lunedì 30 marzo 2020

Del Bono: "Più facile far curare i pazienti in Germania e al Sud che nel vicinissimo Veneto"

La denuncia del sindaco di Brescia, terza città per contagio, che chiede medici, infermieri, mascherine, tamponi e maggiore solidarietà dalle Regioni vicine per assistere i contagiati e arginare l'epidemia che, qui, non conosce flessione.


«Servono medici e infermieri, servono mascherine, servono i tamponi, serve una maggiore solidarietà tra le Regioni». È drammatico l’ appello di Emilio De Bono, sindaco di Brescia, terza città in Italia per numero di contagi. «A differenza di altri territori che cominciano a vedere una certa regressione, noi abbiamo un andamento diverso. A oggi abbiamo superato quota 8.100 di positivi conclamati ed è ragionevole pensare che questo numero vada moltiplicato almeno per cinque. Abbiamo avuto oltre 1.200 decessi ufficiali, anche se sono sicuramente molti di più, perché chi muore in casa o nelle residenze di riposo non viene sottoposto a tampone e, dunque, non viene riconosciuto come Covid. Facciamo fatica e, nonostante le misure restrittive non riusciamo a contenere il volano dei contagi».
Perché, secondo lei?
«Sicuramente all’ inizio, quando il contagio è arrivato dalla provincia di Cremona, a sua volta contagiata da Lodi, il territorio non è stato isolato con zone rosse che permettessero di contenere il contagio. Oggi, però, vediamo delle altre falle. Abbiamo ancora tante persone malate a casa. E a queste persone non viene fatto il tampone. Questo significa che i familiari, a loro volta non sottoposti a tampone né a isolamento, escono a fare la spesa, vanno a lavorare e diventano, loro malgrado, moltiplicatori di contagio. È evidente che qui c’ è una fatica oggettiva a riorganizzare il sistema del controllo sanitario con il fine di ridurre l’ espandersi dell’ epidemia».
Chi decide a chi si fanno i tamponi?
«La Regione, le autorità sanitarie territoriali prendono indirizzo dalla Regione. E, mentre in Veneto la “politica” di Zaia è stata quella di estendere i tamponi in modo più diffuso, facendoli nelle rsa, a pioggia quando hanno avuto il caso di Vo’ , in Lombardia l’ indirizzo dato è stato quello di fare i tamponi, sostanzialmente, solo a quelli che vanno in ospedale e che sono in condizioni particolarmente evidenti di sintomatologia. Una platea, questa delle persone sottoposte a tampone, che nel sud della Lombardia è stata molto modesta e ha costituito certamente un punto debole del sistema».
Un altro punto debole è lo spostamento fuori regione dei pazienti che ne hanno necessità. Cosa succede?
«Sembra che sia più facile spostarli fuori Regione che a pochi chilometri da noi. Abbiamo avuto pazienti che sono andati nel Mezzogiorno o in Germania ma non hanno avuto “ospitalità” nella vicinissima regione Veneta. Questo l’ ho appreso tramite un appello sottoscritto dai primari di rianimazione e dagli anestesisti della Regione Lombardia. Qualche giorno fa hanno chiesto pubblicamente perché le regioni vicine non aiutano la Lombardia. Allora mi chiedo, se è così e se è stato così, se esiste ancora il Servizio sanitario nazionale. Non può essere che ogni Regione decida in maniera “egoistica” se aprirsi o non aprirsi o se trasferire o meno del personale medico e infermieristico in zone particolarmente esposte come la nostra».
Ha avuto modo di parlare direttamente con Zaia?
«Un sindaco, purtroppo, non può entrare in queste modalità che sono rapporti tra Regioni. Credo, però, che sia importante che, almeno le regioni del nord - Veneto, Emilia Romagna, Lombardia e Piemonte – dove è il focolaio più importante, costruissero una politica comune, una solidarietà stretta, integrata. Mi sembra che questo non ci sia stato e mi pare che il Governo avrebbe potuto e dovuto vigilare che queste autonomie gestionali sanitarie non diventassero elemento problematico dal punto di vista della cura dei pazienti».
Di cosa ha bisogno oggi Brescia?
«Di medici e di infermieri perché le strutture sanitarie ospedaliere sono ancora sotto stress. Stanno lavorando senza sosta e  a scartamento ridotto perché una parte si è contagiata. Abbiamo necessità che ci inviino medici e infermieri competenti, in particolare, in rianimazione. Il Civile, il nostro ospedale cittadino, è riuscito ad allargare da 13 posti la terapia intensiva, ma non ha i medici e gli infermieri per farla funzionare».
E poi?
«Abbiamo bisogno di fare una politica sui tamponi diversa. Farli nelle rsa, al personale medico e infermieristico, a quei pazienti che hanno sintomatologia conclamate a casa perché si deve sapere se loro sono positivi in modo da mettere in isolamento loro e le famiglie. Abbiamo bisogno di dispositivi di protezione: servono mascherine, camici, respiratori e bombole di ossigeno.  Soltanto le strutture sanitarie necessitano di un milione di mascherine al giorno perché sono monouso e il sistema lombardo è in grado di produrne e trasferirne 800 mila. Ma non ci sono solo le strutture ospedaliere, ci sono quelle socio assistenziali, socio sanitarie, il personale che sta in prima linea, le forze dell’ ordine. Abbiamo bisogno di un salto di qualità. Stiamo un pochino meglio rispetto a qualche settimana fa, ma non siamo ancora a regime».
La città come sta reagendo?
«Brescia è stata straordinariamente generosa sia dal punto di vista della raccolta di fondi sia dal punto di vista del numero di volontari. Solo in città ci sono 500 volontari che vanno nelle case degli anziani a portare la spesa e medicinali. E poi ci sono centinaia di volontari sulle autolettighe, sul fronte sanitario. Nel momento di emergenza questo territorio ha trovato, ancora una volta, le ragioni della solidarietà e dell’ aiuto agli altri».
Un aiuto, in queste ore sta arrivando dall’ Albania.
«Ringrazio e devo dire che l’ intervento che ha fatto il premier Rama inviandoci i 20 infermieri e i 10 medici è stato da statista. Uno che dice: “Io ho avuto tanto dall’ Italia e ora vi restituiamo qualcosa, noi la piccola Albania”. La povera Albania manda personale medico e infermieristico, preziosissimo, e ce lo consegna dicendo: “Sappiamo che avete bisogno”. È una grande lezione di civiltà».

sabato 28 marzo 2020

APPELLO ALLA MERKEL.

