo Sinodo vuole parlare della famiglia secondo la concezione cristiana, deve dire qualcosa, rispondere a questa sfida. L’ultima volta la questione è rimasta marginale ma ora diventa centrale. Io non posso immaginare un cambiamento fondamentale nella posizione della Chiesa. È chiara la Genesi, è chiaro il Vangelo. Ma le formule tradizionali con le quali abbiamo cercato di spiegare, evidentemente, non raggiungono più la mente e il cuore della gente. Ora non si tratta di fare le barricate. Dobbiamo piuttosto trovare un nuovo linguaggio per dire i fondamenti dell’antropologia, l’uomo e la donna, l’amore...Un linguaggio che sia comprensibile, soprattutto ai giovani». 
 All’ultimo Sinodo il tema dell’«accoglienza» degli omosessuali è stato controverso, ci sono stati contrasti tra le aperture europee e le posizioni più chiuse di episcopati come quello africano.. . 
 «No, non è che i vescovi europei e quelli africani la pensino diversamente, la posizione della Chiesa è sempre la stessa. Quello che differisce è il contesto, è la sensibilità della società, diversa in Africa e in Europa. E in Europa le cose sono cambiate». 
 In che senso? 
 «Non è più il tempo in cui la posizione della Chiesa su questi temi era più o meno supportata dalla comunità civile. Negli ultimi decenni la Chiesa si è sforzata di dire che la sessualità è una cosa buona, abbiamo voluto evitare un linguaggio negativo che in passato aveva prevalso. Ma ora dobbiamo parlare anche di che cosa sia la sessualità, della pari dignità e insieme della diversità di uomo e donna nell’ordine della creazione, della concezione dell’essere umano...». 
 A proposito di linguaggio, i documenti della Chiesa sull’omosessualità usano espressioni come «inclinazione oggettivamente disordinata...». 
 « Bisognerà fare attenzione a non usare espressioni che possano suonare offensive, senza peraltro dissimulare la verità. Dobbiamo superare la discriminazione che ha una lunga tradizione nella nostra cultura. Del resto è il catechismo a dire che non dobbiamo discriminare. Le persone omosessuali devono essere accolte, hanno un posto nella vita della Chiesa, appartengono alla Chiesa... ». 
 E le coppie omosessuali? La Chiesa non può riconoscere anche a loro quell’idea di «bene possibile» di cui si parlava a proposito di divorziati risposati e nuove unioni ? 
 «Se c’è una unione stabile, degli elementi di bene esistono senz’altro, li dobbiamo riconoscere. Però non possiamo equiparare, questo no. La famiglia formata da uomo e donna e aperta alla procreazione è la cellula fondamentale della società, la sorgente di vita per il futuro. Non è un problema interecclesiale, riguarda tutti, si devono valutare con la ragione e il buon senso conseguenze enormi per la società: pensi alle adozioni, al bene dei bambini, a pratiche come la maternità surrogata, alle donne che tengono un bambino per nove mesi sotto il loro cuore e magari vengono sfruttate perché povere, per qualche soldo. Non bisogna discriminare ma nemmeno essere ingenui ».

«Impresentabili», escono i primi nomi Tensioni all’Antimafia che prende tempo.


Corriere della Sera 27/05/15
Monica Guerzoni
Tre ore di psicodramma nel chiuso di palazzo San Macuto e alle sette della sera la commissione Antimafia si arrende. La presidente Rosy Bindi sospende i lavori e affida a una nota la sua delusione per come si sono svolti i lavori. L’attività di raccolta delle informazioni è stata «complessa», la verifica ha presentato «difficoltà e limiti»... Eppure la blindatissima riunione dell’ufficio di presidenza, finita con le grida della Bindi che rimbalzavano nei corridoi del quarto piano, ha partorito i primi nomi. 
 Sulla base del codice di autoregolamentazione approvato all’unanimità dai partiti, la commissione Antimafia mette dunque all’indice quattro esponenti della politica pugliese. Ecco i nomi, anticipati ieri dal Corriere online. Fabio Ladisa è in corsa con i Popolari per Emiliano e il candidato presidente chiede che l’aspirante consigliere ritiri la candidatura. Giovanni Copertino figura nella lista di Forza Italia, Poli Bortone presidente. Massimiliano Oggiano gareggia per Schittulli nella lista Oltre con Fitto. Ed Enzo Palmisano, di Area popolare, è nel Movimento politico per Schittulli. Il quale smentisce di avere «mostri» in lista e difende i suoi perché «entrambi assolti». 
 Il deputato cinquestelle Francesco D’Uva parla di «una dozzina di nomi» in tutto. Se è vero che Liguria, Marche, Toscana e Veneto possono vantare liste virtuose, a impantanare i lavori della commissione è stata la Campania: la regione che schiera nelle sue liste il maggior numero di candidati poco raccomandabili. Le carte giudiziarie attese dalla prefettura di Napoli non sono arrivate in tempo. O meglio, a quanto raccontano i membri dell’Antimafia, sono arrivate solo per i politici del capoluogo e non per quelli delle province. «Sciatteria di qualche organo periferico di governo», teme il senatore di Sel Peppe De Cristofaro. E poiché la Procura nazionale Antimafia impiega quasi due giorni per passare al setaccio le posizioni giudiziarie, la commissione è stata costretta a fermare i lavori e rinviare l’annuncio. 
 I cinquestelle sono furiosi. «Abbiamo assistito a una pantomima — attacca l’onorevole Francesco D’Uva —. Gli unici a chiedere che venissero pubblicati gli elenchi integrali degli impresentabili siamo stati noi e Claudio Fava». E De Cristofaro ammonisce: «Se i nomi non fossero resi noti entro venerdì sarebbe gravissimo e intollerabile». Sabato scatta il silenzio e gli elettori hanno il diritto di sapere se in lista ci sono condannati per reati di mafia. 
 La riunione — a porte chiuse e telecamere interne spente, per ordine di Rosy Bindi — ha visto momenti di forte tensione. La presidente «ha stigmatizzato la violazione del segreto e sottolineato il venir meno delle regole di correttezza e reciproca fiducia tra i membri dell’Ufficio di presidenza». Chi ha soffiato i nomi nell’orecchio dei cronisti? E perché? La presidente avrebbe voluto annunciarli tutti assieme e ha dovuto faticare non poco per superare le resistenze di chi voleva mettere tutto a tacere. «Ma insomma, come facciamo a uscire con soli quattro nomi?» si sgolava la Bindi a porte chiuse, mentre i commessi allontanavano bruscamente i cronisti. 
 Matteo Renzi è sollevato. «Il Pd non ha impresentabili — è il commento del premier — le liste saranno poi verificate dai cittadini, saranno loro a scegliere». Il procuratore nazionale Antimafia, Franco Roberti, si augura che l’elenco degli impresentabili non scateni polemiche: «È giusto rendere nota la lista». Ma il presidente dell’Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone, non sembra dello stesso avviso: «Capisco che la commissione Antimafia stia facendo un’operazione meritoria, ma è una verità politica ed è sempre pericoloso dare patenti di presentabilità».

martedì 26 maggio 2015

I salvataggi Alitalia sono costati 7,4 miliardi.


