venerdì 31 luglio 2015

Il Belpaese


Vita 29 luglio 2015
Il ct Berruto si dimette: ci sono valori non negoziabili
Mauro Berruto, ct della nazionale maschile di volley si dimette a seguito delle polemiche nato dopo la sua scelta di escludere 4 titolari a ridosso delle finali della World League. Questa è la lettera aperta pubblicata sul suo sito, con cui spiega le ragioni della sua scelta.

Oggi ho comunicato al Presidente Carlo Magri la decisione di rimettere il mio mandato di Commissario Tecnico della Squadra Nazionale di pallavolo nelle mani Sue e del Consiglio Federale.
Il clima generatosi intorno alla squadra, in relazione al provvedimento disciplinare nei confronti di quattro atleti da me deciso in occasione della Final Six di World League a Rio de Janeiro, mi ha reso consapevole di non sentire più quella fiducia completa nel mio operato che sempre ho sentito e che è condizione necessaria per poter svolgere questo straordinario compito.
Il dolore di rinunciare al mio ruolo di CT a un mese dell’obiettivo verso il quale tutto il mio lavoro era stato indirizzato nel quadriennio olimpico, non è negoziabile rispetto alla difesa di valori che ritengo fondamentali quali il rispetto delle regole e della maglia azzurra. Valori che ritengo altresì fondamentali nella mia visione di sport.
La commovente risposta della squadra successiva alla mia decisione (la vittoria contro la Serbia e, ancora di più, la coraggiosa sconfitta contro la Polonia campione del mondo) mi restituisce la certezza che sui valori tutto si fonda.
Tengo tuttavia, amaramente, questa certezza solo per me, ringraziando di cuore i 13 protagonisti di quelle due partite, perché il coro di chi ha letto nella mia decisione incapacità di gestione, inadeguatezza al ruolo, danno economico o addirittura causa scatenante di una brutta immagine per il nostro movimento mi fa pensare che il rispetto delle regole sia diventato merce negoziabile davvero.
Se così è il mio passo indietro è dovuto, perché non è e non può essere questo il mio modo di intendere lo sport e fare il Commissario Tecnico.
Ringrazio tutti coloro che hanno lavorato con me in questi anni, atleti e membri dello staff, perché tutti mi hanno insegnato delle cose. Un pensiero particolare va ai 30 atleti che in questi quattro anni e poco più hanno esordito con la maglia azzurra. E’ un record di cui vado molto fiero perché regalare questa gioia non ha davvero prezzo.
Ringrazio tutti gli staff delle Squadre Nazionali giovanili e in particolare Mario Barbiero, motore inesauribile della nostra pallavolo maschile giovanile. Fin dal primo minuto ho voluto dimostrare come la nazionale Seniores fosse parte di un progetto comune che incomincia a quattordici anni con i Regional Days. Le nostre squadre giovanili stanno da qualche tempo brillando in Europa e nel mondo e considero questo fatto, insieme alla riforma dell’Under 13, un’ulteriore medaglia di cui andare fiero.
Ringrazio il Presidente Magri per aver realizzato, il 17 dicembre del 2010, il mio più gigantesco sogno di bambino. Sono passati da quel giorno anni, medaglie, vittorie, sconfitte. 134 volte ho sentito suonare l’inno di Mameli con il cuore che scoppiava di orgoglio e di rispetto per quella bandiera distesa davanti a me.
Tengo tutti questi ricordi ma ne scelgo uno: la fotografia scattata sul podio olimpico di Londra. L’onore più grande che potesse immaginare un ragazzo che aveva incominciato ad allenare in un oratorio della sua città.
Ho un ultimo desiderio che devo soprattutto ai miei figli Francesco e Beatrice: vorrei spiegare loro che il nuovo modo di comunicare fondato sulle opinioni espresse sulle pubbliche piazze virtuali dei social network, ha fatto sì che siano state di me scritte cose che spero loro non leggeranno mai. Dietro ai ruoli ci sono persone e il principio del rispetto della persona dovrebbe guidare anche questo nuovo modo di comunicare. Mi piacerebbe che Francesco e Beatrice crescessero con l’idea che rispettare le regole e le persone è talmente bello da essere rilassante. Mi piacerebbe che andassero orgogliosi del fatto che il loro papà, partendo dal nulla, abbia avuto l’onore infinito di rappresentare il nostro Paese. Mi piacerebbe fossero orgogliosi del fatto che, al di là di 7 medaglie vinte, il loro papà possa essere ricordato per averlo fatto sempre e comunque con onestà. Con fatica, con onestà e con la schiena dritta.

Nichi e le notizie sul rapporto SVIMEZ riguardo l'economia meridionale.

Attilio Caso
31 luglio 2015 
"Sono sbigottito davanti alla pubblicazione di dati e pareri sconcertante e propagandistica, frutto di azzollinismi, verdinismi, veronicalarismi e, naturalmente, della peggiore deriva del merkelismo renzista. Il Sud viene presentato come un'area destinata al sottosviluppo permanente e capace di risultati peggiori della Grecia.
Noi ci opponiamo con fermezza a questa vulgata, imbevuta della peggior ideologia neoliberista e schaubelista e che non ci tocca.
La bella sinistra, la sinistra migliore, ha portato la Puglia a cogliere traguardi sublimi: come non ricordare la musica di Caparezza, l'ironia di Checco Zalone, le decine di cattedre universitarie e di scranni di dirigente pubblico distribuiti al popolo della sinistra? E le nottidellataranta? E, infine, i magnifici resort, scenario di matrimoni principeschi di magnati indiani?
Lo sviluppo industriale come fine è il segno dell'onta del Patto del Nazareno, al quale noi facciamo argine con le nostre dichiarazioni dei redditi, durante le nostre interminabili vacanze all'ombra dei pini salentini, nel corso delle quali ci eleviamo con la bellezza dei versi di Catullo e Orazio. Ora, discutiamo di questo con Luciano e Corradino, Stefano e Miguel, Pippo e Norma, Lucia e Lilli, i compagni Rosy e Beppefioroni, sebbene non sia semplice farlo mentre impazza la pizzica in piazza. Abbiamo tuttavia la consolazione costituita dal fatto che questo suono, che vibra di Mediterraneo, allontana da noi il rischio di sentire le volgari proteste degli operai dell'ILVA a pochi metri dalla nostra tavola imbandita."

giovedì 30 luglio 2015

Coerenze


Riccardo Imberti
30 luglio 2015 
Mentre si assiste all'instancabile polverizzazione della “sinistra sinistra” italiana con i vari Fassina, Civati e Cofferati impegnati a far nascere per ognuno una forza politica, al Senato della Repubblica abbiamo assistito al respingimento degli arresti domiciliari del senatore Azzollini, ennesimo gesto di tutela che altro non fa che male alla politica.
Gli anni che ci stanno alle spalle hanno visto sicuramente un eccesso di protagonismo della Magistratura con comportamenti plateali e con denunce che spesso sono state contraddette dai fatti. Per quanto mi riguarda, quindi, devo confessare di avere modificato le mie convinzioni riguardo all'insindacabilità dei provvedimenti e ad alcune scelte dei magistrati. Ma rimango convinto che, per ristabilire l’autorevolezza della politica, questa non può agire di rimessa ai provvedimenti giudiziari, ma, al contrario, deve intervenire laddove si manifestino fenomeni di corruzione e di malaffare e, attraverso gesti coerenti, allontani e/o sospenda in via cautelativa chi non serve con onore il proprio Paese. Solo in questo modo si potrà ricostruire un tasso di credibilità sufficiente dei cittadini nella politica.
Il caso Azzollini rappresenta un passaggio di grande rilievo. C’è chi ha dichiarato di aver respinto la richiesta di arresto domiciliare perché Azzolini andrà comunque sotto processo e, se sarà condannato, finirà in prigione. Ma una domanda mi sorge spontanea: quale trattamento sarebbe riservato ad un cittadino comune? Tutti sanno la risposta. Tra i sostenitori delle garanzie per Azzollini non sono molti quelli che si battono per le garanzie dei poveri cristi, dei migranti, dei profughi e delle persone prive di tutele. Il mio giudizio diviene ancor più negativo su tanti senatori del mio partito che mi sembra incoerente con il significato che tanti amici danno l'impegno politico: la politica come servizio al Paese, come dovere di ogni cittadino, ma anche un privilegio che va ripagato con la coerenza e con il rigore dei comportamenti. Questo mi hanno insegnato i miei maestri. E continuo a ritenere un errore - e un danno alla sua credibilità - quando la politica interviene dopo i provvedimenti della magistratura, quando dovrebbe prevenire i fatti di corruzione e allontanare chi ne è responsabile.

promemoria....


mercoledì 29 luglio 2015

Cnel verso la chiusura, le gelide dimissioni del presidente Marzano.