Pierluigi Castagnetti
Conosco Angela Merkel da ben prima che diventasse Cancelliere e conosco il suo genuino spirito europeista. E mi pare di poter dire che le resistenze manifestate nell'ultimo Consiglio europeo, rispetto a un intervento massiccio attraverso ad esempio eurobond, sono dovute all'ostilità dell'establishment tedesco in genere e della CDU in particolare, preoccupato dall'esplosione dei nazionalismi alle prossime elezioni.
Io da molti anni non ho più ruolo e, dunque, titolo per intervenire (l'ultima volta che l'ho incontrata è stata dodici anni fa al G7 dei Presidenti dei Parlamenti a Berlino), ma se l'avessi le ricorderei quanto il Cancelliere Khol disse a Martinazzoli (e a me che l'accompagnavo) alla vigilia delle elezioni federali del 1993, cose che evidentemente le sono ben note. "Non so se vincerò le prossime elezioni per tante ragioni. A Maastricht ho accettato il cammino della moneta unica per tenere unita e dare una missione all'Europa, ben sapendo che la Germania oggi ha la moneta più forte, il marco, che dovrà entrare in un paniere con altre monete tutte più deboli. Ho accelerato l'unificazione tra le due Germania stabilendo - contro il parere di tutti a partire dalla Bundesbank - la parità fra i due marchi, mentendo sapendo di mentire, convinto che questa fosse la condizione per fare un'unificazione vera. Ho poi alzato le aliquote fiscali di cinque punti dicendo che l'intero volume del nuovo gettito fiscale andrò a investirlo tutto all'est, sempre per accelerare l'omogeneizzazione delle condizioni di vita tra tutti i tedeschi. Sennonché le tasse le pagano i percettori di reddito e i contribuenti più ricchi stanno tutti ad ovest dove sono anche gli elettori della CDU. Vedete che il rischio che io non vinca le elezioni è concreto e probabile, ma ho fatto le cose che servono a creare pace nella Germania, perchè il mio maestro, Adenauer, diceva sempre che la Germania in pace nel cuore dell'Europa è garanzia che l'Europa vivrà in pace. E non pensate che io voglia germanizzare l'Europa, prospettiva che spaventerebbe anche me, al contrario io voglio europeizzare la Germania. Ditelo al mio amico Giulio".
Quelle elezioni federali poi premiarono ancora una volta Khol.

IL PAPA, MATTARELLA, MACRON E SALA

Mario Fappani
Hanno detto cose che non dimenticheremo.

Papa Francesco, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il presidente francese Emmanuel Macron, il sindaco di Milano Beppe Sala. Il Corriere di oggi è fatto delle loro parole: ciascuno nel suo ruolo, hanno detto cose che non dimenticheremo.
Il Papa ha implorato Dio di "svegliarsi", di aiutarci nel nostro mare agitato. Ha aggiunto che non è il tempo del Suo giudizio "ma del nostro: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa".
Mattarella ha strigliato l’Europa: non tutta, perché istituzioni come la Banca centrale e la Commissione stanno facendo il loro dovere, ma quella dei governi: i governi del Nord, che non vogliono aiutare quelli del Sud.
Macron ha espresso gli stessi concetti, e lanciato un monito duro: "Se l’Europa può morire, è nel non agire".
Sala ha pianto la generazione che stiamo perdendo, quella che aveva ricostruito Milano e il Paese. Ha spiegato come intende ripartire. E ha detto quello di cui tutti ci siamo accorti: la sanità lombarda, decantata per anni, va ripensata.
Tra giovedì e ieri sono morte quasi mille persone: 969, un record. Gli esperti, come il il direttore dell’Istituto superiore di Sanità Silvio Brusaferro, ci esortano però a guardare il quadro complessivo: "Non abbiamo raggiunto il picco e non siamo in una fase calante ma ci sono segnali di rallentamento. Le misure adottate stanno sortendo i loro effetti e ci aspettiamo di arrivare al picco in questi giorni".

venerdì 27 marzo 2020

Lettera di Pupi Avati alla RAI

"E piango e rido davanti alla televisione come piangono e ridono i vecchi ,che è poi come piangono e ridono i bambini, cercando di fare in modo che mia moglie non se ne accorga. Fra i tanti che se ne sono andati un mio amico, Bruno Longhi, grande clarinettista milanese, che il coronavirus ha portato via senza tener conto della sua bravura, di come suonava Memories of you, meglio di Benny Goodman . E’ il primo periodo della mia vita in cui anziché abbracciare vorrei essere abbracciato. Mi manca persino quella specie di bacio notturno con il quale auguro la buonanotte a mia moglie e che lei giustamente mi ha vietato. Dormo di più la mattina, nel silenzio profondo ,cimiteriale di una città morta , appartengo anagraficamente alla categoria di quelli più svelti a morire .
Ma in questo sterminato silenzio , che è sacro e misterioso e che ci fa comprendere la nostra pochezza, la nostra vigliaccheria , ci commuove la consapevolezza dei tanti che stanno mettendo a repentaglio le loro vite per salvarci.
E questo stesso silenzio sarebbe opportuno per i tanti che destituiti di ogni competenza specifica continuano a sproloquiare saltapicchiando da un programma all’altro privi di ogni pudore , di ogni senso del limite. Coloro che con tanta solerzia, con tanta supponenza, ci hanno accompagnato nel corso degli ultimi decenni appartengono al Prima del Coronavirus, quando era possibile il cazzeggio. Ora, se usciremo da questa esperienza, dovremo farne tesoro, dovremo trovare un senso a quello che è accaduto , soccorrendo le tante famiglie di chi ha pagato con la vita, aiutando a superare le difficoltà enormi, spesso insormontabili, nelle quali si troveranno i più, impegnandoci tutti a sostituire il dire con il fare, come accadde dopo la liberazione.
Quello che provo somiglia a quando al cinematografo negli anni cinquanta si rompeva la pellicola e accadeva che venivi scaraventato fuori da quella storia che era stata capace di sottrarti allo squallore del tuo quotidiano. Rottura accolta da un boato di delusione simultaneo all’accensione improvvisa di luci fastidiose. Me ne restavo seduto, stretto in me stesso, cercando di tenermi dentro il film , “ dimmi quando ricomincia “ dicevo a mia madre tenendo gli occhi chiusi e pregando perché quelli su in cabina si sbrigassero a riattaccare la pellicola. Perché fossi restituito al più presto a quel magico altrove. . Ecco questo tempo che sto vivendo che non somiglia a niente , è un pezzo della mia vita che vivo con gli occhi chiusi, in attesa di poterli riaprire

