giovedì 30 aprile 2015

Renzi, pensavano giocasse, fa maledettamente sul serio


Mino Fuccillo
Finte, posticce e grottesche, come improvvisate e pur ripetitive maschere di domestico carnevale, sono le grida di “fascismo” che si levano da ogni dove nell’Aula di Montecitorio all’indirizzo della legge elettorale chiamata Italicum. E’ teatro, anzi avanspettacolo (per chi si ricorda cosa era) della politica. A mettere in fila e a prendere sul serio le accuse e le denuncia di dittatura e fascismo dal 1945 in poi risulterebbe che democrazia c’è stata in Italia, forse e appena un po’, dal 25 aprile 1945 al 18 aprile 1948.
Poi, sommando e prendendo per buone le incrociate e rispettive e ripetitive sceneggiate, il “regime” democristiano, insomma una dittatura dolce. Quindi il dittatore manifesto Bettino Craxi alla guida dei governi. Poi la dittatura/regime di Berlusconi, quindi la non democrazia del governo Monti e di tutti i governi tecnici prima di lui. Passando per i non democratici governi Prodi (ricordate, secondo Berlusconi erano frutto di frode elettorale). Planando sul governo Letta (non eletto da nessuno) e quindi approdando alla “democratura” del governo Renzi ora sbarcato finalmente sulla riva del conclamato “fascismo”.
Ci piace così, siamo fatti così, siamo abituati così: l’avversario politico non basta sia uno che sbaglia o non fa bene, deve essere un nemico del popolo, una sciagura nazionale, un agente del nemico, un dittatore. Quindi meravigliosamente e a nostra sostanziale insaputa viviamo da circa 67 anni in un regime politico di dittatura mascherata ma neanche tanto. Questo raccontano, se sommate, le propagande di quelli che furono il Msi e il Pci e poi la propaganda di Berlusconi e poi quella di Grillo e oggi anche quella di Bersani.
Ma se posticcio e grottesco è il racconto del fascismo sempre immanente in ogni governo e oggi manifesto e conclamato niente meno che in una legge elettorale e nella volontà di farla approvare dopo anni di immobilità e anni di dibattito parlamentare, genuino è lo sgomento, genuina è la “tristezza”, genuino è lo sbandamento perfino emotivo dei maggiori oppositori di Renzi: una gran parte dei suoi compagni di partito.
Bersani, Bindi, D’Alema, e poi Fassina, D’Attorre, Cuperlo, Civati (e qui passando dagli uni agli altri già si mischia la lana con la seta ma tant’è) sono genuinamente partecipi di una cultura, politica e anche etica, nella quale democrazia coincide, anzi è: nessuno decida, nessuno faccia nulla se tutti gli altri non sono d’accordo o almeno non abbiano ottenuto qualcosa in cambio del loro assenso alla decisione e/o all’azione.
Questa cultura prevede, contempla, postula il “tavolo di concertazione”, “l’assenso delle parti sociali” o più in generale delle parti in causa. Omaggia, anzi santifica la mediazione. Ha orrore del principio di maggioranza se non mitigato e in fondo contraddetto dalla irriducibilità “costituzionale” della minoranza a essere…minoranza. Secondo questa cultura la minoranza non si conta, si pesa. Cioè la minoranza, se è tale, ha diritto non a diventare domani eventualmente maggioranza ma ad avere qui e oggi quota parte della decisione.
E’ una cultura non solo di ceto politico ma anche di massa. E’ una cultura che ha la sua storia, le sue ragioni e i suoi valori. Spesso ai giorni nostri degenera e dirazza da partecipazione in spartizione, da mediazione a lottizzazione, da rappresentanza a clientela. Spesso diventa l’incubatrice e il moltiplicatore delle lobby, lobby suffragate dal diritto all’incompetenza. Una fra tutte: l’idea che a decidere su una materia debbano essere in primo luogo e soprattutto quelli che in quella “materia” lavorano e operano.
Nulla di più diffuso e nulla di più gravido di pessime conseguenze: se sui trasporti pubblici decidono solo e prima di tutti gli autisti è ovvio e naturale che gli autisti penseranno agli autisti e non ai passeggeri (ogni riferimento al prossimo sciopero dei docenti nella scuola è voluto e calzante, lo sciopero è sacrosanto e comprensibile se si assume che la scuola è prima di tutto e soprattutto di e per chi ci lavora, se ci si riferisce a percorso formativo, cultura, competenze, studenti, allora lo sciopero…di questo non si occupa, non sono affari suoi).
Questa cultura nei suo fasti e nefasti, questa cultura in cui la democrazia è che ciascuno abbia l’inalienabile diritto a trattare con chiunque una parte almeno della decisione e/o dell’azione o altrimenti a bloccarla che se no è…dittatura è quella dei Bersani, delle Bindi e di tanti altri che hanno cognomi meno noti. E’ stata per anni e decenni non la cultura dominante ma quasi l’unica cultura della sinistra post comunista, quella democratica appunto.
I Bersani, uno per i tantissimi come lui, pensavano, hanno sempre pensato che Matteo Renzi in fondo fosse uno che giocava, uno spregiudicato giocatore sì, ma un giocatore, uno che gioca. Ma che alla fine sta alle regole della cultura. E quindi hanno pensato: lo inchiodiamo cambiandogliela sempre la legge elettorale. Prima chiediamo la soglia bassa al 3 per cento. Lui ce la da e noi diciamo che è troppo bassa, così lui capisce che deve dare altro.
Arriva la parità di genere nelle liste, bene. Arriva la soglia per il premio alzata al 40 per cento, bene. Ma noi chiediamo ancora e ancora e ancora. Così Renzi si ammolla e si ammoscia e molla sull’Italicum e tante altre cose. Non oserà mai mettere la fiducia su una legge elettorale, rischiare di andare sotto, rischiare la crisi di governo e il governo e in fondo tutta la sua carriera politica. Non lo farà perché…non si fa. Nella nostra democrazia dello scambio e della trattativa perenni non si fa. Così hanno pensato i Bersani e per questo oggi sono genuinamente sgomenti.
Invece Renzi non gioca, non è uno spregiudicato giocatore. Invece è uno che fa maledettamente sul serio. Ha deciso, a torto o a ragione, e lo ha chiaramente detto in ogni luogo e in ogni modo che questa cultura della democrazia identificata nella trattativa e scambio perenni non è solo un problema delle istituzioni ma è autentico handicap per l’economia, per la società. Per, guarda un po’, la democrazia. Che secondo Renzi è proprio decidere, scegliere, fare in modi e tempi relativamente certi.
Nessuna delle due culture ha l’esclusiva della democrazia che di suo peraltro non è una tavola fissa delle legge e delle leggi ma è materia viva che evolve e muta. Di certo le due culture non possono convivere in uno stesso partito, non è serio. Ancor più certo anche se meno raccontato è che non è l’Italicum la materia vera del contendere.
Racconta e documenta oggi su La Stampa Marcello Sorgi quanti e quali siano i “voltagabbana” dell’Italicum. Da Forza Italia che dichiarava la legge un progresso storico qualche mese fa e oggi ci vede dentro “il bivacco dei manipoli”. Ad Enrico Letta e Bersani che tennero a battesimo il Comitato dei saggi nel 2013, Comitato che sfornò uno schema di legge elettorale, allora applaudito da Letta e Bersani che era il fratello se non il sosia dell’Italicum. A Brunetta, Cuperlo, Bindi che nel 2009 erano per il premio alla lista e non alla coalizione, quello che oggi bollano come fascismo elettorale.
“L’assalto dei voltagabbana” titola Sorgi, ma anche questo solo in parte è teatro. In parte è dramma: c’è un ceto politico che recita e ce n’è un altro che davvero pensa la democrazia sia soprattutto se non soltanto il nessun faccia se non ha dato qualcosa a tutti. E pensa che Renzi sia un pericolo mortale per questa democrazia così intesa. E che quindi per fermare Renzi che non si ferma ogni mezzo sia lecito, anzi nobile, nobilitato dalla causa. Anche la menzogna.


buonsenso


mobilità


mercoledì 29 aprile 2015

Bersani: «Non è la ditta che ho creato. Prepotenza 
da Matteo? La sua natura non è bella».


Corriere della Sera 29/04/15
Monica Guerzoni
Ha l’aria mesta Pier Luigi Bersani mentre sale lo scalone di Montecitorio e si ferma davanti alla porta della commissione Attività produttive: «Vedo tanta tristezza in giro, tanta tristezza...».

 Per settimane si è sgolato, si è appellato al senso di responsabilità del presidente del Consiglio, lo ha implorato di non mettere la fiducia sulla legge elettorale, come nella storia d’Italia è accaduto solo due volte: sulla legge Acerbo del 1923 (all’inizio del ventennio di Mussolini) e sulla cosiddetta legge «truffa» del 1953. Gli ha chiesto di farsi carico del pericolo di una spaccatura irreparabile del Partito democratico, ha persino evocato il rischio di una dolorosa scissione. Ma niente, Matteo Renzi ha tirato dritto.