Corriere della Sera 29/07/15
Lorenzo Salvia
La polemica
«La informo che a far data dal 28 luglio 2015, data corrispondente alla scadenza del mandato affidatomi, lascerò la carica di presidente del Cnel». Due lettere gelide, una per il presidente della Repubblica, l’altra per il presidente del consiglio. E Antonio Marzano si alza dalla poltrona più alta del Consiglio per l’economia e il lavoro, il (teorico) luogo del dialogo fra le forze produttive del Paese, che il governo vuole abolire con la riforma costituzionale ancora all’esame del Parlamento. L’unica differenza tra le due lettere sta nelle aggiunte a penna: un «illustre presidente» e un «caro saluto» per Sergio Mattarella, un più ruvido «signor presidente» e «buon lavoro» per Matteo Renzi. Al di là della polemica personale, per il Cnel è un altro passaggio senza precedenti nella storia degli organi costituzionali. Insieme a quello di Marzano, ieri è scaduto il mandato di tutti i consiglieri. Dice il regolamento che gli incarichi vengono prorogati automaticamente in attesa dei loro successori. Ma quelle nomine non arriveranno mai perché il governo ha deciso di abbandonare il Cnel al suo destino. Nelle settimane scorse Marzano aveva già scritto a Renzi, chiedendo di procedere alla nomina dei nuovi componenti o almeno lumi su cosa fare in vista della scadenza. Ma non ha mai avuto risposta. La lettera di ieri era l’ultimo tentativo per sollevare il caso. Ma, almeno per il momento, anche questa è caduta nel vuoto. Cosa succederà adesso? Negli ultimi mesi sono stati numerosi i consiglieri che si sono dimessi. L’ultimo passo l’ha fatto la Cgil due giorni fa, ritirando i suoi rappresentanti. Al momento su 64 consiglieri quelli ancora al loro posto sono 39. Se si dovesse scendere al di sotto di quota 32, il Cnel non avrebbe più la possibilità (nemmeno teorica) di prendere una qualsiasi decisione. Il Cnel costa 8,7 milioni di euro l’anno, di cui 6,7 per gli stipendi dei dipendenti, il resto per il mantenimento della sede, la magnifica Villa Lubin sotto i pini di Villa Borghese. Se si arriverà alla chiusura i circa 80 dipendenti dovrebbero essere trasferiti quasi tutti alla Corte dei conti. Per la sede, invece, sembra in ribasso l’ipotesi della vendita per farne un hotel di lusso. Possibile che venga girata al Csm.

Cambiamento: la terza via per l’Europa nelle mani della sinistra.


Corriere della Sera 29/07/15
Salvatore Bragantini
La politica economica dell’eurozona è sbagliata, i suoi assetti istituzionali non funzionali. La linea greca era indifendibile, ma neanche la ricetta tedesca ci salverà. Contro Tsipras, Berlino ha vinto facilmente. Un blocco avanzato di 350 milioni di persone non può praticare il lassismo greco, ma nemmeno far solo quadrare i conti. Un’economia come l’eurozona, immersa nella competizione globale, va retta da altri principi. Solo nella difesa della concorrenza l’Europa s’è data una visione globale. Tutto il resto è visto con miopi lenti nazionali. 
 All’Europa oggi non si prospettano opzioni politiche continentali, solo contrapposte visioni degli interessi nazionali. La socialdemocrazia tedesca (Spd) si appiattisce sulla Cancelleria, se non sul ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble e la sinistra, al governo in Francia e Italia, non la contesta, solo ne chiede un’applicazione lasca. Il presidente della Bce, unico vero politico europeo, bada a non invadere il campo politico, per non agevolare chi ne osteggia la linea; anche i più attenti esegeti delle sue parole, però, non ne troveranno di supporto alla politica economica attuale. Non sta a lui dire che è errata; solo se fosse a rischio la sopravvivenza dell’euro sarebbe costretto a uscire allo scoperto. 
 Questa linea molto ha giovato alla Germania ma, somministrata in dosi massicce a tutta l’Europa la ucciderebbe. A dirlo non sono solo i Krugman e gli Stiglitz, intellettuali magari ostili all’euro (Federico Fubini, Corriere , 22 luglio). Ce lo ricordano i documenti (tecnici) del Fondo Monetario Internazionale e delle grandi banche centrali; per l’ex presidente di quella americana, Bernanke, così non si esce dalla crisi e divergenze tanto profonde (la disoccupazione tedesca è al 5%, nel resto dell’eurozona al 13%) vanno colmate. Il problema non sta nelle riforme da fare, dice, e propone di includere nel patto di stabilità e crescita anche la riduzione degli sbilanci attivi, come il surplus tedesco (al 7,5% del Pil!). 
 Di una linea diversa dal mainstream e da Syriza, però, non si parla. Per la destra europea seria l’eurozona è come una famiglia; anche i terroni risparmino! Spetta alla sinistra elaborare proposte concrete, andando oltre i richiami alla flessibilità. Non può farlo quella italiana; le tocca solo mettere in sicurezza un debito che è una bomba sull’eurozona. È in Germania, Paese guida dell’eurozona, che deve maturare la svolta, ma come i democratici Usa, per non parere antipatriottici, tacquero quando GW Bush invase l’Iraq, così la Spd non osa dire agli elettori la verità: che non c’è al mondo domanda capace di assorbire il maxi surplus commerciale che l’eurozona avrebbe se mai divenisse una grande Germania; che va sciolto il trilemma di cui parla il neo economista del Fmi, Maurice Obstfeld, fra difesa dell’indipendenza fiscale degli Stati, integrazione dei mercati e stabilità finanziaria; o per venire a noi, che nessuno da anni registra avanzi primari come l’Italia; che la riforma delle pensioni noi l’abbiamo fatta, non la Germania; che non siamo costati un euro ai contribuenti europei mentre abbiamo visto il rapporto debito/Pil peggiorare di 4 punti per salvare altri Stati, e così via. 
 Se ancora non si parla di una diversa politica economica, almeno di nuove istituzioni si discute; Enzo Moavero Milanesi ( Corriere , 23 luglio) abbraccia la rivoluzionaria proposta del presidente francese Hollande. Sarebbe il ritorno al metodo comunitario, uno schiaffo ai nazionalismi; ciò non piace a Schaeuble che, rileva il nostro ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, dimentica il ruolo di un Parlamento. Questa battaglia va sostenuta. Sarà dura e dapprima costerà voti, ma solo una grande entità politica europea potrà avere nel mondo un ruolo significativo. 
 Per salvare il progetto europeo, solo la sinistra può rompere il doppio tabù, su un governo dell’eurozona (partendo dai sei Paesi fondatori) e su una «terza via» fra la spensieratezza di Syriza e il bigottismo economico della destra europea, incapace di investire, per salvare una grande costruzione politica, il capitale culturale, politico e finanziario, accumulato nei secoli dalla vecchia Europa .

martedì 28 luglio 2015

La ripresa e i conti pubblici.


Corriere della Sera 28/07/15
Mario Sensini
Buone notizie in arrivo per i conti pubblici. Secondo le primissime anticipazioni che circolano al ministero dell’Economia, sia l’Irpef versata dalle persone fisiche che le imposte pagate dalle imprese hanno registrato, in questo mese di luglio, decisivo per le entrate, un andamento più che positivo. Il gettito dell’autoliquidazione ha superato le previsioni, con una performance considerata in alcuni casi sorprendente. Per l’Irap, soprattutto. Dopo il consistente abbattimento della base imponibile deciso con la legge di Stabilità dell’anno scorso, si attendeva una forte flessione degli incassi: cinque miliardi di meno nel 2015, ma se l’andamento di questi primi mesi fosse confermato il minor gettito alla fine sarà notevolmente inferiore. 
 Le stime aggiornate sulle entrate del 2015 saranno elaborate dal Dipartimento delle Finanze solo tra qualche giorno, ma per il governo, già al lavoro sulla legge di Stabilità del 2016 e sul piano di riduzione delle tasse, è comunque un buon punto di partenza. Un gettito superiore alle previsioni non è solo una buona notizia per i conti pubblici, che registrano più entrate, ma anche un segnale del ritorno ad un minimo di vivacità dell’economia. Del resto confermato ieri dal Fondo Monetario Internazionale, che annuncia per l’Italia «l’uscita da tre anni di recessione». 
Il fondo per le tasse
 Il piano di Matteo Renzi per il taglio delle tasse prevede una riduzione della Tasi, dell’Ires e dell’Irpef. Vale 35 miliardi di euro nel triennio e sarà finanziato grazie ad un maxi fondo, operativo già dal prossimo anno, previsto dai decreti attuativi della delega sul Fisco. Un Fondo per la riduzione della pressione fiscale alimentato non più come oggi dagli «spiccioli», ovvero quel poco che ogni anno si considera recuperato all’evasione in modo permanente, poche centinaia di milioni, ma miliardario. 
 In quel serbatoio confluiranno, infatti, tutte le entrate derivanti dal contrasto all’evasione fiscale, ma anche quelle dovute al miglioramento dell’adempimento spontaneo dei contribuenti e tutti i risparmi relativi alla revisione delle «tax expenditures», le agevolazioni e gli sconti fiscali. Il Fondo potrebbe così tranquillamente raggiungere ogni anno una dotazione di una ventina di miliardi di euro (solo di evasione se ne recuperano 14) che sarebbero tutti vincolati alla riduzione della pressione fiscale. 
 Il livello raggiunto (il 44% del prodotto interno lordo) è altissimo, e per evitare che cresca ulteriormente grazie alle risorse sottratte all’evasione o risparmiate cancellando qualche agevolazione, il governo, con l’accordo del Parlamento, si è orientato su un meccanismo quasi automatico. Tanto si recupera, dunque, tanto si restituisce. Dovrebbe essere proprio questo Fondo, che comincerà ad essere alimentato nel 2016, il volano principale per finanziare il taglio dell’Ires nel 2017 e dell’Irpef nel 2018, i due capitoli finali, e più costosi del piano di Matteo Renzi. Per tagliare le tasse alle imprese e alle famiglie servono infatti 15 miliardi di euro nel 2017 ed altrettanti nel 2018, mentre ne basterebbero 4-5 per tagliare le imposte sulla prima casa nel 2016. Il piano è ambizioso, ma il governo conta di poterlo realizzare, nonostante abbia la necessità di recuperare, oltre ai soldi per tagliare le imposte, 16 miliardi nel 2016, 25 nel 2017 e altri 28,3 nel 2018, per evitare che altre ne aumentino, con lo scatto già previsto dell’Iva e il taglio delle detrazioni. Per il 2016, a fronte dei circa 20 miliardi complessivi che servono, il governo ipotizza per ora un taglio alla spesa pubblica di 10 miliardi e di far salire il deficit per altri 6-7 miliardi, sfruttando le clausole di flessibilità Ue. 
Conti in miglioramento
 Un aiuto importante alla manovra del 2016 potrebbe derivare anche da un andamento migliore del previsto dei conti di quest’anno. Il buon risultato dell’autoliquidazione fa sperare il ministero dell’Economia in questo senso. Chiudere con un deficit inferiore al 2,6% concordato con la Ue renderebbe senz’altro più facile la strada del 2016, anche nell’ottica della trattativa con Bruxelles. E il governo non esclude che, a conti fatti, la crescita dell’economia possa rivelarsi più solida. Il più 0,7% di quest’anno e il più 1,4% del 2016 potrebbero essere rivisti al rialzo con l’aggiornamento dei dati di metà settembre. 
 L’attuazione del piano di riduzione fiscale, in ogni caso, prevede anche per il 2017 ed il 2018 l’utilizzo delle clausole di flessibilità Ue. Con le regole aggiornate lo scorso gennaio la prosecuzione delle riforme strutturali, almeno finché l’economia italiana continuerà a correre al di sotto del suo potenziale (secondo la Ue fino al 2019), permetterebbe di guadagnare un margine di manovra aggiuntivo di almeno 8 miliardi di euro (lo 0,5% del prodotto interno lordo) sia nel 2017 che nel 2018. 


