venerdì 30 ottobre 2015

Affari al Nazareno? Non è uno scoop, è un carnevale


Fabrizio Rondolino
L'Unità 30 ottobre 2015
Il Fatto mette nel mirino l’editore dell’Unità, con un articolo tutto titolo e niente arrosto.
E niente, ci hanno beccati. Pensavamo di farla franca, convinti che l’arroganza del potere l’abbia sempre vinta, e invece no: infilzati come tordi e messi nel sacco dalla libera stampa. I loschi traffici dell’Unità sono finalmente svelati. Oggi il Fatto apre con uno scoop da far tremare i polsi: “Un ufficio nella sede del Pd per trattare affari e appalti”. A dire il vero il titolo, se uno lo prendesse alla lettera, significa che al Nazareno c’è una stanza apposita dove funzionari e dirigenti si riuniscono periodicamente per spartirsi soldi e commesse pubbliche: ma il Fatto, lo sappiamo, non va mai preso alla lettera. Scrivere le cose come stanno è un vizio da cui il giornale di Marco Travaglio riesce sempre a tenersi lontano.
Così, a pagina 2, un secondo titolo riscrive il primo: “L’editore dell’Unità usa la sede del Pd per parlare di affari”. Accusa circostanziata, ma non meno grave: gli “affari” al Nazareno, dunque, non li fa la segreteria del partito, ma l’editore del nostro giornale. Pare infatti – si dice, si mormora – che due imprenditori “che vogliono per ovvie ragioni restare anonimi” abbiano raccontato di aver incontrato Massimo Pessina e Guido Stefanelli “al secondo piano del Nazareno, in una stanza proprio di fronte a quella di Renzi”. Pare – si mormora, si sussurra – che i due anonimi imprenditori abbiano discusso non della linea editoriale del giornale, ma di “appalti”. Pare persino – sembrerebbe, forse – che i due anonimi imprenditori abbiano visto “anche il tesoriere Bonifazi che incrociava nei paraggi”. Né si può escludere – forse, può darsi, chissà – che “la stanza fosse usata anche da lui”.
Stefanelli, ad della Pessina Costruzioni e dell’Unità, ha smentito: “Facciamo i nostri incontri al primo piano, ma solo per l’Unità. Per le questioni della società di costruzione abbiamo altri uffici a via dei Gracchi”. E Patrizia Malatesta, key account manager di Pessina Costruzioni, che forse – si sussurra, parrebbe – “è stata notata nella stanza al secondo piano”, ha risposto: “Mi sembra uno scherzo”. Non è uno scherzo, è un intero carnevale: è il Fatto.


Giù il sipario....good bye

Roma, 26 dimissionari sicuri. 
Stasera il consiglio comunale decade

MARINO

Sandro Albini
30 ottobre 2015
Quando rientrò in Italia, a Palermo, all'Ospedale di Pittsburg (Stati Uniti) più d'uno stappò una bottiglia: finalmente se ne erano liberati. A Palermo ci stette un po' poi cercò spazio presso altri ospedali. Un amico, mi disse che dopo averlo visto al tavolo operatorio consigliò al suo ospedale di non assumerlo. Sulla carta il curriculum medico è di tutto rispetto, ma i fatti non confortano del tutto questa conclusione. Quindi si è dato alla politica con l'aura dell'uomo di scienza competente. La sua permanenza al Senato della Repubblica non ha lasciato gesta memorabili. Poi l'avventura da Sindaco di Roma. Più volte, in tempi non sospetti, ho avuto modo di avvertire che l'uomo è un bluff: tante chiacchiere, molto fumo, poco arrosto e qualche comportamento disinvolto di troppo. Alla fine è emersa la sua inconsistenza sotto ogni profilo fino alla ignomignosa farsa delle dimissioni. Attenzione: l'uomo è un vanaglorioso e livoroso, continuerà a fare danni anche risolta la vicenda capitolina.

giovedì 29 ottobre 2015

Castagnetti: “Il compromesso fu un’innovazione”


