martedì 31 maggio 2016

Grazie Esteban. Bella lezione.

Esteban Chavez perde la maglia rosa proprio all'ultimo e, sorridendo, dice: "Perché non dovrei sorridere? Questa è solo una gara, non è la vita.
Se tre anni fa
(dopo un grave incidente) mi avessero detto che sarei stato sul podio al Giro d'Italia, non ci avrei creduto. Sono in un posto bellissimo e ci sono i miei genitori per la prima volta in Europa. Questa è la vita."

venerdì 27 maggio 2016

Delrio contro la minoranza: comitati del no inaccettabili


ARTURO CELLETTI
Avvenire 27 maggio 2016
«Possiamo discutere. Anche scontrarci. Ma sempre pensando al bene del Paese, a chi ha creduto e crede nel Pd, ai giovani e alle famiglie ancora piegati dalla crisi... Ricordo le parole di un padre del socialismo, Camillo Prampolini: uniti siamo tutto, divisi siamo nulla. È così. Il Pd può spingere l’Italia solo unito. Può avere forza propulsiva solo se capace di mettere da parte tattiche ed egoismi». Graziano Delrio esce allo scoperto e si rivolge direttamente alla minoranza. Che alza la voce contro l’Italicum. Che mette in fila i tanti dubbi sulla riforma Costituzionale. E che lega i due temi. «Discutere di legge elettorale è sempre possibile, ma farlo a ridosso del referendum non è giusto, non è coerente. Non servono ultimatum. Dire 'si cambi l’Italicum o non votiamo il referendum' è irresponsabile. È un colpo basso al Pd e al Paese». Per qualche minuto il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti parla di un’Italia che grazie alle riforme «ha rialzato la testa». ha «riacquistato forza e credibilità». E, partendo da qui, chiede al Pd unità e responsabilità. A cominciare dal referendum di ottobre. «La linea è chiara. Esistono decisioni prese. Esiste una responsabilità verso il Paese ed esiste una linea di partito. Poi un dissenso personale può essere anche accettato, ma un dissenso organizzato no».
Chi nella minoranza dice no al referendum verrà espulso?
Anche se qualcuno non è convinto della bontà della riforma, siamo contro le espulsioni e per la libertà di coscienza. Ma non sono possibili due linee nel partito e non sarebbero accettati comitati per il no dentro il Pd, visto che in Parlamento si è espresso a favore della riforma. Insisto: se la minoranza chiede discussione e chiarezza avrà discussione e chiarezza. Ma a Cuperlo, a Bersani, a Speranza dico l’unità sia vista come un valore e si metta davanti a tutto il bene dell’Italia. Insieme abbiamo assunto decisioni importanti, chiesto sacrifici, insieme abbiamo accettato di collaborare con il centrodestra per realizzare le riforme... Ora siamo chiamati a una nuova prova di unità e di responsabilità.
Un no al referendum vorrebbe dire voto anticipato?
Vorrebbe dire che non siamo stati capaci di farci capire dal Paese. Sarebbe inevitabile mettersi da parte.
Si andrebbe o no a elezioni subito?
Un no al referendum metterebbe fine a questa esperienza di governo, ma non vorrebbe dire automaticamente il voto. Decide il presidente della Repubblica. Renzi non sarebbe più premier, ma sarebbe ancora segretario del Pd. C’è un congresso che potrà esprimersi, ci saranno valutazioni da fare.
Valutazioni?
Il Pd è un partito moderno e il leader è anche il capo del governo. Come in Germania con la Merkel, come in Francia con Hollande, come nel Regno Unito con Cameron. Le grandi democrazie vanno verso questo tipo di semplificazione. Ma oggi tutto mi pare prematuro. Oggi c’é un Paese che vuole riforme e un governo che punta a chiudere la legislatura e a garantire stabilità, con questa maggioranza, fino al 2018.
Il Forum propone una no tax area familiare. Giusto?
Giusto, giusto. Noi abbiamo cercato di potenziare i servizi alla famiglia, gli asili nido, i fondi per i non autosufficienti; abbiamo lavorato su detrazioni e bonus, ora serve più giustizia fiscale per famiglie povere e numerose. Sappiamo che c’é bisogno di riequilibrio e sono pronto a scommettere che un segnale possa arrivare già nella prossima legge di stabilità.
Renzi la pensa come lei? E a proposito come va con il premier? C’è ancora l’affetto di un tempo?
C’é più affetto di un tempo: siamo come una famiglia. Poi c’é un confronto costante. Su alcune cose abbiamo sensibilità diverse, ma lavoriamo fianco a fianco e sulla necessità di mettere la famiglia al centro dell’azione di governo siamo assolutamente sulla stessa linea. Renzi ha tre figli, conosce il Paese, sa che bisogna concentrarsi sul tema della povertà, sa che le famiglie numerose e quelle con donne sole con un bambino soffrono più delle altre.
Torniamo al referendum: Renzi ha sbagliato a personalizzarlo?
Questo governo ha fatto della riforma della Costituzione un atto centrale ed é legato indissolubilmente all’esito del referendum. Abbiamo lavorato per mesi e mesi e ora tocca agli italiani dire la loro. Noi crediamo nella forza di questa riforma, scommettiamo sui suoi effetti. Se il Paese dovesse dire no sarà inevitabile trarne le conclusioni.
Sarebbe la fine di un gruppo dirigente...
Ognuno di noi farà le sue valutazioni. Io non ho paura di tornare a fare il medico-ricercatore, ho sempre le valigie in mano.
E sarebbe un colpo mortale alle riforme fatte?
No. Le cose fatte sono fatte. Non verranno cancellate da un no al referendum o da una crisi di governo. Le cose buone resterebbero, come quelle ereditate dai nostri predecessori.
Teme le amministrative? Perdere a Napoli, Milano e Roma sarebbe un colpo durissimo.
Mi sono fatto l’idea che le prossime comunali non andranno male e non prendo nemmeno in considerazione l’idea di perdere le tre città. La gente voterà per chi convince, per chi ha le idee più chiare e le spalle più robuste, per chi ha autonomia. Sì, i cittadini voteranno per i candidati capaci di decidere liberalmente e con coscienza. Si dice che a Roma vincerà la Raggi, io dico che vincerà Giachetti: è romano, parla con Roma, la conosce, saprà prenderla per mano.
A molti elettori del Pd non va giù il sostegno di Verdini ai vostri candidati.
L’unica cosa che conta davvero è avere il sostegno di liste fatte da candidati puliti, non legati a interessi di potere, liberi.
Ma è immaginabile un patto con Verdini quando si tornerà a votare?
Oggi Verdini guida una formazione politica che, di volta in volta, decide se votare provvedimenti del governo. E, di volta in volta. decide se aggiungere i suoi voti per realizzare con noi riforme. Il 2018 è lontano. Noi preferiamo ragionare da ex sindaci: governare per dare al Paese una prospettiva, un orizzonte. Detto questo mi pare che il Pd non abbia la stessa vocazione di Verdini. E mi lasci dire che le parole di ieri del senatore D’Anna contro Saviano sono sbagliate e inaccettabili.
Anche l’esperienza di governo con Ncd rischia di terminare? 
Stiamo collaborando bene con i ministri di Ncd, c’é grande sintonia. Con Alfano siamo alleati stabili di governo, c’é un’alleanza organica. Con Verdini c’é un rapporto diverso: ripeto, i loro voti sono solo aggiuntivi.
L’8 aprile lei presentò un esposto e parlò di trame contro lo Stato. Ha novità?
L’Italia ha vissuto momenti ben più complicati. Anni di tensioni vere, anni di bombe sui treni, non voglio drammatizzare, voglio però la verità. Ci sono persone che raccontano di aver costruito dossier per influenzare altre persone. Beh, è giusto che si sappia tutta la verità: un uomo pubblico deve essere libero, non ricattabile e non ricattato.
Lei è stato sentito dai magistrati di Potenza: ha avuto mai l’impressione di un governo sotto attacco?
Non c’é mai stato un tentativo di aggressione al governo. Noi chiediamo la verità come cittadini e come governanti. La magistratura fa il suo lavoro e il governo non interferisce. È giusto così. Deve essere così. Un rapporto improntato a fiducia, rispetto e collaborazione tra governo e magistrati.
Da ministro delle Infrastrutture ha incontrato ripetutamente Cantone. Quale ricetta per vincere la corruzione?
Muoversi nell’ordinarietà e nella semplicità aiuta. Abbiamo bisogno di leggi facili e di procedure trasparenti. Poi serve l’educazione. Gli antichi romani dicevano ubi societas, ibi ius, dove c’è la società, c’é la legge, la legalità. E quindi la società deve fare la sua parte. Anche questa sarà una nostra sfida e anche questa volta ce la faremo.