Contratti a tempo indeterminato, 250 mila in più nei primi sei mesi.


Corriere della Sera 28/07/15
Enrico Marrp
Nei primi sei mesi di quest’anno le attivazioni di contratti a tempo indeterminato sono state circa un milione: 250 mila in più di quelle registrate nello stesso periodo del 2014. Questi dati, ricavabili dai bollettini del ministero del Lavoro (l’ultimo diffuso ieri, riferito a giugno), dimostrano che il combinato disposto del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti e dei forti sgravi contributivi (fino a 8.060 euro all’anno) sta producendo un aumento dei rapporti di lavoro stabili sul totale delle assunzioni. A giugno hanno toccato il 17,7% contro il 13,5% del giugno 2014. Ciò sembra sia avvenuto soprattutto a scapito dei contratti di apprendistato e delle collaborazioni, in netto calo, mentre restano sostanzialmente stabili i contratti a termine (circa il 69% delle assunzioni), ulteriormente liberalizzati. 
 Non apprezzabili, invece, gli effetti sul numero di occupati, che oscilla, secondo le rilevazioni Istat, intorno ai 22,3 milioni, senza grandi balzi in avanti. Del resto a far crescere i posti di lavoro non bastano gli incentivi, perché nessun imprenditore assume se non ha ordini da soddisfare. E i dati di giugno segnalano anzi che le cessazioni di contratti a tempo indeterminato sono salite anch’esse. Pur in questo quadro controverso, l’aumento dei rapporti di lavoro stabili è comunque un risultato positivo. Ma ottenuto a caro prezzo. Probabilmente il miliardo e 800 milioni stanziato per finanziare la decontribuzione 2015 non basterà, visto che secondo la relazione tecnica è tarato su un milione di contratti incentivati, ma a maggio si erano già superati i 516 mila (dati Inps). Il governo dovrà trovare risorse aggiuntive per il 2015 e decidere come rimodulare gli sgravi per il 2016. Altrimenti anche l’aumento dei contratti stabili finirà.

Il danno


La Stampa 28 luglio 2015
massimo gramellini
Nel giorno in cui i musi lunghi del Fondo Monetario annunciano che la crisi in Italia finirà soltanto tra vent’anni, alcuni giudici della Cassazione appena sbarcati dal pianeta di Papalla sentenziano che «la perdita del lavoro non costituisce un danno grave alla persona». Un pizzicotto, tutt’al più.  
 La Suprema Corte si pronunciava sul ricorso di un imprenditore cuneese in causa col Fisco e in affanno coi soldi, che sosteneva di avere usato quelli destinati all’Iva per pagare le retribuzioni dei dipendenti. Che si tratti della verità o del fantasioso alibi di un commosso evasore, non è il punto che qui ci interessa. Ci interessa che i giudici di Papalla non abbiano ritenuto di inserire lo stipendio e il posto di lavoro nella cerchia ristretta dei valori la cui perdita procura una ferita insanabile alla dignità umana. Vi interesserà sapere che in quella lista - oltre ovviamente alla vita, alla salute, alla libertà morale e sessuale - i giudici di Papalla evocano un concetto molto astratto e abusato come l’onore. Ma se vivessero sulla Terra saprebbero che nulla lede l’onore e la considerazione di se stessi quanto la mancanza o la perdita del lavoro. Un giovane disoccupato cronico si vive come un fallito; un cinquantenne licenziato e con speranze quasi nulle di riqualificazione non ha più occhi per piangere e neanche per guardare in faccia i propri figli. Certi giudici meriterebbero di perdere il posto per manifesta disumanità. In questo caso, effettivamente, non si tratterebbe di un danno grave.

lunedì 27 luglio 2015

L’equità necessaria per i conti della previdenza.


Corriere della Sera del 27/07/15
Tito Boeri
presidente Inps
caro direttore, 
 vorrei innanzitutto rassicurare i lettori del suo giornale. Ancora ieri, le hanno scritto riguardo alle proposte di riforma di assistenza e previdenza che sono state sottoposte dall’Inps all’esecutivo e di cui ho riassunto i principi generali in occasione della presentazione del rapporto annuale dell’istituto l’8 luglio scorso. L’intenzione non è certo quella di penalizzare le persone che, lavorando più a lungo, hanno versato più contributi. Al contrario, si vuole proprio impedire che chi percepisce (o ha percepito) più a lungo la pensione sia favorito rispetto a chi la percepisce (o l’ha percepita) per un minor numero di anni. Le riduzioni dell’importo della pensione per chi se l’è fatta liquidare più a lungo vengono comunemente chiamate penalizzazioni, ma sono in realtà perequazioni stabilite in base a criteri di equità attuariale. Impongono a chi vuole 20 fette di una torta di non averle della stessa dimensione di chi ne chiede 10 o 15 di fette della stessa torta. 
 Ne approfitto anche per rispondere a una delle critiche rivoltemi ieri sul suo giornale da Alessandra Del Boca e Antonella Mundo (per le altre dovremo attendere che i contenuti specifici delle nostre proposte possano essere divulgati). In Italia solo 3 euro su 100 di spesa sociale vanno al 10 per cento più povero della popolazione. 
 Per contrastare la povertà (aumentata di un terzo negli ultimi sette anni), noi proponiamo che la spesa sociale venga riorientata per aiutare, come in tutti gli altri paesi, prioritariamente i cittadini più poveri. Vero che togliendo a chi, tra il 10 per cento più ricco della popolazione, riceve trasferimenti sociali cospicui, per dare al 10 per cento più povero si può perdere gettito fiscale dato che cittadini più ricchi pagano aliquote fiscali più alte e quelli più poveri sono nella no-tax area. Ma se il gettito fiscale viene poi utilizzato a favore dei cittadini più ricchi anziché di chi ne ha maggiormente bisogno, meglio rinunciare a entrate fiscali e usare in modo più efficace i soldi pubblici. I problemi del nostro paese sono soprattutto in una cattiva distribuzione della spesa pubblica che porta ad aumentare a dismisura il carico fiscale. Migliorando le proprietà distributive della nostra spesa pubblica, spendendo meno in vitalizi e trattamenti di favore a categorie privilegiate, si potrà contribuire a ridurre quel carico fiscale eccessivo che oggi pesa sui lavoratori, sui pensionati e sulle imprese. 


Il piano sugli scioperi: referendum obbligatorio per i mini-sindacati.


