martedì 31 marzo 2015

Ultima (disperata) mediazione 
o Bersani dirà no alla Camera.


Corriere della Sera 31/03/15
Monica Guerzoni
Questa volta si va fino in fondo, niente penultimatum. Se la legge elettorale non cambia Bersani terrà il punto fino al voto finale e non consegnerà alle nuove generazioni un sistema che ritiene distorsivo della democrazia. «E mi dispiace pensare — ha confidato ai suoi — che non si voglia modificare una virgola per puro puntiglio». La sua determinazione a impallinare l’Italicum è pari a quella del premier di portarla a casa. Due visioni inconciliabili, un muro conto muro che fa apparire disperata la battaglia dei mediatori. 

«Esistono dei margini» spera nel miracolo Cuperlo e chiede «un paio di correzioni», ridurre i nominati e contenere il premio alla lista. «Cercherò una mediazione fino all’ultimo minuto utile» gli fa eco il capogruppo Speranza, al quale però non sfugge la difficoltà della mission. Nei panni stretti di presidente di un gruppo lacerato, Speranza confida nella riunione dei deputati dopo Pasqua, pur sapendo che gli spazi di manovra sono minimi. Anche per lui, che si definisce «il pezzo più dialogante» della minoranza, l’Italicum è un rospo molto grande da ingoiare. «Il tema è di sistema — ha detto a Renzi —. Ora che Forza Italia si è sfilata, si rischia di mettere le riforme su un binario così stretto che in aula potremmo anche non reggere».

 Speranza ha capito che il premier non si fida di Bersani e non ha garanzie da offrire, se non la sua parola e il suo incarico di capogruppo. Se è vero che da Palazzo Chigi gli hanno offerto trenta posti sicuri in lista per i suoi parlamentari, Speranza li ha rifiutati. E quando ha letto che a Palazzo Chigi si parla di lui per un ministero, ha dovuto rassicurare l’ala dura di Area riformista: «Il tema non sono i posti... Ho 36 anni, vi pare che scalpito per andare al governo?». E così il capogruppo ha provato a convincere Renzi che «conviene cambiare la legge alla Camera, con la garanzia che al Senato la minoranza la voterà». Ma il premier teme le «mine» di Palazzo Madama e su quel terreno non intende avventurarsi. Per Gotor, Renzi «è finito in un cul de sac, sta svendendo la democrazia dell’alternanza per costruire un paludone neocentrista e trasformista da prima Repubblica». Fosse così, come se ne esce? «O restaura il Patto del Nazareno o ricompatta il Pd. Altrimenti rischia il corto circuito. E se le riforme falliscono, la sconfitta è sua...». Al leader i numeri non fanno paura. Gli oppositori del «combinato disposto» tra Italicum e riforma del Senato sono un centinaio, ma i renziani contano di riuscire a separare le giovani leve dalla vecchia guardia, Bersani, Cuperlo e D’Alema. «Per come conosco i miei colleghi è una via impraticabile» sostiene Gotor. Anche D’Attorre pensa che la minoranza resterà compatta e che il premier col voto segreto rischia: «Se scenderà a patti? Non credo. Non ha concesso nulla e ha chiuso la direzione senza replica, non può tornare indietro». Può suonare come il prologo di una scissione, se non fosse che Bersani continua a intonare il noto adagio: «Il Pd è casa nostra, ci resteremo con tutti e tre i piedi». Per dirla con Gotor: «Tra obbedienza e scissione c’è un enorme spazio nel Pd».




Cameron e la sfida del referendum 
La scommessa che spaventa l’Europa.


Corriere della Sera 31/03/15
Antonio Armellini
Il premier britannico David Cameron ha incontrato la regina Elisabetta II a Buckingham Palace per informarla dello scioglimento del Parlamento in vista delle elezioni del 7 maggio. Si tratta di una formalità che mette fine ai cinque anni di governo di coalizione di conservatori e liberali. «Fra 38 giorni affronterete una scelta difficile», ha poi detto pubblicamente il leader conservatore, dando il via ufficiale alla campagna elettorale, tra le più imprevedibili del Paese, con i sondaggi che danno un testa a testa tra i due maggiori sfidanti, lo stesso Cameron e il laburista Ed Miliband. Il governo resta in carica per l’ordinaria amministrazione, mentre il Parlamento ha chiuso i battenti. La prima seduta della nuova legislatura il 18 maggio; il 27 il discorso della Corona nella Camera dei Comuni.

Resisterà l’Unione Europea sino al 2020? Se il Regno Unito dovesse decidere di uscirne, l’impatto ne potrebbe modificare profondamente la natura e innescare una disgregazione difficilmente arrestabile. L’esito delle elezioni del 7 maggio è tuttora apertissimo: il tema dell’immigrazione alimenta l’euroscetticismo di una parte consistente dell’opinione pubblica, che accusa Bruxelles di aprire le porte a flussi incontrollabili e reclama modifiche radicali su welfare e occupazione. È un nodo delicato per tutti, ma soprattutto per i conservatori: impegnandosi in caso di vittoria a indire un referendum sul «Brexit» — l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue — nel 2017, David Cameron ha fatto una scommessa che rischia di costare cara non solo a lui.

Se dovesse prevalere a maggio, Cameron dovrà spuntare da Bruxelles argomenti atti a favorire un ripudio convincente del «Brexit»: solo così potrebbe cercare di mantenere il controllo del suo partito. Un successo di stretta misura gli permetterebbe forse di sopravvivere, in una sorta di libertà vigilata marcato a vista dagli euroscettici al suo interno. Se dovessero prevalere i no, la sua caduta sarebbe scontata. In entrambi i casi il partito sarebbe sottoposto a forti tensioni e la sirena dell’Ukip (United Kingdom Independence Party, Partito per l’indipendenza del Regno Unito) di Nigel Farage potrebbe attirare buona parte della consistente fronda euroscettica verso un nuovo partito antieuropeo alla destra dei tories.