 E poiché l’intenzione di accelerare filtrava da Palazzo Chigi sin dal mattino, il già ministro dell’Industria e dello Sviluppo economico ha messo a verbale la sua contrarietà nella votazione a scrutinio palese sulla richiesta di sospensiva dell’Italicum. Sui tabulati il nome di Bersani risulta tra i 17 deputati che sono usciti dall’aula al momento del voto. Un primo messaggio politico, chiaro e forte. E quando la notizia della fiducia è ufficiale, l’ex segretario non riesce a tenere per sé la rabbia e la preoccupazione di cui è gonfio il suo animo. 

Davvero non voterà la fiducia?
 
«Davanti a scelte di questa portata, ognuno deve assumersi le sue responsabilità. Vedremo cosa fare assieme e poi vedrò cosa fare io».

 
Giudica sbagliata la scelta del premier di legare la legge elettorale alla vita del governo?
 
«Sì, perché qui il governo non c’entra niente. A essere in gioco è una cosuccia che si chiama democrazia».

 
Perché Renzi ha deciso di forzare? Nella minoranza si parla di prepotenza...

«Lui è in natura così».

 
E com’è la natura di Renzi?

«Non è una bella natura». 


È rimasto spiazzato dalla prova di forza?

«No, io non avevo dubbi che avrebbe messo la fiducia. Ma che bisogno c’era? Si dice che la gente non capisca di che cosa si sta discutendo in Parlamento. Ma insomma, tocca a me spiegarlo?». 


Anche a lei, sì.
 
«Può essere che tocchi anche a me, ma tocca a tutti. Parliamo delle regole del gioco, parliamo della nostra democrazia. Una cosa che non riguarda Bersani contro Renzi». 


Il premier le ha dato una bella sberla mettendo la fiducia. 

«Ma io, se serve, di sberle ne prendo quante volete. Il problema non è Bersani, è l’Italia».

 
Col voto contrario di una parte della minoranza sarà la fine della ditta?
 
«Non è più la ditta che ho costruito io. Questa è un’altra cosa, un altro partito».

 
Ma lei ci può stare in un partito così? O pensa alla scissione? 

«Ma dove posso andare... Sa come diceva Dante Alighieri? Se io vo, chi rimane? Se io rimango, chi va? ( Trattatello in laude di Dante di Giovanni Boccaccio, ndr ).

 
Crede davvero che l’Italicum sia la peggiore delle leggi possibili?
«Con questa legge qua la demagogia va in carrozza. Ma lei se lo immagina cosa diventeranno le prossime elezioni? 
Sarà il festival della demagogia». 


Esagera, onorevole. 

«No, saranno una gara a chi la racconta più grossa».

 
Qual è la cosa che le ha fatto più male?
 
«La fiducia su una questione così importante per la democrazia. Io lo sapevo fin dall’inizio che finiva così. Com’era quel titolo del Corriere ?». 

«Bersani pronto a uscire dall’Aula per non dover votare sul governo».  Abbiamo sbagliato?
 
«Direi proprio di no» .

Il segretario: il partito è con me. 
E ora li scavalcheremo a sinistra.


Corriere della Sera 29/04/15
Maria Teresa Meli
Matteo Renzi è convinto che il can can suscitato dalla decisione di una parte della minoranza di non votare la fiducia «durerà poco».

 In verità la sfilata dei big che usciranno dall’Aula preoccupa gli stessi fedelissimi del premier. Ma il presidente del Consiglio li rassicura così: «Vedrete che alla fine non sarà controproducente per il nostro elettorato, anche se il loro obiettivo è proprio questo. L’importante è spiegare bene le cose. Io lo farò anche a Bologna, nel mio discorso alla festa dell’Unità. E poi nelle prossime settimane li scavalcheremo a sinistra con l’azione di governo». Come? L’inquilino di palazzo Chigi pensa all’utilizzo del tesoretto in questa chiave. Immagina un «grande piano anti-povertà» perché quelle risorse, a suo giudizio, devono essere destinate alla «parte più debole del Paese».

 Per evitare la durissima reazione di Bersani, Letta, Bindi, Speranza e degli altri che oggi diserteranno le votazioni, Renzi avrebbe dovuto rinunciare allo strumento della fiducia. Era l’opzione del mediatore a oltranza Andrea Orlando che, ieri, in Consiglio dei ministri, ha invitato Renzi a considerare l’ipotesi di rinunciarvi nel caso fossero arrivati da parte della minoranza interna «significativi segnali politici».

 Ma quel che è giunto è stato invece il pronunciamento dell’ex capogruppo Roberto Speranza: «Non voterò la fiducia». «Il richiamo della foresta è stato più forte», secondo il premier che, a quel punto, ha avuto gioco facile a convincere anche i più perplessi: «Facciamo questa battaglia a viso aperto, come sempre. O passa la riforma o andiamo al voto e non sono certo io a temere le elezioni».

 Del resto, in cuor suo, Renzi non ha mai avuto dubbi in proposito, convinto com’era convinto, che sull’emendamento che prevede l’apparentamento al secondo turno, i suoi oppositori interni ed esterni avrebbero «cercato di metterci sotto», vanificando così l’impostazione bipartitica dell’Italicum.

 Ma sulla riforma elettorale Renzi non poteva non «tirare dritto». «È un impegno — ha spiegato ad alcuni parlamentari — che ho preso con i cittadini italiani, non saremmo credibili se non facessimo questa riforma. Io ci metto la faccia, come sempre».

 E non c’è solo questo, ovviamente. Il premier crede veramente che l’Italicum, per quanto non sia un provvedimento «perfetto», sia pur sempre un «ottimo compromesso» e che, soprattutto, raggiunga gli obiettivi che si era prefissato: «Così daremo la stabilità necessaria ai governi e la faremo finita una volta per tutte con le coalizioni disomogenee che non funzionano». 

Queste sicurezze del premier non debbono far pensare che Renzi ritenga che non accadrà nulla: «Vedrete — confida ai più stretti collaboratori — che una parte dei mass media ci salterà sopra ed è proprio quello che vuole una fetta della minoranza, l’ala più oltranzista, quella che magari medita di andarsene oppure di riprendersi in qualche modo la ditta». Ma la prima ipotesi, quella della scissione, con questa riforma elettorale diventa molto più difficile e la seconda, quella caldeggiata da Massimo D’Alema, per Renzi, è improbabile: «Non mi fermeranno».

 Insomma, il presidente del Consiglio è disposto a scontare un po’ di «caos mediatico», per dirla con le parole di un renziano di stretta osservanza, perché è sicuro di poter ribaltare la situazione: «Il partito è con noi, soprattutto gli iscritti. La stragrande maggioranza mi chiede di non fermarmi e di non arretrare».

 Renzi non ci sta a essere dipinto come un dittatore, non accetta il fatto che Bersani e compagni lo facciano passare per quello che ha voluto dividere il partito imponendo la fiducia sull’Italicum: «Diciamoci la verità, abbiamo modificato questo disegno di legge un sacco di volte per andare incontro alle richieste espresse dalla minoranza. Ora quelli non vogliono cambiarlo nel merito, vogliono affossarlo e, magari, con l’Italicum affossare anche me. Noi però non glielo permetteremo».

 E comunque la «vera prova» per il presidente del Consiglio sarà rappresentata dalle elezioni regionali. Se in quelle consultazioni il Pd riporterà un successo (cosa di cui il presidente del Consiglio sembra abbastanza convinto), allora «ogni discussione lascerà il tempo che trova».




martedì 28 aprile 2015

Nichi e il commissariamento di Varoufakis


Attilio Caso
28 aprile 2015
"Noi resistiamo a questa deriva, che denota un avanzamento dell'autoritarismo trepercentista: Yanis ha subito una limitazione nei poteri nella trattativa con un'eurocrazia merkelista e dirigista - perché un "dirigista" ci vuole sempre. Alexis, proprio lui, ha operato questa scelta, che infligge un colpo deciso ad ogni spirito di libertà ed emancipazione propri del nostro popolo. Eppure Yanis è sempre stato coerente: ha sempre rinviato ogni decisione, ha sempre riempito di chiacchiere ogni ragionamento orientato ad individuare le responsabilità dei cittadini nella situazione del paese, non ha mai rispettato una scadenze ed ogni piano da lui inviato era vago e leggero.
Come escludere una figura così valente, che sempre rifiuta ogni uscita cravattista e lodenista a favore di una tenuta più ribellista.
Ora, organizzo una petizione per restituire leggerezza alla politica greca, quella politica bella che tanto avrebbe apprezzato il maestro Italo Calvino. Intanto, aspetto Lucia, Lilli, Norma, Luciano, Miguel, Alfredo, Stefano e Pippo: ceneremo in riva al mare, Luciano ci illustrerà il rapporto tra Pericle e la spesa pubblica di Papandreu e, come è giusto, le dottorande laveranno i piatti, in attesa che arrivi l'onda renzista emilianista in Puglia. Noi siamo con Michele, naturalmente, ma dalla parte migliore."