Mario Lavia
L'Unità 24 ottobre 2015
Pierluigi Castagnetti: “La scelta dell’incontro con la Dc aveva un obiettivo grande: salvare la democrazia italiana Berlinguer puntava a superare il sistema bloccato e aveva capito che Moro coltivava lo stesso progetto”. «Non condivido tutto dell’articolo di Biagio de Giovanni, anche se capisco che più passa il tempo e più cominciano a emergere i limiti della strategia di Berlinguer, di cui è sempre giusto valorizzare la figura». Pierluigi Castagnetti è molto sollecitato dall’analisi del filosofo napoletano che sull’Unità ha aperto la discussione sul leader del Pci. Uno con la sua storia certo è sensibilissimo al tema del rapporto con i cattolici, il compromesso storico, la questione morale: ma a Castagnetti, protagonista da tanti anni della vita politica, non sfuggono anche aspetti più legati alla vicenda del comunismo italiano, vicenda peculiare, ricca e controversa.
Partiamo proprio dal comunismo, onorevole Castagnetti, da quel comunismo entro i cui confini, seppure in modo originale, Berlinguer rimase fino all’ultimo. E che malgrado le aperture dell’ultimo periodo lo tennero distante dalle esperienze riformiste europee. De Giovanni mi pare sia molto critico su questo punto.
«Intanto voglio sottolineare che i ritardi non furono solo di Enrico Berlinguer ma di tutto il Pci, soprattutto sul comunismo dell’est ma non solo. Più in generale io penso che su molte cose Berlinguer esitò perché non tutto il suo partito lo avrebbe seguito. Ma per stare alla questione che mi pone, certamente il 1989 è accaduto senza che il Pci se ne accorgesse, basterebbe dire che il Muro è crollato addosso al Pci per dire del suo ritardo e della profondità della sua crisi. Lui era un uomo della sua epoca, certo, ma anche quando intravide qualcosa di nuovo preferì tirare il freno a mano. Non c’è dubbio che faticava a capire la logica del mercato e della liberaldemocrazia, restando per questo diffidente verso la socialdemocrazia. Direi che in un certo senso Berlinguer era più comunista di Togliatti, aveva ancora più netta l’idea della presenza di una diversità comunista nella storia d’Italia».
Una diversità persino antropologica, si disse. Che si sposava bene con le caratteristiche personali dell’uomo: ma non fu proprio questo un motivo del suo fascino intellettuale?
«Si è parlato di Berlinguer quasi come di un’asceta della politica. In questo vedo una somiglianza con Benigno Zaccagnini: nel distacco dall’interesse personale, in questa concezione quasi “missionaria” della politica, nella coerenza fra essere e apparire. Un tratto che mi ha sempre molto colpito».
Tra l’altro questo tessuto “personale”, questo modo di vivere la politica, probabilmente ha avuto un ruolo importante anche nella teoria dell’incontro fra comunisti e cattolici, le due grandi componenti della società italiana che avrebbero dovuto unirsi nel grande “compromesso”. Regge alla critica, oggi, il compromesso storico?
«Ho visto che de Giovanni ne dà una lettura molto critica. Lui scrive che lì non c’era un’idea di futuro. Ma io su questo difendo Berlinguer. Quella scelta, che aveva una sua corrispondenza con il pensiero di Moro, era il frutto di un’adesione al principio di realtà, era fortemente ancorata al momento storico. Un progetto politico non può non tenere conto della situazione concreta. E in quella fase Berlinguer diceva che salvare la democrazia italiana era un obiettivo grande, e in effetti dopo la Resistenza era la prima volta che il Pci si faceva carico di difendere il patrimonio repubblicano, anche a costo di scontare forti critiche alla sua sinistra».
Ma detta così non era un’impostazione difensiva? O addirittura conservatrice?
«In parte è vero che era un conservatore, ma il suo disegno era profondamente innovatore. Per questo non condivido il giudizio di de Giovanni. Berlinguer voleva costruire le condizioni per superare la fase in sui si trovava allora il sistema politico, quella che Leopoldo Elia chiamava “la democrazia ad excludendum”, in vista di un progressivo compimento della democrazia italiana. E aveva capito che Moro coltivava lo stesso progetto, quello di costruire una democrazia nella quale si compete liberamente per il governo. Infatti Moro spingeva perché il Pci facesse altri passi avanti nel senso di assumere pienamente una cultura di governo. Il disegno era profondamente innovatore».
Quindi il compromesso storico era una fase intermedia?
«Si trattava di creare le condizioni per mettere mano a una riforma delle istituzioni capace di garantire l’alternanza. Avendo chiuso per sempre con l’idea rivoluzionaria, il Pci aveva capito da tempo che il potere lo si acquisisce con il consenso, capì meno che occorrono anche istituzioni che ti consentano di arrivarci. Ma il compromesso storico era una giusta intuizione anche perché se il Pci si fosse alleato con i socialisti contro la Dc si sarebbe creato non dico un rischio “cileno” ma certo un grande problema non solo internazionale, perché la Dc era una forza reale nella società italiana».
Alla fine degli anni Settanta però quella strategia viene messa da parte. Castagnetti, lei era molto vicino a De Mita in quegli anni: cosa pensavate dell’ultimo Berlinguer?
«Berlinguer oggettivamente si chiamò fuori dal dibattito di quegli anni che fu tutto fra De Mita e Craxi che litigavano sul tipo di modernizzazione del Paese. De Mita accusò il segretario del Pci di isolarsi e capì che il Pci stava entrando in crisi. Ucciso Aldo Moro, Berlinguer si tirò fuori dal gioco ma rimase senza gioco».
Tuttavia allora ci fu la famosa intervista sulla questione morale che fornì una forte immagine del segretario del Pci.
«Quello fu un discorso rigoroso, suggestivo soprattutto per tanti giovani cattolici. Però ebbe un limite, secondo me, e cioè che lui sembrò farne un discorso di etica personale, di onestà amministrativa, e invece smarriva l’idea di un’etica del sistema, e qui ancora una volta si torna sul tema delle riforme istituzionali. Come si vide dieci anni dopo, la corruzione non era solo un fatto di correttezza individuale ma un problema di riforme del sistema delle regole. Ecco perché la questione morale di Berlinguer venne vista come un’accusa moralistica più che come indicazione politica. E lo stesso si può dire dell’austerità».
La famosa critica di un Berlinguer pauperista…
«Esatto. Anche in quella occasione non prevalse il messaggio politico generale ma la predicazione di un certo modo di essere».
Non crede che forse Berlinguer si aspettasse di più, un maggiore sostegno, dal mondo cattolico democratico? In fin dei conti, quel “muro” tutto italiano non crollò.
«Come Togliatti, anche lui colse l’imprescindibilità della questione cattolica. Ma si badi che a suo modo pure Craxi, che mai la chiamò “questione cattolica”, con la revisione del Concordato di fatto finì per riconoscerla, eccome… Il segretario del Pci aveva molte sollecitazioni, da Tatò a Rodano, e aprì quel famoso dialogo con monsignor Bettazzi, nel quale però forse non fece il passo decisivo: scrivendo che “il Pci non era teista, né antiteista, né ateista” Berlinguer rivelava una certa indifferenza ideologica, anche se non morale. Capì l’importanza del ruolo della religione nella storia di un popolo e la forza ideale della Chiesa, cercò di far superare i pregiudizi dell’elettorato cattolico, ma l’esito di questo sforzo non fu all’altezza della sua ambizione perché fu fatto con troppa timidezza. Voglio dire che l’occasione dello scambio di lettere con monsignor Bettazzi poteva essere utilizzata meglio, poteva forse fare un salto di elaborazione più deciso. Ha visto la strada ma l’ha percorsa con troppa timidezza. Ma evidentemente le condizioni del suo partito, insisto su questo punto, non glielo consentirono».
Questo vale anche sul piano ideologico generale?
«In Berlinguer c’era la consapevolezza della necessità di andare avanti ma gli mancò la forza, per usare un’espressione di Martinazzoli, di un “ricominciamento”. Un nuovo inizio che implicasse anche il saper andare alla radice della storia iniziata nel 1917. Ma di Enrico Berlinguer resta la lezione di una grande personalità politica, di un uomo profondamente coerente».

Carte, cartellini e lotta di classe

Attilio Caso
29 ottobre 2015 
Assistiamo con disappunto e raccapriccio a questa nuova epifania della profonda deriva turboliberista cui noi faremo barriera. Questa aggressione ai lavoratori, che si consuma da parte dell'opinione pubblica e dei media, sempre pronti a sostenere la linea del governo filoamericanista, è indegna. Noi a queste lapidazioni diremo sempre: "No". Questa tendenza a considerare come lavoro la presenza produttiva in servizio troverà ogni resistenza possibile della vera sinistra. Anzi, noi ci mobiliteremo affinché da vittime di ostracismi renzisti questi lavoratori possano diventare le bandiere della sinistra bella e migliore. Infatti, come non ammirare la loro Resistenza? Come non riconoscere loro l'eroico slancio verso la sospensione dell'attivismo e della cupa coazione a timbrare un cartellino e poi sottomettersi all'idea stessa di un greve lavorare? Noi siamo per la leggerezza di un'innocente evasione dal neoliberismo. Timbrare in mutande, postare su Facebook attacchi al renzismo mentre si fa la spesa durante l'orario di lavoro e giocare a calcio mentre il pensiero dominante nazareno e verdinista prevederebbe che "ci si guadagni lo stipendio" sono gesti di sublime ribellione.
Pippo condivide, Stefano approva, Corradino, Felice e Alfredo vorrebbero cambiare diverse virgole a questo mio intervento, altrimenti lasciano anche questo gruppo, ed io li conduco ad un nuovo inizio. Stasera, ci incontriamo a cena per organizzare la nuova formazione della Sinistra Migliore e Bella. La serata si aprirà con un intervento di Luciano sul tema: "La carta di credito: la lotta per l'emancipazione delle masse è iniziata con un simulacro di plastica per liberare l'uomo dalla pesantezza del volgare contante." Poco importa che molte persone che guadagnano mille euro al mese non abbiano la carta di credito: noi la abbiamo e guadagnano di più. Molti nostri commensali comunque per le prestazioni professionali accettano il contante e anche il contante sopra i diecimila euro, spesso in nero. Perché la lotta di classe ha comunque dei limiti.