I laburisti si sono dichiarati contrari al referendum e, se dovessero vincere loro, il problema cesserebbe di esistere. C’è chi come Jon Snow (colonna storica di Channel 4 News e uno dei rarissimi federalisti dichiarati del Paese) teme che la grande stampa tory aprirebbe un fuoco di fila per costringere il governo ad andare comunque al referendum. Ma l’impegno europeo del Labour rimane convinto, ancorché non unanime: ci penserebbero i liberaldemocratici di Nick Clegg, del cui appoggio Ed Miliband avrebbe quasi certamente bisogno, a prevenire derive negative.

L’idea di dare vita ad una entità politicamente integrata capace di fare sentire la voce dell’Europa è stata all’origine del discorso europeo, ma non è entrata a far parte della visione della Gran Bretagna la quale, coerentemente, continua a tenersene lontana. Se per gli euroscettici della destra tory, come Bernard Jenkin, il termine stesso di «unione politica» induce al sospetto, per il leader storico degli europeisti del partito, Kenneth Clarke, esso può solo significare una libera associazione di Stati sovrani, senza strutture federali che potranno essere forse possibili in un futuro lontano, ma in ogni caso senza la Gran Bretagna. L’ambasciatore italiano, Pasquale Quito Terracciano, è un osservatore attento e disincantato della scena britannica: egli ritiene che — differenze sull’euro a parte — l’Europa di Cameron offra più di un punto di contatto con quella cui pensa Matteo Renzi. Se fosse così — e ha probabilmente ragione — sarebbe la conferma che il percorso europeo dell’Italia di oggi è sempre più lontano da quello che ne ha caratterizzato azione e influenza per decenni.

Il tema della Germania attraversa il dibattito con toni contrapposti che lasciano incuriositi e perplessi. Peccando forse di troppo ottimismo, Cameron vede in Angela Merkel un alleato fondamentale, che non vorrà mai rinunciare al contrappeso offerto da Londra al debordare delle ambizioni francesi. Sul fronte opposto Sir Bill Cash, veterano tory di mille battaglie anti-europee, sostiene che l’unione politica dell’Europa porterebbe ad una nuova egemonia tedesca sul continente e la Gran Bretagna non si piegherà mai a un simile disegno. Al di là dell’iperbole, si coglie in questi discorsi l’eco di sbiadite nostalgie di potenza e, al tempo stesso, l’immagine della Germania come avversario storico da contenere, con una forza che non è facile ritrovare altrove.

Il sistema imprenditoriale britannico è tutto schierato per il sì e si prepara alla campagna per il referendum, contrapponendo allo spettro del dirigismo brussellese l’imperativo di non tagliare i ponti con un blocco economico fra i più importanti del mondo. Le possibilità di successo, osserva Lord Adair Turner — il potente ex presidente della Financial Services Authority — dipenderanno in buona misura dalla capacità di associare a quella dell’industria le voci di altri settori strategici della pubblica opinione. A questo scopo, aggiunge, potrebbe tornare assai utile l’esito del recente referendum scozzese.

Alec Salmond, il leader indipendentista dello Scottish National Party, ha ribadito che in caso di «Brexit» la Scozia chiederebbe di aderire all’Unione Europea. La secessione sarebbe inevitabile e il Regno Unito non esisterebbe più. L’Inghilterra, con la coda gallese e nord-irlandese, rimarrebbe una media potenza ma dovrebbe abdicare ad un ruolo politico di primo piano, a partire da quello di membro permanente del Consiglio di Sicurezza, per il quale verrebbe a cadere ogni giustificazione.

Al pari di altre conseguenze legate al «pasticcio» del referendum, anche questa non è stata chiaramente percepita da un’opinione pubblica in parte scettica sulla possibilità di una vera separazione, e in parte indifferente e male informata. Confrontata con l’imminente realtà di un simile scenario — concorda il Direttore del think tank europeista Cer (Centre for European Research), Charles Grant — potrebbe risvegliarsi e votare per il sì.

Il «Brexit» produrrebbe i suoi effetti ben aldilà del Regno Unito. Assorbire il contraccolpo sarebbe per l’Ue un esercizio tecnicamente possibile, ma politicamente dirompente. Nell’Europa a Ventotto, Londra rappresenta un riferimento essenziale per quanti auspicano un’Unione impostata sulla libertà del mercato e non una federazione tendenzialmente sovranazionale. Se tale riferimento dovesse venire meno, uno dei cardini del dibattito europeo ne risulterebbe fortemente impoverito. Parlare di integrazione differenziata — l’unica via di crescita possibile — sarebbe più difficile e l’intero impianto dell’Ue rischierebbe di diventare prigioniero di rigidità che potrebbero mettere a dura prova le sue regole fondamentali. Sarebbe una manna inaspettata per i movimenti antieuropei di vario segno che vanno crescendo in Europa e la fine dell’Unione, così come è stata sin qui concepita, rischierebbe di farsi un’ipotesi concreta.

Accadrà tutto ciò? Probabilmente no, perché il referendum potrebbe non tenersi e, se si tenesse, il «Brexit» uscirne sconfitto. Dare per scontata una conclusione del genere sin da ora potrebbe rivelarsi però un errore fatale.

lunedì 30 marzo 2015

Farneticazioni

“E’ come essere nel partito comunista nordcoreano”.
Fassina

Arroganza...

