martedì 24 giugno 2014

Una squadra, un Paese è l’Uruguay di Mujica il presidente guerrigliero


CONCITA DE GREGORIO
La Repubblica – 24/6/14

Dai tupamaros al carcere, fino alla guida della piccola nazione che affronta gli azzurri “con spirito patriottico superiore al nostro” (ha detto Prandelli). Ecco chi è l’uomo che ha abbattuto disoccupazione e povertà, legalizzato marijuana e unioni omosessuali, adottato i bambini siriani profughi di guerra. È leader “del fare” e protagonista di quel senso di appartenenza che arriva fino alla nazionale di calcio

Il Real Madrid ha un bilancio di 400 milioni l’anno. Io credo che questi soldi non li abbia spesi l’intero calcio uruguayo in tutta la vita». Pepe Mujica, il presidente della Repubblica. «Per il Paese che siamo, per quanti siamo, per le possibilità che possiamo generare il nostro calcio è un miracolo: lo dobbiamo alla passione alla forza e alla modestia della gente semplice. La nostra ricchezza è non avere bisogno. Poveri non sono quelli che non hanno, sono quelli che hanno ma non gli basta mai». Si gioca contro un’altra idea di mondo, bisogna saperlo. Affacciare la testa fuori dal campo un momento e avere un’idea anche vaga di cosa sia l’Uruguay, che detto al Mondiale sembra una squadra e invece è prima di tutto un paese, naturalmente. Per l’esattezza il “Paese dell’anno” ( Economist, 2013), guidato dal “miglior Presidente del mondo” ( Monocle, Londra, 2014), colui che incarna il “nuovo modello globale del ruolo di capo di stato” ( Al Jazeera, 2014). Loro hanno un senso patriottico che noi non abbiamo, ha detto ieri Prandelli: «Dobbiamo lavorare per ricordarci che siamo qui a rappresentare l’Italia». È questo il nemico in più in campo. Noi dobbiamo ricordarcelo, loro no: loro “sono” l’Uruguay.
Dunque oggi insieme a Suarez, il pistolero che ringrazia il suo fisioterapista dopo il gol, a Martin Caceres e a Cavani scende in campo sotto le luci del mondo l’Uruguay di José “Pepe” Mujica, il presidente tupamaro, l’uomo che dopo 13 anni di torture in carcere è uscito e ha detto: «Sono stati anni duri, senza poter leggere un libro ». Quello che il giorno della sua elezione, nel 2010, si è rivolto così alla folla sterminata che lo acclamava in piazza: «Sapete una cosa, popolo, compagni? È il mondo alla rovescia questo, perché sul palco ora dovreste esserci voi e io là sotto ad applaudire. Siete voi che avete vinto». Popolo, compagni. Un’altra idea di sinistra al governo, anche.
Mujica è l’uomo che due mesi fa — poche settimane prima degli scontri all’Olimpico per Fiorentina- Napoli, autorità in tribuna — per un episodio assai meno grave di quello ha chiamato i ministri, non i giornalisti, poi presidenti del principali club del paese e ha detto: «Io non mando più la polizia alle partite. Sono i club che devono reagire alla violenza, se non lo fanno loro non cerchino supplenti. Per me a queste condizioni non si gioca ». Non ha fatto un tweet, perché Mujica non è su Twitter: non ha un indirizzo e-mail, né un conto corrente in banca del resto. Quando deve parlare si presenta di persona. Ha liberalizzato la marijuana per «combattere davvero il traffico illegale», ha spiegato all’assemblea dell’Onu. Ha approvato le unioni omossessuali, una legge sull’aborto, una sul silenzio/assenso per la donazione degli organi, una durissima contro il commercio di armi. Ha promosso una campagna per l’adozione di bambini siriani orfani di guerra. Cento ne ha adottati lo stesso governo con un finanziamento ad hoc, per cominciare.
Padre catalano, madre ligure. La seconda generazione di immigrati, come tanti capi di stato in Sudamerica. Un pezzo d’Europa trapiantato ai tropici, la pianta che si rigenera e dà frutti nuovi. Nei suoi quattro anni di governo el Presidente ha abbattuto disoccupazione e povertà, si è fatto amare dal popolo quanto detestare dalle oligarchie. Combatte una guerra durissima contro i privilegi, ma al contrario di Grillo possiede solo due maggiolini Volkswagen dell’87 e due trattori con cui lavora la terra della chacra alla periferia di Montevideo dove vive, minuscola fattoria di due stanze di proprietà della moglie. «È bene che sia piccola perché così a spazzarla e a pulirla facciamo prima», ha detto a Juan José Millás, scrittore spagnolo. Parla poco, non annuncia mai. Fosse anche questa una partita, fra Italia e Uruguay, sarebbe lo scontro fra il radicalismo del fare e il progressismo del dire.
Se la nazionale Celeste porta in campo lo spirito del suo Paese oggi Prandelli gioca contro uomini “modesti ma audaci, liberali e capaci di gioire nel divertimento”, come ha scritto l’ Economist nella motivazione del premio all’Uruguay. Ed è anche la partita del Cono Sur contro la vecchia Europa. La fame, il coraggio, la potenza di chi ha tutto da giocare contro chi ha già avuto tanto e vuole, per la rendita, ancora. Il sud del mondo è protagonista di questa Coppa e della scena globale. Una specie di nemesi: come se arrivati a questo punto — di sfruttamento delle risorse, di consumismo, di violenza dei forti sui deboli — per andare avanti si potesse solo tornare indietro, riprendere il filo del senso smarrito. «Se il papa è argentino, Dio è brasiliano», ha sorriso qualche giorno fa Frei Betto, teologo della liberazione ispiratore della politica di Lula. Più del populismo di Chavez, della demagogia di Cristina Kirchner, più del novecentesco rigore ideologico di Fidel e del maternalismo severo di Dilma è il radicalismo modesto di Mujica a indicare la rotta.
Il miglior presidente del mondo. Sobrietà, dice con il suo esempio di vita. Dei 10mila euro mensili che riceve ne devolve 9mila a chi ha bisogno, il 90 per cento. Il suo discorso alla conferenza di Rio sull’ambiente è stato visto milioni di volte da youtube. Ateo, ha incoraggiato la libertà di culto. Si presenta agli incontri formali in sandali. «Ho solo questi, per questa stagione», ha detto una volta a chi obiettava che non fosse il dress code adeguato. Da quando aveva 12 anni va in bicicletta. Salvo i 13 che ha passato in carcere durante la dittatura, naturalmente, dal 1972 al 1985: era nel gruppo di nove “prigionieri ostaggi” che i militari avrebbero fucilato in caso di attentati dei tupamaros. Sulla scrivana di presidente tiene la scritta “ Cultivando la libertad”.
Come fosse un frutto: far rifiorire quell’albero, aspettare la stagione del raccolto. «Stiamo attenti a non mettere al centro il denaro — ha detto ai genitori dei bambini del baby futbol — state attenti, voi che siete le loro famiglie, a non usarli per le vostre ambizioni, a non togliere loro gli anni di libertà e felicità, a non sperare che siano fonte di ricchezza. Ricordatevi che prima del Maracanà, prima del 1950, i nostri giocatori non erano chiamati a giocare all’estero, eppure erano già i più forti del mondo. Ricordatevi che siamo diventati campioni del mondo imparando a giocare a calcio per strada, non nei vivai con i genitori che fanno i presidenti e gli allenatori. Nei cortili, nel tempo del divertimento e del piacere, senza scarpe e con una maglia sola per tutto l’anno».
Ecco, Prandelli. Questo è l’Uruguay. Questo è Mujica. Questa è oggi la grande scommessa: avere qualcosa di altrettanto potente da mettere in campo, qualunque cosa sia. Buona partita.