mercoledì 28 ottobre 2015

Uno spettacolo di sorrisi pazienti Expo e l’elogio della normalità


Beppe Severgnini
Corriere della Sera 28 ottobre 2015
Expo 2015 se ne va: cosa ci ha insegnato? Qualcosa sulla nutrizione del pianeta, certo. Parecchio sulle possibilità di Milano. Molto sulla forza dell’ideologia.
Sono in arrivo ondate di riassunti, giudizi, bilanci, analisi ed esegesi. Preparatevi a nuotare tra i numeri e cercate di non affogare tra i commenti. La chiusura di Expo, tra pochi giorni, permetterà ai lavoratori di lavorare (bisogna smontare), ai vanitosi di vantarsi (non hanno mai smesso), ai calcolatori di calcolare (spese e ricavi, ci fate sapere?), ai programmatori di rilevare la mancanza di programmazione (quale futuro per il Decumano?). Ma fornirà anche l’occasione di sintetizzare. Expo 2015 se ne va: cosa ci ha insegnato? Qualcosa sulla nutrizione del pianeta, certo. Parecchio sulle possibilità di Milano. Molto sulla forza dell’ideologia. Mercoledì abbiamo chiesto a Beppe Sala, davanti a CasaCorriere: «Qualcuno dei tanti che avevano previsto il naufragio di Expo s’è fatto vivo per scusarsi?». Essendo educato, e per di più esausto, il Commissario Unico ha cambiato discorso. Abbiamo imparato — tutti insieme — anche un’altra cosa. Tra tutte, la più importante. Il vero spettacolo di Expo, da maggio a ottobre, non sono stati i vetri, le terrazze, gli schermi, gli incontri e i convegni.
Il vero spettacolo sono state le gambe — circa quarantadue milioni, secondo le ultime stime — che per sei mesi si sono incamminate, messe in fila, spostate, stancate. Sono le facce stupite e gli occhi al cielo, i sorrisi pazienti e le bocche stanche di assaggi e di commenti. Gambe, facce, occhi, bocche e sorrisi italiani, in maggioranza. Chi ha visitato Expo con amici stranieri — soprattutto negli ultimi due mesi, quelli della grande ressa imprevidente — ha notato la loro ammirazione. Per quello che abbiamo fatto, certo. Ma anche per quello che non abbiamo fatto. Non ci siamo scoraggiati (davanti agli scandali prima, alle code poi); non ci siamo lamentati (abbiamo occasionalmente protestato, è diverso); non ci siamo picchiati e insultati; non ci siamo ubriacati; non abbiamo trasformato Expo in un deposito di bottiglie e rifiuti, come succede a tanti quartieri europei dopo la festa. È normale!, diranno molti. Vero. Ma la normalità resta la méta italiana, quella che ancora ci sfugge. Siamo i campioni mondiali dei bei gesti, ma facciamo fatica a trasformarli in buoni comportamenti: quelli che segnano le società, che semplificano la vita, che costruiscono il benessere. A Expo è successo: ci siamo comportati bene. Tutto il resto, viene dopo.

Tsipras nemico del popolo, obbedisce ai creditori e risolleva la Grecia


Fabrizio Rondolino
L'Unità 28 ottobre 2015
Per il Fatto il premier ellenico “uccide la sinistra”: un vero rivoluzionario non può accettare che le cose vadano bene
I volenterosi ragazzi del Fatto proprio non riescono a farsene una ragione: il cammino della Grecia verso la normalità – per quanto difficile, incerto, faticoso – li fa letteralmente imbestialire. “Tsipras uccide la sinistra”, avevano sobriamente titolato all’indomani delle elezioni. Oggi l’analisi si fa più raffinata: “Quelli di sinistra-sinistra sono tornati a dire che Tsipras è il migliore dei leader possibili; quelli di destra (tipo il Pd) dicono la stessa cosa perché la dice Renzi; Obama è contento; gli altri se ne fregano”.
Non tutti, però: i Guardiani della Rivoluzione che presidiano il Fatto fortunatamente si mantengono vigili e aprono il fuoco contro il rinnegato Tsipras, reo di aver “cominciato a obbedire ai creditori”. Non sia mai! Se devo dei soldi a qualcuno, è chiaro che lo devo ricoprire di insulti, e se insiste lo riempio anche di botte: così fanno i veri rivoluzionari da che mondo è mondo. Chi paga i debiti, o anche soltanto si azzarda a dichiarare che li pagherà, è un menscevico, un nemico del popolo, un sicario del capitale.
E che cosa sta succedendo in Grecia ora che Tsipras ha tradito la rivoluzione? Il Fatto descrive un paese devastato, lacerato, fuori controllo: e se riproponiamo qui le parole del giornale di Travaglio è soltanto per amore di verità, e per mettere in guardia tutti dai pericoli che corre chi “comincia a obbedire ai creditori”. “I tassi sul debito si sono abbassati molto”: un disastro! “Le banche saranno ricapitalizzate e lo stato dei bilanci è migliore del previsto”: una catastrofe! Il governo ha firmato un protocollo con l’Ue per avviare “riforme strutturali” nel fisco, nella sanità, nel welfare, nel lavoro, nella gestione della spesa pubblica: una vergogna!
Insomma, tutto va per il meglio: e questo, per un vero rivoluzionario, è davvero intollerabile.

ControcooptatoCorradino...

"..... è vero che ho votato troppe volte in dissenso: su scuola, riforma costituzionale, Italicum, Jobs act, Rai..."
Corradino 

ndr
Mineo è uscito da un partito di cui non aveva mai preso la tessera, a cui non aveva mai versato un euro al partito che lo ha eletto e dopo aver votato NO al 99% delle sue proposte in Senato.
riccardo

venerdì 23 ottobre 2015

Perché Sanremo è Sanremo


Massimo Gramellini
La Stampa 23 ottobre 2015
Se un dipendente pubblico dichiara di essere in ufficio senza esserci commette un reato. Ma se a dichiarare il falso sono in duecento, quasi la metà della forza lavoro del Comune di Sanremo, la strisciata collettiva di cartellini taroccati che cosa diventa? Una prassi. La costituzione non scritta di questa repubblica fondata sul livore per le ruberie altrui, ma dove si ruba pacificamente ovunque, mica solo all’Anas. La repubblica delle BanAnas. Per farne parte occorre avere la faccia come il badge. Come il vigile che timbra il cartellino in mutande e scompare nella nuvola dei fatti suoi. Come lo stakanovista della canoa che si segna lo straordinario e poi va a pagaiare, e magari si lamenta dei politici senza nemmeno essere attraversato dal sospetto di appartenere a una casta anche lui. Come il funzionario animato da nobili intenti educativi che manda la figlia a timbrare al posto suo e la povera fanciulla, volenterosa ma inesperta, striscia quattro volte il cartellino prima di imparare a truffare lo Stato. Come l’impiegata che passa nella macchinetta il proprio badge e quello di un paio di amiche con la naturalezza di chi oblitera il biglietto della metropolitana, mentre i colleghi in coda dietro di lei fingono di non vedere o si accingono a fare lo stesso. 
La malattia è talmente diffusa che i malati non sanno più di esserlo e i medici stanno peggio di loro. Forse qualche licenziamento in tronco potrebbe rinfrescare la memoria a tutti quanti. Perché Sanremo è Sanremo, cuore pop dell’Italia intera, ma se le telecamere nascoste venissero piazzate su qualsiasi altro palco del Belpaese lo spettacolo non sarebbe più allegro.