Riccardo Imberti

Quando accade qualcosa di strano e inaspettato da noi si ricorda il detto: "el ghera resù chel là de mia morer" (aveva ragione quell'uomo a non voler morire) sottintendendo che vale la pena di vivere solo perchè non si è mai finito di assistere a fatti quantomeno originali se non incredibili. Il detto mi è venuto alla mente sentendo le dichiarazioni di D'Alema all'incontro della sinistra dem di questi giorni sull'aroganza di Renzi. D'Alema si proprio lui. E la sala tutta ad applaudire. 
Che brutti scherzi fa lo smarrimento della memoria e il nostro Paese pare proprio averla smarrita se guardiamo al consenso che sta avendo Salvini, dopo che per vent'anni, oltre ad avere distratto allegramente con i suoi compari di merenda, i soldi pubblici del finanziamento pubblico alla Lega, ha governato con Berlusconi consegnadoci un Paese sull'orlo del fallimento.
Tornando a D'Alema è proprio vero che l'indigestione è proprio una brutta bestia! Se poi è causata da una sconfitta poltica di chi per tanti anni, ha pensato di essere il migliore e ha cambiato sigla ma poco la sua cultura politica diviene ancora più comprensibile questo astio verso Renzi.
Ma il tempo scorre e presto anche questa parentesi rancorosa passerà. Almeno spero!
Certo è che se guardiamo le diverse trasmissioni televisive di intrattenimento scopriamo che c'è ancora la tendenza a spargere sfiducia a piene mani. La prova l'ho avuta la settimana scorsa in occasione della trasmissione della Gruber con la partecipazione di Farinetti, Scanzi e Buttafuoco.  Mentre Farinetti  sosteneva che Renzi, pur tra mille difficoltà, sta facendo cose  che per 20 anni non si sono fatte. Scanzi e Buttafuoco con il solito atteggiamento saccente, davano un'interpretazione a dir poco faziosa di ciò che Renzi sta facendo: il job act è fatto per licenziare non per assumere; la lotta alla corruzione è solo di facciata; gli 80 euro non sono serviti, riforma elettorale e senato sono attacco alla democrazia e così via. A me pare che a questi "intellettuali" Renzi dia parecchio fastidio perché cerca di togliere l'Italia dal pantano. Infatti credo che persone ti tale arroganza (questi sì) se il Paese esce dal tunnel non avrebbero più argomenti per i quali scrivere o parlare. Infatti questa genia di giornalisti sono abituati a fare dei guasti italiani la loro fortuna, un filone aureo che in questi anni ha avuto molto successo e ha creato leader di carta o di celluloide. Questa gente diffonde sfiducia e pessimismo a piene mani e crede in questo modo di contribuire alla nascita di una leadership a loro gradita, magari di sinistra. Una sinistra che con i toni di Landini è destinata alla sconfitta da qui all'eternità. 

Nichi augura buon compleanno a Pietro Ingrao


Attilio Caso
Nichi augura buon compleanno a Pietro Ingrao: "Siamo tutti discepoli del maestro Pietro Ingrao. Da lui abbiamo appreso la bellezza della politica e la abbiamo subito dimenticata. Abbiamo conservato solo la bellezza, perché quella politica che deve "esplorare l'impossibile", affermata dal Compagno, non ci interessa: è greve e insopportabile come la preoccupazione per gli esclusi, per coloro che non sono né figli di avvocati né di primari, che non aspirano necessariamente al pubblico impiego e che non sono in pensione dopo qualche difficile decennio, vissuto da docenti universitari. Le nostre preoccupazioni sono quelle di Maurizio, Lucia, Norma, Stefano, Luciano e Miguel: a quale talk show sarò ospite domani, per affermare cose di sinistra? A quale convegno parteciperò? Su quale cattedra o in quale posizione di funzionario pubblico piazzerò un nostro protetto? Dove potrò citare Plotino e Gabo, per stigmatizzare l'onta assoluta del Patto del Nazareno? Quando potrò incontrare Pippo per parlare di derive autoritarie e dittature di velinismo e renzismo merkelista?
Pietro ci parla da sempre di giustizia sociale: bravo Maestro! Ma non esagerare, altrimenti dovremmo valutare quanto impegno abbiamo davvero profuso, per combattere questa esclusione, e allora saremmo indotti a distogliere lo sguardo dalla struggente bellezza di un tramonto o dalla sognante nostalgia di un malinconico finale di Luchino Visconti. Oppure, ancor peggio, dai panzerotti, che hanno preparato le allieve di Luciano, per festeggiare la vittoria di Sarkozy, che è meglio di Renzi. P.S. Pippo oggi vuole disertare la Direzione Nazionale del PD, ma non per fare argine alla marea decisionista, ma perché gli ho spedito una foto della tavola imbandita."

Il gelo di Camusso che resta defilata «Manifestazione di metalmeccanici».


Corriere della Sera 29/03/15
Fabrizio Roncone
«Quando parla il selvaggio?», chiede con aria disgustata e complice Carla Cantone, responsabile dello Spi-Cgil, il sindacato dei pensionati.

 Susanna Camusso si volta, si china leggermente, dagli occhi sprigiona un guizzo azzurrino di sorpresa, come se le avessero chiesto dove andrà in vacanza quest’estate: «Boh. Non ho idea...».

 Maurizio Landini non sente. Si infila la felpa della Fiom, fa ciao alla folla, ride, si pulisce gli occhiali. Molti compagni metalmeccanici alzano il pugno chiuso, molte compagne mandano baci con la mano. Grida di evviva, applausi, fischi di eccitazione, ogni tanto certi attaccano a cantare «Bella ciao».

 Piazza del Popolo, bandiere rosse nel vento del pomeriggio, Stefano Rodotà sta concludendo il suo intervento.

 Da un’ora e 35 minuti tutti però osserviamo Susanna Camusso che è lì, ferma sul penultimo gradino della scaletta di accesso al palco. Ferma, quasi immobile. Mentre il corteo veniva giù dalle rampe del Pincio, avanti lo striscione della Fincantieri, lei - direttamente da Reggio Calabria - è arrivata, è scesa dalla macchina, il servizio di sicurezza della Cgil l’ha tenuta dentro un cordone di braccia e subito l’hanno accompagnata fino a quella scaletta.

E lì è rimasta.

 A un gradino dal palco.

 Presente, ma plasticamente distante.

 E muta. 

Anziani cronisti sindacali dicono che mai s’era visto il segretario generale della Cgil non dire mezza parola a una manifestazione della Fiom.

 Allora il suo portavoce, il burbero Massimo Gibelli, sbuffando, scuotendo la testa perché certe cose non si dovrebbero pensare e tantomeno chiedere, organizza una bizzarra conferenza stampa: lei, la Camusso, in via del tutto eccezionale, si sporgerà dal suo penultimo gradino e farà una breve dichiarazione. 

«Però le domande sono vietate!».

 No, scusa, Gibelli: che conferenza stampa è senza domande?

 «O senza domande, o niente!».

 Irrituale, va.

 «Anzi, facciamo così: i microfoni, per sicurezza, li consegnate a me!», ordina Gibelli.