Corriere della Sera 27/07/15
Lorenzo Salvia
Il disegno di legge è stato depositato al Senato due settimane fa, il 14 luglio, anniversario della rivoluzione francese. «Solo una coincidenza» ride Pietro Ichino (Pd). Ma è in quei quattro articoli il succo della riforma sugli scioperi che la maggioranza sta preparando d’intesa con il governo, come annunciato dal ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio. «Abbiamo avuto diversi incontri — racconta Ichino, primo firmatario del testo — per discutere come intervenire». E il quadro sembra definito. Secondo il disegno di legge, che ne aggiorna uno già presentato da Ichino nel 2008 ed è simile a quello depositato da Ncd con Maurizio Sacconi, per fare uno sciopero in una singola azienda ci sono due strade. 
 La prima è che venga proclamato da uno o più sindacati che rappresentano il 50% più uno dei dipendenti. La seconda è che, anche se promosso da un sindacato minoritario, superi un referendum tra i lavoratori dell’azienda, con il 50% dei sì fra i votanti e un quorum del 50% dei dipendenti. «Per capirsi — spiega Ichino — uno sciopero come quelli di Alitalia o della metro di Roma in questi giorni non sarebbe consentito». Perché? La protesta Alitalia di venerdì scorso era stata proclamata dal sindacato autonomo dei piloti: una sigla fortissima tra i piloti ma molto lontana dal rappresentare il 50% di tutti i dipendenti Alitalia. E anche per la metro bastano i soli macchinisti a bloccare tutto. 
 Una di queste due strade — maggioranza sindacale o referendum — va seguita anche se lo sciopero riguarda un intero settore, come il trasporto pubblico. Ma non è complicato consultare tutti i lavoratori di una categoria? «Se si può fare in Germania o in Inghilterra — risponde Ichino — si può fare anche qui. Ed è anche un modo per sottolineare l’eccezionalità di una forma di protesta che ormai è diventata routine , uno strumento per il regolamento di conti fra sigle». La relazione che accompagna il ddl si apre con una frase di Vittorio Foa, uno dei padri del sindacato in Italia. L’assemblea costituente stava discutendo proprio del diritto di sciopero, che tornava dopo il fascismo. E lui lo definiva uno strumento da usare «con grande misura e parsimonia». Non è andata così. In Italia ci sono migliaia di scioperi l’anno, l’80% al venerdì o al lunedì con il pratico effetto del week end lungo. 
 Il ddl, al momento, riguarda solo il trasporto pubblico. Ma potrebbe essere esteso anche ai beni culturali come suggerito dal ministro Delrio. «È una questione di buon senso: se si gestisce un patrimonio dell’umanità, si svolge un servizio per il mondo intero: più servizio pubblico di così...». E le assemblee a sorpresa, come quelle di Pompei? «Il diritto non si discute — afferma Ichino — ma va esercitato in forme e tempi compatibili con le esigenze del servizio. Come avviene già oggi nel settore dell’elettricità o del gas». 
 Il governo condivide tutto ma preferisce non metterci il cappello sopra. Anche per evitare che il tutto si riduca ad uno nuovo capitolo del match fra Renzi e i sindacati. Ma non c’è il rischio che, in un Parlamento intasato da decreti legge e voti di fiducia, un semplice disegno di legge di iniziativa parlamentare rimanga fermo, proprio come gli autobus di Roma? «Il rischio c’è — dice Ichino — ma nell’ultimo anno tutti i ddl seri, anche quelli di iniziativa parlamentare, hanno camminato molto più in fretta, come dimostra anche il testo sulle unioni civili». E lui dice di essere ottimista: «Cgil Cisl e Uil hanno capito che le regole attuali danneggiano anche loro, favorendo le sigle più spregiudicate. Del resto Cisl e Uil hanno già firmato con la Fca di Marchionne un accordo aziendale che applica lo stesso principio di democrazia sindacale previsto nel nostro ddl. E quello non è nemmeno un servizio pubblico».

Rai e pubblica amministrazione. La spinta di Renzi sulle riforme.


Corriere della Sera 27/07/15
Maria Teresa Meli
A sentire il presidente del Consiglio la tribù dei «musi lunghi» (l’ultima variante renziana degli ormai abusati «gufi») si allarga anche oltre i confini del Partito democratico. 
 Il premier non nasconde la fretta di fare le riforme: «Servono per sbloccare il Paese e per poter presentare in ottobre all’Europa il nostro piano di riduzione delle tasse, senza che quelli si mettano a fare i maestrini». Ma l’inquilino di palazzo Chigi vede che i sindacati «frenano» da una parte, la sua minoranza interna sta appresso ai «boatos» sui cosiddetti verdiniani, una parte dei poteri forti «fa resistenza». E allora sbotta, nello stile che gli è consueto, cioè senza usare troppi giri di parole: «I soliti vorrebbero trascinarci in polemiche, avvitarci in faide per rallentare l’azione riformatrice del governo». 
 Lui, però, non è assolutamente disposto a fermarsi: «A chi tifa Forza Palude rispondiamo che ci metteremo ancora più determinazione per cambiare il Paese. Hanno paura perché dopo anni di annunci rimasti nell’aria noi le cose le facciamo sul serio». 
 E tra le «cose» alle quali pensa Renzi non c’è, come invece potrebbe pensare qualcuno, la Rai da portare a casa in tutta fretta, mentre c’è ancora il ddl costituzionale. Certo, l’ha rimandato a dopo l’estate perché adesso sono altre le priorità. La Pubblica Amministrazione, per esempio, perché quella «ci consentirà di ridurre le municipalizzate da ottomila a mille». Ed è a riforme come questa a cui guarda l’Europa per giudicare il nostro tasso di serietà. 
 Però la revisione della Carta fondamentale resta un obiettivo del premier. Al quale gli allarmi della minoranza interna sul l’arrivo delle truppe di Verdini sembrano una scusa per bloccare questa riforma. «Non si può sempre tornare al punto di partenza», continua a ripetere Renzi ai suoi collaboratori in questi giorni. E aggiunge: «Io non posso passare il mio tempo appresso a certi gossip. Anche ai tempi del patto del Nazareno dicevano che dietro c’era un oscuro accordo sul Quirinale, e poi si è visto come è andata a finire. A volte si litiga proprio sul nulla. Non possiamo passare tutto il tempo a dividerci». 
 Certe allusioni, anche pesanti, amareggiano il presidente del Consiglio, benché in pubblico preferisca minimizzare la cosa, però con i suoi, poi, si sfoga: «Nessuno ha mai detto che vogliamo sostituire i voti della minoranza sulla riforma costituzionale con quelli dei verdiniani. Anche perché vedrete che ci saranno pure altri senatori di Forza Italia, che alla fine la voteranno. A Palazzo Madama abbiamo una fila di gente lunga così... Inoltre è chiaro che non è che cambiamo né la struttura né la maggioranza di governo. Quindi, di che si parla? A meno che non si abbia paura di far costare meno i propri veti...». 
 Insomma, Renzi non ne può più di questa storia. Peraltro ha già spiegato chiaramente alla minoranza interna, che sembra tornata sul piede di guerra, che lui vuole partire dell’unità del partito su tutte le leggi, anche su questa, ma una cosa deve essere chiara: «Eventuali modifiche non sono né un obbligo, né un tabù”. Ossia possono farsi, come non farsi. Adesso però il premier è tutto concentrato sulla legge di stabilità e la spending review. A proposito di quest’ultima, Matteo Renzi ci tiene a precisare che sarebbe «sbagliato fare allarmismi». Sulla sanità, per esempio, capitolo assai delicato, si lavora soprattutto sulla «razionalizzazione e riduzione delle centrali d’appalto». 
 Quanto a un altro problema, che è stato motivo di polemica in questi ultimi giorni, cioè quello del pagamento o meno dell’Ici per gli istituti scolastici paritari (vedi la recente sentenza della Cassazione su due scuole di Livorno), Renzi conferma che sarà presto convocato un tavolo: «Sarà quello — assicura il presidente del Consiglio — il luogo dove decidere di evitare squilibri che rischierebbero di impattare sul sistema scuola».

Quel conflitto sulle adozioni che divide i dem.


Corriere della Sera 27/07/15
M.T.M
Non è l’intransigenza di Maurizio Sacconi, non è la mole di emendamenti di Carlo Giovanardi a rallentare il cammino delle unioni civili. Anche perché il leader del Ncd Angelino Alfano lo ha detto e ridetto: quella legge non sarà motivo di crisi di governo. Il problema, tanto per cambiare, è dentro il Pd. E riguarda la cosiddetta «stepchild adoption», ovverosia l’adozione di un bambino che vive in una coppia dello stesso sesso, ma che è figlio biologico di uno solo dei due. Già, perché i cattolici e i moderati del Pd non la vogliono, mentre l’ala laica ed ex Ds sì. È questo il vero ostacolo per cui le cose vanno (e probabilmente andranno) un po’ per le lunghe. A scandalizzare una fetta del Pd non è solo il fatto che due persone dello stesso sesso possano così formare una famiglia vera e propria. C’è un altro nodo, ancora più delicato per talune coscienze. Adesso, per la legge italiana, di due gay che decidano di avere un figlio da una madre surrogata all’estero, uno solo è il padre del bambino: chi si dichiara il genitore biologico. Il che significa che se la coppia dopo qualche anno scoppia, l’altro non ha nessun diritto sul figlio. Nel nostro Paese esistono diversi casi di gay che hanno già avuto un bambino così. Con le unioni civili munite di «stepchild adoption» risolverebbero i loro problemi. Ma ne creerebbero ai cattolici e ai moderati del Pd. 



La conta di Verdini, nel Pd cresce la fronda.