Matteo ...questa segnatela...


Pippo saluta Enrico


Attilio Caso
28 aprile 2015 
Pippo augura buon viaggio ad Enrico Letta: "Caro Enrico, io non avevo votato la fiducia al tuo governo. Non perché fossi contrario al programma in sé, ma perché credevo che con troppa fretta avessi accettato l'incarico. Del resto, la legislatura aveva due mesi: cosa erano mai due mesi davanti agli ulteriori cinquantotto che sarebbero seguiti? Sai quanti post, che denotano grande autorevolezza politica, si possono scrivere in cinquantotto mesi?
Poi, hai avuto due colpi di genio: i trentacinque saggi e il tempo lento. Trentacinque: neanche Corradino avrebbe trovato un numero altrettanto foriero di calma, riflessione e porto delle nebbie. Io sono stato positivamente colpito. Mi sono detto: 'vuoi vedere che Enrico cucina Matteo e vince lui il congresso?' e, soprattutto, 'vuoi vedere che non cambiamo la legge elettorale e riusciamo a non fare l'Expo?' Così sono rimasto alla finestra. Come sempre: è solo un po' scomoda per scrivere i post. Poi, sappiamo cosa è accaduto: Berlusconi ti ha lasciato, ma tu sei rimasto immobile. E anche in quella occasione mi sei piaciuto. Matteo ha vinto il congresso e sei statosereno. Io non ho votato la fiducia neanche a Matteo. Io non voto la fiducia.
Ma ora, Enrico, ti stai superando: "un libro che esalta l'andare lontano (e piano), le dimissioni differite e un viaggio verso Parigi, che di questo passo durerà più di quello di Colombo. Insomma, Enrico, te lo dico con garbo e ammirazione: alzati, e va a Parigi! Ti mando Corradino come interprete. 
Il tuo Affezionatissimo."

Italicum: Respinte tutte le pregiudiziali alla Camera

La maggioranza supera il primo test alla Camera sull’Italicum. Con 384 voti contrari e 209 favorevoli, l’Aula ha respinto le quattro pregiudiziali di costituzionalità presentate da Forza Italia, Sel, Lega Nord e M5S. In un voto successivo, l’assemblea di Montecitorio ha bocciato con 385 no e 208 sì le tre pregiudiziali di merito presentate da Forza Italia, Sel e Movimento 5 Stelle. Le votazioni sono avvenute a scrutinio segreto, richiesto da Forza Italia e accordato dalla presidente della Camera Laura Boldrini.  
A seguire l’Aula di Montecitorio ha respinto anche la questione di sospensiva presentata da Forza Italia. Duro l’intervento di Emanuele Fiano, responsabile riforme del Pd, che ha criticato aspramente «l’incoerenza» del partito di Berlusconi, per aver votato a favore della riforma elettorale al Senato e ora alla Camera ne chiede la sospensione. I voti favorevoli sono stati 206, i contrari 369. Il voto è stato a scrutinio palese.

italicum


passerà....

Prima ancora di essere approvato l'Italicum ha già prodotto un risultato positivo.
Vittorio Zucconi

indecorosa


Augusto Barbera
....La critica portata avanti dalla minoranza del Partito democratico contro la maggioranza risicata che va profilandosi per l’approvazione della riforma. Sono gli stessi che pochi mesi fa tuonavano contro l’intesa contenuta nel Patto del Nazareno. Accordo che Forza Italia e Silvio Berlusconi avevano accettato e votato in tutti i dettagli. Salvo revocare l’appoggio per il mancato accoglimento del veto sull’elezione del nuovo Capo dello Stato. Ma non può essere questa una ragione plausibile per cedere all’immobilismo....

Franceschini: "A Bersani e agli ex segretari mi appello per l'unità del partito. Basta con i toni apocalittici"


FRANCESCO BEI
La Repubblica 27 aprile 2015
Il ministro dei beni culturali: "Abbiamo il dovere di approvare una nuova legge elettorale. Se anni fa ci avessero detto che si sarebbe potuto portare a casa un testo così vicino alle posizioni storiche del Pd e dell'Ulivo non ci avremmo mai creduto"
Dario Franceschini non parla più di politica. Un silenzio autoimposto da quando Renzi l'ha chiamato nel suo governo, "perché la Cultura è una materia troppo importante per essere trascinata nelle baruffe quotidiane". Ma dopo un anno sceglie oggi di tornare in campo perché "siamo di fronte a un passaggio drammatico". Perché un voto contrario all'Italicum significherebbe non solo la fine del governo, ma anche "una rottura forse irreparabile " nel Pd. Da qui l'appello a tutti i massimi dirigenti, "agli ex segretari come Bersani ed Epifani, ai dirigenti come Bindi, Cuperlo e Speranza ", a salvaguardare l'unità del partito.
Bersani interpreta come una "pressione indebita" l'annuncio di Renzi che il governo andrà a casa in caso di un voto contrario sulla legge elettorale. Non state facendo una forzatura?
"Nessuna minaccia, solo una constatazione. Questo governo è nato avendo due obiettivi: le riforme e la crescita economica. La legge elettorale non solo è uno dei punti cardine del programma di governo, ma riempie anche un vuoto che si è aperto con la sentenza della Corte costituzionale che ha bocciato il Porcellum. Talvolta si tende a dimenticarlo, ma noi abbiamo il dovere di approvare una nuova legge".
Quello che contestano è "il metodo ", "l'aut-aut". Ritengono sbagliata un'approvazione ristretta alla sola maggioranza. Sulle regole non sarebbe opportuno allargare a tutti?
"Ed è proprio quello che abbiamo fatto. Renzi si è rivolto a tutte le forze politiche, ma il M5s ha fatto finta e poi si è chiamato fuori. È rimasta Forza Italia, che ha votato sin qui la legge. Poi, per motivi politici, ora si è tirata fuori. Ma noi non possiamo arrenderci. Sono vent'anni che le riforme si fermano a un passo dal traguardo, a partire dalla Bicamerale di D'Alema. Berlusconi è sempre arrivato ad approvare tutto, salvo far saltare il banco al passaggio finale. Stavolta non glielo possiamo permettere. Anche perché, votando la legge senza modifiche, approveremo il testo già votato da Forza Italia al Senato".
Più che con Berlusconi il problema ce l'avete dentro il Pd...
"C'è un problema nel Pd, è vero. Ed è per questo che sento il bisogno di prendere la parola dopo essere rimasto in silenzio per un anno. Sento il dovere di rivolgermi, da ex segretario, agli ex segretari Epifani e Bersani, ma anche a dirigenti di valore come Bindi, Cuperlo e Speranza. Stavolta, per davvero, non solo è in gioco la possibilità di portare a termine una riforma storica che abbiamo fallito almeno dieci volte. C'è un problema serio che riguarda il futuro del nostro partito".
La scissione è alle porte?
"Per il clima che si è creato sono molto preoccupato. Ma faccio presente che sono stati seguiti tutti i passaggi democratici previsti: il voto in Direzione, il voto nei gruppi parlamentari, una discussione lunga e approfondita. E il testo è infatti cambiato grazie anche alle proposte di modifica della minoranza. Se pure di fronte a un voto democratico a maggioranza nel gruppo ognuno si sente libero di fare quello che gli pare in aula, mi chiedo dove sia finita la casa comune. Quale comunità può stare in piedi se la minoranza non si adegua alle decisioni prese insieme, con un voto democratico? Non è un fatto di disciplina, ma di buon senso".
La minoranza obietta che sulla legge elettorale non può valere una disciplina di partito. L'appello alla coscienza del singolo parlamentare è corretto?
"Assolutamente sbagliato. Ma come si fa a non vedere che la legge elettorale è il tema più politico del mondo? Non parliamo mica di problemi etici!".
Dunque è legittimo porre la questione di fiducia? Non è una forzatura estrema?
"Non so se il presidente del Consiglio porrà la questione di fiducia. Ma, al di là della scelta formale, la fiducia è implicita. Il voto sull'Italicum sarà comunque una verifica del rapporto fiduciario che esiste tra il Parlamento e il governo. E, me lo lasci dire, sarà anche una verifica del rapporto tra il Pd e il suo governo".
Nel senso che se l'Italicum verrà affondato voi andrete a casa?
"Renzi mi sembra che sia stato molto chiaro su questo. Questo è un passaggio centrale e, se andiamo a bagno, non è che ce la caviamo fischiettando e facendo finta di niente ".
La questione centrale sollevata dalla minoranza sono le preferenze e i troppi capilista bloccati. Non teme un Parlamento di nominati?
"Questa legge è ovviamente un compromesso, anche a me ci sono cose che non piacciono. Ad esempio, il Pd è sempre stato per i collegi uninominali mai a favore delle preferenze, perché comportano molti rischi: dai costi eccessivi della campagna elettorale al fatto che mandano in Parlamento non i migliori ma i più bravi a raccogliere consenso sul territorio con metodi.... molto elastici, diciamo. Ma se anni fa ci avessero detto che si sarebbe potuto approvare un testo così vicino alle posizioni storiche del Pd e dell'Ulivo  -  con il premio di maggioranza che garantisce la stabilità e il ballottaggio che assicura un vincitore certo  -  non ci avremmo mai creduto. Avremmo dato di tutto per avere una legge così".
Bersani e molti costituzionalisti temono il "combinato disposto" tra legge elettorale e riforma costituzionale. Sostengono che cambi surrettiziamente la forma di governo. È così?
"Sono anni che parliamo di rafforzare l'esecutivo, di dare un ruolo più incisivo al presidente del Consiglio, non certo di indebolirlo, di fine del bicameralismo. Tutto il dibattito costituzionale ruota intorno a questo. Certi toni apocalittici sono francamente sproporzionati".

lunedì 27 aprile 2015

Il governo e la tattica per blindare
 premio al partito soglie e capilista bloccati.