Marino, deciditi e stai attento alle illusioni ottiche


Marco Lavia
L'Unità 23 ottobre 2015
Il sindaco dimissionario tiene ancora tutti sulla corda
Della vicenda romana l’unica cosa indiscutibile è che Ignazio Marino sta dimostrando una tenuta umana e politica non comune: giorno dopo giorno si dimostra capace di tenere la scena tenendo tutti col fiato sospeso. Si dimette? Non si dimette? La suspence cresce: ma proprio su questo modo di fare c’è molto da discutere.
Marino infatti ha già tutti gli elementi per decidere. Il suo partito lo ha politicamente sfiduciato. Un po’ di romani gli chiedono di restare ma a quanto pare la maggioranza è di tutt’altro avviso (oggi il sondaggio Ixé per Agorà segnala che l’ipotesi che Marino ritiri le proprie dimissioni non piace al 69% degli intervistati mentre per il 27% ha il diritto di ripensarci). Con la velocità con la quale oggi le notizie appaiono e scompaiono, di Marino sindaco si parla ormai al passato.
Tenuto conto di questi e altri elementi, Marino dovrebbe decidersi.
Eppure il sindaco-ex sindaco tiene ancora tutti sulla corda e anzi contrattacca, come ha fatto nella sua intervista a Repubblica. Nella quale sono contenute due cose sulle quali vale la pena soffermarsi.
La prima è la volontà di partecipare alle primarie del Pd (“Se ci saranno”). Non si potrebbe certo impedirgli di partecipare, e anzi la sua presenza porrebbe il Pd al riparo nelle “secondarie”, cioè alle elezioni comunali vere, in quanto Marino non potrebbe presentare una sua lista nel caso non improbabile in cui venisse sconfitto da un altro candidato.
La seconda cosa è più ravvicinata. Marino è molto soddisfatto per la petizione con la quale i suoi sostenitori gli chiedono di ritirare le dimissioni (oltre 50mila) e confida molto nella manifestazione di domenica al Campidoglio. Sta bene. Tuttavia egli non dovrebbe farsi abbacinare dall’illusione ottica dei numeri: 50mila firme non sono poche ma non sono nemmeno tantissime per un uomo che alle elezioni prese 500mila voti. E un migliaio di persone nella non enorme piazza michelangiolesca garantiranno un bel colpo d’occhio, certo. Ma non molto di più.

Zagrebelski e quell’allegro invito al suicidio di massa


Fabrizio Rondolino
L'Unità 23 ottobre 2015
Il Fatto anticipa stralci dell’operetta del giurista che tende al catastrofismo
Il Fatto prosegue oggi l’interessante rassegna bibliografica degli apocalittici perfettamente integrati, aperta ieri con un’anticipazione del nuovo saggio di Marco Revelli contro Renzi, recensendo l’ultima fatica di Gustavo Zagrebelsky contro Renzi.
L’operetta, intitolata “Moscacieca”, è un allegro invito al suicidio di massa: “Contrasti e conflitti scoppiano qua e là, minacciano esplosioni sempre più grandi e mirano al cuore del mondo che abbiamo costruito. Il pensiero vacilla. Il caos inghiotte la comprensione e la volontà si smarrisce”.
Meno male che c’è Zagrebelsky, il quale, per nostra fortuna, mantiene la sua proverbiale lucidità d’analisi e proprio come quei predicatori della fine del mondo che impazzano sulle tv locali americane denuncia senza timore né tremore il Demonio: la “forza devastatrice e nichilista” del denaro che, maledetto sia nei secoli, “ricerca la crescita e l’accumulazione” e “anche se ateo e nichilista può essere assimilato ad una religione, con la sua ortodossia di cui la moneta è il simbolo”.
In attesa di tornare al baratto, Zagrebelsky punta il dito contro gli ottimisti, di cui il nostro Renzi è un esempio paradigmatico: “Sembra che l’assurgere ai posti di governo sia per loro l’appagamento di un’ambizione che riempiono di allegra spensieratezza e di retorica felicità fatta di niente, che fluttua per tentare di durare ancora sempre un giorno di più in attesa della catastrofe, senza alcun serio, costante, coerente e maturo impegno per un’opera degna della parola politica”.
Il Gran Sacerdote della Sfiga ha pronunciato la sua inappellabile sentenza: provare a vivere è una colpa mortale, una bestemmia contro la religione della catastrofe, un attentato imperdonabile alla metafisica onanistica delle rovine.
Professore, dia retta, esca qualche volta di casa, si faccia una passeggiata, prenda un po’ d’aria fresca, e magari alzi gli occhi al cielo: scoprirà che è ancora azzurro.

Sanremo: i "Furbetti del cartellino"? Tra i più accaniti anti casta. C'è chi si vergogna dei politici corrotti e chi si lamenta di "Mantenere i maiali a Roma"


Sanremo News 23 ottobre 2015
C'è chi si spinge oltre e cita l'astrofisica Margherita Hack con una frase pronunciata a proposito della morale: "Non è necessario avere una religione per avere una morale! Perché se non riesci a distinguere il bene dal male, quella che manca è la sensibilità, non la religione!"
"Io non mi vergogno di essere italiano, mi vergogno solo di essere rappresentato da politici condannati e corrotti che saccheggiano ogni santo giorno uno dei paesi più belli del mondo". Questa frase la si può trovare sul profilo Facebook di una delle persone agli arresti domiciliari da ieri mattina per via dell'operazione Stachanov che ha portato a 43 arresti (35 ai domiciliari, 8 di loro dovranno presentarsi alla Polizia Giudiziaria), effettuati dalla Guardia di Finanza coordinata dalla Procura della Repubblica.
Ma non è l'unica. Sono diversi infatti i dipendenti pubblici tra i "Furbetti del cartellino", immortalati dalle telecamere nascoste installate dai militari, che sul proprio profilo Facebook si sono sfogati contro la cosiddetta "casta" di politici. Un altro tra gli arrestati pubblica una vignetta che raffigura un bambino che chiede al padre: "Papà, tu la paghi la tassa sugli animali?". "Ma certo! - risponde il padre - Con tutti i maiali che mantengo a Roma...".
C'è chi si spinge oltre e cita l'astrofisica Margherita Hack con una frase pronunciata a proposito della morale: "Non è necessario avere una religione per avere una morale! Perché se non riesci a distinguere il bene dal male, quella che manca è la sensibilità, non la religione!". C'è chi cita Giovanni Falcone e chi pubblica un post in cui un uomo seduto su una sedia annuncia che passerà una giornata come un politico, cioè non farà un c....
C'è anche chi posta il video di un discorso della Senatrice del MoVimento 5 Stelle Paola Taverna che rimprovera il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, di non aver mai lavorato nella propria vita.

«I tempi cambiano e i cristiani devono cambiare continuamente»