trovato il colpevole....


giovedì 26 maggio 2016

“La voragine è colpa di Renzi”. E il Fatto abbocca


Fabrizio Rondolino
L'Unità 26 maggio 2016
L’accusa di Salvini stuzzica Travaglio, ma ignora le parole del sindaco Nardella.
D’accordo, questa è fin troppo facile: sprofonda un pezzo di Lungarno e la colpa, naturalmente, è di Matteo Renzi. Come un sol uomo, Matteo Salvini e il Fatto indossano i panni dello sciacallo e si buttano a corpo morto nella più facile delle speculazioni. “Da Renzi nemmeno una parola – aveva ringhiato ieri il leader leghista –, forse perché dietro questo assurdo crollo da 5 milioni di euro ci sono responsabilità dei suoi amici di Publiacqua”. Detto, fatto: oggi il giornale di Travaglio titola in prima pagina sulla “voragine di Firenze e la Giglio Magico Spa”.
Il primo a puntare il dito contro la società mista che gestisce il servizio idrico del capoluogo toscano, a dire il vero, è stato il sindaco Dario Nardella. Il quale ha parlato esplicitamente di “errore umano” e ha chiesto di fatto le dimissioni dei vertici: “Chi ha sbagliato deve pagare”. E Nardella – gli amici del Fatto dovrebbero sospettarlo – non è propriamente il fiorentino più lontano da Renzi.
Ma che importa ricostruire le cause dell’incidente, cercare le responsabilità, rimediare al disastro, impedire che ne avvengano altri? Sempre colpa di Renzi è, e non possiamo farci niente.
Il cronista-archeologo del Fatto ci spiega che “Pubbliacqua è dal 2009 la culla del renzismo” – non la Leopolda: Publiacqua! –, che in quegli anni presidente era Erasmo D’Angelis, oggi direttore dell’Unità, che “a D’Angelis nel 2009 venne affidata una giovane e inesperta Maria Elena Boschi” – al Fatto se non citano la Boschi almeno una volta per articolo hanno lo stipendio decurtato –, e che oggi il presidente è Filippo Vannoni, “marito di Lucia De Siervo, ex capo di gabinetto e poi assessore nella giunta Renzi, figlia del presidente della Corte costituzionale Ugo De Siervo [che vota No al referendum, ndr] e sorella del direttore di RaiTrade Luigi [che ha però lasciato l’azienda senza avvertire Travaglio, ndr]”.
“Chiaro, dunque, come il disastro del Lungarno sia un caso politico”, scrive il cronista-archeologo. Chiarissimo. Glielo ha detto Salvini, o forse Travaglio, e sarà senz’altro così.