Corriere della Sera 27/04/15
Maria A Calabrò
Il governo punterebbe a discutere nel merito la nuova legge elettorale già questa settimana, che è l’ ultima di aprile, senza slittare alla prima settimana di maggio. Andare a maggio avrebbe permesso di poter utilizzare tutti gli strumenti che il Regolamento della Camera mette a disposizione per la discussione di una legge, compreso il contingentamento dei tempi di discussione. È un po’ come avviene per le ricariche dei cellulari, a fine mese, il governo può far ricorso solo al 20 per cento dell’«armamentario» del Regolamento. Ma l’ipotesi di maggio sarebbe tramontata.

 Regolamento e fiducia
. In ogni caso il governo ha nuovamente fatto circolare l’intenzione che di fiducie potrebbe metterne tre o quattro. Non sulle pregiudiziali di costituzionalità ma sui punti qualificanti della legge elettorale che è uno degli impegni prioritari di Matteo Renzi sin dalla formazione del suo esecutivo (governo del primo ministro, premio di maggioranza, preferenze e capilista,soglia di sbarramento). La fiducia verrà posta se la minoranza chiederà il voto segreto su molte proposte di modifica del testo, già approvato in prima lettura alla Camera poi modificato al Senato, e approvato senza modifiche in Commissione a Montecitorio. E che, quindi, se non verrà modificato adesso in Aula, avrà il via libera definitivo. 

In base al Regolamento della Camera il voto segreto può essere chiesto anche quando non sono in gioco questioni di coscienza, a differenza di quanto avviene a Palazzo Madama. Su questo la minoranza democratica darà battaglia. Per questo, secondo il governo e molti costituzionalisti, il ricorso alla fiducia è perfettamente legittimo. La fiducia invece non potrà essere messa, per regolamento, sul voto finale, che sarà a voto segreto. E lì Renzi si gioca tutto. Ecco invece i punti qualificanti dell’Italicum su cui potrebbe essere messa la fiducia.

 L’esempio inglese. 
La novità più importante che verrà introdotta sarà il fatto che dalle urne uscirà il cosiddetto «governo del primo ministro». Sull’esempio di quanto avviene in Inghilterra, Spagna e Germania. Una riforma per far funzionare il sistema modificando solo la legge elettorale.

 «Per stabilire chi ha vinto e chi ha perso, la sera stessa delle elezioni», come ha rivendicato fin dall’inizio il premier, è stato introdotto un premio di maggioranza che assegna 340 seggi su 617 (sono esclusi dal calcolo i 12 deputati della Circoscrizione Esteri e il deputato della Valle da Aosta ) al partito che ottiene il 40% dei consensi. Se invece nessun partito arrivasse al 40% scatterebbe un secondo turno per assegnare il premio di maggioranza, a cui accederebbero le due liste più votate al primo turno. Il vincente otterrà un premio di maggioranza tale da arrivare al 53% dei seggi, ovvero 327 deputati). Ma al contrario della legge in vigore per l’elezione dei sindaci, tra il primo e il secondo turno non saranno possibili apparentamenti. Come nel Porcellum, i capilista potranno presentarsi in più collegi elettorali, fino a un massimo di 10. 

Le preferenze. 
Dalle attuali 27, si passa a 100 circoscrizioni con una media di 600.000 abitanti ciascuna, in cui verranno presentate mini-liste, in media di 6 candidati, con i capilista bloccati, mentre dal secondo eletto in poi intervengono le preferenze e ogni elettore ne potrà esprimere due. L’effetto diretto di questo meccanismo è che i partiti più piccoli (che difficilmente avranno i voti per nominare più di un parlamentare per circoscrizione), eleggeranno i capilista, mentre i partiti più grandi avranno anche una quota di parlamentari scelti con le preferenze. 

Per limitare la proliferazione dei gruppi parlamentari, i partiti dovranno superare la soglia del 3% . Non è stata introdotta la cosidetta «clausola salva-Lega», che apriva le porte del Parlamento ai partiti che avessero raccolto il 9% dei consensi in almeno tre regioni. 

La salvaguardia. 
Se approvato l’Italicum entrerà in vigore dal 1 luglio 2016, è la cosiddetta clausola di salvaguardia. La minoranza dem teme però che l’entrata in vigore potrebbe essere modificata per decreto. Resta poi il nodo della riforma costituzionale del Senato, che potrebbe costituire la mano tesa di Renzi alla minoranza.

Tocca all’Italicum.
Renzi:noi non ci fermiamo.


Corriere della Sera 27/04/15
Al. T.
Sembra sfumare l’ipotesi di un rinvio del voto sull’Italicum, che arriva oggi nell’aula della Camera. La scelta se porre la fiducia potrebbe non riguardare le pregiudiziali di costituzionalità, ma i soli articoli del provvedimento. E contro l’ipotesi della fiducia si scaglia il leader di Area riformista Roberto Speranza, che la definisce «un errore madornale». Renzi però politicamente ha di fatto già posto la fiducia quando, alla Gruber, ha spiegato che se «l’Italicum non passa si va a casa». Insomma, il clima è incandescente, tant’è che c’è chi come Arturo Scotto, di Sel, denuncia «telefonate e pressioni indebite da ambienti governativi su singoli esponenti dei gruppi parlamentari sul voto di martedì».

 Ma il premier va avanti e parlando ai suoi dice che se l’Italicum fosse bocciato non sarebbe smentito solo lui, «ma l’intero Pd»: «Questa legge l’abbiamo cambiata tre volte per venire incontro alla minoranza. Ora vogliono cambiarla di nuovo. In realtà è che pensano di tornare da capo come sempre. Ma non glielo consentiremo». E ancora:
 «Si sono già dimenticati che li abbiamo portati al 41%. E che abbiamo vinto in 4 Regioni dove si era perso». In questa legislatura, prosegue Renzi, «un governo Brunetta-D’Attorre-Salvini non mi pare lo scenario più plausibile, ma sarebbe il Pd a quel punto a chiedere elezioni».

 E se il capogruppo di Forza Italia Renato Brunetta riassume i suoi desiderata («Avanti fino al 2018 con la legislatura, no alle elezioni anticipate, no all’Italicum, via Renzi»), il premier non ha intenzione di desistere, perché «i nostalgici dell’inciucio, sia dentro il Pd che fuori, come Brunetta, si mettano l’anima in pace: il governo sarà di legislatura, fino al 2018». E per ulteriore conferma, racconta un episodio: «Mi ha molto colpito, a Marzabotto, il partigiano che mi ha detto: Matteo, noi di sinistra siamo così, litighiamo e discutiamo, ma tu vai avanti, non ti fermare».

 Speranza parla da Lucia Annunziata: «Renzi non deve mettere la fiducia, sarebbe un errore madornale, una violenza enorme verso il Parlamento». E se il governo mettesse la fiducia, cosa farebbe? «Se io oggi dicessi qui voto la fiducia, direi a Renzi ok metti la fiducia. Io dico che sarò leale fino in fondo, ma Renzi sia leale con il Parlamento. Non ho mai detto, comunque, che non voterò la fiducia». Speranza non vuole spaccature nel partito: «La scissione sarebbe un errore enorme, mi dà fastidio persino il suono della parola. Fuori dal Pd c’è il disastro». Ma dice di no a un Pd partito della nazione: «La gente mi chiede: il Pd litiga con la Camusso e imbarca Bondi e Verdini. Ma che sta succedendo?». All’ex capogruppo risponde così Renzi, parlando con i suoi: «Bondi e Verdini potranno pure appoggiare il governo, ma non entreranno mai nel Pd. Il partito della Nazione? Una espressione di Reichlin il giorno dopo le Europee». Quanto alla ricorrente evocazione dell’Ulivo, Renzi parla di «polemiche strumentali»: «C’è chi è sempre stato contro l’Ulivo di Prodi e ora cerca di usare quella stagione giocandola contro il presente. Noi il buono dell’Ulivo lo difendiamo sempre». E a conferma, si cita il seminario sulle primarie dieci anni dopo, che si terrà oggi con Arturo Parisi e Lorenzo Guerini .