E quel mondo che si sta allontanando ,che non tornerà più ad esserci, che non piaceva a nessuno, del quale tutti si lamentavano, eppure temo che di quel mondo proveremo una crescente nostalgia.
E allora mi chiedo perché In questo tempo sospeso, fra il reale e l’irreale, come in assenza di gravità, i media e soprattutto la televisione e soprattutto la RAI, in un momento in cui il Dio Mercato al quale dobbiamo la generale acquiescenza alll’Auditel , non approfitti di questa tregua sabbatica di settimane, di mesi, per sconvolgere totalmente i suoi palinsesti dando al paese l’opportunità di crescere culturalmente. Perché non si sconvolgono i palinsesti programmando finalmente i grandi film, i grandi concerti di musica classica, di jazz, di pop, i documentari sulla vita e le opere dei grandi pittori, dei grandi scultori, dei grandi architetti , la lettura dei testi dei grandi scrittorii, la prosa, la poesia, la danza, insomma perché non diamo la possibilità a milioni di utenti di scoprire che c’è altro ,al di là dello sterile cicaleccio dei salotti frequentati da vip o dai soliti opinionisti. Perché non proporre quel tipo di programmazione che fa rizzare i capelli ai pubblicitari ! Perché non approfittiamo di questa così speciale opportunità per provare a far crescere culturalmente il paese stravolgendo davvero i vecchi parametri, contando sull’effetto terapeutico della bellezza ? Il mio appello va al Presidente, al Direttore Generale, al Consiglio di Amministrazione della RAI affinché mettano mano a un progetto così ambizioso e tuttavia così economico. Progetto che ci faccia trovare , quando in cabina finalmente saranno stati in grado di aggiustare la pellicola, migliori, più consapevoli di come eravamo quando all’improvviso si interruppe la proiezione . E potremo allora riaprire gli occhi".
Pupi Avati

mercoledì 25 marzo 2020

Coronavirus Bergamo, il sindaco Gori: «La sanità in Lombardia mostra tutti i suoi limiti, molti muoiono a casa»

Mercoledì 25 Marzo 2020 di Claudia Guasco


I camion militari che portano via le bare sono l'immagine del dolore di una città che non riesce nemmeno a seppellire i suoi morti. E non è accaduto solo una volta, perché questi luttuosi convogli avvengono a giorni alterni. Solo la scorsa settimana in provincia di Bergamo il Covid-19 ha ucciso oltre 300 persone. «Bergamo soffre molto, anche se con grande sobrietà. Quella sfilata di mezzi fa capire cosa stia succedendo veramente qui, racconta i drammi personali. Ognuno in città ha una persona cara malata, in ospedale o deceduta». Giorgio Gori sta combattendo la battaglia più dura da quando, a giugno 2014, è diventato sindaco di Bergamo. Ora, dice, «la mia agenda è completamente vuota, eventi e appuntamenti ordinari cancellati, ma lavoriamo dalle otto di mattina finché non crolliamo stremati la sera».
 Il lavoro più delicato è il coordinamento tra voi sindaci e la Regione Lombardia.
«Abbiamo cercato di tenere un raccordo stretto, noi sindaci ci sentiamo in continuazione, quasi tutti i giorni abbiamo una videoconferenza con il presidente Fontana e i suoi assessori. Dobbiamo tenere stretti i bulloni, per la sanità lombarda è una prova inimmaginabile, innanzitutto per chi sta negli ospedali. Con estrema fatica i presidi reggono. I limiti maggiori emergono nella sanità di territorio, che in Lombardia - nonostante gli sforzi che tutti stiamo facendo - non è solida come quella di Veneto ed Emilia Romagna. Purtroppo ora ne abbiamo la prova. La rete dei medici di medicina generale, che è il primo baluardo contro il contagio, è falcidiata dalla malattia, qui da noi 140 medici su 800. Troppe persone arrivano in ospedale tardi e in pessime condizioni, devono essere intubate in terapia intensiva. Molte in ospedale non riescono proprio ad arrivare e muoiono a casa: sono quasi tutti anziani con la polmonite, casi di Covid-19 non censiti, che sfuggono ai radar. Si fa fatica a dare assistenza con l'ossigeno, a intercettare per tempo queste persone e in ospedale non c'è posto per tutti. Servirebbe una rete territoriale più forte, adesso c'è una corsa a potenziarla».
Come avete reagito?
«Con l'impiego delle guardie mediche, di giovani neolaureati, dei medici volontari. Ma ancora mancano i dispositivi di protezione, le mascherine, e non possiamo mandare in prima linea dei soldati completamente disarmati. Il fronte delle attrezzature come ventilatori e respiratori resta un problema. La prima necessità, anche per l'ospedale di campo a Bergamo, sono medici e infermieri. È indubbio che la gravità di quello che stava arrivando è stata sottovalutata, a tutti i livelli, ma era anche difficile pensare a una cosa di questa violenza».
Presto arriverà il nuovo ospedale da campo in Fiera.
«Sarà pronto entro venerdì. C'è stata un po' di esitazione in partenza. È stato dato il via, poi lo stop, poi il via libera definitivo. L'importante è che si faccia. Ora stanno lavorando gli alpini e in raccordo con il Papa Giovanni XXXIII avremo un nuovo punto di screening, con ossigeno e letti per la terapia intensiva. Ci lavoreranno, tra gli altri, i medici di Emergency e forse un gruppo di dottori russi».
Con una zona rossa sarebbe accaduto tutto questo?
«Il punto non è mai stato la città. Il focolaio era ad Alzano Lombardo e a Nembro, più grave ancora che a Codogno. Non era facile decidere, questa è un'area ad altissima densità di popolazione e di imprese. Ma credo che, se fosse stata chiusa la media Valle Seriana, oggi le cose andrebbero un po' meglio. Io ero tra quelli che la chiedevano. E con forza. Ma alcuni amministratori della zona non erano convinti, temevano per le tante aziende».
È preoccupato per il dopo coronavirus, sindaco?
«Moltissimo. Questa è una provincia molto operosa, il contagio ha spazzato via in poche settimane generazioni di lavoro. Se riuscissimo a ripartire prima di settembre, davvero sarebbe un buon risultato. Ma perché torni tutto come prima ci vorranno forse dieci anni».