Corriere della Sera 25/07/15
Paola Di Caro
L’obiettivo futuro, quello con il quale Denis Verdini seduce e cerca di convincere più senatori possibile a fare il grande passo, è costruire nel medio periodo con Matteo Renzi «il partito della Nazione», con tanto di listone comune, che diventerà «inevitabile» sperano i suoi se nel Pd si arriverà alla rottura con la minoranza interna. Ma il traguardo più immediato da raggiungere in queste ore è quello delle dieci adesioni al nuovo gruppo a palazzo Madama che si vorrebbe far partire già la prossima settimana, martedì o mercoledì, accompagnato da una conferenza stampa di presentazione dello stesso Verdini. 
 Girano già i nomi del possibile nuovo capogruppo, il socialista Barani, la sua vice sarebbe la cosentiniana Eva Longo, anche se sui numeri gli ex colleghi azzurri hanno più di un dubbio: «Vediamo se ci arrivano a 10...». Dubbi che i verdiniani spazzano via, assicurando che la soglia fatidica si supererà perfino, perché ci sarebbero due-tre azzurri «coperti» pronti a palesarsi all’ultimo momento. In ogni caso, anche se le perdite di FI resteranno contenute — al Senato non dovrebbero essere più di 5-6 senatori in uscita compresi alcuni già passati per il gruppo di Fitto, altri innesti arriverebbero dal Gal e dal Misto — la nascita di «Azione Liberal-popolare» (così dovrebbe chiamarsi la componente) avrà un sicuro effetto negli equilibri del Senato. Numericamente, perché Renzi su riforme e qualche altro tema delicato (non sulla fiducia, Verdini non entrerà in maggioranza) potrà contare su un drappello di voti in più che gli permetterebbero di sopportare qualche defezione a sinistra; e strutturalmente, visto che il nuovo gruppo potrebbe ottenere rappresentanza in quella commissione Affari Costituzionali dove i numeri vedono la maggioranza soccombere, a scapito di un esponente di Gal come Mario Mauro. 
 E così, si capisce la preoccupazione che monta proprio nel Pd, non solo a sinistra. Se fra i renziani la parola d’ordine è «Forza Italia si sta disgregando, meglio per noi, se vengono per votare le riforme è un bene», ai vertici del gruppo al Senato — da Zanda alla Finocchiaro — c’è la consapevolezza che l’approdo del gruppo dei verdiniani ai confini della maggioranza porterà grande fibrillazione nel gruppo pd. Basta sentire quello che dice Miguel Gotor quando avverte che le riforme «si dovranno fare investendo sull’unità del Pd e non cercando precarie stampelle fra Verdini, Bondi e gli amici di Cosentino che non tarderanno a chiedere il conto del loro sostegno». E l’ex pd Fassina analizza così la situazione: «Berlusconi e Verdini sono strumenti e interlocutori con i quali si attua il riposizionamento a destra del Pd: è evidente l’operazione politica di Renzi, che però non ha nemmeno il mandato elettorale per farla». 
 Insomma, la sensazione è che alla ripresa dopo la pausa estiva i giochi potrebbero farsi molto complicati. Per questo Silvio Berlusconi con i suoi continua ad ostentare tranquillità. I veri problemi per la rottura con Verdini, insiste, li avrà «Renzi, che rischia di vedersi esplodere il partito». E a quel punto la pattuglia di Verdini potrebbe non bastare per puntellare la maggioranza, a meno di una crescita graduale e costante. Quella alla quale punta l’ex coordinatore. 


Un’idea di pena intimidatoria su cui era facile non scivolare.


Corriere della Sera 25/07/15
Fiorenza Sarzanini
La materia è complessa, sempre foriera di scontri. Perché quando si discute di intercettazioni il dibattito diventa rovente, c’è sempre il sospetto che alla fine il vero intento sia la censura. E così capita che anche quando il Parlamento è chiamato a discutere di materia analoga, ma molto diversa da quella degli ascolti effettuati per ordine dei giudici, si crei confusione, rischiando di combinare pasticci. Proprio come accaduto due giorni fa, al momento di approvare in commissione alla Camera l’intero pacchetto di riforma del processo penale. Può darsi che sia giusto, oltre che lecito, prevedere il nuovo reato di «registrazione fraudolenta». E ovviamente il Parlamento ne ha tutto 
il diritto. Ma se nel giro 
di un giorno per un emendamento presentato da qualche settimana, licenziato e dunque evidentemente ritenuto giusto, viene poi specificato che dovrà essere cambiato in due punti al momento della discussione nell’Aula di Montecitorio, evidentemente qualcosa non va. E forse quelle «migliorie» che rendono più chiara la norma potevano essere introdotte prima. Evitando polemiche e confusioni che non fanno bene al dibattito parlamentare e nemmeno a quello pubblico. Tanto più in un settore che — grazie a trasmissioni televisive, radiofoniche e online di grande successo — ha ormai a che fare con il diritto di cronaca e di essere informati. Specificare che dalla punibilità potranno essere esclusi i giornalisti e tutti gli altri professionisti può aiutare a chiarire gli intenti del legislatore; così come l’aggiunta che saranno colpiti i comportamenti tesi «soltanto» a danneggiare la reputazione o l’immagine altri. Ma suona comunque stonata una previsione di pena fino a 4 anni di carcere. Addirittura intimidatoria, dopo che — al momento di discutere sulla pubblicazione delle intercettazioni — la maggioranza dei politici si era detta contraria a una misura così drastica e aveva promesso una «battaglia di libertà». Non servono eroismi per affrontare materie tanto spinose, basterebbe la coerenza.

Quei treni blindati per i clandestini «deportati». Gli ungheresi si ribellano.


Corriere della Sera 25/07/15
corriere.it
Distesi nei corridoi, stipati tra i vagoni, grovigli di gambe, braccia, volti. Nelle foto scattate sui convogli che viaggiano tra Serbia e Ungheria dormono quasi tutti, stremati dalla fatica di un viaggio che lascia intravedere il traguardo. L’Europa unita è a un soffio, dopo assalti ai treni e traversate bibliche. Chi è sveglio guarda fuori, ascolta musica con gli auricolari, punta lo sguardo dritto contro l’obiettivo. Clandestini. Da Siria, Afghanistan, Iraq. In Ungheria li aspettano treni con vetture speciali segnalate dal cartello «Questo vagone viaggia con le porte chiuse». A porte chiuse , l’opera di Jean-Paul Sartre nella quale scopriamo che «l’inferno è l’altro». Correva l’anno 1944, lo stesso della deportazione di mezzo milione di ebrei ungheresi. Oggi altri vagoni blindati fermano la fuga di uomini, donne e bambini destinati ai campi profughi. Alla misura del governo nazionalista di Viktor Orbán, che ha appena approvato la costruzione del muro anti-immigrati al confine sud, si ribellano gli ungheresi che portano cibo e medicinali nei centri, accolgono in casa chi riesce a fuggire, e diventano bersaglio degli estremisti di destra. Dall’inizio dell’anno, 80 mila clandestini sono entrati in Ungheria, più di 75 mila hanno proseguito il cammino. Benvenuti in Europa. 
 


La nuova strategia contro il Califfato.


Corriere della Sera 25/07/15
Guido Olimpo
Un attentato ambiguo. Come è sempre stata ambigua la Turchia nella lotta ai jihadisti, convinta di poterli usare per i suoi giochi in Siria finalizzati alla sconfitta di Assad e come bastione per arginare i curdi. Eppure la strage di Suruc, attribuita all’Isis, può cambiare il quadro. Con un’avvertenza. Ankara ogni volta che si muove non è mai completamente sincera. 
 Gli obblighi verso l’alleanza sono annacquati dai disegni del Sultano Erdogan, in concorrenza con altri attori regionali, dai sauditi al Qatar, ognuno con le sue carte nascoste . 
La base
 I turchi, finalmente, hanno concesso al Pentagono l’utilizzo della base di Incirlik per le azioni anti Isis. Droni e caccia americani arriveranno più rapidamente sui target e resteranno maggior tempo in zona d’operazioni. Un aspetto non da poco che potrebbe assumere maggiore significato se Ankara userà il suo apparato possente per colpire i jihadisti del Califfo. Punto sul quale non tutti sono convinti. 
 L’apertura del fronte turco è destinata ad aumentare la cadenza delle incursioni della coalizione. La media recente è stata di 29-30 raid quotidiani così divisi: 46% in Kurdistan, 6% in Siria, il resto in Iraq. Gli attacchi hanno aperto vuoti importanti, si parla di oltre 10-16 mila militanti uccisi (a seconda delle fonti), molti gli «ufficiali» eliminati. Numeri che però non soddisfano i critici. Per molti il contenimento scelto da Obama — perché di questo si tratta — è appena sufficiente . 
Cosa serve
 Gli esperti ribadiscono: per fermare l’Isis servono forze speciali al fianco dei locali, una campagna aerea massiccia e soprattutto soldati che «illuminino» da terra i bersagli. Senza la loro presenza i bombardamenti hanno un impatto limitato, visto che spesso gli F18 sono tornati indietro senza aver sganciato gli ordigni per la difficoltà di individuare l’avversario. Quanto è avvenuto a Kobane, la città curda dove lo Stato Islamico ha patito la sua prima vera sconfitta, lo ha dimostrato. Grazie alla collaborazione tra insorti YPG e Comando centrale, con un flusso continuo di informazioni precise, la coalizione ha falciato i mujaheddin. Ora si ipotizza che i pochi ribelli siriani addestrati dalla Cia possano presto assumere il ruolo di «designatori». 
 Andando oltre la componente «aviazione», è necessario avere una forza agile, mobile, non dipendente da grandi basi. Il Pentagono deve uscire — indicano gli analisti — dalla tagliola logistica che porta ad avere tre elementi d’appoggio per ogni soldato che spara. Allora piccoli avamposti, magari con nuclei di elicotteri, unità scelte libere di agire. Non solo per distruggere, ma anche per creare insicurezza nel campo nemico. Al momento gli Stati Uniti hanno schierato circa 4 mila uomini in Iraq ai quali si aggiungono probabilmente i soldati segreti, quelle delle missioni inconfessabili. Costo dell’intervento: oltre 3 miliardi di dollari. Non poco . 
Il nemico
 Ad un anno dalla nascita del Califfato, lo Stato Islamico è diventato Stato. Regna su 82.940 chilometri quadrati, ha perso circa il 10% del territorio, tiene città importanti come Mosul e Ramadi in Iraq, Raqqa e Palmira in Siria. Ha dovuto battere in ritirata davanti ai curdi siriani dell’YPG a Kobane e Tal Abyad, non ha sfondato a nord di Aleppo. Nel frattempo ha proclamato 33 «wilaya» — province — dal Nord Africa all’Afghanistan: in alcune la presenza è reale (come nel Sinai), in altre ha radici poco profonde. 
 Molti pensavano che la cura brutale imposta da Al Baghdadi avrebbe provocato reazioni popolari. Invece l’Isis governa, gestisce servizi, garantisce — a suo modo — l’ordine. Le sue casse sono riempite dai traffici del petrolio, dalle tasse imposte e dalle estorsioni. La sua economia resiste. Qualsiasi forma di opposizione è repressa nel sangue. 
 La strategia è sempre quella del «rimanere ed espandersi» secondo tre cerchi: il primo è quello siro-iracheno, poi c’è l’area mediorientale, infine il resto. La sua propaganda si è rivelata molto efficace ed oggi la percezione è che sia in espansione. Sul piano militare può contare su quasi 60 mila militanti, divisi tra locali e i «muhajireen», i volontari venuti dall’estero. 
 Fondamentale il travaso di forze sull’asse Siria-Iraq così come le tattiche duttili: veicoli bomba con kamikaze per attaccare e difendersi; accerchiamento delle basi nemiche; infiltrazione affidata ai «inghemasiyoun», gli invisibili, i militanti responsabili di target killing e attentati dietro le linee, stragismo per indebolire, dispersione per sottrarsi ai raid. 
 Infine una struttura gerarchica con sottocapi e dirigenti locali per sopravvivere all’eventuale morte del leader. Tutti paiono rassegnati ad una lunga guerra . 