 Camusso (senza celare un senso di puro fastidio non per Gibelli, ma per noi che vorremmo sentire cosa pensa): «In questa piazza ci sono i lavoratori metalmeccanici iscritti alla Cgil che, giustamente, sono in lotta perché la legge delega riduce i loro diritti».

 Venti secondi. Punto. Fine.

 Sì, certo: dovremmo fare finta che sia solo una semplice manifestazione sindacale. Ma è dura. Perché Landini era stato chiaro da subito. Contro il Jobs act, a Roma, sfilerà una coalizione sociale. Lo slogan è «Unions», richiamo alle origini del movimento sindacale, e però anche numerose sigle non sindacali sono venute in marcia con la Fiom o solo a suo sostegno: Libera, Arci, Articolo 21, Libertà e Giustizia. E poi Rifondazione e L’altra Europa con Tsipras, lo stato maggiore di Sel e pezzi di Pd.

 Per giorni, sui quotidiani e alla tivù, il sospetto: Landini sta piantando il seme di un nuovo partito? Tutti i sospetti sono legittimi, in politica. Ma qui, sotto questo palco, diventa invece forte la sensazione che Landini abbia piuttosto cominciato la scalata alla Cgil.

 La Camusso, del resto, se ne sta lì immobile ma, ogni tanto, le viene spontaneo alzare lo sguardo e farlo scorrere sui ranghi dei manifestanti. Chi sono? Metalmeccanici, certo, però non solo. Colpisce la presenza dei giovani (premiati nell’attesa dall’esibizione del gruppo musicale romano «Il muro del canto»). Ci sono i bancari, i precari della scuola, i movimenti di chi lotta per la casa. Tante le bandiere del vecchio Pci (sotto una di queste, per un tratto, ha camminato anche l’anziano Aldo Tortorella). Ne hanno alzata una del Pd e il manifestante è stato insultato. Del Pd comunque ci sono, come detto, schegge di minoranza parlamentare: c’è Stefano Fassina, c’è Barbara Pollastrini, c’è Vincenzo Vita. Qualcuno sostiene di aver avvistato anche Rosy Bindi.

 I cronisti fanno la conta dei presenti e poi buttano un’occhiata sulla scaletta: sì, la Camusso è ancora lì. Immobile. Chicchissima con il suo completo blu, pantaloni di velluto a coste piccole e maglione dello stesso tono; la bottiglietta d’acqua in tasca, il cellulare con cui telefonare, di tanto in tanto.

 Accanto - uno scalino più in basso - Serena Sorrentino. Chi è questa Sorrentino? La sua presenza, spiegano osservatori esperti, non è casuale. Segretaria confederale dal 2010, 37 anni, napoletana, responsabile delle politiche del lavoro: seria, rigorosa, preparata. Ti raccontano che alla Camusso non dispiacerebbe metterla in corsa per la sua successione, quando sarà (nel 2018).

 Intanto, però, ecco che risale la scaletta lui.

 Maurizio Landini. 

Ora voi dovete sapere che Landini è un tipo distratto. Molto distratto. Uno di quei tipi che ti passano accanto e non si accorgono di te. 

Landini fa così proprio con lei, con la Camusso.

 Così prontamente lo placcano, gli mollano una pacca sulla spalla, oh, Maurizio, guarda che c’è Susanna...

 Lui allora si ferma, torna indietro. E l’abbraccia: «Dai! Diamoci pure un bacio!».

 Lei, gelida, porge la guancia sinistra.

 Bacio.

 A questo punto, Gibelli decide che, per rompere il ghiaccio, non c’è niente di meglio che scattare un bel selfie collettivo.

Camusso: «No. Il selfie, grazie, no».