Corriere della Sera 26/05/15
Sergio Bocconi

Alitalia è «costata» al Paese, cioè allo Stato e alla collettività, 7,4 miliardi. La stima è stata realizzata dall’Area studi Mediobanca in uno studio che comprende circa 40 anni di storia della compagnia aerea, dal 1974 al 2014. 
 In particolare l’onere a carico del settore pubblico e della collettività prodotto dalla gestione «in bonis» dal 1974 al 2007 è stato di 3,3 miliardi (a valori 2014); mentre quello prodotto sotto la gestione commissariale, fino al giugno 2014, è di 4,1 miliardi. 
 Per quanto riguarda il periodo 1974-2007 la voce più consistente è relativa agli interventi di ricapitalizzazione, che «si sono fatti particolarmente intensi dalla metà degli Anni 90»: lo Stato ha sborsato 2,937 miliardi (4,9 a valori 2014). La stima degli oneri pubblici e collettivi relativa al periodo di amministrazione straordinaria (2008-2014) è pari a 4,1 miliardi, tra prestito ponte del Tesoro del 2008, emissione di zero coupon , obbligazioni Alitalia del Tesoro, passivo patrimoniale dell’amministrazione straordinaria (1,2 miliardi), cigs-mobilità 2008-2015 (0,7), prestazioni Fondo speciale trasporto aereo 
 (1,2 miliardi) e versamento Poste in Alitalia Cai (0,1 miliardi).

La fabbrica di suv a bologna una vittoria (da coltivare).


Corriere della Sera 26/05/15
Dario Di Vico
Le buone notizie vanno celebrate, senza se e senza ma. E quella che arriva da Bologna, con la decisione di produrre in Italia il nuovo Suv della Lamborghini (gruppo Audi) sicuramente lo è. In troppe occasioni in passato importanti decisioni di investimento da parte di multinazionali all’ultimo momento hanno preso altre strade per l’inaffidabilità, reale o presunta, del nostro sistema. 
 Qualcosa dunque dev’essere cambiato: improvvisamente siamo stati capaci di fare squadra e di battere la concorrenza dello Slovacchia. In sede di analisi va ricordata innanzitutto la qualità del nostro manufacturing, confermata dalla decisione (recente) di altre due multinazionali americane di produrre in Toscana e nel Lazio nuovi farmaci destinati all’esportazione, il tutto in virtù di una supremazia dei processi produttivi allocati in Italia e dell’assoluto valore delle risorse umane. Il lavoro italiano può essere una leva competitiva, troppe volte lo dimentichiamo. 
 Rispetto ad altre vicende finite male c’è anche da sottolineare come stia mutando, seppur troppo lentamente, la nostra immagine internazionale e ciò non può che riflettersi positivamente anche su decisioni e valutazioni squisitamente legate a fattori di mercato e competitività. La vittoria del Suv dimostra per una volta anche la maturità dei sindacati — tutti, compresa la Fiom — che hanno messo da parte incomprensioni e litigi e si sono mossi unitariamente. I tedeschi dell’Audi sanno che troveranno in azienda relazioni industriali orientate all’innovazione e alla partecipazione dei lavoratori e proprio in base a questa certezza hanno deciso per il sì. 
 Incassato il successo dobbiamo però ragionare in avanti: siamo tutti d’accordo che gli investimenti stranieri vanno attratti, ma spesso dopo la seduzione arriva il tempo dell’abbandono. Fuor di metafora, una volta convinte le multinazionali a credere nelle nostre fabbriche e nel nostro lavoro ci dimentichiamo che quel tipo di scommesse vanno seguite nel tempo con cura. Le multinazionali ci servono e non a giorni alterni.

Se la scuola trascura i suoi «clienti».


Corriere della Sera del 26/05/15
River Abravanel
Matteo Renzi ha riformato la scuola secondo lo stesso principio applicato alle aziende per l’articolo 18. Ma la scuola non è un’azienda. E non perché la cultura non è un business , ma perché la scuola italiana non si preoccupa dei suoi clienti, gli studenti. 
 La logica di Matteo Renzi applicata alla riforma della scuola è la stessa del Jobs act: eliminare (o almeno ridurre) le ingiustizie a danno dei lavoratori precari, ma allo stesso tempo dare più potere ai loro capi (imprenditori nelle aziende, presidi nelle scuole) nella selezione della forza lavoro: gli imprenditori possono licenziare chi lavora male e i presidi assumere chi insegna bene. 
 È chiaro che i sindacati protestano, come hanno protestato per l’articolo 18. Il preside-capo (lo hanno chiamato in tutti i modi: preside-sindaco, preside-sceriffo, ma in realtà il concetto è semplicemente quello del capo che si sceglie i collaboratori) non piace. La riforma dell’articolo 18 minaccia l’inamovibilità del lavoratore (almeno quello dipendente a tempo indeterminato delle grandi aziende) e la buona scuola minaccia l’insindacabilità dell’insegnante. 
 Ma la buona scuola, se anche non piace ai sindacati, è almeno una buona riforma per i «padroni» della scuola, che sono poi tutti gli italiani? Purtroppo molto poco. 
 Perché un’impresa privata ha l’imperativo di servire bene i suoi clienti, se no scompare, e per questo fine l’imprenditore ne sceglie i capi. Se questi non sanno organizzare l’azienda per fornire un prodotto valido, l’imprenditore li cambia o l’azienda fallisce. Se la legge dà loro più potere, i padroni delle aziende possono aspettarsi che lo sfruttino bene. Altrimenti vale quanto detto prima, o li cambiano o l’azienda salta. 
 Nella scuola il padrone, cioè lo Stato, si è sempre interessato più dei dipendenti (gli insegnanti) che dei suoi clienti (gli studenti). Anche perché i suoi clienti non si sono mai dati molto da fare. Non protestano se il servizio è pessimo, cioè se gli studenti dopo la scuola non sono preparati al lavoro, come è il caso in Italia più che in tutti gli altri Paesi occidentali. Quando devono scegliere si servono dalla scuola sotto casa, non della migliore. E quindi, senza clienti che protestano, lo Stato-padrone ha scelto i capi, cioè i presidi, per essere dei burocrati. Con concorsi dove si valuta la conoscenza delle leggi e delle norme. 
 Non che i presidi italiani siano tutti, o in maggioranza, burocrati. Ci sono tanti presidi che sono dei veri leader: ma questo perché la scuola è ancora per tanti una missione, non certo perché lo Stato li ha scelti così. Perché hanno la passione della scuola e la vogliono guidare, e siccome sono intelligenti, tenaci e coraggiosi, si sono rimboccati le maniche e hanno vinto il concorso. Dare loro più autonomia e poteri sarà sicuramente un bene. 
 Ma altri presidi non sono così. Come capita nelle aziende senza concorrenza e che non sentono la pressione del mercato, piene di dirigenti non all’altezza. 
 È questo che una vera riforma della scuola deve creare: un sistema che permetta ai suoi clienti di conoscere gli istituti migliori, con valutazioni oggettive e una vera trasparenza sul valore della formazione nel mercato del lavoro. Solo allora, potrà sceglierne bene i capi — cioè i presidi — e responsabilizzarli. Perché il potere senza responsabilità è solo arbitrio.

A sinistra debutta «Possibile» la creatura rossa di Civati. Nel database 50 mila iscritti.