martedì 24 maggio 2016

Multe nei paRaggi


La Stampa 24 maggio 2016
massimo gramellini
Come in una gag di Alberto Sordi, l’iniziativa elettorale dei Cinquestelle romani con la candidata sindaca Virginia Raggi è in pieno svolgimento e al microfono un parlamentare si è appena scagliato contro il malcostume dilagante quando dal fondo della sala si alza una voce: «Chi ha chiamato i vigili? Stanno facendo le multe!» Momenti di panico in platea. Chiunque abbia parcheggiato sul marciapiede corre in strada per salvare il salvabile. Gli altri danno fiato alla specialità della casa. «Perché sono arrivati proprio adesso?» Sottinteso: li ha mandati il governo, anzi la massoneria, anzi la Cia in combutta con la famigerata cellula «Sosta Vietata» del Mossad. D’altronde un delatore comune si sarebbe limitato a dare la notizia: «Attenzione, caduta vigili!» Mentre nell’allarme lanciato dalla piccola vedetta grillina («Chi li ha chiamati?») era già inglobato il sospetto del complotto. 
Meglio parcheggiare in doppia fila che arrivare con l’autoblù, sentenzia sul web il malpancista medio. Al quale, più che il rispetto delle regole, sta a cuore l’abbattimento dei privilegi altrui. Il ragionamento non fa una grinza, però sottovaluta le aspettative che le vestali della Purezza e i paladini dell’Onestà avevano suscitato in noi peccatori. Mai avremmo creduto che anche loro potessero inciampare su un’infrazione diffusa tra i comuni mortali. E che avrebbero cercato di ridimensionarne la portata con il meccanismo diversivo dei bambini, che consiste nell’immaginarsi perseguitati, spostando l’attenzione sulle colpe dei grandi. Lo hanno fatto, invece. Ed è consolante scoprire che i Migliori sono esseri umani come noi. 

Referendum costituzionale.

Giacomo Marniga 
XXV Aprile 2016
....Quando si pensa alla libertà istintivamente ci si riferisce alla libertà personale e collettiva del fare, del parlare, dello scrivere. Rischiamo però di dimenticare che alla base di ogni nostro libero agire si pone il nostro pensiero.
Allora oggi più che mai in questa società in cui viviamo correndo, e sottoposti ad un fiume confuso e spesso fangoso di informazioni, dobbiamo impegnarci in una rinnovata Resistenza per custodire la libertà del nostro pensiero.
Non possiamo e non dobbiamo accontentarci di avere una democrazia ed una libertà formali, dobbiamo perseguire una democrazia ed una libertà sostanziali. Non possiamo e non dobbiamo limitarci ad esprimere pensieri in libertà ma dobbiamo pretendere da noi stessi l’esercizio di pensieri liberi.
I condizionamenti del nostro pensiero partono dall’educazione ricevuta, proseguono con la formazione scolastica, con le esperienze del vivere quotidiano, ciascuno nel proprio contesto sociale e lavorativo. Questi condizionamenti hanno certamente influenza sull’elaborazione del nostro pensiero e possono dominarlo laddove non si costruisce la capacità di elaborare un pensiero proprio.
Allora tutti noi siamo chiamati ad aprire la mente, a farci pervadere dalle tante inestimabili manifestazioni della cultura rifiutando le contrapposizioni, per crescere nel dialogo e nel confronto con l’altro.....
Dobbiamo elaborare pensieri con l’esercizio della critica e dell’autocritica. Dobbiamo infatti essere pronti a mettere in discussione anche il nostro pensiero e non sempre e solo quello altrui. Per far questo non possiamo fermarci ad alimentare la nostra mente al fast food dell’informazione preconfezionata ma dobbiamo fare la fatica di approfondire, per elaborare il pensiero libero quale presupposto di ogni altra libertà...

Oggi aggiungo che:

Per onorare chi ha lottato per la libertà dobbiamo capire ed approfondire per esercitare con libertà sostanziale il nostro pensieto votando sì o no alla Riforma Costituzionale. Dunque mi rifiuto di votare per appartenenza politica, mi rifiuto di dedicare il mio tempo a seguire le polemiche degli "amici"e dei nemici del Governo. Chiunque vorra alzare i toni, evitando il confronto nel merito delle riforme, è ostacolo e nemico della (mia) libertà. Io sarò grato a chi pensandola anche diversamente da me sarà disponibile ad un confronto con la reciproca disponibilità a capire.

lunedì 23 maggio 2016

Proposta: moratoria su Berlinguer, Ingrao e i partigiani


Mario Lavia
L'Unità 23 maggio 2016
Un dibattito surreale, sarebbe meglio stare al merito della riforma.
A cinque mesi dal referendum il dibattito è surreale. In queste ore si parla soprattutto di partigiani, di Enrico Berlinguer, di Pietro Ingrao, di Nilde Jotti: fa piacere ai cultori della storia della sinistra italiana ma sicuramente è un esercizio che non ha molto senso.
Ai sostenitori del Sì converrebbe molto di più stare al merito della riforma. Senza lasciarsi prendere la mano inventandosi dei manifesti con le facce di Ingrao e della Jotti recanti frasi effettivamente pronunciate ma in tutt’altro contesto. La figlia di Ingrao, Celeste, ha protestato e addirittura querelato il Pd per questa forzatura: va capita, purché non si tratti di un simmetrico gesto propagandistico.
Abbiamo anche letto un articolo di Bianca Berlinguer, che ha spiegato un suo certo fastidio per l’uso che si fa della figura del segretario del Pci entrando poi in una questione che riguarda il quotidiano L’Unità che non c’entra molto.
Maria Elena Boschi ha detto una cosa assolutamente ovvia – cioè che partigiani che hanno realmente combattuto voteranno Sì  – e la cosa ha indignato l’Anpi che ha dato indicazione per il No forse senza mettere in conto che questa decisione avrebbe suscitato dissociazioni e polemiche, come sta avvenendo.
La proposta è modesta: non tirate per la giacchetta personaggi che purtroppo non possono dire la loro. Vale per tutti: sostenitori del Sì, sostenitori del No, familiari dei diretti interessati e quant’altro. Cinque mesi così non si reggono, fermatevi.