lunedì 23 marzo 2020

Romero, un nome da ricordare

18 Marzo 2020
Il 24 marzo 1980 veniva ucciso a San Salvador mons. Oscar Romero. Riportiamo il suo ricordo di Paolo Giuntella pubblicato nel primo numero della rivista “Il Margine” (n.1 /1981).
di Paolo Giuntella
Oscar Arnulfo Romero: un nome, è asprissimo doverlo ammettere, già dimenticato, inciso indelebilmente in poche carni. Il suo paese e i suoi contadini gli sopravvivono devastati, fra i cadaveri calpestati dai militari, dai miliziani. Eppure è stato un vescovo ucciso in chiesa al momento dell’elevazione: ma i primi a dimenticarlo sono già i cattolici, la sua Chiesa cui fu sempre serenamente fedele, fino al martirio.
Conobbi Romero a Roma, in una disadorna saletta di pensionato cattolico, nella quale l’intervistai. Un uomo vivace, che portava qualche segno indio nel volto, e che ricordava La Pira nei gesti espressivi e rapidi, in quelle mani mai ferme che accompagnavano, quasi a volerle illustrare, le parole. Non dimenticherò mai i suoi occhi, così neri e intensi. Un piccolo uomo energico, così diverso dalla fragilità profetica di Helder Camara. Raccontava con naturalezza, con il sorriso che può nascere solo dopo la contemplazione «attiva» della croce, la scelta della sua Chiesa, la scelta dei poveri come scelta pastorale anzitutto. Ed anche la sua testimonianza nonviolenta, aveva qualcosa di diverso dalla cultura gandhiana di Luther King, Danilo Dolci e dello stesso Esquivel. La sua era una scelta nonviolenta «pastorale», cioè popolare, senza fronzoli eccessivi e memorie, sia pure nobilissime, di esperienze diverse. Una sorta di nonviolenza meno «spiritualista», più latina.
La Chiesa per Romero non poteva che scegliere in una direzione.
Per essere la Chiesa del popolo, per stare con il popolo. Questa, certo, diventava anche una scelta politica, un giudizio sul regime, una scelta di campo. Ma nasceva da una lettura pastorale dei segni dei tempi. Questa forse la diversità. Insomma Romero non voleva assolutamente essere un pastore politico. Ma un pastore. E perciò, perché pastore, nella crudeltà dello sfruttamento del suo popolo, la sua azione diveniva «politica».
Soffrire, morire con il popolo
Mi pare, ripensando a lui, che egli abbia messo in pratica con coerenza le parole di Maritain: «Prima di fargli del bene, prima di lavorare per il suo bene, prima di assecondare o meno la politica di questi o quegli altri che ne esaltano il nome e gli interessi, prima di giudicare in coscienza il bene e il male delle dottrine e delle forze storielle che lo sollecitano o di farne una scelta — o forse anche di rifiutarla in certi casi eccezionali — o necessario scegliere di esistere con il popolo, di soffrire con lui, assumendone sofferenza e sorte». Romero, scegliendo con la sua Chiesa di esistere con, di soffrire con il suo popolo, ne ha assunto appunto, a livello fisico e simbolico, la sofferenza e In sorte. Il suo popolo è calpestato e crocifisso, ed egli ha gridato questa verità fino a quando anche lui è stato crocifìsso con i chiodi dei mitra.
Eppure lo stiamo dimenticando. Pensate a quanta diversa sorte hanno avuto, attraverso le macchine dei mass media (che hanno questa terribile libertà di selezionare, rinchiudere e gonfiare le notizie) i «miti» di Martin Luther King, «Che» Guevara o Albert Schweitzer.
Romero è già inghiottito, con la complicità, per dirla con le parole di un altro grande dimenticato — il premio nobel per la pace 1980, il cattolico Alfonso Perez Esquivel, già «occultato», prima ancora della consegna ufficiale e mondana del riconoscimento — con la complicità, sì diceva del «silenzio dei buoni», del silenzio dei fratelli nella fede.
O forse o il destino dei «santi» dei poveri. Come il nobel della pace sudafricano Albert Luthuli, perso nell’oblio della storia, o il nobel della pace irlandese, ex militante dell’ Ira convertito alla nonviolenza, Sean Mc Bride, o come l’«oscuro» indiano Vinoba. C’è insomma anche una discriminazione dei buoni, dei martiri, che l’industria della retorica, l’Imperialismo della commozione dei ricchi, amministrano insieme al disordine costituito della fame, delle libertà e dei sogni repressi, delle utopie frantumate dei campesinos condannati dalle multinazionali e dallo spìrito di Yalta.
Un giuramento di fedeltà
E no. Noi ci dobbiamo ribellare. Anche alla saggezza dei nostri padri e maestri. Anche allo scetticismo verso il terzomondismo nei nostri maestri riformisti, sanamente realisti, cautamente progressisti.
Ci dobbiamo ribellare all’oblio. Diventare ostinati annunciatori, ostinati ripetitori di nomi, sin quasi alla nausea ed alla rabbia.
L’ho giurato nelle mani dì Romero. Lo giuro ancora quando ritrovo tra le mie carte il suo piccolo biglietto da visita: Oscar Arnulfo Romero, Arcibisbo. Arcibisbobado de San Salvador. «La mia porta è sempre aperta per te, vieni». Giuriamolo insieme. Fino alla noia.
Perché non si stenda su lui, su loro, il velo fradicio dell’oblìo. L’effetto Reagan già comincia sentirsi sulle carni dei suoi campesinos.
E i nostri ragazzi già dicono «Romero, chi era costui ?» perché tanti nomi non ci dicono più nulla.
Nel suo ultimo scritto, prima di morire, trent’anni fa, Emmanuel Mounier vergava il suo testamento: «fidelité». Fedeltà. E’ il giuramento che noi dobbiamo stabilire alla fine di questo maledetto e splendido, e maledetto ancora, decennio per il nostro avvenire.
Fedeltà. Fedeltà, padre vescovo Romero, volto futuro della Chiesa di Dio. Fedeltà padre vescovo Romero, «segno» del militante cristiano.
«Fonderanno i loro bazooka in trattori, i loro mitra in motozappe. Un popolo non alzerà più cannoni contro un altro popolo. Miliziani, squadrones de la muerte, militari non si eserciteranno più nell’arte della guerra».
Que viva Romero.

domenica 22 marzo 2020

richiamo

“Noi non ci impegniamo che in lotte discutibili intorno a cause imperfette: rifiutare per questo l’impegno vorrebbe dire rifiutare la condizione umana.”
“La perfezione dell’universo personale incarnato non si identifica con la perfezione di un ordine, come pretendono tutti quei filosofi (e tutti quei politici) i quali pensano che l’uomo possa un giorno totalizzare il mondo. Essa è invece la perfezione di una libertà che combatte strenuamente e che sussiste anche dopo lo scacco.. Il vero sentiero dell’uomo è questo ottimismo tragico”.
Emmanuel Mounier 

PARLAMENTO

Sandro Albini
Ho appena sentito Salvini e Meloni invocare la convocazione del Parlamento in seduta permanente per poter essere parte dei provvedimenti. In una situazione come questa la responsabilità è del Governo, nella persona del suo Presidente e delle Regioni, anche qui nella persona del Presidente. Il Parlamento avrà il compito di trasformare in legge, magari corregendoli, i provvedimenti governativi. Ci sono difficoltà oggettive per governo e presidenti regionali a gestire una situazione di emergenza. Figuriamoci se i provvedimenti dovessero essere oggetto di discussioni tra forze politiche ognuna delle quali pretende di piantare la sua bandierina. Faremmo in tempo a morire tutti.

sabato 21 marzo 2020

«Il coronavirus ci farà rivedere le nostre priorità»