Domenico Agasso jr
LA Stampa 23 ottobre 2015
Il Papa a Santa Marta: bisogna leggere i segni della contemporaneità, discernere restando fedeli al Vangelo, senza cedere al conformismo.
I credenti sono chiamati a leggere i segni dei tempi e a cambiare di conseguenza, restando sempre fedeli al Vangelo. È l’esortazione di papa Francesco, che questa mattina nell’omelia della Messa a Casa Santa Marta ha riflettuto sul discernimento che la Chiesa deve attuare guardando la contemporaneità, ma senza cadere nella comodità del conformismo, invece lasciandosi sempre ispirare dalla preghiera. Lo riferisce Radio Vaticana.
Il Pontefice ha sviluppato la predica dalla Lettera ai Romani di San Paolo, il quale invoca con «tanta forza la libertà che ci ha salvato dal peccato», e dal brano del Vangelo nel quale Cristo si sofferma sui «segni dei tempi» dicendo che sono ipocriti coloro che sanno capirli ma non provano allo stesso modo a comprendere il tempo del Figlio di Dio.
La certezza è che i tempi cambiano, il dovere per i cristiani è comportarsi come vuole Gesù: valutare il presente e cambiare restando «saldi nella verità del Vangelo», ha affermato Francesco. Ma questo non vuole dire essere tranquillamente conformisti e dunque rimanere immobili.
Il Signore ha creato gli uomini liberi e «per avere questa libertà dobbiamo aprirci alla forza dello Spirito e capire bene cosa accade dentro di noi e fuori di noi». Come? Con il «discernimento». «Abbiamo questa libertà di giudicare quello che succede fuori di noi – ha spiegato il Papa - Ma per giudicare dobbiamo conoscere bene quello che accade fuori di noi. E come si può fare questo? Come si può fare questo, che la Chiesa chiama “conoscere i segni dei tempi”? I tempi cambiano. È proprio della saggezza cristiana conoscere questi cambiamenti, conoscere i diversi tempi e conoscere i segni dei tempi. Cosa significa una cosa e cosa un’altra. E fare questo senza paura, con la libertà».
Papa Bergoglio ha riconosciuto che non è «facile», perché sono tanti i condizionamenti e le tentazioni esterni che inducono i cristiani a un più comodo «non fare»: «Questo è un lavoro che di solito noi non facciamo – ha osservato - ci conformiamo, ci tranquillizziamo con “mi hanno detto, ho sentito, la gente dice ho letto…”. Così siamo tranquilli… Ma qual è la verità? Qual è il messaggio che il Signore vuole darmi con quel segno dei tempi? Per capire i segni dei tempi, prima di tutto è necessario il silenzio: fare silenzio e osservare. E dopo riflettere dentro di noi. Un esempio: perché ci sono tante guerre adesso? Perché è successo qualcosa? E pregare… Silenzio, riflessione e preghiera. Soltanto così potremo capire i segni dei tempi, cosa Gesù vuol dirci».
Francesco ha anche avvertito: a capire i segni dei tempi non è chiamata solo «un’élite culturale». No: Cristo non dice «guardate come fanno gli universitari, guardate come fanno i dottori, guardate come fanno gli intellettuali…»; tutt’altro: parla ai contadini che «nella loro semplicità» sono in grado di «distinguere il grano dalla zizzania».
Dunque «i tempi cambiano e noi cristiani dobbiamo cambiare continuamente», è l’invito del Papa, «dobbiamo cambiare saldi nella fede in Gesù Cristo – ha precisato - saldi nella verità del Vangelo, ma il nostro atteggiamento deve muoversi continuamente secondo i segni dei tempi. Siamo liberi. Siamo liberi per il dono della libertà che ci ha dato Gesù Cristo. Ma il nostro lavoro è guardare cosa succede dentro di noi, discernere i nostri sentimenti, i nostri pensieri; e cosa accade fuori di noi e discernere i segni dei tempi. Col silenzio – ha ribadito in conclusione - con la riflessione e con la preghiera».

fantamadrechiesa...


sabato 17 ottobre 2015

La nuova ossessione del Fatto: le pizze di Renzi


Fabrizio Rondolino
L'Unità 17 ottobre 2015
In prima pagina le date scompaiono, il tempo s’annulla, e le cene del 2015 con Agnese e i figlioli diventano magicamente quelle del 2007 con gli interlocutori istituzionali
Definire “inchiesta” la nuova ossessione del Fatto per gli scontrini di Renzi è un po’ come dare del maratoneta al criceto che corre felice nella sua ruota, e quando ha finito di correre s’accorge, o forse no, di essere esattamente al punto di partenza. I criceti di Travaglio sono però più maliziosi, e non s’accontentano di una foglia di lattuga: pretendono di tagliare il traguardo, e se il traguardo non esiste se lo inventano con ingenua disinvoltura.
“I rimborsi di Renzi: pizzeria sotto casa e notti al Raphael”, spara oggi in prima pagina l’organo dei criceti. Andiamo subito a leggere: “Il gestore del Far West di Pontassieve: ‘Viene con la famiglia, mai visto con politici o collaboratori’. Ma nelle ricevute si parla di ‘organi consolari’ e ‘parlamentari’.” Dunque Renzi ha mentito, ha detto il falso, ha imbrogliato? Macché, sono i criceti a imbrogliare: perché, se qualche volenteroso lettore si prende la briga di leggere anche l’articolo, scopre che le cose stanno in tutt’altro modo. “Matteo viene qui dal 1979 – racconta Maurizio Mandola, il proprietario della pizzeria –, l’ho visto crescere come ho visto crescere i suoi figlioli”. E aggiunge: “È stato qui anche sabato”. Con chi?, chiede il criceto. “Ha preso le pizze ed è andato a casa”, risponde Mandola. E precisa: “Viene con i figli, la moglie”. “Impossibile – scrive il criceto in un sussulto di onestà che dev’essere sfuggito al direttore – chiedere al ristoratore uno sforzo di memoria fino al 2007, quando Renzi usa la carta di credito della Provincia per pagare sette cene, quasi tutte di lunedì sera e per un massimo di quattro commensali”.
Ricapitoliamo: nel 2007, cioè otto anni fa, Renzi ha cenato sette volte al “Far West” a spese della Provincia (in tutto “poco meno di 300 euro”). Le ricevute citate dal Fatto parlano di “organi consolari” e “parlamentari”. Il ristoratore non ricorda, ma dice che oggi (oggi, non otto anni fa) Renzi la pizza la mangia con la famiglia. In prima pagina le date scompaiono, il tempo s’annulla, e le cene del 2015 con Agnese e i figlioli diventano magicamente quelle del 2007 con gli interlocutori istituzionali. Facile, no?
C’è poi l’accusa infamante di aver dormito al Raphael, “l’hotel extralusso di Craxi”, e per di più, una volta, con il suo capo di gabinetto Luca Lotti, e addirittura in stanze separate, spendendo cifre incredibili: “da 200 a 350 euro a notte”. Non sappiamo se il criceto abbia mai dormito in albergo, o se preferisca le panchine della stazione, ma possiamo rassicurarlo: il prezzo, per un hotel della capitale, è decisamente popolare. Anzi, ci viene il dubbio che a Renzi abbiano fatto lo sconto: e speriamo che presto il criceto ci riveli in cambio di quali inconfessabili favori.

venerdì 16 ottobre 2015

Leva Nord


Massimo Gramellini
La Stampa 16 ottobre 2015
Durante una manifestazione di protesta delle forze dell’ordine a cui ha partecipato indossando una divisa taroccata della polizia (rabbrividisco all’idea di come si presenterebbe a una manifestazione di protesta delle conigliette di Playboy), il felpato Salvini ha proposto di reintrodurre il servizio militare obbligatorio «per insegnare a qualche ragazzo come si rispetta il prossimo». Lo diceva già mia nonna e nel ricordarlo non intendo mancare di rispetto né a lei, né a Salvini, né tantomeno al prossimo, ma solo rimarcare la persistenza nel tempo di certe profonde intuizioni: non ci sono più le mezze stagioni, si stava meglio quando si stava peggio e, appunto, ai giovani d’oggi servirebbe una bella guerra. Sulla scia di mia nonna, anche il felpato è convinto che la rigida disciplina dell’esercito e una raffica di piegamenti in cortile al primo accenno di ribellione forgerebbero una generazione educata, rispettosa e senza tanti grilli per la testa. La tesi è interessante e andrebbe sperimentata con qualcuno che corrisponda all’identikit. Qualcuno che disprezzi chi non la pensa come lui, reagisca alla complessità della vita sparando il primo slogan scontato (purché reazionario) che gli passa per la testa, irrida i deboli e sfrutti la rabbia dei frustrati, vellicando il loro punto debole con sparate demagogiche. Qualcuno, insomma, che dimostri ogni giorno di non avere alcun rispetto per il prossimo. 
Più ci penso e più mi sembra un’ottima idea quella di reintrodurre il servizio militare obbligatorio per Salvini. 

giovedì 15 ottobre 2015

....fuori dal mondo...