giovedì 19 maggio 2016

La simpatia del Fatto per Belpietro si spiega: facevano gli stessi titoli


Fabrizio Rondolino
L'Unità 18 maggio 2016
Il complotto per un “libero” più renziano: tre versioni diverse in uno stesso articolo
Il cerchio si stringe, il regime conquista posizioni su posizioni, la libera stampa è sempre meno libera.
Dopo aver denunciato ieri il tentativo di Mediobanca, la nota centrale renziana, di impedire a Urbano Cairo di conquistare il Corriere per renderlo finalmente “indipendente” (un po’ come La 7, la tv di riferimento di Marco Travaglio), oggi il Fatto svela un nuovo crimine: Vittorio Feltri, il noto editorialista renziano, sostituirà Maurizio Belpietro alla guida di Libero.
“Nasce il Giornale Unico del Sì”, titola allarmato il giornale multiplo del No: e naturalmente – che crimine sarebbe, altrimenti? – c’è lo zampino di Denis Verdini.
In prima pagina il Fatto rivela “una cena a tre tra il neodirettore, il deputato re della sanità [Antonio Angelucci, editore di Libero] e il presidente del Consiglio”; a pagina 5 un titolone annuncia invece l’“inciucio a cena tra Matteo, Denis e Angelucci” (a tavola dunque non c’è più Feltri, ma Verdini); il pezzo però cambia un’altra volta versione, e parla di “un’operazione politica sancita pochi giorni fa in una cena fra Lotti, Verdini e Angelucci” (Renzi forse aveva già cenato, e all’ultimo momento è arrivato Lotti).
Non era ancora capitato che lo stesso giornale pubblicasse per una medesima cena ben tre liste diverse di commensali: ma, si sa, il giornalismo in Italia è un’opinione.
Resta la curiosità di capire quale meravigliosa sostanza abbiano consumato gli amici del Fatto per riuscire a scrivere, senza rotolare a terra per le risate, che con Feltri Libero avrà “una linea più renziana”. Soltanto perché Feltri s’è pronunciato a favore della riforma del Senato?
A parte il Fatto, tutti i giornali italiani ospitano opinioni differenti sul referendum, com’è normale che sia nel caso di una consultazione diretta. Ma, a quanto pare, la libertà di opinione è un reato più che sufficiente per essere bollati come “renziani”.
Quanto a Belpietro, l’improvvisa simpatia che gli dimostra il giornale di Travaglio non deve stupire: almeno una volta a settimana i titoli di apertura di Libero e del Fatto sono identici. Identico il garbo, identica la credibilità. Ci mancheranno.

lunedì 16 maggio 2016

L’emerito Zagrebelsky vorrebbe un Mattarella anti-referendum


Fabrizio Rondolino
L'Unità 16 maggio 2016
Mattarella dovrebbe “fermare” Renzi? Il Fatto rilancia frasi davvero impossibili da commentare
“Mattarella ora fermi Renzi” è il titolo di apertura del Fatto di oggi. Perché dovrebbe farlo? Perché, leggiamo nel sommario, “il referendum di ottobre non si svolgerà democraticamente se verrà fatta circolare l’idea che è l’ultima spiaggia”.
Chi l’ha detto? Il presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky al Salone del Libro di Torino.
Il Fattone non sa come prendere queste affermazioni. Qui di solito si scherza, si gioca, ci si prende in giro, qualche volta ci si arrabbia. Ma oggi proprio non sappiamo che dire.
E dunque continuiamo a leggere le dichiarazioni attribuite a Zagrebelsky, in attesa che ci venga un’idea.
L’Emerito attribuisce al premier una “forma di pressione, per non dire ricatto”. E si rivolge preoccupato al Capo dello Stato “affinché dica al presidente del Consiglio che chi governa non può legare la sua sorte all’esito del referendum costituzionale” perché “ci va di mezzo la democrazia”.
Il Fattone continua a non trovare parole. Pensavamo che il referendum, previsto dall’art. 138 di quella Costituzione che l’Emerito sostiene di conoscere, fosse una scelta altamente democratica, forse la più democratica di tutte perché coinvolge direttamente i cittadini italiani.
Pensavamo che un leader politico che subordina la propria permanenza al governo ad un voto popolare su un punto cruciale del proprio programma fosse un esempio da additare. Pensavamo che il Presidente della Repubblica dovesse vigilare sulle violazioni della democrazia, non sul suo inveramento. E pensavamo anche che un presidente emerito della Corte Costituzionale misurasse le parole, ne conoscesse il significato, sapesse insomma di che sta parlando.
E invece l’Emerito ha rovesciato il mondo come un calzino e dal suo mondo alla rovescia ha dettato la nuova Carta: votare è plebiscitario, fare campagna per il Sì è un ricatto, trarre dal voto le conseguenze politiche che quel voto implica è una truffa, dimettersi in caso di sconfitta è un colpo di Stato.
Mattarella dovrebbe impedire il referendum, se non ci riesce dovrebbe comunque impedire al premier di difendere le ragioni della sua riforma, e se a ottobre vincesse il No dovrebbe mandare i corazzieri a Palazzo Chigi per impedire a Renzi di dimettersi.
E niente, oggi è andata così: lo spazio è finito e il Fattone è tuttora senza parole.