giovedì 23 luglio 2015

Nuova scossa nella Procura di Milano. Azioni disciplinari per Bruti e Robledo.


Corriere della Sera 23/07/15
Luigi Ferrarella
Il sogno cullato per 30 anni da legioni di politici, e cioè una Procura di Milano bombardata sino alla tabula rasa , si realizza paradossalmente per autodistruzione dei suoi vertici in conflitto, Edmondo Bruti Liberati e Alfredo Robledo, ieri colpiti entrambi da azione disciplinare: il procuratore da quella avviata dal procuratore generale della Cassazione Pasquale Ciccolo, e l’ex suo vice dal disciplinare promosso dall’altro titolare di questo potere, il ministro della Giustizia Andrea Orlando. 
 Bruti si vede contestare «stasi investigativa» nelle intercettazioni di Vito Gamberale trasmesse a Milano nel 2011 dalla Procura di Firenze; «violazione del principio di legalità» per non aver iscritto in alcun registro il fascicolo assegnato al capo del pool reati economici Francesco Greco, che poi lo mise al modello 45K degli «atti non costituenti notizie di reato»; e «negligenza inescusabile» per aver dimenticato il fascicolo nella propria cassaforte da dicembre 2011 a marzo 2012. L’iniziativa arriva dopo che due mesi fa nel penale il gip bresciano Elena Stefano, nell’archiviare l’ipotesi di omissione d’atti d’ufficio per mancanza in Bruti del dolo intenzionale, aveva però scritto che a Milano sarebbe esistita «una prassi anomala di distribuzione degli affari della Procura da parte del suo capo, il quale, non solo nella vicenda Sea-Gamberale, ma anche in altre e non isolate ipotesi, indulgeva ad assegnazioni inappropriate». Tema fra quelli sottoposti il 16 marzo 2013 al Csm (ma sinora lasciati senza chiarificazione da due consiliature del Csm) in un esposto di Robledo, pm che il 5 febbraio 2015 è stato dal Csm poi rimosso da Milano in via cautelare non per l’esito di uno dei punti di contrasto con Bruti, ma per la contestata inopportunità nel dicembre 2012 di alcune sue interlocuzioni con l’avvocato della Lega, Domenico Aiello, intercettato (senza essere indagato) da Reggio Calabria. 
 Il 25 ottobre 2011 i pm fiorentini Turco e Mion con uno stralcio a modello 45 avevano mandato per competenza a Milano una intercettazione nella quale il 14 luglio 2011 Gamberale (allora n.1 del fondo di investimenti F2i) e il suo manager Mauro Maia parevano prefigurare tentativi di farsi cucire addosso il bando del Comune di Milano per la vendita di una quota della società Sea degli aeroporti. Due anni dopo Robledo lamenterà che il fascicolo conclamava una turbativa d’asta, reato di competenza del suo pool: Bruti il 27 ottobre 2011 preferì invece assegnarlo a un altro suo vice, il capo del pool finanziario Greco, che l’indomani lo coassegnò al pm Fusco, che il 6 dicembre (dopo indiscrezioni di Reuters) segnalò però a Bruti l’opportunità di riassegnarlo al pool di Robledo per competenza sulle turbative d’asta. Mancavano però solo 10 giorni all’asta, che il 16 dicembre andò deserta, col risultato che il fondo di Gamberale si aggiudicò le azioni Sea offrendo 1 euro più della base d’asta di 385 milioni. Ma il fascicolo, annunciato da Bruti in arrivo a Robledo il 9 dicembre 2011, solo il 16 marzo 2012 fu da Bruti iscritto a registro 44 (notizie di reato a carico di ignoti) e consegnato a Robledo, dopo articoli di Espresso online e Corsera sul fascicolo “desaparecido”. 
 Robledo, senza più poter operare atti a sorpresa, coltiverà poi una differente accusa di turbativa d’asta, non più per le condizioni del bando (su cui i tecnici del Comune avrebbero stoppato interferenze) ma per una ipotizzata illecita intesa con un gruppo indiano: ma il gip Anna Zamagni disporrà il proscioglimento di Gamberale, confermato dalla Cassazione. «Questo esito esclude profili sostanziali - ritiene ieri sera Bruti -, mentre risponderò sui dati formali ora contestatimi». 
 Nel 2014, come reazione, Bruti aveva contestato a Robledo di aver pagato 1 milione a 3 custodi per far custodire nell’aprile 2009 non sul Fondo Unico Giustizia-Fug (appena creato) ma sulla banca Bcc di Carate Brianza i 90 milioni sequestrati a 4 banche estere per truffa sui derivati del Comune di Milano. Robledo replicò che i custodi Canevelli, Cremonesi e Gabrielli avevano contrattato con la banca cooperativa condizioni che - invece dei 2,2 milioni di interessi attesi in base alle serie storiche di Bankitalia — ne fruttarono 3,6: anche tolto il milione dei custodi, restava «un utile di 392.588 euro». A fine 2014 il pg della Cassazione archiviò addebiti disciplinari: i compensi ai custodi «presentano profili problematici e in parte discutibili », ma «non appaiono interpretazioni abnormi» di norme «di non agevole comprensione», pur se «non sfuggono (stante la somma) le implicazioni di natura economica connesse alla scelta» di una banca piuttosto che un’altra. E’ questo il profilo sul quale ora invece il ministro della Giustizia avvia l’azione disciplinare: se al momento del sequestro c’era ancora confusione sul Fug, a Robledo è contestato di non essersi comunque adeguato quando la specifica circolare sul Fug entrò a regime.

Vittoria solitaria contro lo Stato. Le ricadute sull’idea di legalità.


Corriere della Sera 23/07/15
Marco Demarco
De Luca aveva contro una legge, la Severino, approvata all’unanimità dal parlamento italiano, vagliata e promulgata dal presidente della Repubblica e applicata con assoluto rigore dal capo del governo, che infatti ha firmato il decreto di sospensione ieri congelato. De Luca aveva contro tutto questo, e cioè lo Stato intero, e ha vinto. Resta ancora il giudizio determinante della Corte costituzionale, certo, ma è un fatto che più giudici, in più occasioni, abbiano accolto le sue tesi. 
 De Luca aveva detto che nel suo caso la Severino si sarebbe rilevata inapplicabile, e così finora è stato. Aveva detto anche, in generale, che era un provvedimento pensato male e scritto peggio, per tante ragioni: perché sanzionava duramente anche in assenza di giudizio definitivo, perché si accaniva contro i sindaci e i governatori e li puniva più dei parlamentari e dei ministri, e perché c’era stato un grave eccesso di delega legislativa non essendo l’abuso d’ufficio inizialmente previsto tra i reati elencati. Obiezioni tutte accolte, ha detto ieri il Tribunale. Basta questo, ormai, a sollevare mille e più dubbi sulla manifesta inaffidabilità del legislatore italiano, che prima si vanta della Severino e poi la abbandona come irresponsabilmente si fa con i cani sull’autostrada. De Luca ha già squassato gli equilibri interni al Pd. Non è difficile prevedere, ora, gli effetti della sua vicenda sull’idea prevalente di legalità.

Il segnale pd ai dissidenti Verso una stretta alla Camera.