Corriere della Sera 26/05/15
Monica Guerzoni
Podemos in Spagna, Possibile in Italia. Sull’onda della vittoria tra Madrid e Barcellona del movimento dei post indignados, Pippo Civati è pronto a battezzare la sua creatura. 
 Subito dopo le Regionali nascerà Possibile, la rete che il deputato uscito dal Partito democratico immagina come un movimento «inedito e diverso dal solito». Di ufficiale non c’è ancora nulla. Ma il simbolo, realizzato da Federico Dolce e Marianna Zanetta del Vixen Studio di Torino, militanti convinti, sarà depositato in queste ore e qualche provino è sfuggito al controllo dei creatori. Tessere di iscrizione, t-shirt con il simbolo, gadget... Tutto è pronto per il lancio. 
 Il cerchio rosso ciliegia in cui si inscrive il segno tipografico dell’uguale ricorda da vicino le insegne del movimento che ha sedotto i giovani spagnoli. Il viola di Podemos è uno dei colori che, miscelati con il rosa e l’arancio di tante battaglie della sinistra del terzo millennio in Italia, hanno dato vita al rossastro di Civati. 
 Il deputato risponde al telefono che è sera e si dice «molto sorpreso» di sapere che il suo simbolo non sia più segreto: «Lo presenteremo a giugno, dopo le Regionali». Si è ispirato a Podemos? «No... Possibile non è la trasposizione di alcun modello straniero». Cosa c’è in cantiere? «Questa cosa, che spiegheremo con calma, la mettiamo a disposizione di tutti coloro che possono essere interessati a condividere con noi un modello di lavoro completamente nuovo, che supera i partiti tradizionali». Maurizio Landini? «La coalizione sociale è per noi motivo di interesse e confronto». E Sel? «È un interlocutore naturale. Ma ci sono anche gli ambientalisti, che devono ritrovare una rappresentanza. E soprattutto ci sono i cittadini». 
 Quanto al traguardo, Civati rivela senza imbarazzo di puntare dritto a Palazzo Chigi: «La fogliolina di ulivo è questa cosa qua, ci si presenta per governare il Paese e non per fare testimonianza». Lei parte da solo, come pensa di costruire l’alternativa al presidente del Consiglio? «A parte che non sono affatto solo, Matteo Renzi in questo momento sta dicendo cose molto confuse e non voglio partecipare alla polemica... Possibile non è uno strappo. È una sfida rivolta a noi stessi e ad altri compagni di strada. Non è contro nessuno e non vuole escludere nessuno». 
 Il viaggio di Possibile comincia dalla Liguria. Dove lo sfidante di Raffaella Paita, il civatiano Luca Pastorino, spera in un risultato a due cifre. Ecco, per Civati la Liguria non è solo un laboratorio della nuova sinistra fuori dal Partito democratico, ma un vero e proprio test. Quanti voti il nuovo movimento potrebbe rubare al partito di Renzi, alle prossime Politiche? E quanti potrebbe pescarne nell’immenso mare dell’astensione? Civati è ottimista. Sta reclutando giovani «molto motivati», pronti a impegnarsi sul territorio (e via web) per costruire dal basso una forza politica alternativa «molto larga, trasversale, dinamica e moderna», che sia un mix tra rete e movimento. 
 Via le scatole cinesi dei partiti tradizionali e piramidali, con la direzione, la segreteria, i forum e le vecchie sezioni. La proposta politica di Possibile sarà trasversale e orizzontale e nascerà dalle idee dei cittadini attraverso i comitati, che porteranno avanti campagne su singoli temi. 
 Per aprire un comitato basterà trovare minimo dieci adesioni e massimo cinquanta e chiedere l’iscrizione al partito. Quel che Civati ha in mente è un sistema di consultazione permanente degli elettori, per misurare il battito del cuore della base e non sbagliare mosse: dalla scelta dei candidati alle battaglie da portare in Parlamento, dove il fondatore lavora ai gruppi di Possibile. Il «tesoretto» di Civati è il database dell’associazione «È Possibile» che conta 50 mila iscritti. Nel calendario è segnata in rosso la data del 3 giugno, giorno in cui la nascita della nuova «cosa rossa» sarà ufficializzata. Seguirà una lettera-documento e poi, a luglio, la festa del partito .

domenica 24 maggio 2015

“Contro la corruzione un buon compromesso. Ora tocca ai partiti cacciare i chiacchierati”