CARO REICHLIN, IL PLEBISCITO C'È. E NON RIGUARDA SOLO RENZI

Giorgio Tonini
16 maggio 2016
Alfredo Reichlin, su "La Repubblica" di stamani, paventa il rischio che il referendum costituzionale possa "spaccare il paese" e lamenta la mancanza di quella cultura dell'intesa che alla Costituente, nonostante la rottura determinata dalla guerra fredda, consentì a De Gasperi e Togliatti di fare della Costituzione la "casa comune" degli italiani. Per Reichlin non ci sono dubbi: chi sta facendo correre all'Italia il rischio di spaccarsi è il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che vuole fare del referendum confermativo, non l'ultima tappa di una riforma costituzionale, "una correzione matura da tempo del vecchio bicameralismo perfetto", accompagnata da "una serie di misure, alcune anche discutibili, ma nell'insieme accettabili", ma piuttosto "un plebiscito popolare su se stesso".
È innegabile che in alcuni passaggi Matteo Renzi, un "cavallo di razza" che nel suo patrimonio genetico ha indubbiamente più cromosomi fanfaniani che morotei, abbia privilegiato codici comunicativi più divisivi che inclusivi. Ma sarebbe del tutto fuorviante porre l'intera vicenda delle riforme sotto la cifra della spaccatura del paese, come effetto di una "scelta calcolata" da parte di un Renzi affetto da bonapartismo. È vero il contrario: se tra qualche mese gli italiani potranno decidere col loro voto le sorti di una riforma, che nel merito Reichlin, come si è visto, non può non condividere, lo si dovrà a quel grande atto di intelligenza e di coraggio che è stato, da parte di Renzi, richiamare Berlusconi, condannato in via definitiva e dichiarato decaduto da senatore, al tavolo delle riforme, attraverso il vituperato "patto del Nazareno". Una mossa, Reichlin converrà, ispirata al più puro realismo togliattiano. O degasperiano: "si deve fare il fuoco con la legna che si ha", amava dire il grande statista trentino. Con la scelta di riportare Berlusconi al tavolo delle riforme, Renzi sapeva che avrebbe pagato un prezzo "a sinistra" e più generalmente nella vasta galassia dell'antiberlusconismo militante. Forse però, nemmeno lui aveva previsto che, entrato in crisi il patto, a seguito della elezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica, dagli stessi ambienti che avevano demonizzato l'apertura a Berlusconi, gli sarebbe stata mossa la critica di voler cambiare la Costituzione "con un colpo di maggioranza", dividendo e spaccando il paese.
"Sia chiaro — precisa Reichlin — io ho condiviso, pur con qualche riserva, la scelta della minoranza del Pd di non opporsi alla riforma Boschi. Ma guardo al paese. E alle sfide di oggi. Non si tratta solo di crisi economica. È in discussione lo statuto e la figura della nazione italiana, il suo posto nella nuova realtà geo-politica del mondo. Ecco perché non voglio plebisciti". Il problema è che il plebiscito c'è. E non riguarda il destino personale di Renzi e neppure quello del suo governo o della legislatura. Ma proprio "lo statuto della nazione italiana" e il suo posto nel mondo. Davvero non capiamo che è di questo che si tratta, che è questo che è in gioco al referendum di ottobre? Da un lato c'è il riformismo, nazionale ed europeo, che sta alla base della riforma, firmata Renzi e Boschi, ma sostenuta da Napolitano e apprezzata da Draghi e dalla Merkel, proprio perché parte di una strategia di uscita dell'Italia e dell'Europa da una crisi che, sono d'accordo con Reichlin, è molto più che economica. Dall'altro ci sono i populismi, di destra e di sinistra, divisi tra loro su tutto e da tutto, ma accomunati dal medesimo nemico: il riformismo europeista. A volte capita, Reichlin lo sa come pochi, di imbattersi in un tornante della storia. E di non poter fare a meno di decidere da che parte stare.

mercoledì 11 maggio 2016

«Il Pd è diventato una porcilaia».


L’INTERVISTA di Alessandro Trocino
Corriere della Sera 10 maggio 2016
Staino: Cuperlo e gli altri?
Con Togliatti sarebbero già in Siberia
Il disegnatore satirico: «Fossi in Renzi, sarei più modesto. C’è una altissima percentuale di probabilità che perda il referendum. Sta rischiando grosso»

Ma come, Staino? Il Partito democratico una porcilaia?
«Ma sì, sono molto preoccupato. Si è perso il dna del nostro essere di sinistra».
Renzi vira troppo a destra?
«No, sto parlando della sinistra dem. Gente come Cuperlo dovrebbe avere lo stile di Berlinguer. Invece sono i peggiori: hanno distrutto il dialogo».
Loro dicono che l’ha distrutto Renzi il dialogo.
«Con Fassina che minaccia: o cambiate questo articolo o me ne vado? Avessero fatto così negli anni Cinquanta, con Togliatti, sarebbero già in Siberia».
La minoranza fa la minoranza.
«Se sei minoranza devi essere responsabile. E invece Cofferati ha buttato la Liguria in braccio ai leghisti e ora si prende le maledizioni».
Anche lei è spesso sotto accusa.
«Cos’è questa rabbia, questa cattiveria? Ci son compagni che mi trattano da fascista, ma che roba è?».
È considerato «renziano».
«Si è arrivati a usare l’aggettivo renziano come sinonimo di merdoso, traditore, figlio di puttana. Ma perché? Io non sono renziano, come non sono stato prodiano, pur avendo appoggiato Prodi. Ma c’è qualcosa di meglio a sinistra di Renzi? Preferite Salvini o Grillo? Io scelgo Renzi, dov’è l’assassinio, dov’è il tradimento?».
L’alleanza con Verdini?
«Renzi si sarà pure venduto a Verdini, ma il primo a chiamare i Cecchi Gori, i Mastella, i Di Pietro, personaggi ambigui e tremendi, è stato D’Alema».
Che ora non ha ruoli.
«Ma è lì come un avvoltoio, non vede l’ora di tornare. Non lo voglio, serve gente nuova, cervelli nuovi, anime nuove».
Il nome Verdini a lei non provoca nessun fremito?
«Abbiamo storie diverse, ma non mi scandalizzo se cerchiamo i suoi voti. Abbiamo avuto Dini al governo. Dini!».
Per il ministro Boschi chi vota no al referendum vota come CasaPound.
«Avrebbe potuto dire: “Per voi, chi vota sì è come Verdini; io potrei dire lo stesso di chi vota no, che è come CasaPound. Ma non lo dico”».
L’Anpi, comunque, non l’ha presa bene.
«L’Anpi sta utilizzando il nome sacrosanto dei partigiani per fare una politica bertinottiana, rifondarola».
E Renzi?
«Fossi in lui, sarei più modesto. C’è un’altissima percentuale di probabilità che perda il referendum. Sta rischiando grosso».
Lei voterà a favore?
«Certo, rischiamo di finire nella spazzatura della destra europea. Vogliamo darci altre martellate sulle cosce? È una pazzia».
Giachetti le piace?
«È serio, modesto e radicale. Con il Vaticano qui, aiuta».
E Sala?
«Avrei preferito un altro. Ma quando si è imbecilli come a sinistra, che si moltiplicano i candidati, poi si perde. E allora ciucciatevi Sala».
Il Pd ha subito una mutazione genetica?
«Fassino e D’Alema hanno fatto il Pd perché pensavano di mangiarsi la Margherita. E invece sono stati mangiati».
Anche Veltroni?
«Tanto di cappello. Almeno ha lasciato davvero. E ha scritto bei libri e bei film. Non vedo l’ora che se ne vadano Bersani e soprattutto D’Alema».
L’accuseranno di essere sdraiato.
«Le mie vignette non sono sdraiate. E neanche l’Unità. Fossi direttore, un provocatore come Rondolino non lo prenderei. Ma perché Cuperlo ha rifiutato la direzione de l’Unità? Te la sei fatta addosso, Gianni? Troppo comodo».