Corriere della Sera 22/07/15
Alessandro Trocino
Fare in modo che il gruppo del Pd sia un luogo dove si discute, ci si scontra anche duramente e si decide. Ma, poi, una volta deciso, non si scherza più e arriveranno le sanzioni. È la modifica del regolamento del gruppo dem alla Camera al quale lavorerà una commissione di deputati ed esperti, guidata dal capogruppo Ettore Rosato. Un giro di vite che arriva assieme alla mano tesa alla minoranza, rimasta ai vertici delle Commissioni. Ancora non è stata presa nessuna decisione e ieri Rosato si è limitato a un accenno generico. Sarà la commissione a stabilire l’entità delle sanzioni. Ma certo, anche solo parlarne, rappresenta un segnale chiaro che sta arrivando un’ondata di «tolleranza zero». La disciplina di partito, in teoria, è già prevista (espulsioni comprese, per fatti gravi), e il voto in dissenso riguarda solo temi etici. Ma, di fatto, la sanzione è sempre stata considerata poco spendibile. E anche stavolta Rosato preferisce mettere l’accento su altro: «Vogliamo costruire le condizioni perché il gruppo sia la sede per un confronto e magari anche uno scontro, ma che sia un luogo aperto di discussione e di risoluzione dei conflitti. Un posto dove si fa politica». E se la politica fallisce? «Come extrema ratio ci sono le sanzioni — spiega Rosato —. Ma certo non siamo i 5 Stelle». Ed è vero che risulterebbe impraticabile usare le espulsioni. Non si può neanche ipotizzare la cacciata di big come Pier Luigi Bersani, Rosy Bindi o Guglielmo Epifani. Quello che si vuol fare, comunque, sventolare il vessillo della disciplina di partito per riportare a più miti consigli chi vota contro. Si sente chiamato in causa Alfredo D’Attorre, che non si tira indietro: «Riconosco l’anomalia dei miei voti in dissenso. A patto che si riconosca anche l’anomalia di un’azione del partito e della maggioranza che non ha una legittimazione popolare vera». 
 Roberto Speranza nega che ci sia un collegamento con il mantenimento dei presidenti di minoranza nelle Commissioni: «La questione è tutta politica. Se si pensasse di risolverla con le sanzioni, sarebbe una mossa banale e inefficace. Ma non credo che sarà così». Francesco Boccia non si scandalizza: «È giusto che la minoranza esprima dissenso, ma è anche giusto che poi al voto si seguano le indicazioni di maggioranza». Intanto si profila uno scontro in commissione Antimafia dove stasera sono previste comunicazioni della presidente Rosy Bindi su Mafia Capitale. Il capogruppo del Pd, Franco Mirabelli, chiederà alla presidente di non farle. «Sarebbe inopportuno e inusuale che una commissione parlamentare intervenisse prima delle determinazioni del governo» .

mercoledì 22 luglio 2015

La renziana sindaco sfiduciata dai ribelli dem.


Corriere della Sera 22/07/15
Marco Gasparetti
Sfiduciata, dai compagni di partito. Che non hanno fatto un passo indietro, «duri e puri» contro il loro sindaco, Sara Biagiotti, una delle «ragazze del camper di Renzi», primo cittadino da appena un anno e presidente dell’Anci toscana. La mozione di sfiducia, presentata da 13 consiglieri comunali, tra i quali 8 del gruppo pd di Sesto Fiorentino, è stata approvata ieri con 16 voti favorevoli e 5 contrari al termine di un consiglio comunale bollente e velenoso durante il quale non sono mancati momenti di tensione, urla da stadio, insulti e minacce del presidente dell’assemblea di far sgombrare l’aula dal pubblico e procedere alle votazioni a porte chiuse. Adesso Sesto sarà commissariata per alcuni mesi, poi nel 2016 le nuove elezioni ridisegneranno la politica cittadina e soprattutto i dem locali. Sesto Fiorentino è un comune di 50 mila abitanti. Ma politicamente ha sempre avuto una valenza da grande città per la sinistra Toscana. Hinterland di Firenze, la città del premier Renzi, ha eletto il primo sindaco socialista della storia della regione ed è stata la roccaforte inespugnabile prima del Pci, poi dei Ds e infine del Pd. Dunque la mozione è stata un pugno allo stomaco per i dem toscani. Che già stanno preparando l’espulsione degli 8 ribelli. «Che oggi (ieri, ndr) hanno dimostrato d’essere indegni di stare del nostro partito», ha detto il segretario regionale e deputato Dario Parrini. 
 Eppure i democratici avevano fatto di tutto per fermare il «fuoco amico» sul sindaco Biagiotti, avevano anche inviato un commissario, Lorenzo Becattini. E il parlamentare dem aveva cercato un’apertura con i ribelli, parlando di un rimpasto di giunta. Poi erano arrivate le dimissioni dell’assessore al bilancio Luca Eller Vainicher, inviso dai contestatori, e un accordo sembrava vicino. Nulla da fare, gli 8 consiglieri non hanno arretrato di un millimetro e ieri hanno votato contro il sindaco. I motivi? Soprattutto due: il nuovo aeroporto di Firenze, inviso da molti comuni della piana fiorentina, Sesto compreso, e la costruzione dell’inceneritore. Ma dietro i due progetti si nasconde un’avversione puramente politica contro la «renziana Biagiotti», già dalemiana, una «compagna» sempre presente alle mitiche feste dell’Unità della falce e del martello e non solo a dibattere ma pure a cucinare e servire negli stand e adesso diventata «destra del partito», incapace «di ascoltare la gente», accettare «il dibattito interno». Lei, amareggiata, risponde duramente ai «traditori». «Ho vissuto la pagina più nera nella storia del comune di Sesto dopo il fascismo», mormora a fatica .

«La politica non cerchi appigli giudiziari per ribaltare equilibri».


Corriere della Sera 22/07/15
corriere.it
DAL NOSTRO INVIATO PALERMO
L’intervista il procuratore di palermo
Nell’ufficio al secondo piano del palazzo di giustizia — dove i suoi predecessori hanno affrontato decenni di stragi, delitti, misteri e veleni — il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi si dice sorpreso per la vicenda dell’intercettazione fantasma contro l’ex assessore alla Sanità Lucia Borsellino, che rischia di travolgere il governo regionale guidato da Rosario Crocetta. 
 
Che cosa c’è che non va, procuratore? 
 
«Mi dispiace constatare che, ferma restando la libertà di stampa e il diritto-dovere dei giornali di esercitare il controllo su ogni tipo di potere, compreso quello giudiziario, ci siano ancora molti che continuano a credere all’esistenza di un’intercettazione nonostante le ripetute smentite di un organo dello Stato come la Procura della Repubblica che ho l’onore di guidare, dopo lo svolgimento di accurati accertamenti le cui conclusioni mi sono state consegnate per iscritto. Forse è la conseguenza della tormentata storia vissuta da questo Paese, ma siamo al di fuori della fisiologia dei rapporti istituzionali». 
 
Però L’Espresso conferma, e le intercettazioni agli atti non sono indicative di buoni rapporti tra alcuni indagati e Lucia Borsellino. 
 
«Certamente le registrazioni che abbiamo a disposizione dipingono un clima di ostilità nei confronti di Lucia Borsellino, nonché i motivi di disagio che l’hanno spinta alle dimissioni. Ma proprio il fatto che abbiamo dovuto ricostruire quel contesto attraverso una faticosa opera di connessione e incastro fra tanti discorsi spezzettati nel tempo è un’ulteriore conferma che l’intercettazione di cui tanto di discute non esiste» . 
 
Perché? 
 
«Se fosse esistita l’avremmo certamente utilizzata nel procedimento, perché nei termini in cui è stata diffusa sarebbe stata la dimostrazione plastica dei rapporti difficili all’interni del sistema sanitario regionale. Avrebbe fatto comodo alla tesi dell’accusa, ma non c’è». 
 
Senza la rivelazione di quel presunto colloquio, però, il caso Crocetta-Borsellino non sarebbe esploso nei termini dirompenti che invece ha avuto. 
 
«È vero, e anche questo dovrebbe essere motivo di riflessione. La lettera di dimissioni consegnata venti giorni fa da Lucia Borsellino era stata trattata come polvere nascosta sotto il tappeto. Ed è il sintomo di un’altra anomalia italiana». 
 
Quale? 
 
«La tentazione di agganciare ogni tentativo di ribaltamento degli equilibri politici a qualche iniziativa della magistratura; come se la politica avesse sempre bisogno di un appiglio giudiziario a cui attaccarsi, prima di muoversi. Talvolta anche aggrappandosi a fatti inesistenti, come in questo caso. È una situazione che si protrae da tempo, anch’essa indice di rapporti istituzionali alterati; se si vuole modificare un determinato quadro politico, a livello nazionale o locale, lo si faccia, ma senza tirarci in ballo». 
 
Sta denunciando l’ennesima delega della politica alla magistratura? 
 
«Che la magistratura sia stata caricata di compiti di supplenza è una realtà sotto gli occhi di tutti. Ma non si può pretendere che svolgiamo questa supplenza su questioni tipiche della politica, come il mantenimento o meno della maggioranza a sostegno di un governatore regionale». 
 
Dunque dovreste porvi il problema delle conseguenze delle indagini? O, come in questa vicenda, delle smentite? 
 
«Credo che dobbiamo essere attenti alle conseguenze della nostra attività, come auspicato dal vice-presidente del Csm Legnini, ma anche a non farci condizionare da esse nello svolgimento del nostro lavoro. Come sostiene autorevolmente il procuratore di Roma, che di recente ha guidato inchieste che hanno provocato non pochi effetti collaterali sul piano politico, il nostro compito è fare indagini e processi, non altro. Senza doppi fini. E senza intenti pedagogici, aggiungo io». 
 
La smentita dell’intercettazione dello scandalo, tuttavia, è un sostegno alle tesi del governatore Crocetta, che immagina complotti ai suoi danni. 
 