David Grossman
«Quando l'epidemia finirà, non è da escludere che ci sia chi non vorrà tornare alla sua vita precedente. Chi, potendo, lascerà un posto di lavoro che per anni lo ha soffocato e oppresso. Chi deciderà di abbandonare la famiglia, di dire addio al coniuge o al partner. Di mettere al mondo un figlio o di non volere figli. Di fare coming out. Ci sarà chi comincerà a credere in Dio e chi smetterà di credere in lui». Per David Grossman, non è detto che l'emergenza coronavirus non possa insegnarci a essere più umani. Il celebre scrittore israeliano ha affidato la sua riflessione a una lettera tradotta da Alessandra Shomroni e pubblicata sull'edizione odierna de La Repubblica.
Pur non minimizzando la situazione e definendo l'epidemia da Covid-19 «più forte di qualsiasi nemico in carne e ossa che abbiamo affrontato o di qualsiasi supereroe che abbiamo mai immaginato o visto nei film», Grossman non crede che il mondo uscirà sconfitto da questa pandemia. «Siamo - scrive l'autore di Che tu sia per me il coltello - sofisticati, computerizzati, equipaggiati con uno stuolo di armi, vaccinati, protetti dagli antibiotici».
Che il coronavirus sia stato sottovalutato, però, è innegabile. Prosegue Grossman: «Di brutto sogno in brutto sogno sono gli uomini a passare... pensavano che tutto per loro fosse ancora possibile, il che presumeva che i flagelli fossero impossibili. Continuavano a fare affari, programmavano viaggi e avevano opinioni. Come avrebbero potuto pensare alla peste che sopprime il futuro?» Tra dati e paura di non sopravvivere alla pandemia, nelle nostre vite oggi va in scena un dramma che Grossman definisce quasi biblico. «Una certa percentuale della popolazione - dice lo scrittore - morirà. Negli Stati Uniti si parla di un milione di probabili decessi. La morte è tangibile». E ancora: «Sulle prime hanno proclamato "cancelliamo i voli". Poi hanno chiuso i bar, i teatri, gli asili, le scuole, le università. L'umanità spegne i suoi lampioni l'uno dopo l'altro».
Secondo Grossman, però, quando l'emergenza sarà finita, l'umanità ne uscirà migliore perché consapevole della sua fragilità e della caducità della vita. Uomini e donne fisseranno nuove priorità e impareranno a distinguere meglio tra ciò che è importante e ciò che è futile. «Ci sarà - spiega - chi, per la prima volta si interrogherà sulle scelte fatte, sulle rinunce, sui compromessi. Sugli amori che non ha osato amare. Sulla vita che non ha osato vivere. Uomini e donne si chiederanno perché sprecano l'esistenza in relazioni che provocano loro amarezza. Ci sarà forse chi si domanderà perché israeliani e palestinesi continuino a lottare a distruggersi la vita a vicenda da oltre un secolo, in una guerra che avrebbe potuto essere risolta da tempo». E conclude: «Ci sarà forse chi, osservando gli effetti distorti della società del benessere, si sentirà nauseato e fulminato dalla banale, ingenua consapevolezza che è terribile che ci sia gente molto ricca e tanta altra molto povera. Che è terribile che in un mondo opulento e sazio non tutti i neonati abbiano le stesse opportunità. E forse anche i mass media, presenti in modo quasi totale nelle nostre vite e nella nostra epoca, si chiederanno con onestà quale ruolo abbiano giocato nel suscitare il generale senso di disgusto che provavamo prima dell'epidemia».

"Il coronavirus è una livella, colpisce tutti!"


Silvia Marzoli, 32 anni, è una delle infermiere che volontariamente ha deciso di tornare in corsia per dare il suo contributo nella lotta al Coronavirus. Al Giornale.it ha raccontato i suoi giorni in terapia intensiva a Brescia

Daniele Bellocchio
La priorità è combattere contro il nuovo Coronavirus ed avendo lavorato per anni come infermiera in terapia intensiva ho pensato, senza esitazioni, di tornare in reparto per mettere la mia professionalità al servizio degli altri''. Silvia Marzoli ha 32 anni, vive in provincia di Brescia, ha lavorato per 8 anni come infermiera in terapia intensiva in un ospedale del capoluogo lombardo poi, dopo un master in pubblica amministrazione, nel 2018, ha lasciato il lavoro in corsia per intraprendere una nuova carriera all'interno di InterSystems, un'azienda che si occupa di software per il sistema sanitario, per le aziende e le realtà amministrative. Da quando è esplosa l'infezione di COVID 19 Silvia però ha deciso di schierarsi anche lei in quella che oggi è la prima linea italiana: gli ospedali; ed è tornata a lavorare in terapia intensiva, a Brescia, dove sarà impegnata per tutti i prossimi weekend, sino a quando l'emergenza non sarà cessata.
Quando ha maturato la scelta di voler tornare in ospedale?
Appena è esplosa l'epidemia, tre settimane fa circa, mi sono resa conta che non eravamo difronte a una situazione normale e che ci stavamo preparando ad affrontare un qualcosa di nuovo, di enorme. La Cina già ci aveva mostrato quanto potesse essere drammatica questa infezione e ora lo stiamo vivendo sulla nostra pelle. Quindi, giorno dopo giorno, mi sono resa conto della gravità e di come fosse realmente la situazione negli ospedali. A quel punto non ho più avuto dubbi e ho deciso di dare la mia disponibilità per lavorare il fine settimana.
È stata supportata dalle persone a lei vicine nel compiere questa scelta?
Da un lato, da parte di chi mi è vicino, c'è una legittima preoccupazione, ma allo stesso tempo mio padre, i miei amici, i miei colleghi, tutti mi hanno fatto sentire il loro supporto e la loro vicinanza in questa mia scelta. E percepire questa solidarietà e unione mi ha dato ancora più forza e determinazione per tornare in ospedale.
Come è stato il rientro in corsia?
Mi è sembrato di non essere mai andata via. Tutto il personale medico sta lavorando in una maniera straordinaria. Medici, infermieri, Oss, non c'è nessuno che si ferma un secondo e c'è una dedizione al sacrificio e uno spirito di squadra unici. L'aver visto un atteggiamento di questo tipo da parte del personale medico e infermieristico è stata in qualche modo un'iniezione di fiducia. La situazione nel reparto di rianimazione è comunque frenetica, i ritmi sono concitati e il personale deve adattarsi sempre a nuove esigenze: i reparti sono stati modellati per garantire ai pazienti tutta l'assistenza di cui hanno bisogno, ma perchè la macchina non si fermi, nessuno può concedersi pause o permessi.
Come infermiera come vive e affronta la separazione tra pazienti e parenti?
La separazione è un aspetto brutale. Dal momento che le regole sono ferree e le visite non sono consentite io spero che riesca ad essere incentivato sempre più l'utilizzo dei devices come strumento di comunicazione tra paziente e parente. I parenti cerchiamo di tranquillizzarli e rassicurarli. Non mistifichiamo la situazione ma con oggettività spieghiamo come stanno le cose ed evitiamo che quindi si trovino soli in balia di ansia e paure. Talvolta si assiste a scene disperate ma non sono affatto biasimabili. Purtroppo, e non è ancora chiaro a molti perchè se n'è parlato poco a riguardo, questa malattia obbliga a un allontanamento. I parenti, in molti casi, per diversi giorni, non possono rivedere il proprio caro malato. E' bene che la gente lo sappia così da tutelarsi maggiormente.
Voi per tutta Italia, oggi, siete considerati degli eroi. Ma lei che sta vivendo da dentro questa situazione cosa vorrebbe dire agli italiani che da fuori l'applaudono?
Di non uscire di casa. Semplicemente questo. Non uscite. Vedo ancora troppa gente che va in giro, troppa. Io non credo che in questo momento sia così necessario trovare un motivo per andare fuori. Ricordiamoci sempre che non bisogna sottovalutare la questione. Vorrei che tutti in Italia non uscissero di casa. Solo se si rispettano le regole e si limitano il più possibile le uscite si può mettere fine a tutto questo e non si vanifica così lo sforzo che noi medici e infermieri stiamo facendo
Arrivano anche giovani immagino, quali sono le loro reazioni?
Sono spaventati, come tutti. Anche se si sono viste scene di giovani che facevano gli aperitivi o si sono ascoltate interviste a giovani esuberanti che non dimostravano molta attenzione e interesse per la questione, io invece posso garantire che ci sono molti giovani attenti e inoltre quando i giovani vengono in ospedale, nessuno di loro vuol fare il di più, e sono tutti estremamente preoccupati. Questo virus è una livella e non guarda in faccia a nessuno.
Qual è il particolare, la situazione, l'episodio che l'ha colpita maggiormente da quando è tornata a lavorare in ospedale?
Più di tutto c' è una domanda che continua a echeggiarmi in testa: ''quando finirà?''. E' il non sapere dare una risposta a questo interrogativo la cosa che mi colpisce di più.