martedì 10 maggio 2016

Santone subito


massimo gramellini 
La Stampa 10 maggio 2016
Ogni volta che inciampo in un comizio del sindaco De Magistris penso con qualche brivido che c’è stato un tempo in cui quel furbo arruffapopolo era un magistrato. Lo spacciatore di rivoluzioni alle vongole che sul palco arringa la folla fingendo di farne parte ha avuto in passato il terribile potere di privare altri individui della libertà. Di sicuro fa meno danni dove sta ora, al governo di una città che non vuole essere governata, ma ammaliata. L’ultimo monologo del tribuno napoletano ha raggiunto vette retoriche da repubblica delle banane. Andate a godervelo sul web, se volete ripassare le ragioni per cui da settant’anni in Italia comandano i democristiani. Perché l’unica alternativa sembra essere questo populismo d’accatto, che specula sulla rabbia degli impoveriti per costruirsi un dominio personale.
Sono ormai abbastanza vecchio per sapere che chi urla in piazza «Potere al popolo!» si immedesima a tal punto nel popolo che il potere lo vuole tutto per sé. E dopo trent’anni di gargarismi leghisti mai seguiti da un atto concreto non mi spaventa un caudillo che incita alla secessione le plebi furenti e minaccia a salve il governo centrale, al grido di «Renzi, cacati sotto». Ma continuo a trovare esilarante e terribile lo sdoppiamento di personalità che porta il santone partenopeo ad annunciare che «dopo le elezioni del 5 giugno tutto cambierà: io uscirò dal Palazzo e governerò in strada!», come se il sindaco uscente fosse un altro e non lui. 

venerdì 6 maggio 2016

I nemici del nuovo Pd


Fabrizio Rondolino
L'Unità 6 maggio 2016
La difesa del buon operato del governo e delle istituzioni democratiche passa anche per una profonda, non più rinviabile autoriforma dei partiti.
È tempo che il Pd s’impegni per salvare il lavoro straordinario che il presidente del Consiglio ha fatto e continua a fare. Il primato della politica, che è la chiave del renzismo di governo e grazie al quale l’Italia sta ritrovando la strada dello sviluppo e della modernità, deve esercitarsi anche nella gestione e nella direzione del partito. E il modo più efficace per mettere in sicurezza le riforme, per restituire fiducia e credibilità alla politica, per ridimensionare le nostalgie giustizialiste della parte più chiassosa e minoritaria della magistratura, e per vincere il referendum di ottobre, è fare pulizia.
Da sé, e in fretta: senza scatenare nessuna caccia alle streghe dentro il Pd, ma anche senza alcuna indulgenza o compromesso. E senza aspettare l’avviso di garanzia, l’arresto o la condanna del giorno. Il cortocircuito mediaticogiudiziario – ogni accusa è già una sentenza, la personalità dell’imputato è fatta a pezzi in pubblico senza possibilità di replica, trionfano semplificazione e generalizzazione – rischia di travolgere un’altra volta la fragile infrastruttura democratica del Paese, consegnando al peggior qualunquismo populista e fascistoide l’egemonia nel dibattito pubblico.
Tutto l’impegno messo in campo dal governo in questi anni – compresi i numerosi provvedimenti per la legalità, contro la corruzione e per il miglioramento della macchina giudiziaria – rischia di essere dimenticato, travolto, cancellato.
Una possente macchina di propaganda s’incarica ogni giorno di picconare le basi stesse della convivenza civile: quando non ci saranno più politici in giro non avremo sconfitto la corruzione, avremo affossato la democrazia. Il fatturato dei media si nutre di scandali, quello della politica di buone riforme. È una gara asimmetrica, perché lo scandalo penetra con estrema facilità nelle coscienze, scuotendole e frastornandole, mentre la buone riforme, per dare frutti, hanno bisogno di tempo, volontà, tenacia. La semplificazione emotiva, sebbene contenga sempre in sé un errore di fondo, è più popolare della fatica della complessità.
È bene essere chiari: se nell’opinione pubblica dovesse prevalere l’idea che il governo e il partito di maggioranza sono covi di malaffare – un’idea rafforzata quotidianamente dalle notizie sulle indagini, gli arresti, le condanne – la sconfitta per il Paese sarebbe catastrofica. Possiamo rinunciare alla riforma del Senato e al governo Renzi, ma non possiamo rinunciare alla politica, alle elezioni e alla democrazia. Renzi ha fatto benissimo, nella sua qualità di presidente del Consiglio, a difendere l’indipendenza della magistratura, a ribadire che le indagini devono proseguire senza condizionamenti, a negare l’esistenza di un “complotto” o di una giustizia ad orologeria. Intanto perché è effettivamente così, e poi perché Renzi non è Berlusconi: la sacrosanta battaglia garantista per una giustizia giusta, rapida ed efficiente può essere vinta soltanto a patto di rinunciare ad ogni anche minima ambiguità: i delinquenti, quando sono provati tali, vanno puniti senza distinzioni né attenuanti. Ma, con altrettanta franchezza, è bene dire che questo non basta più.
La difesa del buon operato del governo e delle istituzioni democratiche passa anche per una profonda, non più rinviabile autoriforma dei partiti. Il Pd e i suoi gruppi dirigenti devono dare l’esempio, devono muoversi per primi, e non devono fermarsi di fronte a nulla. È illusorio (e politicamente sbagliato) pensare che questo compito possa essere svolto soltanto a Roma, dal segretario e dai suoi collaboratori: al contrario, è necessaria e urgente una grande mobilitazione a tutti i livelli, dai circoli fino ai comitati regionali. È venuta l’ora di un’assunzione di responsabilità individuale e collettiva. È venuta l’ora di drizzare le antenne, ascoltare, capire e intervenire, ciascuno nel proprio ambito, a viso aperto e responsabilmente, ovunque nel Paese.
L’autonomia della politica non significa soltanto potere e saper decidere senza subire le pressioni delle corporazioni, delle caste o della magistratura sindacalizzata: significa anche saper fare pulizia al proprio interno prima, e non dopo l’apertura di un’inchiesta. Non possono più esistere zone franche, potentati locali, ambiguità e tacite collusioni. È tempo di una grande campagna politica, diffusa e partecipata come e più di un congresso, per mettere in sicurezza il Pd dal malaffare che lo lambisce. È il malaffare, non la magistratura, il nemico mortale del nuovo Pd.