LE SPINE DI OBAMA


FERDINANDO SALLEO
La Repubblica 29 marzo 2015
RICORDA le diatribe politiche interne degli Stati europei, la battaglia che agita l’America nell’ultimo biennio di un presidente, sovente aspra sui temi economici e sociali in vista delle elezioni per la Casa Bianca. Lo scenario di Washington, tuttavia, ha preso crescenti toni oltranzisti con manovre che colpiscono ormai la politica estera degli Stati Uniti e complicano ancor più la gestione delle crisi e i rischi per la stabilità internazionale. Dovrebbe essere una preoccupazione anche per noi europei perché tocca da presso la solidarietà atlantica e la formazione di obiettivi comuni. Dominato dai Repubblicani, il Congresso è apertamente ostile a Obama, anche personalmente e non senza un sottofondo razziale inespresso, mentre i suoi esponenti parlamentari e gli aspiranti candidati alla presidenza fanno a gara su bizzarre posizioni radicali in vista delle primarie, incalzati da settori ideologici tra cui sono ricomparsi i neoconservatori e dai gruppi di pressione, dagli interessi costituiti e dai grandi finanziatori dopo che la Corte Suprema ha eliminato i limiti ai contributi alla politica che inondano di fondi.
La loro strategia concentrica associa la tragedia del Medio Oriente-Mediterraneo e la sorda crisi ucraina in un contesto che mira a esautorare del tutto Obama sul piano politico e privarlo anche della sostanza dei poteri di decretazione — in parte, è vero, controversi sul piano costituzionale — di cui sinora si sono avvalsi molti presidenti. Una risoluzione in corso di trattativa obbligherebbe il presidente a sottoporre al Senato ogni intesa, anche informale, andando questa volta ben di là dal dettato costituzionale. È guerra aperta e senza quartiere, anche se qualche repubblicano vicino alla tradizione cerca prudentemente di nascondersi o di abbozzare cauti contatti con la Casa Bianca.
Così, dopo l’invito a Netanyahu a rivolgere al Congresso l’atteso duro discorso di denuncia del processo di intesa sul nucleare iraniano ormai alle porte, negoziato assieme agli alleati europei e con la possibile collaborazione di Mosca e la legittimazione del Consiglio di Sicurezza, quarantasette senatori repubblicani, capeggiati da McCain che sembra però pentito, sono persino giunti a pubblicare una lettera inviata a Teheran per sottolineare agli ayatollah che il decreto che sancisca un accordo per il rinvio decennale dei progressi verso l’atomica con opportuni vincoli e verifiche potrebbe essere revocato dal prossimo inquilino della Casa Bianca che, ritengono, sarà uno dei loro. L’Iran è stato quindi avvertito del rischio che l’atto non valga tra un anno e mezzo la carta su cui sarà stato scritto. Una decisione che sfiora, se non altro moralmente, l’alto tradimento, l’intesa con il nemico denunciato come pericolo per la sicurezza nazionale. Comunque, rischia di inasprire l’ostilità antiamericana degli estremisti iraniani rendendo un buon accordo quasi impossibile.
Se non altro, le due guerre perdute nel “grande Medio Oriente” dai neoconservatori li hanno dissuasi dal promuovere l’invio di truppe nella regione.
Alla pressione dei repubblicani più radicali per inviare armi a Kiev, pur rischiando un conflitto locale con la Russia che avrebbe distrutto ogni negoziato diplomatico e possibilità di soluzione geopolitica, Obama ha resistito anche con l’appoggio dei più cauti membri della “vecchia Europa”, come ci chiamava Rumsfeld, sfuggendo alle sollecitazioni di taluni nuovi governi dell’Unione preoccupati per il disinvolto avventurismo di Putin nella regione.
Infine, sui due grandi accordi di cooperazione, con l’Asia il Ttp e con l’Europa il Ttip in vista delle premesse per l’integrazione economica di sistema, le lobby mettono in forse i necessari poteri a negoziare senza cui l’incerta ratifica del Senato scoraggia le controparti dal fare concessioni.
Barack Obama non ha mai stabilito con il Congresso e con l’opposizione il rapporto di cordiale, fattivo e continuo dialogo, quella manipolazione diplomatico-politica che molti predecessori avevano creato con i parlamentari dopo lunga consuetudine di attività collegiale, Johnson soprattutto e Ford, ma anche Nixon e lo stesso Clinton — a parte le acute crisi finali delle due presidenze — facendo dei checks and balances tra i poteri dello Stato un sistema funzionale che consentiva intese e compromessi. Assistito da un Consiglio per la Sicurezza nazionale debole e talora incauto — non sono più i tempi di Kissinger, Brzezinski o Scowcroft — Barack Obama appare distaccato e razionale quando si rivolge alla nazione o incontra i governanti stranieri senza spingersi sino al rapporto personale di Roosevelt con Churchill, o di Reagan con Thatcher.
Una visibile disfunzionalità sovrasta il sistema istituzionale che cerca senza troppo impegno una via d’uscita. Anche se è difficile intravedere cambiamenti caratteriali o di stile, il tortuoso processo della scelta dei contendenti del prossimo anno e la consapevolezza che, se l’estremismo può far vincere le primarie, le elezioni presidenziali si vincono al centro, potrebbe ricondurre lo scenario politico di Washington a maggiore senso di responsabilità.



Forza Italia, il j’accuse della vecchia guardia “Ci stiamo dissolvendo Silvio ceda sovranità”


CARMELO LOPAPA
La Repubblica 29 marzo 2015
Sfogo di Romani, nuova lite con Brunetta Salvini apre all’accordo. Scontri a Torino 
Berlusconi lancia la sfida per riconquistare Milano (tra un anno) e l’Italia (chissà quando), ma il partito nel frattempo si sbriciola sotto i colpi di piccone. L’ultimo arriva a sorpresa da un fedelissimo come Paolo Romani. Il capogruppo al Senato interviene prima del consueto collegamento telefonico del leader che chiude la manifestazione organizzata da Mariastella Gelmini all’auditorium Gaber di Milano. «Non si dica che tutto va bene, perché oggi non va bene nulla — esordisce — Siamo divisi e litigiosi, non raccontiamo cose credibili e i peggiori di noi vanno in tivù solo per dire stupidaggini: dalle intransigenze stile Brunetta alla melassa a cui appartengo».
E ancora, «occorre una cessione di sovranità interna, il problema c’è, lo dobbiamo affrontare », dice riferendosi alla necessità di organismi dirigenti veri e operativi, al di là del leader. Poi le alleanze. «Siamo sicuri che possiamo essere federatori, che esiste ancora il centrodestra? Tra Salvini che dice cose terrificanti e Alfano che è il servo sciocco di Renzi?» Un j’accuse che va oltre l’autocritica e tutt’altro che improvvisato. «Ho scritto e ragionato una notte intera, erano cose che andavano dette e poteva farlo giusto uno che vuole bene a Berlusconi — racconterà poi, raggiunto al telefono, il capogruppo — Se alle regionali non raggiungiamo almeno il 15 per cento, la dissoluzione diventa inarrestabile». Giovanni Toti, presente all’evento, ironizza: «Oggi Romani si è divertito a fare il rottamatore con i capelli bianchi e ci è riuscito anche bene ». Romani legge e non incassa l’allusione renziana: «Non sono rottamatore, ma un ragionatore e dopo 20 anni in Fi me lo posso permettere». Chi l’ha presa proprio male è Brunetta (tra i due, un mese fa, altro scontro): «Grazie a Romani per avermi definito intransigente nei confronti di Renzi — è il suo tweet — meglio intransigenti che inesistenti».
Tanti altri invece plaudono. Altero Matteoli concorda «totalmente » con Romani e spera «che si possa aprire subito un confronto con Fitto per evitare spaccature: a Berlusconi al telefono ho già detto che non condivido la circolare della senatrice Rossi che impedirebbe di candidare chi ha più di tre mandati ». Che poi, nella lettura della cerchia ristretta del leader, sarebbe proprio la miccia che avrebbe acceso queste reazioni. Raffaele Fitto, un piede già fuori in Puglia e non solo, chiede se a questo punto «si aprirà una riflessione davvero libera o si farà finta di nulla e si proseguirà con epurazioni, esclusioni e commissariamenti?» E con Romani anche Daniela Santanché: «Basta fare gli struzzi, apriamo un dibattito franco». Maurizio Bianconi, fittiano: «Facile diventare antifascisti il pomeriggio del 25 aprile. Ma meglio tardi che mai».
In questo clima, l’ex Cavaliere («Colpa di un’influenza») diserterà stamattina la manifestazione romana organizzata da Tajani e la Rossi, limitandosi a una telefonata. In quella di ieri a Milano aveva suonato la carica. Il centro-destra dovrà riconquistare «la guida di Milano, dove tutto è iniziato, poi faremo ripartire anche l’Italia, dove siamo la maggioranza vera e naturale». Per poi attaccare Renzi che «sta dimostrando che la sinistra pensa solo a occupare potere a qualunque costo ». Unica nota positiva, per lui, la schiarita con Salvini in vista delle regionali. Il capo del Carroccio parla prima a Torino, dove si registrano scontri tra antagonisti del corteo anti Lega e polizia, poi a Bergamo: «Non c'è alcun ostacolo a un accordo, non ho condizioni da imporre a Forza Italia».