giovedì 19 marzo 2020

speriamo finisca questo tempo

Mi hanno girato questa splendida poesia di un'autrice irlandese dell'800 che sembra essere scritta per noi

Kathleen O'Meara (1869)

E la gente rimase a casa
e lesse libri e ascoltò
e si riposò e fece esercizi
e fece arte e giocò
e imparò nuovi modi di essere
e si fermò
e ascoltò più in profondità
qualcuno meditava
qualcuno pregava
qualcuno ballava
qualcuno incontrò la propria ombra
e la gente cominciò a pensare in modo differente
e la gente guarì.
E nell’assenza di gente che viveva
in modi ignoranti
pericolosi
senza senso e senza cuore,
anche la terra cominciò a guarire
e quando il pericolo finì
e la gente si ritrovò
si addolorarono per i morti
e fecero nuove scelte
e sognarono nuove visioni
e crearono nuovi modi di vivere
e guarirono completamente la terra
così come erano guariti loro.

REGOLE

Sandro Albini
Parché troppi non rispettano le regole imposte per bloccare l'epidemia? Per la stessa ragione per la quale usano il telefonino mentre guidano, non rispettano i limiti di velocità, non pagano le multe, non fanno vaccinare i figli e così via. E' il frutto di decenni in cui le REGOLE sono state considerate come imposizioni alla loro libertà imitando gli stessi comportamenti di certe forze politiche e giornalismo cialtrone. Si è idolatrato un esasperato individualismo (c'entra anche la idolatria della privacy) contrapposto ai doveri da praticare dentro una comunità. E' accaduto così anche tra istituzioni: le Regioni si sono proposte come Stato nello Stato per cui un provvedimento non è valido in se ma a seconda di chi lo propone. Lo stiamo vedendo anche in queste ore con chi minaccia ostruzionismo in Parlamento per marcare una distanza e rivendicare una identità. Dopo, ad esempio, bisognerà essere meno tolleranti con i no wax: non si tratta di libertà di opinione ma di salute pubblica, i loro vaneggiamenti inducono comportamenti pericolosi con morti al seguito. Quindi regole più dure ma provvedimenti drastici per i trasgressori. E niente amnistie passata la nottata. Un sistema democratico non vive di sola rivendicazione dei diritti ma solo se vengono sanzionati i comportamenti anarcoidi o la non osservanza dei doveri. Altrimenti arriva l'uomo forte, magari quello che ha lisciato il pelo ai comportamenti irresponsabili.

nasce l'Europa

https://www.facebook.com/raistoria/videos/1406620999544994/

lunedì 16 marzo 2020

16 marzo 1978

"Se fosse possibile dire saltiamo questo tempo e andiamo direttamente a domani, credo che tutti accetteremmo di farlo. Ma non è possibile. Oggi dobbiamo vivere, oggi nostra responsabilità. Si tratta di essere coraggiosi e fiduciosi al tempo stesso. Si tratta di vivere il tempo che ci è dato vivere con tutte le sue difficoltà. ALDO MORO"

il mondo ci è vicino




sabato 14 marzo 2020

La nostra generazione impaziente alla prova di Giobbe


Tobia Zevi
Qual è la virtù specifica della mia generazione, quella diciamo dei nati tra anni Settanta e Ottanta? Forse la flessibilità? O la creatività? O la capacità di predire e interpretare la continua innovazione tecnologica che trasforma le nostre vite?
Può darsi.
Il problema è che il Coronavirus – senza negare l’importanza delle qualità di cui sopra – ci sta sfidando su un terreno a noi completamente estraneo. La pazienza. Molti infatti si sono esercitati a definire il tipo di prova che ci viene riservata da questi giorni di isolamento. Unità, eroismo, resistenza. Ma la verità è che non occorre essere eroi per starsene dentro casa a leggere, guardare ogni sorta di pay-tv, chattare su molteplici piattaforme, telefonare e surfare compulsivamente tra un social media e l’altro, oscillando tra la strenua conta dei contagiati e l’eterno imperdibile gossip.
Se questa è la prova della nostra generazione c’è poco da essere fieri. Sembra una cosa minore al paragone dei nostri nonni che salirono sui monti, o sopravvissero alla guerra, o anche sopportarono le drammatiche restrizioni che l’economia di guerra comportò, e che recentemente sono state descritte dallo scrittore americano Jonathan Safran Foer nel libro “Possiamo salvare il mondo, prima di cena” (Guanda).
Ma la pazienza per noi è davvero un’esperienza inedita e titanica. Siamo abituati a conoscerci con un clic, a fare l’amore pochi clic dopo, ad aprire e chiudere relazioni in chat, a passare da un locale all’altro nella stessa serata (pub crawling) e a sostituire la cena con l’aperitivo, più rapido e meno impegnativo (se mi annoio non devo neanche trovare la scusa per alzarmi). Non abbiamo creato noi il modello di sviluppo onnivoro e suicida in cui siamo immersi, ma non sappiamo per il momento farne a meno, e dubitiamo di poterlo trasformare in un’alternativa ecologica, sostenibile ed equa.
Siamo la generazione che scrive di più nella storia (sms, chat, social media), e quella che probabilmente leggerà di meno, in cui per la prima volta il concetto di analfabetismo divarica dalla sua origine, ovvero dall’alfabeto (si parla infatti di “analfabetismo cognitivo” e “analfabetismo di ritorno”).
Insomma, siamo la generazione che, non per meriti suoi, ha compresso le dimensioni dello spazio e del tempo disimparando ad apprezzarle nella loro estensione. Tutto questo negli ultimi giorni è finito. Non possiamo muoverci e dobbiamo aspettare, leggere, parlare, annoiarci. Probabilmente tutto ciò non costituisce una prova degna di un racconto epico, di una generazione di eroi. Ma potrebbe cambiarci in meglio. Insegnandoci ad amare e amarci meglio, a rispettare, a meditare e ad attribuire valore a gesti che abbiamo sempre dato per scontato.
Che gusto diverso avrà domani salutarsi con due baci sulla guancia, abbracciare un amico, prendere al volo un treno che sta partendo e bersi una birra seduti su un muretto quando fuori è caldo? Che meraviglia ci sembrerà stare di nuovo insieme (da innamorati, da sportivi, in comitiva, a fare shopping) dopo questo stop forzato, mentre fino a ieri tutto sommato era più comodo rimanersene a chattare sul divano se fuori faceva un po’ freddo, anche se il freddo vero purtroppo non c’è più?
Quando questo maledetto virus sarà stato sconfitto ci aspettano mesi e anni tremendi. Tanti stanno perdendo il lavoro, tanti lo perderanno; settori economici sono già stati spazzati via e moltissime famiglie sono ormai al secondo giro di cinghia dopo gli anni bui che abbiamo alle spalle. Ma se saremo cambiati, ne verremo fuori. Con pazienza. La pazienza che ci sta facendo capire che cosa è davvero importante.