I Cinquestelle escono dall'aula quando parla Ban Kii-Moon. Forse l'ONU non fa abbastanza contro le scie chimiche
Scintille
L'Unità 15 ottobre 2015

Il regime trionfa: anche il Fatto diventa renziano


Fabrizio Rondolino
L'Unità 15 ottobre 2015
Travaglio di’ qualcosa: la presentazione del viaggio del premier in Sudamerica rasenta il culto della personalità
Oggi siamo proprio sconcertati, e seriamente preoccupati per i destini della democrazia in Italia: anche il Fatto è diventato renziano. Le peggiori previsioni di Travaglio si sono avverate, e proprio in casa sua: il regime trionfa, la deriva autoritaria s’è compiuta.
Leggiamo a pagina 6 un articolo sull’imminente viaggio del presidente del Consiglio in Sudamerica, e l’Unità al confronto pare grillina: “Il viaggio è in grandissimo stile: sul jet saliranno i rappresentanti delle più importanti aziende italiane”. Per fare un po’ di baldoria a spese del contribuente? Macché, “gli imprenditori pagheranno il passaggio sul volo di Stato”, ci rassicura il Fatto, e “lo scopo di palazzo Chigi è chiarissimo: mettere il cappello nella parte del continente sudamericano che, non facendo parte del Mercosur, ha gli accordi di libero scambio più favorevoli per l’Europa”. Ma dai, non ci credo. Il Fatto però insiste: “il Cile, che è il paese più in crescita del Sud America, è considerato il fulcro del viaggio. Buone speranze anche per la Colombia e soprattutto per Cuba, che, con il nuovo corso, offre possibilità infinite”. Qui si sta esagerando. E invece: “La concorrenza è già fitta, ma fa niente”. Inarrestabile Renzi!
“Proverà – tifa entusiasta il Fatto – a far passare mediaticamente l’aspetto simbolico-politico e quello affaristico della missione”. Daje! “In ognuno dei quattro paesi ci sarà un forum con gli imprenditori”, sottolinea l’articolo. E precisa che “tra le mete clou c’è l’inaugurazione all’Osservatorio Paranal di una centrale geotermica Enel, azienda molto presente in Cile”. E i bambini felici regaleranno mazzi di fiori al premier? “E’ la prima volta – il Fatto non ha voglia di scherzare, qui è in gioco la Nazione – che un premier italiano fa una missione così in Sudamerica”. La prima volta in centocinquant’anni di storia! “E Renzi, che sui primati è competitivo, di certo ci vede una motivazione in più per partire”. Siamo ormai al culto della personalità, ci arrendiamo impotenti.
E come ci va, Renzi, in Sudamerica? Che domande! A bordo del “nuovo gioiellino aereo, che si compone di una camera in cui lavorare col suo staff, e il wi-fi a bordo”. Ma quant’è fico il nostro premier: ha persino il wi-fi a bordo. Travaglio, ti prego, di’ qualcosa.

Il finanziamento ai partiti, il bue e l’asino


Ivan Scalfarotto
15 ottobre 2015
Appunti, Attività parlamentare, Democrazia, Partito Democratico, Politica italiana, XVII Legislatura
Prima di andare a dormire ieri sera ho avuto ancora il tempo di vedere il Senatore Alberto Airola di Cinque Stelle – uno che nell’aula del Senato nobilita il proprio laticlavio urlando permanentemente cose qualunque (tipo “laaaaaaaaadri” oppure “vergoooooogna”) con le mani a imbuto sulla bocca – ospite di Bianca Berlinguer a Linea Notte. Era lì per criticare la Legge Boccadutri, approvata ieri in via definitiva al Senato. “I partiti hanno presentato i bilanci in ritardo”, “i partiti hanno preso i soldi”, “si sono fatti la sanatoria” e così via.
Ebbene, sulla legge Boccadutri ci sono alcune cose che la comunicazione ha tralasciato di dire con sufficiente chiarezza:
1. La prima è che i partiti che hanno approvato questa legge sono gli stessi che hanno abrogato il finanziamento pubblico, con un sistema a calare che lo azzererà del tutto nel 2017. Dopodiché resteranno soltanto le donazioni private e il 2 per mille.
2. E’ vero che la legge pospone il controllo sui bilanci della Commisione solo a partire dagli anni successivi al 2014, ma vero è anche che questo accade perché la Commissione non è stata in grado di fare i controlli per carenza di personale (personale che la legge Boccadutri ora le attribuisce proprio per consentirle di fare bene i controlli).
3. I partiti hanno dunque fatto tutto quello che la legge richiedeva, non sono stati inadempienti. Hanno nel frattempo sostenuto spese (per stipendi e pagamenti di fornitori) e ora non sono in grado di pagare quei terzi perché la commissione non è stata in grado di completare i controlli. Quindi a soffrire per l’inazione della commissione e la mancata erogazione dei fondi ci sono molte terze parti del tutto incolpevoli: lavoratori e fornitori.
4. I bilanci depositati dai partiti, tuttavia, non sono privi di controlli, come 5Stelle suggerisce. Essi sono certificati da società di revisione contabile con le stesse procedure, molto analitiche, previste per le società quotate in borsa. Tutta la documentazione utilizzata dalla società di revisione contabile sarò comunque depositata presso la Commissione, che sarà libera di fare tutti i controlli a campione che riterrà necessari.
4. C’è un solo partito che non deposita alcun bilancio presso la Commissione, ed è proprio il Movimento 5 Stelle. Nel non depositare il bilancio, M5S viola un preciso obbligo di legge e subisce la relativa sanzione, che è costituita dal non poter accedere ai fondi del 2 per mille e agli altri benefici previsti dalla legge.
5Stelle però dichiara di non voler accedere ai fondi del 2 per mille, e quindi considera quella che pur sempre è una sanzione per un preciso obbligo derivante da una legge dello Stato, una specie di motivo di vanto: “noi non vogliamo i fondi pubblici, quindi non presentiamo i nostri bilanci”.
In pratica, dunque, 5Stelle accusa gli altri partiti (che hanno i bilanci certificati scontrino per scontrino – e il bilancio del PD è certificato da anni, ben prima del varo della nuova legge – da primarie società di revisione contabile) di sottrarsi ai controlli. Ma dei suoi bilanci, delle sue spese, del modo in cui si finanzia, nessuno può sapere nulla. Il famoso caso del bue che diede del cornuto all’asino.

Saggezza...


I 5 Stelle si astengono sullo «ius soli» per loro c’è sempre una legge «migliore»


Massimo Rebotti
Il Corriere della Sera 15 ottobre 2015
In un mondo un po’ più lineare, di fronte a un provvedimento come lo ius soli «temperato», votato due giorni fa alla Camera, o si è favorevoli o si è contrari. Le nuove norme riguardano i figli di immigrati e prevedono che da ora in poi per diventare cittadino italiano non conti più solo «il diritto del sangue», e cioè essere nato qui da almeno un genitore italiano, ma anche «il diritto del suolo e della cultura», cioè vivere e aver completato nel Paese almeno un ciclo scolastico. Insomma è uno di quei temi che sollecitano una scelta di campo: e infatti lo ius soli «è una conquista di civiltà» per la presidente della Camera Laura Boldrini o «una schifezza» per il leader della Lega Matteo Salvini.
Tutti i partiti hanno scelto come schierarsi tranne uno, il M5S, che si è astenuto. Hanno spiegato che la legge è «aggrovigliata», «una scatola vuota che riguarda poche persone rispetto ai 5 milioni di migranti che vivono in Italia». Ogni deputato del M5S è sicuramente in grado di spiegare perché il testo «non convince», ma di fronte alla nuda domanda — siete favorevoli o contrari al principio dello ius soli? — probabilmente cambierebbe discorso. I motivi sono due.
Il primo è che Grillo si è detto contrario. Sui temi dell’immigrazione lui e Casaleggio, che non vogliono lasciare campo libero a Salvini, hanno richiamato più di una volta all’ordine gruppi parlamentari troppo «permissivi». Il secondo è di ordine generale: i Cinquestelle, alla fine, cercano di votare il meno possibile insieme «agli altri», anche quei provvedimenti che in teoria recepiscono alcuni punti fermi del Movimento. C’è sempre una legge «migliore» a cui tendere rispetto al compromesso che viene raggiunto in Aula. Successe con il disegno di legge sulla corruzione a cui i senatori del M5S avevano a lungo lavorato insieme al Pd: prima del voto chiesero un’opinione al web e il web disse di no. Stavolta, per decidere di astenersi, non c’è stato nemmeno bisogno del referendum online tra i militanti.