LIANA MILELLA
La Repubblica 23 maggio 2015
Raffaele Cantone. Parla il presidente dell’Autorità nazionale. “Ora avanti sulla prescrizione, ma è un errore sostenere che debba essere sospesa persino dopo il rinvio a giudizio. Il processo deve avere una durata ragionevole”
Raffaele Cantone parte da una premessa: «Nessuna legge, anche la migliore possibile, può consentire da sola di vincere la corruzione. Una lotta efficace richiede più interventi e su più fronti».
Amministrative sotto l’incubo delle liste sporche. Ma la legge anticorruzione non va fino in fondo sull’interdizione perpetua per i corrotti. Grasso l’aveva proposta, ma non c’è.
«In primo luogo la questione degli impresentabili quasi mai riguarda soggetti condannati in via definitiva. L’interdizione perpetua è giusta se i fatti di corruzione sono molto gravi. Sarebbe eccessivo collegarla a qualsiasi tipo di corruzione. La scelta migliore sarebbe l’interdizione perpetua se la condanna supera una certa entità e una temporanea per i casi meno gravi. Così si rispetterebbero equità e proporzionalità».
E non poteva esserci un articolo blocca-impresentabili?
«La questione non può essere risolta dalle leggi, perché l’incandidabilità può essere collegata a condanne definitive e, solo in cadi eccezionali, la si può anticipare a quelle non definitive. Il tema deve essere risolto dai partiti attraverso codici etici e una piena assunzione di responsabilità politica».
C’è chi ne parla malissimo, chi così così, chi decisamente bene. Lei di questa legge anti-corruzione che dice?
«Penso sia una buona legge, anche se, ovviamente, si può fare di meglio, ma il compromesso raggiunto non è affatto al ribasso. Nella legge ci sono sia istituti che dovrebbero servire per fare emergere la corruzione come attenuanti per chi collabora, la ripenalizzazione del falso in bilancio, una correzione importante sulla concussione, aumenti di pena abbastanza razionali. Come per la legge sugli ecoreati, vale il ragionamento che si tratta di un passo in avanti, storico nel secondo caso. Le leggi vanno sempre guardate alla luce delle successive interpretazioni, non bisogna perdersi magari dietro un avverbio mentre nel complesso le norme sono efficaci».
Renzi assicura che d’ora in poi la prescrizione non correrà più.
Sarà, con le intercettazioni, il tormentone dell’estate. Per evitare un’altra legge debole ci dà la sua ricetta?
«Sicuramente gli aumenti delle pene incidono anche sulla prescrizione, quindi un effetto positivo c’è. L’opzione ideale sarebbe un intervento generale sulla prescrizione non solo legato ai reati contro la pubblica amministrazione. È necessario un allungamento dei tempi soprattutto quando ci sono sentenze di condanna. Non concordo con la tesi, pur autorevolmente sostenuta, di chi ritiene che la prescrizione debba essere del tutto sospesa, perfino dopo il rinvio a giudizio. Resto legato a una posizione tradizionale che ha un solido aggancio sul principio di ragionevole durata del processo, una sentenza deve arrivare in un tempo ragionevole, non avendo più senso se ne è trascorso uno lungo per cui il soggetto non è più quello che ha commesso il reato».
Le critiche più dure riguardano i capitoli mancanti, gola profonda, intercettazione negate per il falso in bilancio, ma soprattutto le regole più ampie per intercettare i corrotti.
«Questi argomenti sono politicamente divisivi. È noto che c’è una parte del Parlamento e anche della maggioranza che è contraria a queste opzioni. Ma mi pongo una domanda: sarebbe stato meglio non fare una legge comunque utile per farne una migliore che però non sarebbe stata approvata? Penso proprio di no. Perché anche così si ottengono risultati importanti ».
Per esempio?
«Da domani saranno maggiori le possibilità investigative grazie alla norma sui collaboratori, si potranno perseguire i falsi in bilancio anche in modo rigoroso per le società più importanti come quelle quotate».
Cosa “guadagna” l’Anac con questa legge?
«Guadagna sul piano dei poteri e sul piano delle informazioni che riceve. Sui poteri perché potremo vigilare sui contratti secretati che fino a oggi non potevano essere controllati e su cui in passato ci sono state molto polemiche perché venivano usati per aggirare le gare pubbliche. Sul piano informativo l’Anac potrà conoscere le indagini delle procure, sia pure nella fase del rinvio a giudizio e potrà ottenere dai giudici amministrativi le notizie che emergono in provvedimenti e ricorsi in cui si appalesano fatti di illiceità».
Falso in bilancio non intercettabile, un “vorrei ma non posso”?
«Francesco Greco, procuratore aggiunto a Milano e il più grande esperto di reati economici, durante l’audizione alla Camera ha spiegato con chiarezza che il falso in bilancio è un reato documentale e che mai nella sua esperienza un’intercettazione ha consentito di individuarne uno. Ovviamente bisogna ricordare che le microspie servono per scoprire un reato, e non certo per autorizzare una pesca a strascico su qualsiasi altro tipo di delitti».
Sulla gola profonda l’Anac ha scritto un documento di pregio che ne mette in luce la necessità.
Negli Usa si arrestano così importanti politici. Ma nella legge non c’è, nonostante la battaglia di M5S.
«Qui si sta creando una grossa confusione, una cosa è il whistleblower, cioè un soggetto che denuncia attività illecite amministrative al quale va garantita la riservatezza, fuori dal processo penale. Altra cosa sono gli agenti provocatori. Conosco l’esperienza Usa che ammette in modo ampio questa figura, ma non credo sia automaticamente esportabile nel nostro sistema. Credo invece che sarebbe molto utile usare gli agenti infiltrati, quei soggetti che partecipano direttamente all’attività di un’associazione criminale carpendone i segreti. Penso alla possibilità di introdurre il ritardato arresto e il ritardato sequestro se utili a sviluppare ulteriori indagini. Sono norme indispensabili, ma manca il consenso politico, mi auguro siano riproposte nella riforma del processo penale».
Intercettazioni per la corruzione.
La politica non ha il coraggio di considerare questo reato grave al pari della mafia. Non è contraddittorio rispetto alle tante dichiarazioni contro la corruzione?
«Sono favorevole ad estendere le regole come per la mafia, e l’ho detto in tempo non sospetto. Orlando aveva annunciato che la questione sarebbe stata approfondita con il processo penale. Attenderei quel ddl per capire se l’opzione sarà accolta».



Oscar Romero è beato. Folla immensa a San Salvador


La beatificazione di Romero.La scelta libera di Francesco. El salvador in festa.


Corriere della Sera 23/05/15
Andrea Riccardi
Quello di oggi è un grande momento per il piccolo El Salvador: la beatificazione di mons. Romero, arcivescovo della capitale, assassinato nel 1980. Varie delegazioni e capi di Stato latino-americani, i vescovi centroamericani e di altri Paesi, circa 300.000 persone sono accorse nella plaza de las Americas, dove troneggia la grande statua del Salvador del Mundo. Il Paese è in festa, liberato da una storia dolorosa. È anche un momento grande per il cattolicesimo latino-americano che aspettava da anni questo passo verso chi già chiamava «San Romero de América». Il primo Papa latino-americano ha deciso di beatificare il vescovo-martire, sciogliendo un nodo profondo tra il cattolicesimo del continente e Roma. La beatificazione è un momento di forte identificazione dei cattolici latino-americani con il «loro» Papa. 
 Romero è per loro un simbolo: parla di un cattolicesimo latino-americano vicino ai poveri e allo spirito del Vaticano II, passato per il travaglio dell’instabilità politica (comune a molti Paesi del continente). Eppure Romero, nonostante sia morto da martire nell’ormai lontano 1980, non è stato beatificato né da Giovanni Paolo II, né da Benedetto XVI. 
 Dov’era il blocco? Per alcuni importanti settori ecclesiastici era un’icona della teologia della liberazione o della lotta politica, mentre la sua figura veniva ampiamente manipolata. In vita, Romero ebbe un rapporto difficile con Wojtyla. Al Papa polacco sembrava che il vescovo sottovalutasse il marxismo della guerriglia in lotta contro il governo e non si spendesse per l’unità dei vescovi salvadoregni (tutti focosamente ostili a Romero eccetto uno). Eppure, dopo l’assassinio, Wojtyla s’inchinò sul sangue versato. Nel 1983, in visita al Paese, nonostante l’opposizione di vescovi e governo, pretese di andare sulla tomba di Romero. Stese le mani sopra di essa e disse: «Romero è nostro». Papa Ratzinger conosceva le radicate ostilità a Romero. Il colombiano, card. Lopez Trujillo, combattente contro la teologia della liberazione, si opponeva con tutte le forze: beatificare Romero era per lui beatificare la teologia della liberazione. Non era facile per Benedetto XVI divincolarsi da queste opposizioni, nonostante avesse espresso apprezzamento per il libro dello storico Roberto Morozzo, che ricostruiva la biografia del vescovo, come uomo di pace, pastore e amico dei poveri, vittima di una situazione impossibile. 
 Francesco è libero dai fantasmi della lotta attorno alla teologia della liberazione. Aveva confidato a un ex collaboratore di Romero in visita a Buenos Aires: «se fossi papa, Romero sarebbe santo». 
 Capisce perfettamente chi è Romero per l’America latina e sa quanto sia stato difficile vivere in mezzo alle polarizzazioni ideologiche e politiche degli anni Settanta in America Latina. Chi fu Romero? Lo disse bene, mons. Rivera, suo successore e unico vescovo salvadoregno ad appoggiarlo: «Non sono d’accordo con coloro che presentano Romero come un uomo in talare passato alla rivoluzione, anche se faccio mia l’affermazione che egli incarnò pienamente, in quella realtà ingiusta di El Salvador... l’opzione preferenziale per il povero, che la Chiesa del Concilio ci chiede». La storia ha ormai ricostruito il suo profilo: lontano da ideologia e violenza, non soggiacque al blocco Chiesa-destra. 
 Troppo spesso si è dimenticato che Romero cadde martire, crivellato da proiettili a frammentazione mentre celebrava la messa, il 24 marzo 1980. Nell’ultimo passaggio a Roma, aveva confidato che tornare in Salvador per lui voleva dire morte. In realtà, dal 1977, quando era divenuto arcivescovo di San Salvador, la tensione era cresciuta. Un anno dopo non partecipò all’insediamento del presidente della Repubblica (responsabile di gravi violenze). Era stato vicino ai poveri e aperto al dialogo con tutti. Ogni domenica, denunciava violenza e repressione in un Paese per lui «esplosivo». L’ultima domenica, prima della morte, disse ai soldati: «Fratelli, appartenete al nostro stesso popolo, uccidete i vostri fratelli contadini e davanti a un ordine di uccidere che viene da un uomo deve prevalere la legge di Dio che dice: Non uccidere…». Concluse: «Nessun soldato è obbligato a obbedire a un ordine che sia contro la legge di Dio…». Fu giudicato un invito all’insubordinazione dai settori oligarchici, che usavano gli squadroni della morte: Romero doveva morire fu presto. Tuttavia, dopo la morte, negli anni della guerra civile (con 70.000 morti), Romero è divenuto un simbolo per tanti. Ha mostrato la forza rocciosa della Chiesa latino-americana del Vaticano II. Papa Francesco ha voluto riconoscere un martire e, con lui, una storia di tanti che è anche la sua. 