segnali di speranza

Laura Rozza
Sento la tromba di Lorenzo Bosso, sento i cori più o meno intonati in tutta Italia, mi commuovo vedendo la famigliola dei miei cari che suona sul balconcino anche i piccolini e sento , l'applauso fragoroso che viene da tutti i caseggiati intorno...e penso.Penso che siamo un popolo che ha bisogno di esserci, sarà la nostra vena artistica..
Fin qui,in questi anni è stato un esserci da soli un enfasi dell'Io, adesso forse scatterà la voglia il desiderio la saggezza ..di farcela insieme! È gia successo.La consapevolezza di stare, spesso nostro malgrado, in un Paese toccato dalla Grazia, Ci fa sentire uniti ci dà speranza !

venerdì 13 marzo 2020

Bravo Giorgio


Giorgio Gori
Ho trovato un momento di pausa e vorrei dedicarlo a chi sta in carcere. Ai detenuti e chi lavora per la loro sorveglianza. C’è in generale il rischio di dimenticarcene e a maggior ragione in questi giorni difficili in cui, paradossalmente, ognuno di noi sperimenta cosa possa voler dire – con tutte le differenze del caso – trovarsi reclusi.
Noi stiamo chiusi nelle nostre case e usciamo solo per necessità. Ai detenuti, a causa dell’epidemia, sono state sospese le visite. E’ stato deciso a loro tutela – è facile immaginare le conseguenze se il virus dovesse penetrare dentro le mura di un carcere – ma molti hanno reagito male. Molti di loro hanno mogli o mariti e figli a casa e sono preoccupati, come tutti. Nelle carceri di diverse città hanno reagito molto male, ci sono state violenze e purtroppo diversi morti. Non a Bergamo, per fortuna, dove i detenuti hanno scelto la via del dialogo con le autorità di sorveglianza. E anche per questo – per esprimere loro l’apprezzamento per questa scelta di contotta pacifica e costruttiva – mi sono reso disponibile ad incontrarli.
Mi hanno accolto in una saletta, alla presenza della Direttrice della Casa Circondariale e del personale di sorveglianza: una quindicina di detenuti in rappresentanza delle diverse sezioni. Mi hanno letto e consegnato due documenti, uno indirizzato alle istituzioni politiche e in primo luogo al Ministro della Giustizia Bonafede, l’altro – contenente alcune istanze più puntuali – al Presidente del Tribunale di Sorveglianza. Ne hanno spiegato il contenuto, mostrando di capire bene l’emergenza a cui tutti stiamo facendo fronte e le ragioni delle retrizioni a cui sono stati sottoposti. Ma mi hanno chiesto attenzione, e riconoscimento del loro essere cittadini come gli altri, con la loro umanità e il loro diritto alla salute.
Chiedono che il Tribunale di Sorveglianza applichi le disposizioni – vigenti – che ad alcuni di loro consentirebbero di tornare a casa, o di scontare la pena ai domiciliari. Non mi addentro in questo campo, che non mi compete. Ma voglio ringraziarli per la cortesia con cui mi hanno accolto e per il senso di responsabilità testimoniato dai loro comportamenti e dalle loro parole.
Nelle prossime ore faremo recapitare alla Casa Circondariale di via Gleno otto computer, regalati dal nostro fornitore GLOBO, con i quali sarà possibile realizzare dei “colloqui telematici” tra i detenuti e i loro familiari, sperando che questo brutto momento finisca presto.

oltre la movida


una storia politica esemplare


martedì 10 marzo 2020

SUGGERIMENTO NON RICHIESTO.

Pierluigi Castagnetti
10-03-2020
Vedo i tre partiti della destra ben intenzionati a una qualche forma di solidarietà istituzionale di fronte a un’emergenza molto grave. Immaginano di offrire al governo alcune loro proposte per negoziare una sorta di patto. Può essere una via. A me pare però che L’unitá del paese in questa situazione drammatica possa anche manifestarsi in modo diverso: il governo governi, le opposizioni ne agevolano in sede parlamentare l’azione, “gratuitamente”, nell’interesse non del governo ma del paese. Gratuitamente. Perché questo è il paese di tutti, anche loro, e basta. Poi alla fine dell’emergenza si tornerà alla regola aurea secondo cui chi ha la maggioranza, se ce l’ha effettivamente, governa e chi è minoranza sta in minoranza con la legittima aspirazione di diventare maggioranza. Ripeto ancora: perché si è italiani, in questo momento si sostiene il governo del proprio paese, e basta. Fermo restando che se si hanno idee utili è giusto offrirle alla considerazione di chi deve prendere decisioni nell’interesse di tutti. E gli elettori sapranno valutare al momento del voto, senza necessità di conferenze stampa quotidiane.

quando la disobbedienza non è più una virtù


lunedì 9 marzo 2020

Giorni strani


Ermes Ronchi
Sono giorni strani, giorni “senza” (senza messe, nessun evento, pochi contatti...) e la prima cosa che balza al cuore, per me, è un sentimento di precarietà della vita. Mia e dei miei cari, mia e del mondo. La vita è mia, ma non dipende da me. Basta un invisibile virus, anche se dal nome regale... E poi, il sentimento del dono: la mia vita è tutta un tessuto di doni.

Come dare un senso a questi giorni sospesi, in questo inizio di quaresima?
Voglio accogliere questa precarietà (che siano queste le ‘ceneri’ della liturgia?...), accogliere è più che accettare, e ascoltar nascere la struttura del dono, e poi dell’empatia, con la fragilità degli altri.
Sono davanti a un bivio: posso alimentare la paura, con le sue chiusure paralizzanti e le critiche distruttive, oppure posso sentirmi coinvolto e responsabile del bene comune, base del vivere civile, e cristiano.