«Non è corretto interpretare un intervento dovuto, proprio per l’oggettiva rilevanza del caso, a favore o contro qualcuno. Ho ritenuto di dover dare un contributo di verità, mettendo a disposizione di tutti un dato oggettivo: quell’intercettazione non esiste agli atti di questa Procura. In nessuna forma: registrata, trascritta o riassunta. Quanto alle ipotesi, sono poco incline a credere ai complotti. Abbiamo aperto un’indagine per verificare se sono stati commessi dei reati, e tentare di mettere un po’ d’ordine. Credo che lo dobbiamo anche alla famiglia Borsellino». 
 
Ha verificato se l’intercettazione è agli atti di altri uffici? 
 
«No, perché non è mio compito. Del resto se un procuratore venisse a chiedermi cosa c’è nei miei fascicoli avrei buon gioco a rispondergli che non sono affari che lo riguardano. In ogni caso L’Espresso ha ribadito che l’intercettazione sarebbe stata registrata in un’indagine palermitana, e io non posso che confermare la smentita». 
 
Quanto durerà l’indagine? 
 
« Il tempo necessario. L’ufficio si sta dedicando con ritrovato e rinnovato e impegno al contrasto di fenomeni criminali di ogni tipo, da Cosa nostra ai reati contro la pubblica amministrazione. Tuttavia non mancheremo di dedicare le dovute energie a questo accertamento».

Palma, il super consulente sulle carceri: «Gli agenti non facciano solo i guardiani».


Corriere della Sera 22/07/15
Mariolina Iossa
Due suicidi a Regina Coeli, in poche ore. Torna l’emergenza nelle carceri italiane. La polizia penitenziaria denuncia la mancanza di personale e chiede di usare lenzuola di carta. Che cosa si può e si deve fare subito? 
 «Non sono contrario alle lenzuola di carta, possono essere un aiuto in alcuni casi, ma ritenere che questa sia la soluzione è sbagliato. Bisogna fare molto di più». 
 Mauro Palma, presidente del Consiglio europeo per la cooperazione nell’esecuzione penale e consigliere del ministro della Giustizia per gli interventi in materia penitenziaria, auspica «un cambiamento di cultura politica, unica strada», dice, «per limitare il disagio nelle carceri, sia per i detenuti, sia per chi ci lavora». 
 Come intervenire in tempi rapidi? 
 «Va potenziato il personale, certamente, ma non solo da un punto di vista quantitativo, anche qualitativo, con corsi di formazione, perché gli agenti di polizia penitenziaria, a cui noi tutti dobbiamo molto, non devono essere considerati guardiani e basta, che chiudono le celle e controllano l’ordine. Molto spesso il personale, non per sua colpa, non è in grado di aiutare persone che non sono, diciamo così, criminali incalliti, ma sono soggetti fragili». 
 Ma sono il degrado delle strutture, il sovraffollamento, la solitudine, a scatenare tragedie come queste? 
 «L’Italia viene da una stagione di grave disagio a causa del sovraffollamento. Nel gennaio 2013 siamo stati sanzionati dal Consiglio europeo. Entro un anno abbiamo dovuto mettere le cose a posto perché pendevano, presso la Corte europea dei diritti dell’uomo, quasi quattromila procedimenti. L’abbiamo fatto, spostando molte detenzioni verso forme alternative, senza abbassare il livello di sicurezza. Penso ai domiciliari, ai controlli esterni, all’affidamento ai servizi sociali. Al momento della sentenza della Corte, avevamo 45 mila posti per 66 mila detenuti. Adesso abbiamo 52 mila detenuti per 49 mila posti. Siamo ancora oltre il limite ma vicini ad azzerare il problema». 
 Quali sono allora le altre cause, e quali le soluzioni? 
 «Non siamo ancora riusciti a rendere la vita detentiva significativa in termini di tempo da impiegare per la rieducazione, per il reinserimento nel mondo del lavoro, per corsi di formazione interni. E non riusciamo a dare una mano ai soggetti più deboli. I detenuti, oggi, spesso sono tossicodipendenti, o persone che hanno vissuto storie difficili. Abbandonati a se stessi si sentono perduti». 
 E come si può fare? Servono soldi per questo. 
 «Vero, servono soldi ma soprattutto un cambiamento culturale. Il ministero ha avviato gli Stati generali delle esecuzioni penali, con 18 tavoli di confronto per discutere di ogni aspetto della vita di un detenuto. Il Parlamento sta discutendo la legge delega di revisione della 75 sull’ordinamento penitenziario. Primo punto, le strutture: useremo i fondi per trasformare le carceri esistenti e costruire con modalità diverse quelle nuove. Sono inumani quegli scatoloni di cemento con lunghi corridoi e tante celle con piccole finestre. Ci vogliono spazi per la socialità all’interno delle carceri. A fine anno avremo anche una nuova struttura dipartimentale penitenziaria».

La resa del governatore «Un mese per le riforme Poi posso andarmene».


Corriere della Sera 21/07/15
Felice Cavallaro
PALERMO Al quarto giorno di clausura, dopo i pianti e la ribellione, ecco Rosario Crocetta spostarsi dalla francescana casetta di Castel di Tusa e comparire alle quattro del pomeriggio a Palazzo d’Orleans. 
 Rieccolo nella sede del governo regionale con le vetrate di fronte all’austero bastione di Palazzo dei Normanni dove i grandi manifesti della Via Crucis più che ad una suggestiva mostra di Botero fanno pensare a quello che lui definisce come il suo «calvario». Pronto infatti ad attraversare oggi alle 16 quei cento metri per la seduta dell’Assemblea dove tutti invocano a parole le sue dimissioni, ma dove tanti sperano di non vederle rassegnare. Perché se va a casa Crocetta, vanno a casa tutti e 90 i deputati. 
 Cosa dirà il governatore lo spiega al Corriere : «Dirò che non posso dimettermi su una motivazione inesistente, su una telefonata e su una frase smentite dalla Procura. Dirò che non sono disponibile a subire all’infinito il martirio, deciso a continuare a combattere il malaffare. Ma che, fatte alcune cose importanti per la Sicilia, per questa terra che rischierebbe la fine della Grecia, possiamo valutare con Parlamento e maggioranza, dentro il centrosinistra, un percorso per una chiusura anticipata della legislatura». 
 È un colpo di scena. Significa che si va al voto. Entro poco tempo, conferma Crocetta: «Tempi brevi. Per poveri, province, acqua pubblica, bilancio e sblocca-Sicilia potrebbe bastare un mese». Sfibrato dai colpi secchi assestati alla sua storia di paladino antimafia da chi lo presenta ormai solo come un impostore, il governatore non abbandona le barricate, ma sembra cercare una (dignitosa) via d’uscita sganciandosi comunque dall’infamia del bollo impresso dalle intercettazioni in cui i suoi stretti amici brigano e straparlano anche offendendo Lucia Borsellino. 
 Questa più duttile posizione alleggerisce il peso caduto sulle spalle del giovane segretario del Pd siciliano, Fausto Raciti, schietto nel rimproverare Crocetta senza perifrasi: «Per la telefonata inesistente l’ho difeso. Per le intercettazioni vere no. E queste confermano l’esistenza di un cerchio magico che ha messo in piedi e che g li sta facendo perdere la faccia. Un cerchio diventato un governo parallelo, un sistema di rapporti che vede coinvolti l’ex magistrato antimafia Antonino Ingroia, l’ex presidente dell’Antimafia Beppe Lumia, il medico che sparlava di legalità Matteo Tutino, il manager di Villa Sofia Giacomo Sampieri, e altri registi non proprio occulti». 
 E adesso, come ipotizza il presidente nazionale del partito Matteo Orfini, è possibile pure la sfiducia a Crocetta? «Diciamo che si lavora all’uscita. Può essere una settimana, un mese o due. Ma quando esci da una casa devi lasciarla ordinata, se vuoi rientrarci. Il problema non è solo staccare la spina, ma prefigurare un dopo, senza dimenticare che il governo nazionale ha impugnato i bilanci 2016-2017, che non possiamo procedere con esercizi provvisori, che rischiano il default senza potere pagare gli stipendi...». 
 Ecco le cose da fare per evitare l’effetto Grecia. Unico punto d’intesa fra Crocetta e Raciti. Per guadagnare qualche mese, per varare riforme e provvedimenti necessari. Ma Raciti è disponibile solo a patto che il governatore volti le spalle al «cerchio magico»: «Deve dire basta alla mitologia dell’antimafia ridotta a strumento di potere, a quel modello da lui scelto come terreno di legittimazione, lo stesso che adesso gli si ritorce contro, circondato da Tutino che si fa strada a colpi di denunce, da Lumia che conosciamo bene e ancora di più da Ingroia». 
 Potrebbe apparire una tardiva filippica, ma Raciti assicura che la battaglia risale all’anno scorso, «quando io mi misi di traverso per le Europee alla candidatura di Lumia preferendo il professore Fiandaca e loro immediatamente risposero nominando una sfilza di manager nella sanità». Raciti ha ritrovato questo passaggio chiave fra le pieghe della risentita lettera di dimissioni di Lucia Borsellino dall’assessorato alla Salute: «Racconta il corto circuito fra lei e quel gruppo. Noi eravamo per lei. Noi del Pd puntavamo su Lucia, non sugli altri. Ed è chiaro che Lucia ha lavorato dall’interno per smontare tutto».