mercoledì 14 ottobre 2015

I titoli del Fatto? Sembrano di “Cronaca vera”


Fabrizio Rondolino
L'Unità 14 ottobre 2015
Il fatto ricorda sempre più quella rivista stravagante degli anni Sessanta
I meno giovani ricorderanno un settimanale che negli anni Settanta faceva furore: si chiamava Cronaca vera e ogni numero aveva una storia di copertina a dir poco fantastica. “Nascosta nell’ultima fila dell’orchestra tenta di sedurre il suonatore di tamburo”, “Nel corso di una trasmissione radiofonica attore teatrale posseduto dal demonio”, “Marziano (di nome) racconta di quando ha incontrato gli Ufo”, “Con la forza della mente costringe le turiste a tagliarsi gli abiti”, “Hanno voluto farci credere che Hitler s’è suicidato”, “Condita con aceto e pepe nelle parti intime”, “Sigillata con il pan di spagna dall’esorcista dilettante”… Insomma, un vero spasso, impreziosito dall’immancabile ragazza discinta che strizzava l’occhio al potenziale acquirente.
Le donnine sul Fatto – che con Cronaca vera condivide fin dalla testata l’aspirazione all’oggettività – ancora non ci sono, ma, considerato l’inarrestabile calo di vendite, non disperiamo per il futuro.
I titoli, invece, ci sono tutti: e il numero oggi in edicola fornisce uno scoppiettante campionario di stravaganze che merita di essere riportato per intero. Si comincia con l’apertura – “I compagni Napolitano & Verdini fanno la festa alla Costituzione” – e si prosegue in un’apoteosi di fuochi d’artificio che, mescolando sapientemente il sacro al profano, coprono l’intero spettro della fantasia umana: “Il Premier della Nazione: meno scioperi, più evasione”, “Allegria, nelle città ritornano i podestà”, “Playboy diventa intellettuale: basta con i nudi”, e infine, perché non ci facciamo mancare niente, “Santità, non poteva evitarci il giubileo?”
Come diceva quel grande statista, non è bello ciò che è bello, ma che bello che bello che bello.

lunedì 12 ottobre 2015

Renzi contro Marino? E Il Fatto diventa “marinista”


Fabrizio Rondolino
L'Unità 12 ottobre 2015
La “vendetta”: la campagna sugli scontrini dell’ex presidente della Provincia di Firenze
“Dove sono gli scontrini?”. Da quando è esplosa pubblicamente l’inchiesta su Mafia Capitale, e fino a giovedì scorso, il Fatto ha ripetutamente chiesto le dimissioni di Ignazio Marino e ha più volte accusato Renzi di voler tenere in vita un’amministrazione giudicata impresentabile soltanto per il timore di perdere il Campidoglio.
Giovedì il sindaco si è dimesso, e venerdì il giornale di Travaglio s’è risvegliato marinista. Il motivo? E’ stato Renzi a dargli il benservito – il che è vero soltanto in parte, visto che la sfiducia al sindaco è venuta dalla sua giunta, da un gran numero di consiglieri e dai vertici locali di Pd e Sel –, e se Renzi fa quello che anche il Fatto gli ha chiesto da mesi, dev’esserci per forza l’imbroglio.
“Dove sono gli scontrini?”. Incerti su dove stia effettivamente l’imbroglio, i ragazzi del Fatto hanno infine deciso di buttare la palla in tribuna: e dagli scontrini di Marino sono passati a quelli di Renzi. Il sindaco avrà pure commesso qualche leggerezza, ma la sua pagliuzza è niente al cospetto della trave che ingombrerebbe l’occhio del premier quand’era presidente della Provincia e poi sindaco di Firenze.
“Cene, quel che Renzi non dice” è dunque l’apertura del Fatto di oggi. Che ieri ha intervistato Lino Amatini, “uno dei suoi ristoratori fiorentini preferiti”, e oggi, nonostante la smentita di Renzi (che ha anche precisato che “tutte le mie spese dal 2004 al 2013 sono state al vaglio di Pm e Corte dei conti”), ricomincia come se niente fosse: “Il sindaco capitolino ha dettagliato tutte le sue spese: Renzi può fare altrettanto?”.
Se ne stanno occupando fior di magistrati, gran parte delle spese sono già online da tempo, la Corte dei conti è all’opera, nulla di illecito è mai emerso, ma i contabili del Fatto insistono: “Dove sono gli scontrini?”.
Sono là dove sono sempre stati, ragazzi, a disposizione della magistratura contabile: e la prossima volta, magari, provate con qualcosa di più solido.