Lealisti, indecisi e (pochi) irriducibili
Vanno in scena le tre minoranze.


Corriere della Sera 27/04/15
Alessandro Trocino
«Il punto è politico: qui rischia di venire meno un pezzo di Pd». Danilo Leva, bersaniano, non nasconde i timori per quello che accadrà quando si andrà al voto sull’Italicum, se venissero poste le questioni di fiducia. E il Pd rischia di arrivarci spaccato in tre tronconi: un corpaccione di renziani e lealisti che dirà di sì alle fiducie e nel voto finale; un gruppo consistente di bersaniani e cuperliani che non negherà il proprio via libera ma non nasconderà l’irritazione e la rabbia; e una minoranza di irriducibili, che consumerà uno strappo con la maggioranza del partito, dicendo di no alle fiducie e all’Italicum. Tra questi, ci sarà anche chi differenzierà il voto, dando la fiducia al governo, ma respingendo il provvedimento nel voto finale segreto.

I capofila della protesta sono noti. I no più secchi sono di Stefano Fassina e Alfredo D’Attorre. Che ancora ieri ribadiva: «Questa legge elettorale è un pasticcio, un errore. Io non la voterò, senza modifiche. Nella sciagurata ipotesi, io non parteciperò al voto di fiducia e poi voterò contro».

 Con loro c’è anche Pippo Civati. E anche Rosy Bindi sembra pronta alla battaglia: «Se si metterà, io non negherò la fiducia al governo, negherò la fiducia ad un atto improprio del governo». Enrico Letta, dopo le punture dei giorni scorsi, non si sbilancia: «Vediamo cosa succede, è ancora tutto da decidersi».

 La pattuglia degli irriducibili per ora non sembra andare molto al di là delle dieci unità. Ma c’è un enorme punto interrogativo, che riguarda in parte Area riformista, la corrente guidata da Roberto Speranza e che è spaccata a metà, e soprattutto i cuperliani e i bersaniani. L’unica linea comune scelta finora è quella di non sbilanciarsi, per non scoprire il fianco. È possibile che il grosso della minoranza critica alla fine decida di non consumare la rottura, non votando fiducie e provvedimento, ma dirlo ora darebbe un’arma in più a Renzi.

 Marco Meloni, lettiano, spiega: «Dobbiamo insistere fino all’ultimo, respingendo la fiducia e ribadendo l’assoluta gravità. Per ora si può dire solo questo, procedendo passo dopo passo e cercando di evitare la fiducia». Ma se non si riuscisse a evitare? Alla fine cederete? «Non do affatto per scontata la fiducia da parte mia. Ma Renzi sbaglia se prova a mercanteggiarla con la durata del governo o con i diritti civili. Le norme elettorali non sono beni negoziabili». Posizione non dissimile da quella di Leva: «Noi siamo leali verso il partito, ma Renzi sia leale verso il Parlamento». Davide Zoggia è cauto: «Valuteremo alla luce del clima che ci sarà e delle eventuali forzature. Speranza ha ragione, ora tocca a Renzi riprendere il dialogo. Anche perché non può risolvere a sportellate le cose: alla fine magari ci riesci ma ti ritrovi con un problema grande come una casa». Enzo Lattuca, vicino a Bersani, voterà disgiunto: «Potrei votare la fiducia e dire no nel voto segreto. Perché sia chiaro che la mia contrarietà è verso questa legge, non verso il governo».

 I renziani la vedono diversamente: «Se l’Italicum non passa — spiega Angelo Rughetti — vuol dire che la minoranza vuole dettare legge senza numeri». Emanuele Fiano ricorda che «la legge attuale è stata bocciata dalla Consulta, cambiarla era un dovere». Per Ernesto Carbone «fermarsi ora sarebbe irrispettoso verso tutto il Pd».

 Dario Ginefra spera ancora nel dialogo: «Molti di noi, pur riconoscendosi nella minoranza, voteranno a favore della legge elettorale, auspicando una sua modifica successiva». Potrebbe essere il caso di Cesare Damiano: «La fiducia l’ho sempre votata, anche al governo Monti. E dovremo sostenere anche quelle sulle pregiudiziali di costituzionalità. Ma Renzi sappia che porre la fiducia sarà un ulteriore strappo nel Pd».

CANDIDATA E PM DIGERONIMO 
IN UNA NUOVA PORTA GIREVOLE.


Corriere della Sera 26/04/15
Marco Demarco
Neanche il tempo di uscire dal consiglio comunale di Bari, e già Desirée Digeronimo si prepara a entrare in quello regionale, al seguito del suo amico e collega Michele Emiliano. Entrambi sono infatti magistrati. Prestati alla politica, certo. Ma pur sempre magistrati, e non perché rimasti fedeli alla toga e ai valori della cultura giuridica, ma più terra terra perché né l’uno né l’altro si è mai formalmente dimesso. E ciò pur essendo lui ex primo cittadino di Bari, attuale segretario regionale del Pd e candidato governatore benedetto da Renzi; e lei candidata sindaco per una lista civica: fu battuta dall’attuale sindaco del capoluogo Antonio Decaro, anche lui passato, indenne, per una sua indagine. In consiglio comunale, Digeronimo c’era finita proprio in quella occasione. Poi però il Tar ha stabilito che il seggio le era stato illegittimamente attribuito. «Per me Miss Italia finisce qua», commentò lei, leggera, su Facebook. Ma si sottovalutava. Negli insoliti panni di Enzo Mirigliani, storico patron del concorso in bikini, Emiliano l’ha subito rimessa in gara. E lo ha fatto, tra l’altro, proprio mentre si complimentava con Nichi Vendola per aver regalato alla Puglia dieci «meravigliosi» anni di governatorato: da un lato gli diceva questo, inducendolo alla commozione fino alle lacrime, e dall’altro lo infilzava inserendo in lista Digeronimo, che di Vendola, poi assolto, è stata la grande accusatrice: da pm gli attribuì il concorso in abuso d’ufficio per aver favorito un primario. Tutto questo sembra quasi un remake di un vecchio «guardie e ladri». Ma purtroppo non è un film. Un padre costituente diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra. A Bari politica e giustizia intasano porte, finestre e balconi.

Le strategie dei Berlusconi 
«per non disperdere il patrimonio politico».

Corriere della Sera 26/04/15
Francesco Verderami
In famiglia conoscono la politica per averla frequentata, «dopo vent’anni vissuti accanto a nostro padre sappiamo bene cosa significa farla, sappiamo che è un inferno», dice Pier Silvio Berlusconi. Ma «l’inferno» ha un enorme potere attrattivo, e può accadere che si confonda per missione quella che in fondo è una tentazione. Periodicamente si è raccontato che i figli dell’ex premier fossero prossimi a varcare quella soglia, a volte sospinti a volte attratti, sebbene le voci siano sempre state smentite dagli eventi. Tuttavia non c’è dubbio che a casa Berlusconi il tema continui a essere al centro della discussione, se è vero che Pier Silvio qualche settimana fa — incontrando alcuni dirigenti liguri di Forza Italia — abbia confidato il suo pensiero: «Sappiamo bene che la politica è un inferno, ma sarebbe un peccato se questo patrimonio andasse disperso».

Così le dichiarazioni di Marina contro Renzi hanno alimentato l’idea che il progetto di famiglia non sia stato (del tutto) accantonato. Sia chiaro, non c’è nulla di imminente, anzi. In questi ultimi anni — fianco a fianco con il padre — la figlia sostiene di aver maturato «diffidenza e avversione verso le logiche della politica». Inoltre l’affondo nei riguardi del premier aveva un obiettivo tutto interno al gruppo, si trattava di un esercizio di leadership aziendale, un modo cioè per affermare definitivamente una linea non più condiscendente verso il capo del Pd, «anche perché le nostre società sono quotate in borsa e noi non abbiamo nulla da temere». Insomma, la numero uno di Mondadori si è mossa fuori dal perimetro del famoso «campo», ma proprio il piglio mostrato con Renzi non esclude una sua «discesa in campo» .

La politica è fatta di opportunità e di timing, e dunque solo se questi due fattori dovessero combaciare tornerebbe in agenda per Marina la necessità di dover decidere che fare. Tra l’ottobre e il novembre del 2013 fu davvero a un passo dall’ufficializzare la sua candidatura a premier. E se il governo Letta fosse caduto, portando il Paese alle urne, era già pronto il suo discorso: «Mai avrei immaginato di trovarmi su questo palco», recitava l’incipit. Con la chiusura di quella finestra elettorale, la figlia di Berlusconi riteneva definitivamente chiusa quell’esperienza mai iniziata.