mercoledì 4 maggio 2016

La giustizia italiana


Fabrizio Rondolino
L'Unità 4 maggio 2016
Il problema principale della giustizia italiana in rapporto alla politica è che i magistrati continuano a indagare (e i giornali ad emettere sentenze di colpevolezza), ma le inchieste non si chiudono più.
Per carità, non parliamo di “giustizia ad orologeria”. La magistratura indaga ogni volta che viene a conoscenza di un reato, e non è colpa di un pm se, per una pura coincidenza, un’inchiesta si sovrappone ad una campagna elettorale. Del resto in Italia si vota spesso, quasi ogni anno, e poiché le elezioni non si possono sospendere è statisticamente assai probabile che un’indagine su un politico coincida con un appuntamento elettorale. E in ogni caso, come giustamente ha subito dichiarato Lorenzo Guerini, “piena e totale fiducia nel lavoro dei magistrati, confidando che si faccia chiarezza con la massima rapidità”.
Guerini, oltreché vicesegretario del Pd, è stato anche il predecessore del sindaco di Lodi Simone Uggetti, arrestato ieri per una presunta turbativa d’asta nell’assegnazione della gestione delle piscine comunali. “Ho conosciuto in questi anni Uggetti come amministratore competente e accorto e come persona più che corretta e limpida”, ha detto Guerini (che l’ha avuto in giunta due volte come assessore): e, fino a prova contraria e a sentenza definitiva, la parola di Guerini non può essere messa in discussione.
Ma se il vicesegretario del partito del premier auspica che i magistrati lavorino con “la massima rapidità”, non è soltanto perché Uggetti è un amico. Il problema principale della giustizia italiana in rapporto alla politica non è, come ha erroneamente sostenuto Piercamillo Davigo, che “i politici continuano a rubare, ma non si vergognano più”: il problema è che i magistrati continuano a indagare (e i giornali ad emettere sentenze di colpevolezza), ma le inchieste non si chiudono più. Il caso ha voluto che, proprio nel giorno in cui Matteo Renzi invitava i giudici ad esprimersi non con le dichiarazioni di principio ma con le sentenze, il Tribunale di Potenza abbia condannato alcuni imputati in un’inchiesta sul petrolio (non quella che è costata il posto a Federica Guidi). Qualcuno ha colto al volo la coincidenza per burlarsi di Renzi.
Ma quella sentenza conferma meglio di dieci convegni sulla crisi della giustizia le parole del presidente del Consiglio. L’inchiesta era cominciata nel 2008, gli imputati erano 31 (fra cui alcuni amministratori locali) e, dopo otto anni di indagini e a due mesi dalla prescrizione, il Tribunale ha condannato in primo grado 13 imputati mandandone assolti 18. E questa sarebbe la giustizia che aiuta la politica a fare pulizia? Prendiamo un altro esempio: la nuova inchiesta sul petrolio, diventata pubblica il 31 marzo scorso. Dal primo aprile, tutti i giornali l’hanno messa in prima pagina, pubblicando rivelazioni e indiscrezioni, intercettazioni (spesso del tutto ininfluenti ai fini dell’indagine) e retroscena, giorno dopo giorno, fino al 17 aprile.
Quella domenica i principali quotidiani, sempre in prima pagina, annunciavano che era finito sotto inchiesta anche il vicepresidente di Confindustria, Ivanhoe Lo Bello (il Fatto, più fantasioso della concorrenza, titolava invece: “Potenza, nelle telefonate Matteo, Angelino e Lupi”). Da lunedì 18 aprile, però, non è più uscita una sola riga sulla “Trivellopoli” che qualche burattino della Casaleggio Associati srl aveva definito “più grande di Tangentopoli”, e l’inchiesta è tornata nel silenzio assordante in cui giaceva già da un paio d’anni. Che diavolo sarà successo quella domenica 17 aprile? Il governo ha imposto il bavaglio alla Procura di Potenza, i pm sono andati in ferie, c’è stata un’invasione di cavallette, un terremoto, un’inondazione, una retata di magistrati e giornalisti d’assalto? Pare che quel giorno, a parte il referendum sull’energia snobbato dalla stragrande maggioranza degli italiani, non sia successo nulla. Ma questa dev’essere soltanto una coincidenza.