sabato 28 marzo 2015

“Alla spending review risanerò sanità e trasporti con i costi standard Troppi 5 corpi di polizia”


FEDERICO FUBINI
La Repubblica 28 marzo 2015
Yoram Gutgeld Il consigliere di Palazzo Chigi e deputato pd è il successore di Cottarelli alla spesa pubblica “Il primo obiettivo sarà quello di evitare i rincari
Da qualche ora Matteo Renzi ha firmato il decreto che lo nomina. Il deputato del Pd e consigliere economico del premier Yoram Gutgeld, 55 anni, nato a Tel Aviv e naturalizzato italiano da decenni, è il nuovo commissario alla revisione della spesa.
Il governo aveva smesso di parlare di spending review.
Perché ritirarla fuori proprio ora?
«Il governo non l’ha mai accantonata. Sul 2015 abbiamo ridotto la spesa corrente (al netto delle pensioni) in termini nominali, cioè in quantità di euro di uscite dello Stato. Non lo ha fatto nessun Paese in area euro salvo quelli sottoposti ai programmi di salvataggio. Non lo ha fatto neanche la Germania dieci anni fa. Carlo Cottarelli, che è occupato di spending review prima di me, si è dimesso in autunno e poi abbiamo avuto l’elezione del capo dello Stato e le riforme istituzionali. Ora si riparte».
A proposito di Cottarelli, dove sono finite le sue proposte?
«Le metteremo in rete nei prossimi giorni».
Che obiettivi vi date, quanto volete tagliare?
«Questo dovremo vederlo anche in base al Documento di economia e finanza, che stiamo preparando. L’ottica degli interventi sulla spesa sarà almeno biennale».
La nuova spending review serve a evitare che, se i conti non tornano, scattino le clausole di aumento dell’Iva?
«Sicuramente abbiamo la priorità assoluta di eliminare le clausole di salvaguardia per il 2016 e 2017, in modo da mantenere la riduzione delle tasse e, se possibile, aumentarla. Ma la revisione sarà diversa rispetto al passato: sarà di riduzione, ma anche di riallocazione e riqualificazione della spesa».
Significa che volete spostare risorse dalle pensioni medioalte alla lotta alla povertà?
«La povertà è un tema prioritario. Per quanto riguarda le pensioni, abbiamo valutato la questione e la decisione politica è stata di non riaprirla. Ciò non significa che non ci siano aree alle quale può essere utile guardare: per esempio ci sono differenze enormi fra regioni nel numero di pensioni d’invalidità. Poi c’è un tema strutturale: oggi l’assistenza sociale è frammentata fra Istituto nazionale di previdenza, Comuni, Aziende sanitarie locali. È tutto scoordinato. Finisce che alcuni godono di tre prestazioni, altri di nessuna. È un modello che svantaggia i poveri a favore di chi sa muoversi meglio nel sistema».
Chiederete nuovi tagli agli enti locali?
«A loro abbiamo già chiesto molto. Ora dobbiamo dare più attenzione allo Stato centrale, rivedere la spesa dei ministeri e tutto il settore trasporti e infrastrutture, dove spendiamo con un’efficienza certo non ai massimi ».
Ha idee di possibili risparmi per lo Stato centrale?
«Bisognerebbe razionalizzare la presenza territoriale dello Stato centrale fra questure, prefetture, provveditorati agli studi, corpi di polizia. Poi ci sono gli incentivi alle imprese. Tutte aree in cui c’è del lavoro da fare».
Pensa a economie di scala fra forze dell’ordine?
«In Italia abbiamo cinque corpi di polizia, è qualcosa che merita un progetto più strutturato ».
Non dica che con tutti questi progetti allo studio non ha idea dei suoi obiettivi di risparmio...
«In prospettiva sul 2016, arrivare a 10 miliardi sarebbe già molto importante. La spesa corrente, sempre al netto delle pensioni, è di 350 miliardi circa. Sono fiducioso che i margini si troveranno, ripartendo con una collaborazione più stretta con enti e ministeri e avendo il disegno di legge sulla pubblica amministrazione che ora consente di fare interventi strutturali».
Gli stipendi pubblici sono già bloccati da anni. Davvero volete continuare sulla stessa linea?
«Non c’è un impegno, ma spero che i contratti si possano sbloccare. Non dimentichiamo che con la nuova legge ci sono due elementi nuovi. Prima chi aveva bisogno di personale poteva solo assumere, ma ora possiamo spostare il personale da altri uffici e lo stiamo già facendo dalle provincie ai tribunali. L’altra novità è l’uso delle tecnologie: oggi nelle strutture periferiche, le questure, le prefetture, i provveditorati, tutto è impostato sul modello napoleonico. Tutto è duplicato in ogni provincia, senza economie di scala».
Volete mettere questi uffici in palazzi unici?
«Le amministrazioni dovranno presentare entro giugno un piano di riduzione degli spazi e l’Agenzia del demanio avrà il compito di intervenire se questi piani non sono sufficienti. Sto lavorando sulla base del concetto statunitense di Federal Building, il palazzo con un front office dove il cittadino trova tutti gli uffici dello Stato. Ci vorrà qualche anno, ma con le tecnologie digitali oggi è possibile».
Quando lei parla di trasporto pubblico e incentivi alle imprese, si riferisce agli 8 miliardi che vanno alle Fs?
«Mi riferisco al fatto che abbiamo un trasporto pubblico locale con molte sovrapposizioni, un utilizzo inefficiente dei mezzi e molti più sussidi che per esempio in Germania. Per garantire prezzi dei biglietti altrettanto contenuti, in Italia lo Stato, cioè il contribuente, deve pagare di più».
Dunque il costo del trasporto pubblico salirà?
«No, va reso più efficiente e aperto alla concorrenza. Quanto a Fs, abbiamo una rete ad alta velocità costata molto di più che in altri Paesi. È dovuto alla geografia, ma anche alla scelta fatta di creare anche una capacità di trasporto merci ad alta velocità che non dà vantaggi, perché poi non viene usata».
Dalla lista dei tagli continuano a mancare le municipalizzate.
«Abbiamo chiesto agli enti locali azionisti di presentare in aprile piani di razionalizzazione ».
Un po’ come far votare il Natale ai tacchini, non trova?
«Se le loro proposte non bastano, interverremo. Il metodo è quello dei costi e fabbisogni standard, e della trasparenza in rete. Per esempio nella raccolta rifiuti negli ultimi due anni c’è stato un enorme aumento dei costi, che sono tasse occulte per i cittadini. Stessa cosa sulla sanità: d’accordo con il ministro Beatrice Lorenzin, useremo costi e fabbisogni standard. Non diciamo agli enti locali di spegnere la luce alle 10 di sera, ma ciascuno deve funzionare al pari dei migliori».
In concreto, significa tagli alla sanità?
«In concreto, puntiamo a ragionare non solo a livello aggregato delle varie regioni ma, lavorando con esse, su costi e fabbisogni standard della singola azienda ospedaliera».
Quanto percepirà come commissario alla spending review ?
«Non sono previsti compensi. Ho già quello da deputato».