Però qualcosa sta cambiando, lo si intuisce dalle mosse del padre che lavora alla nascita di un nuovo rassemblement di centrodestra sul modello dei Repubblicani statunitensi. Immagina una ripartenza, «penso a un altro ‘94», dice mentre studia gli amatissimi sondaggi, dentro i quali ci sono anche — guarda caso — i report che testano il gradimento di Marina. Ma per produrre davvero degli effetti, «un altro ‘94» deve prevedere — come allora — un leader nuovo e una nuova formazione politica, per dare risalto alla rottura rispetto al passato. Questo determinò venti anni fa il successo di Forza Italia e del suo cavaliere. Perciò venti anni dopo non possono più essere riproposte all’elettorato né Forza Italia né il suo cavaliere.

Solo se fosse questo il disegno, avrebbe un senso ciò che Berlusconi sta facendo, con la dismissione della sua creatura e dell’intero gruppo dirigente. Ecco il motivo che lo indurrà a togliere il proprio nome dal simbolo del partito alle prossime Regionali. Sarà un modo per non intestarsi la sconfitta e per avviare un processo di ristrutturazione che richiama le operazioni finanziarie: Forza Italia diventerà la «bad company» dove scaricare un fatturato politico che è a saldo negativo e che non dovrà pesare sul bilancio della «newco». «In attesa di trovare un nuovo leader, dobbiamo costruire un nuovo partito», ha detto l’altra sera ai gruppi parlamentari. Ed è naturale l’ostilità di chi si sente già rottamato, si capisce la reazione di Denis Verdini, ormai prossimo al distacco, e che ritiene di aver scorto il disegno: «Più volte Silvio ha iniziato a preparare sua figlia, ma lei non è il padre. E comunque io vado avanti per la mia strada».

Si vedrà se i Berlusconi prenderanno l’eredità politica di Berlusconi per evitare che «il patrimonio vada disperso». Servirà che coincidano timing e opportunità, perché oltre i voti c’è da gestire anche l’altro patrimonio di famiglia.


«Caro Enrico, e i tuoi saggi?». 
Il duello costituzionalisti-ex premier.


Corriere della Sera 26/04/15
M. Antonietta Calabrò
«Caro Enrico, do you remember Quagliariello? Era il ministro delle Riforme istituzionali del tuo governo e guidava la Commissione dei 35 saggi?». Stefano Ceccanti non si sottrae a un nuovo scambio di risposte con Enrico Letta, dopo che venerdì l’ex premier aveva espresso dubbi «sull’opportunità di approvare riforme a maggioranza risicata». E lo stesso fa Augusto Barbera: «Il protagonismo del governo in materia di riforme istituzionali, lo hai inventato proprio tu, Enrico, dopo il fallimento del governo Monti, e l’insuccesso di formare un governo a guida Bersani, lo ricordi? ».

A loro si aggiunge Francesco Clementi. Ceccanti, Barbera e Clementi facevano parte proprio della Commissione dei 35 saggi e via Twitter e blog hanno spiegato che non riescono a capire perché Letta oggi si mette di traverso sull’Italicum. Semmai, aggiunge Clementi, «Enrico dovrebbe intestarsi la paternità del lavoro: non è un buon motivo contestarlo, perché non si è riusciti a portarlo in porto». In gioco l’agognata riforma del sistema elettorale, e cioè l’approvazione definitiva dell’Italicum, gli equilibri all’interno del Pd, la fiducia e, secondo quanto detto dal premier Renzi, lo stesso governo.

Sempre Clementi dice: «Stimo Enrico come uno che al di là del posizionamento politico è sempre attento a mantenere un profilo riformista e giudicare la realtà delle cose, ebbene l’Italicum costituisce quella che si può definire “una precondizione di sistema”, e l’unica differenza con la proposta della “sua” Commissione di saggi è che il premio di maggioranza va alla lista e non anche alla coalizione». Barbera spiega perché questo cambiamento non è per niente liberticida: «Nel 2013 abbiamo trovato l’accordo sul governo del primo ministro, così come avviene in Spagna, Inghilterra e Germania. Una riforma per far funzionare il sistema modificando solo la legge elettorale. L’Italicum migliora quell’accordo correggendo uno dei difetti più gravi del maggioritario e cioè la formazione di coalizioni eterogenee in grado di vincere, ma non di governare. Basta ricordare i governi Berlusconi con Lega e An, e il nostro governo Prodi che andava da Mastella a Turigliatto». Secondo i tre costituzionalisti, Letta, inoltre «non disconosce il merito» della questione. Ceccanti: «Letta firmò anche il referendum Guzzetta». Ma Letta sostiene che è una questione di metodo: niente «aut aut». Risponde Ceccanti: «L’eventuale voto di fiducia è perfettamente legittimo, dal momento che il Regolamento della Camera permette il voto segreto anche per questioni politiche che non coinvolgono scelte di coscienza, a differenza del Senato. Ci sono vari precedenti su questioni istituzionali. Lo adottò De Gasperi nel 1953, Andreotti nel 1990 e prima di Andreotti De Mita, di fatto, nel 1988».

sabato 25 aprile 2015

Il segretario prepara la sfida 
per chiudere i conti con tutti.


Corriere della Sera 25/04/15
Francesco Verderami
Più della legge elettorale lo preoccupano gli sbarchi, più dell’opposizione parlamentare teme l’opposizione dei partner internazionali sulla crisi libica. 

Governare logora, secondo Renzi, ma non a Roma. Infatti è di ritorno da Bruxelles che ha confessato di essere a corto di energie, siccome «il vertice è stato assai stressante». In Italia non gli accade, perché dispone di un vantaggio che nessun suo predecessore ha mai avuto: ha ereditato un sistema debolissimo che dopo un anno era già figlio di un’altra epoca politica, e ora può usare la sua forza con tutta la spregiudicatezza di cui è capace, dato che in fondo è — per tutti i parlamentari — l’assicurazione sulla loro vita, l’unico che può garantire l’arrivo alla terra promessa, cioè alla fine naturale della legislatura.

 Perciò li lusinga e al contempo li minaccia. L’ha fatto anche ieri avvertendo che se cadesse l’Italicum cadrebbe anche il governo, evocando — ma senza dirlo per rispetto a Mattarella — le elezioni anticipate. Ma è un non problema, piuttosto è un esercizio di retorica, un modo per enfatizzare la questione prima di risolverla con una girandola di voti di fiducia. Il resto è tattica parlamentare: Renzi deve solo decidere se dar seguito al timing predisposto alla Camera — dov’è previsto già per la prossima settimana il primo voto a scrutinio segreto sulle pregiudiziali di costituzionalità della legge — oppure far concentrare tutto l’esame del provvedimento nei primi giorni di maggio, così da evitare che il soufflè delle polemiche monti eccessivamente.

 Rischi che la legge elettorale venga affondata non ce ne sono, non a caso il premier è pronto alla scommessa, che si trasforma in sfida verso gli avversari nel Partito democratico. Il modo in cui ieri ha risposto a Letta e soprattutto a Prodi — rivelando che è stato l’Onu a non volere il Professore come mediatore in Libia «per via dei trascorsi legami con Gheddafi» — fa capire che Renzi non intende farsi chiudere nell’accerchiamento dei «rottamati», gli stessi che un tempo non smettevano di litigare e che ora — a suo parere — hanno preso a sentirsi per far contro di lui fronte comune.

 Li sfiderà in Aula, dove forse sul voto a scrutinio segreto per le pregiudiziali di costituzionalità si affiderà a una prova muscolare: niente fiducia in quel caso, perché Renzi deve dare almeno una dimostrazione di forza. Poi chiuderà i conti anche con Berlusconi, a cui deve andar bene il «colpo di Stato» che il capo del Pd sta per attuare. Lo ha capito il capogruppo di Ncd, Lupi, quando al collega forzista Brunetta ha consigliato di non chiedere voti segreti sul’Italicum: «Meglio il voto palese, Renato, dammi retta. Così Renzi non potrà mettere la fiducia, che fa gioco a lui e alla minoranza del Pd divisa». Niente da fare, segno che anche Forza Italia non vuole mostrare le proprie crepe.

 Insomma non è per quanto accade a Roma che al premier sono venuti «i capelli bianchi». È nel Mediterraneo che la sua leadership rischia di imbarcare acqua. C’è un motivo se per un anno si è tenuto distante dal dossier che ora è costretto a gestire. Lo spiegò ad Alfano, mesi fa, durante un vertice ristretto di governo, quando il titolare del Viminale — lasciato ad occuparsi della faccenda — chiedeva al premier un intervento: «Angelino, sull’immigrazione devi capire che in qualunque modo se ne parli, si beve», cioè si va in difficoltà, perché «non saremo mai talmente spietati da far concorrenza a Salvini nè mai talmente accondiscendenti da far concorrenza alla Boldrini».