domenica 11 ottobre 2015

Il compleanno del Partito democratico


Walter Veltroni
L'Unità 11 ottobre 2015
Fondato il 14 ottobre 2007, il Pd compie 8 anni
«Fare un’Italia nuova. È questa la ragione, la missione, il senso del Partito democratico. Riunire l’Italia, farla sentire di nuovo una grande nazione, cosciente e orgogliosa di sé. Unire gli italiani, unire ciò che oggi viene contrapposto: Nord e Sud, giovani e anziani, operai e lavoratori autonomi. Ridare speranza ai nuovi italiani, ai ragazzi di questo Paese convinti, per la prima volta dal dopoguerra, che il futuro faccia paura, che il loro destino sia l’insicurezza sociale e personale. Per questo nasce il Partito democratico. Che si chiamerà così. A indicare un’identità che si definisce con la più grande conquista del Novecento: la coscienza che le comunità umane possono esistere e convivere solo con la libertà individuale e collettiva, con la piena libertà delle idee e la libertà di intraprendere. Con la libertà intrecciata alla giustizia sociale e all’irrinunciabile tensione all’uguaglianza degli individui, che oggi vuol dire garanzia delle stesse opportunità per ognuno.
Il Partito democratico, il partito di chi crede che la crescita economica e l’equa ripartizione della ricchezza non siano obiettivi in conflitto, e che senza l’una non vi potrà essere l’altra. Il Partito democratico, il partito dell’innovazione, del cambiamento realistico e radicale, della sfida ai conservatorismi, di destra e di sinistra, che paralizzano il nostro Paese. Il Partito democratico, il partito che dovrà dare l’ultima spallata a quel muro che per troppo tempo ha resistito e che ha ostacolato la piena irruzione della soggettività femminile nella decisione politica e nella vita del Paese. La rivoluzione delle donne ha affermato in tutte le culture politiche il principio del riconoscimento della differenza di genere come elemento costitutivo di una democrazia moderna. È questa esperienza che dovrà essere decisiva, fin dal momento della fondazione del nostro partito. Il Partito democratico, un partito che nasce dalla confluenza di grandi storie politiche, culturali, umane. Che nasce avendo dentro di sé l’eredità di quelle formazioni che hanno restituito la libertà agli italiani, di quelle donne e di quegli uomini che hanno pagato con il carcere e con la propria vita il sogno di dare ad altri la libertà perduta.
Quelle formazioni che hanno fatto crescere l’Italia e gli italiani, che hanno portato il nostro Paese a trasformarsi da una comunità sconfitta a una delle nazioni che siedono a pieno titolo al tavolo dei grandi della Terra: quanta strada è stata fatta, da quando Alcide De Gasperi, alla Conferenza di Pace di Parigi, si rivolgeva al mondo che lo ascoltava dicendo: “Tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me”. Quelle formazioni che hanno combattuto il terrorismo e l’hanno sconfitto. Ma il Partito Democratico non è la pura conclusione di un cammino. Se lo fosse, o se si raccontasse così, inchioderebbe se stesso al passato. Invece, ciò di cui l’Italia ha bisogno è un partito del nuovo millennio. Una forza del cambiamento, libera da ideologismi, libera dall’obbligo di apparire, di volta in volta, moderata o estremista per legittimare o cancellare la propria storia. Un partito che non nasce dal nulla, e insieme un partito del tutto nuovo. È quello a cui ha pensato, a cui ha lavorato, per cui si è speso con coerenza e determinazione il fondatore dell’Ulivo, Romano Prodi.
Il Partito democratico, un partito aperto che si propone, perché vuole e ne ha bisogno, di affascinare quei milioni di italiani che credono nei valori dell’innovazione, del talento, del merito, delle pari opportunità. Quei milioni di italiani che nelle imprese, negli uffici e nelle fabbriche dove lavorano, nelle scuole dove insegnano, sentono di voler fare qualcosa per il loro Paese, per i loro figli. Quei milioni di italiani che si impegnano nel volontariato, che fanno vivere esperienze quotidiane e concrete di solidarietà. Quei milioni di italiani che trovano la politica chiusa, e che se provano ad avvicinarsi ad essa è più facile che si imbattano nella richiesta di aderire ad una corrente o ad un gruppo di potere, piuttosto che a un’idea, ad un progetto. Sono convinto che il 14 ottobre sarà un giorno importante per la democrazia italiana. Nasce, in forma nuova, un partito nuovo. Nasce consentendo a chiunque creda in questo progetto di iscriversi, naturalmente e direttamente, e di candidarsi. Associazioni e gruppi, comitati e movimenti, singole persone potranno, nello stesso momento, formare un nuovo partito e decidere gli organi dirigenti e il leader nazionale. È un fatto mai accaduto prima. È stato sempre più facile che nuovi partiti nascessero da scissioni o da proiezioni personali di leader carismatici. Nel Partito democratico ognuno sarà e dovrà essere, fin dal primo momento, alla stessa stregua dell’altro. Per questo abbiamo voluto il principio “una testa, un voto”». Ho iniziato con questa lunga citazione del discorso del Lingotto del 2007 per ricordare a noi tutti le ragioni fondanti del Partito democratico. E lo faccio a tre giorni dall’anniversario, l’ottavo, della nascita del PD.
Quella scelta fu sancita da 3 milioni e mezzo di persone che si recarono ai gazebo organizzati in tutta Italia per votare alle primarie. Alle elezioni successive, pur in una situazione politica terribile, ottenne più di dodici milioni di voti. Una cifra che resta il record assoluto del consenso ai democratici. Pochi mesi dopo, a un anno dalle primarie, ci ritrovammo al Circo Massimo in quella enorme manifestazione che è nella memoria di tutti con l’idea di fondare una opposizione riformista di massa al governo Berlusconi. Con un progetto di fondo: dimostrare che non era vero che la sinistra potesse solo avere, in questo paese, un profilo minoritario e che l’unico compito che dovesse assegnarsi era trovare alleanze spurie e improbabili pur di governare, a scapito della reale praticabilità di un progetto riformista di radicale cambiamento della società italiana. Era quella che si chiamava “vocazione maggioritaria”, senza la quale il Pd non aveva e non ha senso. Mettemmo delle radici buone e solide, pur in una stagione arida.
Nel corso di questi anni prima con Dario Franceschini, poi con Pier Luigi Bersani e infine con Matteo Renzi, che all’ispirazione di quella nascita ha fatto più esplicito riferimento, la pianta del riformismo democratico in Italia è cresciuta. Oggi è governo e, comunque la si veda, è governo del cambiamento. Oggi è tornata sopra il trenta per cento dei consensi in modo stabile. Oggi è il più grande partito politico europeo, il più grande della sinistra del continente. Tutto bene , dunque? Meglio, ma non tutto bene. Torno alle parole che ho scelto per concludere la citazione del Lingotto. Davvero oggi il Pd è un partito di “una testa, un voto”? O la vita di questa comunità, che continua a inverarsi nella società italiana, non rischia di essere sequestrata da un correntismo senz’anima, più potere che politica, più trasformismo che pluralismo? Allora si avvicinarono ai democratici tante persone che volevano dare una mano, partecipare ad un progetto aperto e inclusivo. Le vecchie appartenenze, per di più frantumate in gruppi e fazioni contrapposte, alzarono muri o chiesero adesione correntizia. E non hanno smesso di farlo. Così molti si sono allontanati e la logica dei gruppi ha finito con l’inficiare la vita del partito, col renderla asfittica, col sottrarle la meraviglia della discussione libera, della selezione su base di merito dei gruppi dirigenti. Persino le primarie, che erano il senso alto della sfida di un partito aperto, sono diventate una gara tra correnti interne. Correnti non animate, lo ripeto e ciascuno lo vede, non da differenze politiche e ideali, inevitabili in un grande forza, ma da un scientifica ricognizione delle convenienze. La penso, ancora una volta, come Romano Prodi: «Io sono l’uomo delle primarie, quindi. Ma sono un mezzo delicatissimo e vanno regolate. Non essendo stata fatta una legge sulle primarie né una regolamentazione, anche questo strumento è stato indebolito entrando in crisi».
Nella mia ultima legislatura da parlamentare presentai insieme ad Arturo Parisi un disegno di legge per lo svolgimento delle primarie. Mi piacerebbe che si riprendesse quel dibattito. Altrimenti anche quello strumento straordinario, necessario in un partito davvero moderno, può diventare la conta in platee sempre più ristrette, con gli orrori delle partecipazioni inconsapevoli e organizzate alle quali il correntismo esasperato ci ha costretto. Un partito forte non è, ormai, un partito strutturato come nel passato. Ma è forte solo se è aperto, se coltiva il discorso politico, se rifiuta i consensi ipocriti e l’opposizione «a prescindere» come diceva Totò. Se fa vivere il protagonismo dei circoli e dei loro militanti, che bisogna ascoltare e rendere liberi dalla catene delle correnti. Il riformismo italiano è oggi di fronte a una prova carica di possibilità. Può intestarsi l’uscita dalla più grave crisi economica del dopoguerra, la ripresa del lavoro, un buon pacchetto di riforme, una nuova credibilità del nostro paese nel mondo. Ma deve aprirsi, deve includere, deve smontare le casematte dietro le quali si possono nascondere anche usi spregiudicati del potere, specie a livello locale. Quello che fondammo, otto anni fa, tutti insieme, era un grande partito riformista. Partito, come comunità aperta che discute e decide liberamente. Riformista, soggetto della modernizzazione e della giustizia sociale inedito in un paese che spesso ha scisso questi due termini. Partito e riformista. Buon compleanno, Pd.