Strage di Brescia 41 anni dopo. Nuovo processo a rischio beffa per la salute dell’ex ordinovista.


Corriere della Sera 23/05/15
Giovanni Bianconi 

Sarà il dodicesimo processo a quarantuno anni dai fatti, prima udienza fissata per martedì prossimo, ma si rischia già un rinvio. A chissà quando. Oppure uno stralcio che sottrarrebbe al giudizio l’imputato più significativo. È l’ennesima beffa in agguato sulla strage di Brescia, 28 maggio 1974, otto morti e cento feriti, la bomba più emblematica della strategia della tensione che in insanguinò l’Italia in quella stagione di transizione politica. Un pezzo di storia che è ancora cronaca, nel tentativo di attribuire le responsabilità a qualche nome e cognome, e non solo a un movimento eversivo. 
 I dibattimenti del passato hanno chiarito che dietro l’eccidio c’erano i neofascisti di Ordine nuovo; il prossimo — dopo l’annullamento dell’ultima assoluzione, deciso dalla Cassazione nel febbraio 2014 — è l’ultima possibilità per dire se i due imputati rispediti alla sbarra siano colpevoli o innocenti, secondo la legge. 
 L’appuntamento è per il 26 maggio, due giorni prima dell’anniversario, davanti alla Corte d’assise d’appello di Milano; quelle disponibili a Brescia sono finite, non ce n’erano più che non si fossero già pronunciate, e dunque ci si è dovuti spostare a Milano. Solo che uno dei due accusati — Carlo Maria Maggi, ottant’anni compiuti a dicembre, capo ordinovista del Triveneto al tempo della strage — ha presentato tramite il suo legale un’istanza di sospensione del processo. «Non è in grado di partecipare al giudizio per l’assoluta incapacità di comprensione di ciò che gli accade intorno» spiega l’avvocato Mauro Ronco che ha presentato documentazione medica a sostegno della sua tesi, dove si riassumono le malattie sofferte dall’ex estremista nero; con ogni probabilità la Corte disporrà una perizia per verificare la situazione e dunque il rinvio dell’udienza. Dopodiché, se gli esperti nominati dai giudici dovessero stabilire che effettivamente Maggi non è in grado di intendere né volere, dovrà stralciare la sua posizione e procedere senza di lui. Come è accaduto per Bernardo Provenzano nel dibattimento sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia. 
 Per le parti civili — i rappresentanti dei familiari delle vittime che in tutti questi anni sono stati un’autentica forza propulsiva accanto alla pubblica accusa, senza mai arrendersi ai depistaggi e agli ostacoli di ogni genere frapposti alla ricerca della verità, compreso un omicidio commesso in carcere — sarebbe uno smacco: la figura di Maggi rappresenta infatti il punto d’arrivo della battaglia che hanno combattuto e vinto, in Cassazione, dopo l’ultima assoluzione. Con gli elementi raccolti nei confronti di quell’imputato, ha sentenziato la Corte suprema, era pressoché impossibile non riconoscerne la colpevolezza: «A carico di Maggi vi sono moltissimi indizi che paiono essere convergenti verso un suo ruolo determinante nell’organizzazione della strage, mentre non sembra esservi un’ipotesi alternativa a quella accusatoria che possa fare da filo conduttore per tutti gli indizi enumerati». Di conseguenza i nuovi giudici, pur «restando liberi nelle proprie determinazioni conclusive» dovranno «adeguarsi ai suddetti principi e adeguare la motivazione della nuova sentenza». 
 Con una simile indicazione giunta dai giudici di legittimità, a Maggi resta una strada molto stretta per ottenere un verdetto diverso dalla condanna. E adesso ecco la richiesta di sospensione del processo sine die ; forse a mai più, considerata l’età avanzata. «Ma nei precedenti processi non ha mai partecipato a una sola udienza» fa notare Manlio Milani, che nella strage perse la moglie Livia e da sempre guida l’Associazione familiari delle vittime. Una stranezza che potrebbe far nascere qualche sospetto. «Maggi esercita un suo diritto che noi rispettiamo — chiarisce Milani — però anche noi, dopo tanto tempo, abbiamo diritto a vedere celebrato questo processo». 
 Comunque vada, resta la sentenza della Cassazione che indica la precisa responsabilità di Ordine nuovo veneto e le pesanti ombre sul suo capo di allora. 
 E resta l’altro imputato superstite, Maurizio Tramonte, militante della stessa area eversiva nonché informatore del servizio segreto militare dell’epoca. Nei suoi confronti i pubblici ministeri hanno intenzione di chiedere la riapertura del dibattimento, presentando nuovi indizi a carico .

Il «maggio radioso» e il rebus di Putin. A chi lasciare in eredità la Russia?.