 Aveva ragione, se non fosse che l’emergenza lo ha spinto in mare aperto. Il vertice a Bruxelles sarà pur stato «positivo», ma il potenziamento della missione Triton nel Mediterraneo non risolve, anzi rischia di far aumentare il fenomeno migratorio, il cui peso — senza la solidarietà europea — ricadrebbe (quasi) per intero sulle spalle dell’Italia. Ecco lo «stress» di cui Renzi si lamenta: non sarà facile infatti ottenere un ombrello diplomatico per affondare quei barconi, con Putin che si mette di traverso all’Onu, il Vaticano che anzitempo condanna l’operazione, i rischi che comporterebbe un «fai da te» sulle coste libiche della Marina italiana. Giocare all’uno contro tutti a Roma è facile per Renzi. Altra cosa è farlo fuori dai confini nazionali.

venerdì 24 aprile 2015

Mattarella: “Vi racconto il mio Venticinque aprile non abbassiamo la guardia così si riafferma la democrazia”


EZIO MAURO 
La Repubblica 24 aprile 2015
Il capo dello Stato “La nostra Costituzione è il frutto della lotta antifascista contro la dittatura e la guerra La qualifica di resistenti va estesa non solo ai partigiani ma ai militari che rifiutarono di arruolarsi nelle brigate nere”
Signor Presidente, lei ha attraversato la vita politica e istituzionale di questo Paese, ha vissuto la sfida delle Brigate Rosse alla democrazia, ha fronteggiato anche l’emergenza criminale più acuta. Che cosa legge nella data del 25 aprile, settant’anni dopo la Liberazione?
«Il Paese è fortemente cambiato, come il contesto internazionale. Non c’è più, fortunatamente, la necessità di riconquistare i valori di libertà, di democrazia, di giustizia sociale, di pace che animarono, nel suo complesso, la Resistenza. Oggi c’è la necessità di difendere quei valori, come è stato fatto contro l’assalto del terrorismo, come vien fatto e va fatto sempre di più contro quello della mafia. La democrazia va sempre, giorno dopo giorno, affermata e realizzata nella vita quotidiana. Il 25 aprile fu lo sbocco di un vero e proprio moto di popolo: la qualifica di “resistenti” va estesa non solo ai partigiani, ma ai militari che rifiutarono di arruolarsi nelle brigate nere e a tutte le donne e gli uomini che, per le ragioni più diverse, rischiarono la vita per nascondere un ebreo, per aiutare un militare alleato o sostenere chi combatteva in montagna o nelle città».
I VALORI DELLA RESISTENZA
Grazie a un moto di popolo democrazia e libertà hanno vinto ma vanno difese ogni giorno
LA RICONCILIAZIONE
Ha ragione Calvino: pietà per i morti ma è impossibile equiparare i giovani di Salò e i partigiani
Io penso che questo moto di rifiuto e di ribellione organizzata al fascismo e al nazismo, con la lotta armata, rappresenti un elemento fondamentale nella storia morale dell’Italia. Quell’esperienza parziale ma decisiva di ribellione nazionale, italiana, alla dittatura fascista è infatti il nucleo autonomo e sufficiente per rendere la nostra democrazia e la nostra libertà non interamente «octroyé» dagli Alleati che hanno liberato gran parte del Paese, ma riconquistate. 
Non crede che proprio qui nasca il fondamento morale della democrazia repubblicana?
«Ricordo che Aldo Moro definiva il suo partito, oltre che popolare e democratico, come «antifascista»: per lui si trattava di un elemento caratterizzante, appunto identitario, della politica italiana. Naturalmente nella nostra democrazia confluiscono anche altri elementi storici nazionali, ma quello dell’antifascismo ne costituisce elemento fondante. La Resistenza italiana mostrò al mondo la volontà di riscatto degli italiani, dopo anni di dittatura e di guerra di conquista. Non si può dimenticare il contributo che molte operazioni dei partigiani diedero all’accelerazione dell’avanzata alleata. Basti citare l’esempio di Genova, dove il comando tedesco trattò la resa direttamente con i partigiani. Il presidente Ciampi ha il merito di aver riportato all’attenzione dell’opinione pubblica il ruolo fondamentale che le forze armate italiane ebbero nella Liberazione. Cosa sarebbe successo se questi militari italiani avessero deciso in massa di arruolarsi nell’esercito della Repubblica Sociale? Quanto sarebbe stata più faticosa per gli Alleati l’avanzata sul territorio italiano e con quante perdite? La Resistenza, la cobelligeranza, pesarono sul tavolo delle trattative di pace».
Lei aveva quattro anni nel 1945. Ha dei ricordi familiari nei racconti di quei giorni?
«Mio padre era antifascista. Diciannovenne, nell’anno del delitto Matteotti, aveva fondato nel suo comune la sezione del Partito popolare di Sturzo; e aveva subito percosse e olio di ricino. Il giornale che dirigeva come presidente dell’Azione Cattolica di Palermo prese una posizione molto dura contro le leggi razziali e fu sequestrato più volte. Lanciò, via radio, dalla Sicilia già libera, un appello agli italiani delle regioni ancora sotto l’occupazione nazista e di Salò: partecipava, così, idealmente alla lotta della Resistenza e faceva parte dei primi governi del Cln mentre il Nord Italia veniva via via liberato dagli alleati e dai partigiani. Sono cresciuto nel culto delle figure di don Minzoni, Giacomo Matteotti, don Morosini, Teresio Olivelli».
È per queste ragioni che subito dopo la sua elezione al Quirinale ha voluto rendere omaggio alle Fosse Ardeatine?
«Mi è parso naturale, e doveroso, ricordare sia a me stesso, nel momento in cui venivo eletto presidente della Repubblica, sia ai nostri concittadini quanto dolore, quanto impegno difficile e sofferto hanno permesso di ritrovare libertà e democrazia. L’abitudine a queste, talvolta, rischia di inaridire il modo di guardare alle istituzioni democratiche, pur con tutti i difetti che se ne possono evidenziare, rifiutando di impegnarvisi o anche soltanto di seguirne seriamente la vita. Questo mi fa ricordare la lettera di un giovanissimo condannato a morte della Resistenza che, la sera prima di essere ucciso, scriveva ai genitori che il dramma di quei giorni avveniva perché la loro generazione non aveva più voluto saperne della politica. Inoltre, oggi, assistiamo al riemergere dell’odio razziale e del fanatismo religioso: i morti delle Ardeatine è come se ci ammonissero continuamente, ricordandoci che mai si può abbassare la guardia sulla difesa strenua dei diritti dell’uomo, del sistema democratico».
Lei è stato anche giudice della Corte costituzionale: dove sente la nostra Carta fondamentale più fedele ai valori della Resistenza? Condivide il giudizio di Norberto Bobbio secondo il quale il grande risultato della Resistenza è stata la Costituzione, perché portò la democrazia italiana «molto più avanti di quella che era stata prima del fascismo»?
«Della Costituzione vanno sempre richiamati, anzitutto, l’affermazione dei diritti delle persone, che preesistono allo Stato, e il dovere della Repubblica di realizzare condizioni effettive di uguaglianza fra i cittadini. Si tratta di punti centrali con cui i Costituenti hanno caratterizzato la nostra convivenza e che hanno dato risposta al desiderio di libertà e di giustizia di chi si batteva per liberare l’Italia. Bobbio diceva bene: non vi è dubbio che la Costituzione, dopo la dittatura, la ribellione e la resistenza non poteva che essere molto diversa da quella prefascista, disegnando una democrazia molto più avanzata, una Repubblica con finalità più ambiziose e doveri più grandi verso la società, del resto in linea con gli apporti culturali della gran parte della forze politiche dell’Assemblea Costituente».
Cosa pensa della polemica dei decenni passati sulla «Resistenza tradita», che ancora riemerge?
«Le risponderò con una citazione del presidente Napolitano. Parlando a Genova il 25 aprile del 2008, disse con estrema chiarezza: “Vorrei dire che in realtà c’è stato solo un mito privo di fondamento storico reale e usato in modo fuorviante e nefasto: quello della cosiddetta «Resistenza tradita», che è servito ad avvalorare posizioni ideologiche e strategie pseudo-rivoluzionarie di rifiuto e rottura dell’ordine democratico-costituzionale scaturito proprio dai valori e dall’impulso della Resistenza”. Condivido dalla prima all’ultima parola».
C’era in quella formula un sentimento che potremmo definire di «delusione rivoluzionaria», da parte di chi nel mondo comunista vedeva nella guerra di Liberazione una rivoluzione sociale: ma in realtà non crede che il vero tradimento della Costituzione sia avvenuto negli anni delle stragi di Stato, dei depistaggi, delle verità negate, delle infiltrazioni piduiste nei vertici degli apparati di Stato?