Berlusconi e Salvini 
L’alleanza (malgrado loro).


Corriere della Sera 28/03/15
Francesco Verderami
Correranno insieme, ma finora non si sono mai fatti vedere insieme. Berlusconi e Salvini sembrano alleati a loro insaputa.
È una trovata elettorale? Un esperimento politico? Di sicuro non è una novità. Quando Monti scese in campo con Scelta civica, si negò persino alla foto con Fini e con Casini. Tutti sapevano cosa pensasse a quei tempi il professore dei suoi compagni di strada (ricambiato), e tutti sanno cosa pensano oggi l’uno dell’altro il leader di Forza Italia e il segretario della Lega. Per Berlusconi «Salvini è un problema». Per Salvini «Berlusconi è cotto». Tuttavia troveranno un’intesa in vista delle Regionali, sebbene proprio l’ossessione di vedersi come carbonari, di smentire incontri realmente avvenuti, di scivolare via dai luoghi dove sono stati appena colti insieme, rende manifesta la distanza tra i due. Anche ieri, appena si è sparsa la voce di un loro rendez vous serale, in tanti si sono affannati a spiegare che non era vero. Quasi a voler preservare entrambi dall’idea di una possibile mescolanza.

C’era una volta il centrodestra, oggi non c’è nemmeno una posa sorridente da offrire alla stampa. D’altronde non c’è sorriso sul volto di Berlusconi, che impreca all’oltraggiosa fortuna riservatagli dagli eventi, e deve convivere con gli sbalzi d’umore. Infatti non è per farsi desiderare se prende tempo quando lo invitano alle manifestazioni: «Purtroppo ho la febbre», ripeteva ancora ieri sera. Nel 2006 aveva il colpo della strega, eppure alla fine andò a Vicenza a sfidare i vertici di Confindustria, e il suo famoso balzo sulla sedia mandò in visibilio la platea degli imprenditori. Fu l’inizio di una clamorosa rimonta elettorale su Prodi, quasi completata. «Lasciatelo in pace quell’uomo», replica ogni volta in sua difesa Confalonieri, a chi gli chiede che l’amico faccia un altro scatto.

Lo specchio magico che Berlusconi aveva costruito, e in cui ogni giorno si rimirava per sentirsi dire che era il più forte, si è frantumato. E oggi sono in tanti a specchiarsi in quei mille frammenti, pensando di poter ascoltare di se stessi la stessa cosa. Nella sede di Forza Italia non c’è nemmeno più il centralinista, nei gruppi di Forza Italia si attende una nuova diaspora. Resta da capire — e non è cosa da poco — se sono i parlamentari a volersene andare o se è il leader che se ne vuole andare. Con Fitto, per esempio, il capo fa mostra di volerlo «fuori dalle scatole», così ha detto: «Per i suoi candidati assicuriamo dei posti alle Regionali. Si accontenti, se crede».

È una mossa dettata da un disegno o un segno di sconforto? E siccome Berlusconi resta (ancora) Berlusconi, i dirigenti azzurri continuano ad analizzare i suoi comportamenti, come un tempo: forse vuol costringere Fitto a rompere per farlo contare nelle urne, addebitargli le cause della sconfitta alle elezioni, e non permettergli di lucrare dall’interno del partito sul (quasi certo) risultato negativo di Forza Italia. Quanto al possibile gruppo autonomo di Verdini, c’è chi la considera una diabolica trovata, per mantenersi un tramite con Renzi e un surrogato del vecchio patto nazareno. «Ma se si fanno andar via tutti questi parlamentari, poi chi rimane?», si è domandato Romani, chiedendo urgentemente udienza al capo.

Per il capo vige oggi il motto «meglio pochi ma fedeli», e tra quei pochi c’è la Carfagna, che Berlusconi medita di porre al vertice del partito per offrire il segno tangibile del cambio generazionale. Si vedrà se il visionario avrà una nuova visione, e cosa ne sarà — per esempio — del rapporto con il Partito popolare europeo che Tajani riunisce nella capitale per discutere sulla «capacità di aggregare» del centrodestra italiano. Per il momento è in atto un processo di scomposizione. È vero, da qualche parte bisogna pur ricominciare, il punto è che molti si ritrovano dopo essersi appena divisi. Al centro Ncd e Udc — pronti a fondersi in Area popolare — discutono con Tosi, che ha appena divorziato da Salvini, su come costruire un rassemblement di moderati, mentre la destra che fu An riunisce oggi dieci sigle a discutere di «Terza Repubblica»...