Corriere della Sera 23/05/15
Il reportage Mosca.
Ha celebrato tre volte in due giorni, Vladimir Putin, i 70 anni della vittoria russa nella Grande Guerra Patriottica. Il 9 maggio sulla Piazza Rossa, con i leader di Cina e India, i nuovi amici che l’infelice diserzione occidentale gli ha messo accanto suo malgrado. Lo stesso giorno, in testa alla «marcia degli immortali» che ha visto 500 mila moscoviti (imitati da oltre 10 milioni di persone in tutta la Russia) sfilare con le foto dei parenti morti nella lotta al nazismo. L’indomani, accogliendo Angela Merkel, venuta a rendere omaggio alle vittime russe del Terzo Reich. 
 Ma la sua vittoria personale, lo Zar del Cremlino, l’ha colta tre giorni dopo il «den pobiedij» a Soci, ricevendo il segretario di Stato americano John Kerry. Si è sciolto in poche ore al sole del Mar Nero, il ghiaccio dei rapporti di vertice tra Mosca e Washington, che l’Amministrazione aveva congelato oltre un anno fa, sull’onda della crisi Ucraina, culminata nell’annessione della Crimea. Dopo aver guidato la carica per punire e isolare Putin, escludendolo dal G8, mettendo al bando i suoi oligarchi, imponendo dure sanzioni alla Russia e assistendo sul piano economico e militare il governo di Kiev, la Casa Bianca è sembrata prendere atto della realtà: la politica dell’isolamento non ha prodotto gli effetti sperati. «Pensavano che la Russia fosse così dipendente dal mercato globale, che bastasse metterle un po’ di paura sul piano economico, per farla cedere. Non è così. Anzi, le contro-sanzioni russe hanno fatto molto più male alle aziende occidentali, soprattutto europee», spiega Viktor Lukyanov, esperto di politica estera, direttore di Russia in Global Affairs . 
 Certo la posizione americana sull’Ucraina non è affatto mutata. Certo la fine dell’embargo non è per domani, anche se Kerry a Sochi ha per la prima volta legato esplicitamente la piena applicazione degli accordi di Minsk a una sua cessazione. Ma il cambio di passo è palese e riflette una verità evidente per sé: «Gli americani — dice Lukyanov — hanno capito che in Ucraina ci sono tempi lunghi per ogni soluzione praticabile, mentre loro hanno bisogno della Russia ora e subito. Ci sono temi come l’Iran e le crisi in Medio Oriente, sui quali l’America non può fare alcun progresso senza l’aiuto di Mosca. Nella trattativa nucleare con Teheran poi, Obama si gioca il suo posto nella storia». 
 Ma il «maggio radioso» di Vladimir Putin presenta anche aspetti più problematici e ambigui. Nonostante la crisi economica continui a mordere, sia pure con qualche lieve miglioramento sul fronte del rublo e della produzione industriale, la sua popolarità non teme confronti. Il 70% dei russi pensa che sotto di lui la Russia abbia riacquistato il rango di Grande Potenza. E la parata militare del 9 maggio, la più grande a memoria d’uomo con la messa in mostra dei nuovi gioielli dell’arsenale del Cremlino, dal carro Armata t-14 ai missili intercontinentali Yars, lo ha sottolineato in modo plastico. Di più, nulla sembra poter mettere in discussione la stabilità del sistema. Neanche l’assassinio del leader d’opposizione Boris Nemtsov, probabilmente ordito da mano cecena non certo per fare un favore a Putin, ha innescato dinamiche significative contro il Cremlino. 
 Eppure è proprio nella solennità, nella retorica e nella forza delle celebrazioni del 9 maggio, che si cela uno dei rovelli dello Zar. «Di fronte a una certa stanchezza ideologica della mistica anti-occidentale, alimentata dall’Ucraina, Putin ha solo il passato sovietico come fonte di legittimazione. E lui lo sfrutta ad arte. Ma non è una ricetta per il futuro», dice Lev Gudkov, direttore del Centro Levada. È un’analisi in parte condivisa anche da Gleb Pavlovsky, il politologo che fu consigliere di Vladimir Vladimirovich, prima di diventarne uno dei suoi critici dopo la sua decisione di ricandidarsi nel 2012: «Un’operazione di così alto profilo come quella del 9 maggio, preparata per oltre un anno, è il tentativo di costruire una religione civile intorno al potere, per sanare la contraddizione tra burocrazia e uomo della strada. Non so se riuscirà, ma la direzione è quella». 
 Interessante è notare che tutta l’intelligentsia, sia quella critica che quella amica, concordi nell’indicare l’assenza di un’idea per la Russia di domani come il principale problema di Putin, il quale nella dostojevskiana divisione dei russi tra scacchisti e giocatori d’azzardo, si conferma piuttosto vicino a questa seconda indole. 
 Perfino il politologo Sergej Markov, intellettuale in sintonia col Cremlino, ammette che «in questa fase siamo solo reattivi, ma non c’è alcuna idea di sviluppo e di collocazione strategica. Quella a Occidente si è chiusa, ma non è semplice trovarne un’altra». Secondo Pavlovski, Putin si trova «davanti a un rebus antico» del potere russo: «Non ha problemi a breve, verrà di sicuro rieletto nel 2018. Ma non ha ancora trovato la soluzione per trasferire il carisma dalla persona alle istituzioni, senza che crolli tutto. Creare il paesaggio politico, dove può avvenire la transizione, è la sfida con cui dovrà misurarsi». Con lo sguardo ben rivolto al passato, ma privo di una visione per il futuro, Putin assomiglia così a un Giano bifronte, dimezzato. E se non riuscisse a darsi la metà che gli manca, lo Zar di facce rischierebbe di perderne due.

venerdì 22 maggio 2015

«Viaggi, un nuovo pagatore per Formigoni».

Corriere della Sera 22/05/15
Luigi Ferrarella
Contanti stimati in 447.000 euro, un orologio Bulgari, viaggi in Sudafrica e Croazia, il noleggio di un aereo privato per la Sardegna e l’affitto di due elicotteri per Sankt Moritz e la Valtellina: quando non poteva più contare su Pierangelo Daccò (causa l’inchiesta su questo mediatore dei fondi stanziati dagli ospedali San Raffaele e Maugeri per assicurarsi favorevoli delibere del Pirellone), l’allora presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni avrebbe iniziato a ricorrere ad un munifico finanziatore di riserva, Massimo Gianluca Guarischi, ex consigliere regionale di Forza Italia diventato intermediario della Hermex Italia srl, impresa distributrice esclusiva dell’acceleratore lineare diagnostico «Vero». 
 È quanto la Procura di Milano contesta al senatore Ncd e presidente della commissione Agricoltura nell’«avviso di conclusione» d’indagine su un’ipotizzata corruzione ulteriore rispetto a quella per la quale Formigoni è già a processo: indagine che incrimina per abuso d’ufficio, con l’ex direttore generale della Sanità lombarda Carlo Lucchina, anche l’ex sottosegretario alla Presidenza regionale, Paolo Alli, oggi deputato e tesoriere nazionale del Nuovo centrodestra, e vicepresidente dell’Assemblea parlamentare della Nato. 
 Per Formigoni è lo sviluppo di quanto affiorava già nella sentenza che nel novembre 2014 aveva condannato in primo grado Guarischi a 5 anni per corruzione, mentre Giuseppe Lo Presti nel giugno 2013 aveva patteggiato 2 anni e 10 mesi. Ora i pm Gittardi-D’Alessio-Fusco elencano a Formigoni le «utilità ricevute da Guarischi, che operava come intermediario nei rapporti corruttivi con Lo Presti». 
 Dopo aver «accettato la promessa di 900.000 euro», Formigoni per i pm «poi ne riceveva» 447.000 in contanti che Guarischi nell’estate 2012 aveva da Hermex grazie a sovrafatturazioni. C’è poi «un orologio Bulgari in acciaio da 3.500 euro acquistato nel dicembre 2010 da Lo Presti in via Montenapoleone su indicazione di Guarischi e consegnato a Guarischi per la successiva dazione» a Formigoni. Quindi le «spese da parte di Guarischi in favore di Formigoni per viaggi e soggiorni turistici all’estero»: come quello in Sudafrica dal 27 dicembre 2011 al 4 gennaio 2012, valore di 55.000 euro di cui «Guarischi sosteneva quota parte riferibile a Formigoni per circa 7.000 euro»; o quello in Croazia (con noleggio di imbarcazioni) dal 23 al 30 giugno 2012 e dal 28 agosto all’8 settembre 2012, «da 11.900 e 17.900 euro». 
 Guarischi paga il noleggio a giugno 2010 di un aereo per Olbia (11.880 euro), nel marzo 2011 di un elicottero in Valtellina (8.000 euro) e di uno per Sankt Moritz nel dicembre 2011 (6.000 euro). 
 In cambio di cosa? Di niente, aveva sempre affermato Formigoni, smentendo di aver mai ricevuto contanti, e sui viaggi distinguendo i suoi rapporti amicali con Guarischi da qualunque possibile riflesso istituzionale e imprenditoriale. Ma Lucchina testimonia di aver dovuto incontrare (in modo del tutto anomalo rispetto alle consuetudini) l’imprenditore Lo Presti perché fu Formigoni «ad attivarsi tramite la propria segreteria facendo fissare l’incontro», al quale ne seguì «un altro diretto a ottenere il finanziamento per l’acquisto del macchinario all’ospedale di Cremona». Con «gli specifici apporti di Lucchina, di Guarischi e dell’allora assessore regionale alla Sanità Luciano Bresciani», Formigoni avrebbe «influito su contenuto e tempi degli atti discrezionali assunti dala Giunta il 22 dicembre 2011 e il 9 maggio 2012» per «stanziare all’ospedale di Cremona e all’Istituto dei Tumori di Milano 8 milioni ciascuno necessari perché gli ospedali acquistassero il macchinario». Su Cremona, oltre alla «procedura negoziata senza bando di gara e con invito alla sola Hermex», la Regione «omise una preventiva istruttoria e valutazione tecnico-economica sulla congruità del costo dell’apparecchiatura, determinato in 8,3 milioni» quando nel giugno 2010 era stata data all’ospedale di Como una valutazione inferiore di ben 2,6 milioni. 
 Su Milano, invece, Lucchina e Alli sono accusati di abuso d’ufficio per aver «fatto convocare nell’ufficio di Alli l’1 marzo 2013, su richiesta di Guarischi attivato a sua volta da Lo Presti, il direttore generale dell’Istituto dei Tumori, Gerolamo Corno, chiedendogli ragione del mancato utilizzo del finanziamento e esercitando pressioni al fine di far avviare da Corno la procedura dell’acquisto del macchinario». 