«Ogni movimento di liberazione porta con sé l’orizzonte e la ricerca di un ordine pienamente giusto e risolutivo dei temi della convivenza. Ma io credo che nessuno, oggi, guardando indietro possa ignorare che in Italia si è sviluppata una profonda e pacifica rivoluzione sociale: territori e fasce sociali, un tempo povere e del tutto escluse, hanno visto una radicale crescita. Il rammarico è che questo non sia avvenuto in maniera ben distribuita e ovunque e che il divario con il Mezzogiorno abbia ripreso ad aumentare. Ma chi ricorda le condizioni economiche e sociali dell’Italia negli anni Quaranta e Cinquanta può valutarne le trasformazioni intervenute nei decenni successivi. Va anche sottolineato che quel processo di crescita, difettoso per diversi profili, si è realizzato salvaguardando la democrazia, malgrado quel che è stato tentato per travolgerla, con insidie, come la loggia P2, aggressioni violente e stragi. Quelle trame a cui lei fa riferimento avevano un disegno e un obbiettivo comune. Quello di abbattere lo Stato democratico, di cancellare la Costituzione del 1948, di aprire la strada a un regime tendenzialmente autoritario. In questo senso, i terrorismi di qualsiasi colore — fatte salve tutte le diversità ideologiche, politiche e culturali — avevano un nemico in comune. Vi sono stati tradimenti della Costituzione ma va anche detto che le istituzioni e le forze politiche, di maggioranza e di opposizione, hanno resistito. Il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro ne costituiscono prova evidente».
Il terrorismo rosso che ha insanguinato l’Italia si è richiamato alla guerra partigiana: la sinistra operaia ha respinto quel progetto, e lo Stato democratico lo ha sconfitto. È stata questa la minaccia più forte per la democrazia repubblicana nata dalla Liberazione? Lei ha vissuto quegli anni, la tragedia Moro in particolare. Sente oggi come altrettanto grave la sfida del terrorismo jihadista? Non crede che oggi come allora, con tutte le differenze necessarie, lo Stato abbia il diritto di difendersi e di difendere i suoi cittadini che gli hanno concesso il monopolio della forza, ma insieme abbia anche il dovere di farlo rimanendo fedele alle regole democratiche e di legalità che la democrazia impone a se stessa?
«La lotta al terrorismo fu condotta dallo Stato senza sospendere le libertà civili e democratiche. Fondamentale, per battere il terrorismo, è stata l’unità di po- polo. I brigatisti rossi capirono ben presto che la loro sconfitta era avvenuta prima sul piano politico — nel rifiuto, cioè, delle masse operaie, di seguirli nella lotta armata — che sul piano militare o di polizia. Basti pensare al sacrificio di Guido Rossa. Nel caso del terrorismo degli anni Settanta e Ottanta la minaccia proveniva dall’interno. Oggi abbiamo una o più entità esterne, presenti in Paesi diversi, che incitano su Internet alla guerra santa contro l’Occidente e che confidano in una rivolta spontanea dei musulmani presenti all’interno di quei Paesi che si vorrebbero sottomettere al Califfato. Non c’è dubbio che si tratti di una minaccia nuova e insidiosa. La risposta alla globalizzazione del terrore non può essere cercata che nella solidarietà internazionale (la stessa per cui molti cooperanti mettono a rischio la vita, come è successo a Giovanni Lo Porto) e nella collaborazione sempre più stretta tra i Paesi che condividono gli stessi ideali di democrazia, di convivenza e di tolleranza. La sfida è, oggi come ieri, molto impegnativa. Non c’è dubbio che la società aperta e accogliente abbia dei rischi in più in termini di sicurezza rispetto a uno Stato di polizia. Ma possiamo chiedere ai cittadini europei di sobbarcarsi qualche fastidio o controllo in più, non certo di vedersi limitare diritti e prerogative che ormai sono patrimonio comune e irrinunciabile. Tradiremmo la nostra storia e i nostri valori».
Ma la Resistenza negli ultimi vent’anni è stata anche oggetto di una lettura revisionista che ha criticato la «mitologia» resistenziale e il suo uso politico da parte comunista, che pure c’è stato, attaccando il legame tra la ribellione partigiana al fascismo e la nascita delle istituzioni democratiche e repubblicane. Qual è il suo giudizio? Perché non c’è una memoria condivisa su una vicenda che dovrebbe rappresentare il valore fondante dell’Italia repubblicana?
«Stiamo parlando di una guerra che ha avuto anche aspetti fratricidi. Credo che sia molto difficile, quando si hanno avuto familiari caduti, come si dice adesso, “dalla parte sbagliata” o si è stati vittime di soprusi o di vendette da parte dei nuovi vincitori, costruire su questi fatti una memoria condivisa. Pietro Scoppola, nell’infuriare della polemica storico-politica sul revisionismo, invitava a fare un passo avanti e a considerare la Costituzione italiana, nata dalla Resistenza, come il momento fondante di una storia e di una memoria condivisa. Una Costituzione, vale la pena rimarcarlo, che ha consentito libertà di parola, di voto e addirittura di veder presenti in Parlamento esponenti che contestavano quella stessa Costituzione nei suoi fondamenti. Tranne poche frange estremiste e nostalgiche, non credo che ci siano italiani che oggi si sentano di rinunciare alle conquiste di democrazia, di libertà, di giustizia sociale che hanno trovato nella Costituzione il punto di inizio, consentendo al nostro Paese un periodo di pace, di sviluppo e di benessere senza precedenti. Proprio per questo va affermato che il 25 aprile è patrimonio di tutta l’Italia, la ricorrenza in cui si celebrano valori condivisi dall’intero Paese».
Cosa pensa delle violenze e delle vendette che insanguinarono il «triangolo rosso» e le Foibe in quegli anni? Non c’è stato troppo silenzio e per troppo tempo, in un Paese che non ha avuto un processo di Norimberga ma che oggi, settant’anni dopo, non dovrebbe avere paura della verità? E come rivive le immagini di Mussolini e Claretta Petacci esposti cadaveri a Piazzale Loreto?
«È stato merito di esponenti provenienti dalla sinistra, penso a Luciano Violante e allo stesso presidente Napolitano, contribuire alla riappropriazione, nella storia e nella memoria, di episodi drammatici ingiustamente rimossi, come quelli legati alle Foibe e all’esodo degli Italiani dall’Istria e dalla Dalmazia. Sono stati molti i libri e le inchieste che si sono dedicati a riportare alla luce le vendette, gli eccidi, le sopraffazioni che si compirono, anche abusando del nome della Resistenza, dopo la fine della guerra. Si tratta di casi gravi, inaccettabili e che non vanno nascosti. L’esposizione del corpo di Mussolini, di Claretta Petacci e degli altri gerarchi fucilati, per quanto legata al martirio che numerosi partigiani subirono per mano dei tedeschi nello stesso Piazzale Loreto pochi giorni prima, la considero un episodio barbaro e disumano. Va comunque svolta una considerazione di fondo: gli atti di violenza ingiustificata, di vendetta, gli eccidi compiuti da parte di uomini legati alla Resistenza rappresentano, nella maggior parte dei casi, una deviazione grave e inaccettabile dagli ideali originari della Resistenza stessa. Nel caso del nazifascismo, invece, i campi di sterminio, la caccia agli ebrei, le stragi di civili, le torture sono lo sbocco naturale di un’ideologia totalitaria e razzista».
Il tema della riconciliazione, a mio parere, va affrontato tenendo conto che la pietà per i morti dell’una e dell’altra parte non significa che le ragioni per cui sono morti siano equivalenti. «Tutti uguali davanti alla morte — scrive Calvino — non davanti alla storia». Qual è la sua opinione?
«Calvino mi sembra abbia centrato il tema. Non c’è dubbio che la pietà e il rispetto siano sentimenti condivisibili di fronte a giovani caduti nelle file di Salò che combattevano in buona fede. Questo non ci consente, però, di equiparare i due campi: da una parte si combatteva per la libertà, dall’altra per la sopraffazione. 
La domanda di Bobbio ai revisionisti è rimasta senza risposta: che cosa sarebbe successo se, invece degli alleati, avessero vinto i nazisti?».
Vorrei chiudere con Bobbio. «Il rifiuto dell’antifascismo in nome dell’anticomunismo — ha scritto — ha finito spesso per condurre ad un’altra forma di equidistanza abominevole, quella tra fascismo e antifascismo». E infatti da parte della destra è emerso pochi anni fa il tentativo di superare il 25 aprile, sostituendolo con un giorno di festa civile nel rifiuto di tutte le dittature. Come se non ci fossero altri 365 giorni sul calendario per scegliere una celebrazione contro ogni regime dittatoriale. A patto però di ricordare il 25 aprile, tutti, come il giorno in cui è finita la dittatura del fascismo, nato proprio in Italia. 
Cosa ne pensa? Il 25 aprile, ha detto Bobbio, ha determinato un nuovo corso nella nostra storia. Perché, semplicemente, «se la Resistenza non fosse avvenuta, la storia d’Italia sarebbe stata diversa, non sarebbe la storia di un popolo libero».
«Credo che quella dell’abolizione della festa della Liberazione sia una polemica ormai datata e senza senso. Sarebbe come dire: invece di celebrare il nostro Risorgimento, festeggiamo la Rivoluzione americana e francese... È vero che nel mondo ci sono stati diversi regimi totalitari e sanguinari, frutto di ideologie disumanizzanti. Ma la storia italiana è passata attraverso la dittatura fascista, la guerra, la lotta di Liberazione. E un popolo vive e si nutre della sua storia e dei suoi ricordi ».