1 commento:

  1. Il calcio non mi appassiona particolarmente, certo però, la nazionale è diversa e mi basta sentire l'inno per iniziare a tifare Italia. E' andata male e ce lo siamo meritato, mi dispiace specialmente per quelli che nel calcio ci credono, quelli che in questo momento di crisi generalizzata (economica, sociale, politica, etica) avrebbero potuto rinfrancarsi un poco, trovare un motivo di gioia. Da questo punto di vista non "perdono" l'allenatore e i giocatori, gente privilegiata che ha fatto male il proprio lavoro. Eppure la cosa che mi ha fatto più male di questi mondiali è stata accorgermi che alcuni vicini riunivano a casa loro tutta la famiglia in occasione delle partite del Brasile. Questa cosa davvero non la capivo; poi ho realizzato: quella famiglia ha vissuto alcuni anni in Brasile, lì sono nati e hanno vissuto i primi figli, poi sono tornati in Italia (circa quaranta anni fa); da allora niente più contatti col Brasile, eppure oggi si riuniscono per vedere insieme i mondiali.
    Questo mi ha fatto male, come se cercassero una patria nuova, come se la loro, questa Italia malconcia , nella quale pure vivono e vivono i loro figli, non fosse degna del loro entusiasmo e delle loro sofferenze di tifosi.
    Adesso leggo questo suo post (davvero molto bello) e mi dico che anche a me piacerebbe avere qualcuno per cui tifare che non sia questa Italia. A persone come me non sta rimanendo davvero nessun motivo per crederci ancora.
    P.S: da stasera tiferò Uruguay, se lo meritano.

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