Emiliano e i due centrodestra: la mia vittoria spaventa Roma.


Corriere della Sera 22/05/15
Goffredo Buccini
Dà una voce a Guerìn, il ragazzo del parcheggio di piazza Libertà un po’ lieve di testa, «Ohé, Guerìn!». Fa ciao ciao al macellaio di fronte, che gli impone «di mangiare carne cruda come prova di virilità». Si sbraccia dal gippone nero che a stento ne contiene la mole falstaffiana, pure carnale e cruda, proprio come Bari e le famose cozze pelose dono degli imprenditori Degennaro, unica debolezza — più che altro di gola — che quasi gli stava sporcando un esemplare percorso netto in Municipio («dieci anni e mai un avviso di garanzia, lo scriva!»). Si sporge dal finestrino, «mi vogliono bene!», a salutare ad uso del cronista una città e una regione in realtà ciniche ed estenuate, che a stento s’interessano a ciò che potrà accadere il prossimo 31 maggio e dopo. 
 Almeno un pugliese su due non andrà alle urne: gli altri voteranno in massa per lui, dicono. «Una cosa surreale», azzarda dunque Michele Emiliano, ex pm, ex sindaco di Bari, che si sente governatore in pectore : «L’Italia si sta spaventando», aggiunge. Per il suo trionfo, sottintende. Renzi compreso? «Renzi compreso». Col bimbaccio di Rignano sull’Arno la guerra per ora è a tweet e schicchere. Dicono che Emiliano si immagini suo successore, tanto da mettergli un dito nell’occhio persino sulla riforma della scuola: «Io non devo niente a nessuno. Ma Renzi lo sostengo con lealtà, è un Napoleone della politica. E io voglio governare la Puglia cinque anni». Cinque, attenzione. Un mandato, poi vedrà. Intanto ammicca agli elettori di Berlusconi, «gli stessi miei, a Bari», e persino ai leghisti: «I migranti non vanno trattati meglio degli italiani, Salvini su questo ha ragione». Pop, post, social, pronto a ingurgitare chiunque. 
 Qui il berlusconismo s’è decomposto in due candidati e due fazioni, gli scissionisti fittiani del bravo oncologo Francesco Schittulli e gli ortodossi dell’intramontabile gentildonna nera Adriana Poli Bortone, con rovesciamenti da capogiro: l’oncologo era il primo prescelto del Cavaliere, la gentildonna al Cavaliere aveva fatto perdere le elezioni del 2010 e ne era quindi colpita da anatema. Per il Pd la vittoria pugliese annunciata potrebbe avere effetti tattici sulla Campania: Renzi si consolerebbe meglio al Sud — sussurrano — se smarrisse per strada Enzo De Luca, vate dell’Impresentabilità. Ma l’effetto reale sulla Puglia, dopo un decennio di narrazione vendoliana, cinema e taranta, è triste come un addio d’autunno. 
 «La campagna elettorale non si è fatta proprio, il centrodestra non era in grado, e le sagre di programma di Emiliano dicono tutto... con quel nome», spiega l’editore Alessandro Laterza, vicepresidente di Confindustria: «Piuttosto c’è stato, a destra come a sinistra, un intenso lavoro di captatio dei portatori di voti. Il decennio di Vendola è stato anche molto discusso ma il quadro non è stato mai così devertebrato. Lo spettacolo degli ultimi mesi è mortificante». 
 Si assiste a contorsionismi sublimi. Francesco Spina, sindaco di Bisceglie, presidente della Provincia Bat, alle comunali di Trani e Andria sostiene il centrodestra e alle regionali coordina le liste civiche d’appoggio a Emiliano. La Digos indaga sui soldi ai rappresentanti di lista in cambio di voti, dopo una clamorosa intervista di TgNorba a un tizio presentato come collaboratore di Anita Maurodinoia («ci pagano dai 30 ai 50 euro»). Anita, Miss Preferenze alle comunali, nega e querela. Ma, a prescindere, ha una storia funambolica: prima con Schittulli, poi con il nuovo sindaco pd Antonio Decaro, infine candidata da Emiliano alle regionali: non c’è querela che restituisca la bussola. Emiliano s’indigna se lo paragonano a De Luca per impresentabilità dei candidati: c’è qualche condannato in lista, sì, ma lui spiega che è tutta colpa del codice etico del Pd (ah, il Pd!) che lo consente per condanne minori in primo grado. 
 L’aria è mefitica a destra e a manca. Perfino un vecchio galantuomo come Schittulli se ne fa influenzare, sognando di rovesciare le previsioni «come Cameron» e sfogando la sua natura da gaffeur . Prima dà della malafemmena alla Poli Bortone: «Mesi fa si commuoveva alla mia candidatura, ora mi è rivale, mi sento tradito come Totò nella canzone». Poi piglia una china impervia: «Il cerchio magico di Berlusconi? Ha la magia di perdere. Gli riportano male le cose. Mica dico che è rimbecillito. Ma se fate il titolo “Schittulli dice che Berlusconi non è rimbecillito”, a lui fanno vedere solo la parola “rimbecillito”». Insomma, non è un gran complimento, e il professore si pente. Soave. Contro i francesi che, causa il batterio Xylella, boicottano i prodotti della Puglia, annuncia, nientemeno, che non metterà più cravatte di Parigi, tiè. 
 Alla stagione di Vendola hanno voltato le spalle due terzi dei pugliesi: l’Ilva, il gasdotto sotto l’Adriatico, gli ospedali chiusi, 160 mila posti di lavoro persi in sette anni, a ragione o a torto tutto ora seppellisce l’antica narrazione. «Nichi però ha gestito bene il trapasso», ghigna Emiliano che, antropologicamente, rimarca da lui distanze siderali. Vendola se ne tiene a prudente lontananza geografica (in Umbria, a visitare una masseria dove si curano disturbi autistici): «Qui respiro, la campagna elettorale è mefitica: la traduzione locale del partito della nazione è il trasformismo che lei vede». Emiliano continua a inseguire la candidata grillina, Antonella Laricchia (se la contattate, vi depisterà sul suo «addetto stampa»): «La farò assessore anche se non vuole!», tuona. Lei continua a rispondergli picche e a proporre il salario di cittadinanza regionale. Ma Emiliano non molla. Mai. «Poche idee ma lottatore formidabile», ammettono anche i nemici. Sul gippone ha una scritta: «I politici non sono tutti uguali». Ringhia: «Vacci in giro a Napoli con uno slogan così e vedi che ti fanno!». La sua gente la rampogna, la piglia a mazzate, la perdona. Se davanti gli passa un ceffo in moto, gli strilla: «Il cascooo!». Capita che quello, suo vecchio imputato, si giri e lo riconosca, «scusate, dotto’». Michele lo guarda come plancton, un sorriso e si pappa pure lui .