Il vangelo domenica accendeva una luce sulla precarietà:
Non di solo pane vive l’uomo!
L’uomo non vive solo trasformando le pietre in pane, o in beni economici, vive anche della contemplazione delle pietre del mondo, vive di bellezza, di relazioni e di sapienza. La vita vive anche di vita donata alla cura d’altri.
Allora a cosa dedicare questi giorni “senza”? A riempire i carrelli dei supermercati? Per accorgerci che il re capitalista è nudo?
Molto meglio dedicarli a qualcosa che spesso fuggiamo come un nemico: l’interiorità. E se provassimo a prenderci del tempo? “Perdonate se non ho guardato / con la dovuta attenzione tutte le meraviglie/ quotidiane. I passaggi di luce, le stagioni. / Certe facce. O musi. Se non ho adorato/ la varietà mutevole del mondo...” (M. Gualtieri)
Per esempio, mi prendo tempo per il silenzio - spengo la tv, incubatrice di paure, e lo smartphone contagiatore, che le diffonde alla massima velocità - per vivere un tempo di solitudine amica. Posso meditare, pregare, uscire a “riveder le stelle”. Vivere la pura gioia di pensare, di fare arte. Di leggere viaggiare interiormente in compagnia dei grandi uomini di ogni tempo.
Mi prendo il tempo per la famiglia, per le relazioni, per una visita a persone che non vedo da tempo. Per riaccendere il telefono, e chiamare un amico.

Di questi giorni io vorrei salvare la consapevolezza che siamo tutti interconnessi, che facciamo rete insieme, e che in ciascuno c’è l’orma di ognuno, in ogni vita confluiscono tracce di ogni vita.
Vorrei che restasse, di questi giorni, l’idea che possiamo ricompattarci, e restituire fiducia agli scienziati e anche agli amministratori che applicano le direttive. Vorrei salvare, di questi giorni, una lezione di solidarietà: la tua vita è anche la mia vita. E anch’io collaboro, obbedisco alle disposizioni, mi comporto con cautela e responsabilità. Perché proteggendo me stesso, proteggo i più esposti: anziani, adulti e bambini malati... e non posso, con le mie scelte, smagliare questa rete, facendo di testa mia, aprendo così un buco o una breccia nella diga comune.
Vorrei salvare di questa esperienza del male comune la lezione di che cos’è il bene comune, così vituperato e deriso.

Voglio investire le mie energie, in questa quaresima strana, non per deprimere me e gli altri ma per costruire qualcosa: per purificarci tutti dalla nostra indifferenza verso il mistero della vita, perché sia più viva e più solidale e più bella, e più nostra, la nostra Casa comune.

Dunque si può di Mariangela Gualtieri


Dunque si può. Dire mi dispiace
dire perdonate e ottenere perdono,
subito. Essere del tutto ripuliti.
Nuovi. Si può. Allora perdonate.

[...]

perdonate le mattine scure
e l'umor nero – la testa chiusa murata
nelle sue tortuose galere, la prigionia
interiore in cui mi relego, muta e scontrosa
dimentica dei doni.

Se non sono del tutto e sempre
innamorata del mondo, della vita,
sedotta e vinta dalla rivelazione
d'esserci d'ogni cosa, e d'altro
non troppo ben nascosto – dietro l'evidenza.

Questo più d'ogni altra cosa perdonate.
La mia disattenzione.


giovedì 5 marzo 2020

ci mancherai



Ernesto Cardenal da fastidio anche da morto

dopo il caos di uomini del regime di Ortega ai funerali di Ernesto Cardenal vale la pena di riproporre questa sua poesia 
 
Salmo I *
di Ernesto Cardenal
Fortunato l’uomo che non segue le direttive del Partito
e non partecipa alle sue manifestazioni
e non si siede allo stesso tavolo con i gangsters
o con i Generali nel Consiglio di Guerra
Fortunato l’uomo che non spia il suo fratello
o denuncia il suo compagno di scuola
Fortunato l’uomo che non legge gli annunci pubblicitari
e non ascolta le loro radio
e non crede nei loro slogan
Sarà come un albero piantato accanto a una fonte 
 
* da Salmos 1964, traduzione di Antonio Melis

mercoledì 4 marzo 2020

europa batti un colpo


ciao Giuan

Alessandro Benevolo
GIANNI LANDI
È mancato l'altra notte Gianni Landi, operaio, sindacalista, politico bresciano nelle file (di sinistra) della DC. È stato quello che oggi chiameremmo un tessitore di rapporti tra chi occupava posizioni politiche e la società civile, in particolare col mondo del lavoro. Me lo ricordo spesso a colloqui con mio padre o mio suocero insieme col povero Gervasio Pagani o con Riccardo Imberti. Militavano in quella DC "di sinistra" che proveniva o manteneva rapporti con il mondo operaio, da una "cellula" della provincia ovest. Rovato, Chiari, Coccaglio e dintorni. Mi ricordo nitidamente il contrasto tra un aspetto vagamente francescano e certe impuntature sanguigne, la sua voce perentoria che zittiva spesso tutti e anche qualche errore di percorso all'epoca della disputa sulla segreteria locale tra martinazzoliani e prandiniani che fece perdere le staffe ad un solitamente imperturbabile Luigi Bazoli. Ma su tutto ricordo la sua incrollabile convinzione donmilaniana dell'idea collettiva del fare politica, una passione vera e non strumentale a qualcosa. La terra ti sia lieve Gianni. In questo mondo in cui la politica sembra ridursi a un match tra incursori e guastatori ci mancherà un pontiere come te



Mario Fappani
UN COMMOSSO ADDIO.
Un addio commosso ad una grande anima di cattolico-democratico come il carissimo amico GIANNI LANDI che ci ha lasciato ieri sera.
Da lui ho imparato che il servizio della politica, come insegna San PaoloVI, “ è la più alta forma di carità “.
Lo penso in paradiso a conversare amabilmente e con grande rispetto con l’anima mite del ribelle per amore Michele Capra, il maestro di tanti giovani degli anni sessanta, come me e discutere con passione con l’indimenticabile Gervasio Pagani.
Che la terra ti sia lieve, uomo vero, di cristallina onestà e innamorato dei principi di giustizia sociale, protagonista di tante difficili battaglie a difesa della dignità dei lavoratori delle fabbriche bresciane, la tua Om in primo luogo, e del valore assoluto di ogni vita umana, nel solco della tradizione e del patrimonio culturale del personalismo Cristiano di Maritain e Mounier.

Sandro Albini
Ho conosciuto Nanni a 17 anni nella casa del curato di S. Eufemia Don Guerino. Con Urbano e altri amici abbiano partecipato ad un incontro promosso per stimolare all'impegno i giovani. Poi ci siamo incrociati spesso nelle Acli, nella Lega Democratica della quale era leader carismatico assieme a Luigi Bazoli. Sua la indicazione della candidatura di Cesare Trebeschi a Sindaco di Brescia. Un uomo solido, cresciuto in fabbrica, che ha segnato la vita politca, sociale sindacale della città. Generoso, disinteressato (non volle mai rivestire cariche pubbliche pur meritate), anche spigoloso (ricordo ancora lo scontro con Mario Faini al congresso Acli del 1961). Abbiamo condiviso tanti percorsi, trovandoci anche in qualche caso su diverse rive. Alcuni anni fa lo incrociai chiedendogli come mai non si sentisse la sua voce sui vari temi della vita politica e sociale. Mi rispose che il mondo era ormai cambiato e già (scherzosamente) ne aveva combinate più di Bertoldo in quello che conosceva. Fa parte di quelle persone conosiute delle quali è caro conservare il ricordo.