L’eroica inchiesta di Potenza? E’ finita il giorno del referendum…


Fabrizio Rondolino
L'Unità 3 maggio 2016
Persino Il Fatto non ne parla più: eppure era “peggio di Tangentopoli”
Da giorni compulsiamo il Fatto con crescente ansia e curiosità alla ricerca di nuovi dettagli, nuovi particolari, nuove rivelazioni sulla grandiosa inchiesta della Procura di Potenza, la “Trivellopoli” che qualche burattino della Casaleggio Associati srl definì “più grande di Tangentopoli”, ma non riusciamo a trovare nulla.
Sfogliamo il giornale di Travaglio dalla prima all’ultima pagina, torniamo indietro, ricominciamo pazienti la lettura, ma non c’è niente. Neppure un titolino, un taglio basso, una vignetta: niente di niente.
L’inchiesta di Potenza diventa pubblica giovedì 31 marzo, e dal 1° aprile il Fatto dedica sistematicamente tutte le sue aperture di prima pagina al grande evento, in un crescendo impressionante di accuse, insinuazioni, denunce e sdegnati commenti: “Il governo d’affari al servizio della superlobby da 2 miliardi” (2 aprile), “Le mail inguaiano la Boschi” (4 aprile), “La trama dei favori: da una parte il decreto del Mise, dall’altra il piano per stoccare milioni di barili in Sicilia” (6 aprile), “Clan petroli: così lo staff della Finocchiaro aprì la commissione a Mr. Guidi” (9 aprile), “Il ritorno di Mani Pulite” (venerdì 15 aprile), “Veleni Eni, relazione falsa: indagato il perito dei pm” (sabato 16 aprile).
L’ultimo articolo compare domenica 17 aprile, sempre vistosamente in prima pagina, sotto un titolo che lascia poco spazio all’immaginazione: “Potenza, nelle telefonate Matteo, Angelino e Lupi”. Poi, il silenzio. Dell’inchiesta più grande del secolo da lunedì 18 aprile nessuno parla più. Non i giornaloni d’informazione, non quelli d’opposizione, e neppure il Fatto, che pure, come sappiamo, ama la giustizia e ricerca sempre la verità.
Che diavolo sarà successo quella domenica 17 aprile? L’eroica Procura di Potenza ha forse smesso di indagare, il governo le ha imposto il bavaglio, i pm sono andati in ferie, c’è stata un’invasione di cavallette?
E perché il Fatto, che non si ferma mai di fronte a nulla, non ha proseguito le sue inchieste, le sue indagini, le sue coraggiose rivelazioni? Quale terribile disgrazia s’è abbattuta domenica 17 aprile su Potenza? Un terremoto, un’inondazione, una retata di magistrati e giornalisti d’assalto?
Abbiamo cercato ovunque negli archivi e pare che quel giorno, a parte il referendum sull’energia snobbato dalla stragrande maggioranza degli italiani, non sia successo nulla. Ma questa dev’essere soltanto una coincidenza.

domenica 1 maggio 2016

Tutte le cose che Roberto Speranza non può non sapere


Giorgio Tonini
L'Unità 30 aprile 2016
O Speranza crede alla sua propaganda, oppure ci sta solo rifilando una pessima propaganda
Sulla Repubblica di oggi, Roberto Speranza, a nome della minoranza dem, lancia un allarme: “Se Denis Verdini entra nella maggioranza, è la fine del Partito democratico”.
Speranza mi perdonerà, ma non riesco proprio a dare credito alla sua buona fede. Perché per farlo dovrei dubitare della sua intelligenza. L’intervistatrice, Giovanna Casadio, gli fa notare infatti che Verdini, che allora era il braccio destro di Berlusconi, era in maggioranza, insieme al Pd, sia col governo Monti che con quello Letta. E Speranza, che allora era capogruppo del Pd alla Camera, risponde così: “Non sono vicende paragonabili: nel 2013 o si faceva un governo di larghe intese o non sarebbe nato nessun governo. Oggi invece un governo c’è, il dialogo con Verdini non è una necessità ma una scelta politica”.
Ecco: un dirigente politico del calibro di Speranza non può sostenere una tesi del genere senza che l’interlocutore sia posto dinanzi ad un dubbio radicale: o Speranza crede alla sua propaganda, e allora incorre in quello che Giancarlo Pajetta definiva l’errore più frequente e più grave per un giovane dirigente politico, oppure ci sta solo rifilando pessima propaganda, con grave detrimento per la sua credibilità. Speranza non può non sapere che il patto del 2013 è durato poche settimane, fino al voto sulla decadenza di Berlusconi da senatore e che il governo Letta sarebbe caduto se Alfano non avesse scelto, insieme ai suoi, la difficile strada della scissione del Pdl e della fondazione del Ncd.
Speranza non può non sapere che la maggioranza rimasta a sostegno del governo Letta non sarebbe riuscita a portare a termine le riforme costituzionali senza il ritorno di Berlusconi (con Verdini), non al governo, ma al tavolo delle riforme, attraverso il famigerato patto del Nazareno. Speranza non può non sapere che anche quel patto è stato stracciato da Berlusconi, a causa della scelta da parte del Pd di proporre ed eleggere Sergio Mattarella presidente della Repubblica e che è stato su questo passaggio che si è consumata la rottura tra Berlusconi e Verdini. Speranza non può non sapere che senza i voti del gruppo di Verdini, al Senato i 161 sì necessari alla riforma sarebbero stati ad altissimo rischio. Speranza non può non sapere che il gruppo di Ncd ha perso alcuni senatori, passati all’opposizione, a causa del voto di fiducia sulle unioni civili, sostenuto invece dal gruppo dei verdiniani.
Speranza non può non sapere, in definitiva, che oggi al Senato, senza i verdiniani, la maggioranza forse c’è e forse non c’è e dunque il dialogo con il gruppo di Verdini non è una scelta ma una necessità. Poi c’è la politica, che ci dice cinque cose. La prima è che le varie rotture del patto del 2013 sono state sempre reazioni a scelte che il Pd ha deciso in modo unanime: il voto sulla decadenza di Berlusconi, la scelta di Mattarella per il Quirinale, le unioni civili.
La seconda è che in questa legislatura i gruppi del Pd sono rimasti uniti e anzi si sono allargati a parlamentari di Sel e di Scelta civica, mentre è stato nel centrodestra che si sono consumate numerose e dolorose scissioni.
La terza è che il nostro elettorato ha compreso e condiviso quella che resta una linea politica difficile (perché è sempre difficile sostenere a lungo una collaborazione al governo con gli avversari di sempre), come ha dimostrato il risultato storico delle europee e quello largamente positivo delle regionali.
La quarta è che ciò è stato possibile perché nei contenuti dell’azione di governo e parlamentare abbiamo saputo fare compromessi alti e mai abbiamo ceduto sui nostri principi e valori di fondo.
La quinta è che c’è un solo modo per non essere più costretti ad alleanze spurie: portare a termine, con la vittoria del SI al referendum confermativo, le riforme costituzionali che renderanno possibile, finalmente, una chiara e limpida scelta del governo da parte degli elettori. Anche questo, Speranza non può non saperlo.