Pippo, la pizza margherita e la campagna di Liguria


Attilio Caso
22 maggio 2015
Ieri sera, a Roma, il vostro affezionatissimo era seduto in pizzeria da solo, così lo si notava di più: posizionato in un angolo, lo sguardo assorto, quasi contemplativo, e la Critica del Giudizio lasciata lì, in bella vista sul tavolo, aveva ordinato una Margherita ed iniziava a tagliarla, garbatamente, con coltello e forchetta, senza far cadere nulla sulla tovaglia. E mentre restava chiuso nelle sue riflessioni e pensava ai prossimi post di resistenza sulla corretta posizione delle virgole nella legge sulla corruzione, da un tavolo a pochi metri ha sentito ordinare: "Per noi due Quattro Stagioni". Erano Lupi ed Alfano. Subito dopo, altre tre voci hanno confermato dallo stesso tavolo: "Anche per noi". 
A quel tavolo c'erano anche Delrio, Orlando e il presidentedelconsiglio. 
Non vi sembra sospetto che tre membri del governo del PD, di cui uno è il Segretario del PD, abbiano gli stessi gusti di quelli di NCD, buono per tutte le stagioni? A me, che denuncio questo appiattimento da mesi, affatto. Dove volevate che portassero le derive autoritarie, i patti del nazareno, le grandi intese e, soprattutto, la mia disfatta al Congresso?
Ora, preparo i bagagli: Nichi e Stefano mi aspettano a Vernazza per la campagna elettorale per Pastorino. In riva al mare, assaporando una delicata frittura di pesce che ordineremo all'unisono, dobbiamo approntare le contromisure che, come sempre, si limiteranno all'invettiva.

Il piano pd per le norme sui partiti E arriva la stretta sul dissenso interno.


Corriere della Sera 22/05/15
Monica Guerzoni
Un partito che vince anche senza alleati, realizzando il sogno veltroniano della «vocazione maggioritaria». Un partito che rafforza l’azione del governo grazie a gruppi parlamentari compatti come una falange macedone, dove i voti in dissenso sono ridotti a pochi casi di libertà di coscienza e dove chi si smarca paga pegno. «In segreteria — ha dichiarato Debora Serracchiani lasciando il Nazareno dopo la riunione — abbiamo fatto il punto sia sui numeri che sulla tenuta del Pd, che è buona ovunque». 
 Con la sua squadra Matteo Renzi non ha parlato di partito della nazione, ma ha confermato la direzione di marcia. «Fatto l’Italicum diventa urgente costruire il partito adatto alla nuova legge elettorale — spiega Giorgio Tonini —. Un Pd che si apra a nuovi apporti, da Dellai alle realtà civiche. Chi vince avrà 25 voti di maggioranza e senza un senso forte di disciplina e unità interna la stabilità è a rischio». Con l’Italicum i deputati che fanno capo a Speranza e Bersani basterebbero a buttare giù il governo. E così Renzi accelera, annunciando una «tre giorni per pensare, tutti insieme, al nostro modo di stare nel Pd». Chi vota in dissenso subisce sanzioni? Questo è il punto politico da affrontare dopo le regionali. Il premier non ha parlato di espulsioni, ma ha detto che «è ora di darci delle regole su come si sta insieme». 
 Matteo Orfini le vorrebbe stringenti e lo dice senza giri di parole: «Il Pd non prevede provvedimenti per i voti in dissenso, ma forse una riflessione dove si garantisce che il nostro partito non diventi una federazione di correnti dobbiamo farla». Su questioni etiche e materia costituzionale la libertà di coscienza sarà garantita. Su temi come scuola, lavoro o legge elettorale invece, con le nuove tavole della legge sarà più difficile smarcarsi. E qui Orfini è durissimo con Bersani e compagni: «Trovo che votare contro decisioni assunte assieme nei gruppi sia una interpretazione molto discutibile di come si sta in un partito — è il monito del presidente alla minoranza —. Soprattutto da parte di quelli che non ebbero alcuna perplessità a chiedermi, in nome della disciplina di partito, di votare la fiducia a un governo con Berlusconi». Il seminario annunciato da Renzi potrebbe non essere indolore vista la battuta con cui Nico Stumpo, di Area riformista, saluta la notizia: «Lo Statuto dobbiamo riscriverlo, ma il Pd ha già delle regole e il saggio Dei delitti e delle pene esiste già, lo ha scritto Cesare Beccaria». 
 Al Nazareno una commissione ad hoc, presieduta da Orfini e Guerini, lavora da mesi alle modifiche statutarie e agli eventuali regolamenti, un pacchetto che dovrà essere votato dall’assemblea nazionale. La commissione ha anche concluso il lavoro per una proposta di legge sui partiti in applicazione dell’articolo 49 della Costituzione, che sarà depositata martedì con le firme di Guerini, Orfini, Stumpo e De Maria. «Oltre alla trasparenza e alla democrazia, prevediamo che i partiti abbiano personalità giuridica — spiega Guerini —. Un tema dibattuto ciclicamente dai tempi della Costituente». 
 Il cuperliano Andrea De Maria è soddisfatto per «l’ottimo lavoro unitario» della commissione e si è convinto che «regole condivise per la disciplina di voto siano un elemento di chiarezza importante per tutti, forse ancora di più per chi dissente». Vista la scarsa compattezza della minoranza, il divieto di procedere in ordine sparso potrebbe togliere molti non-renziani dall’imbarazzo. In particolare al Senato, dove i voti della sinistra dissidente sono decisivi. Renzi si appresta anche a fare il tagliando alle primarie per evitare inquinamenti e a chiudere le polemiche sulla forma partito. E qui la decisione è presa. Il nuovo Pd sarà «un partito di iscritti ed elettori».