 La verità è che Renzi li ha fatti tutti prigionieri, e la politica è stremata al punto tale che, con la sola voce contraria di Brunetta, al premier è consentito «meditare» — senza che la cosa meni tanto scandalo — se porre o meno la fiducia in Parlamento addirittura sulla legge elettorale. «L’avessi detto io, sarebbe scoppiata la guerra mondiale», dice Berlusconi. È vero, ma il premier gli ha strappato le sue parole d’ordine: ha portato il suo Pd a sinistra con l’ingresso nel Pse, e ha spostato a destra il suo governo con il Jobs act, la responsabilità civile dei magistrati e ora pure con la riforma delle intercettazioni. 

Al leader di Forza Italia non resta che aggrapparsi a Salvini, che ancora ieri però lo insolentiva: «Chi mi ama mi segua». Ed è chiaro a cosa miri il segretario del Carroccio, ed è per questo che agli occhi di Berlusconi resta insopportabile. Perciò finora non si sono mai fatti vedere insieme, anche se correranno insieme: alleati a loro insaputa.




venerdì 27 marzo 2015

Renzi pronto alla fiducia sull’Italicum. Riforma Rai, oggi il governo decide.


Corriere della Sera 27/03/15
Monica Guerzoni
«Se c’è il puntiglio, ognuno si assumerà le sue responsabilità» è il pensiero che Pier Luigi Bersani, buttando giù un caffé alla buvette, indirizza al premier nella vana speranza che tolga il freno dall’acceleratore: «Io quel che dovevo dire l’ho detto e non cambio idea». C’è aria di battaglia finale, a Montecitorio. Lunedì Renzi chiederà alla Direzione del Pd di blindare la legge elettorale, la relazione del leader sarà messa ai voti e (visti i rapporti di forza a suo favore) la strada verso l’approvazione dell’Italicum sarà spianata.

 Il premier ha fretta e si mostra intenzionato a portare a casa la «sua» legge ad ogni prezzo, anche con un voto di fiducia. Alle nove di sera, nella capigruppo della Camera, il governo la spunta e ottiene la calendarizzazione per il 27 aprile: la data proposta dal capogruppo del Pd, Roberto Speranza. Scatta la rivolta delle opposizioni. Sel contesta lo «strappo inaccettabile» e Forza Italia, per voce di Brunetta, evoca il «colpo di Stato». La presidente Boldrini valuterà i «margini» per rispondere alle «preoccupazioni e obiezioni» dei gruppi e il ministro Boschi, derubricando lo scontro a «normale dialettica», vede nel calendario di Montecitorio «ampio spazio per le iniziative parlamentari». 

La legge elettorale andrà dunque in Aula in piena campagna elettorale. E se il testo resta com’è Bersani non lo voterà, neppure dopo il via libera della Direzione: «Io non mi muovo, la democrazia non è mica un giochino...». Per Bersani alcune modifiche sono necessarie e la sua proposta è «mettere su un gruppo Camera e Senato» che lavori a una mediazione, visto che «il Patto del Nazareno non c’è più». Gli ricordano che Renzi ha fretta di blindare la legge e l’ex segretario avverte: «La democrazia non sono mica noccioline». Non temete la conta? «La conta è già avvenuta, diciamo che ci si misura...» .

 La misura dello scontro si vedrà lunedì, quando il segretario metterà ai voti la sua relazione e la minoranza si spaccherà. La tensione è forte, l’ala sinistra è lacerata. «Sarà l’ennesima discussione finta — prevede Stefano Fassina, che voterà contro — Una scontatissima prova di forza». Speranza è salito da Renzi a Palazzo Chigi per cercare un compromesso sulla quota di nominati, ma il leitmotiv di Renzi è sempre lo stesso: «Non esiste mediazione possibile». Oggi il consiglio dei ministri affronterà la riforma della Rai e la minoranza sfida il premier anche sul futuro di Viale Mazzini, presentando una controproposta al Senato. 

La legge elettorale resta il cuore dello scontro. Renzi pensa alla fiducia e Giuseppe Lauricella avverte che una tale scelta sarebbe gravida di conseguenze: «Violare il regolamento della Camera vorrebbe dire inficiare il procedimento legislativo». Ma dal Nazareno Lorenzo Guerini conferma che Renzi tirerà dritto. Quando il vicesegretario incrocia alla Camera il presidente del Pd, il siparietto è questo. Matteo Orfini: «La posizione di Bersani è inaccettabile, non si può dire “o così o non la voto”». E Guerini: «Condivido». A sera il vicesegretario conferma che in direzione si voterà e «quella sarà la posizione del partito». Dopodiché, si potrà anche discutere nei gruppi. 

Per Orfini la posizione di Bersani e compagni è «irricevibile e strumentale», la libertà di coscienza sulla legge elettorale «non sta né in cielo né in terra». E così la minoranza si prepara allo strappo. D’Attorre attacca: «Se Renzi dice che il Parlamento non può cambiare una virgola si assume la responsabilità di una spaccatura profonda nel Pd». Cuperlo spera ancora nel miracolo: «Margini ci sono sempre...». Civati invece si è convinto che «Renzi vuole la rottura, perché ha capito che con questa palude non si va da nessuna parte».

 C’è chi fiuta aria di voto anticipato e chi, come Fassina, pensa che «Renzi ci vede in difficoltà e ne approfitta». L’ex viceministro non pone problemi di tempi: «Stiamo cambiando in modo surrettizio e squilibrato la forma di governo, un premierato forte che fa arretrare la democrazia». Scontro frontale? «Presenteremo degli emendamenti e io sarò coerente, come sul Senato. Una legge con i nominati non è sostenibile».




«Con gli stimoli Bce spinta dell’1% al Pil».


Corriere della Sera 27/03/15
S.Ta.
Roma Ci sono segnali che indicano come «la ripresa, fino ad ora debole e irregolare, stia acquistando forza e stabilità». Il presidente della Bce, Mario Draghi ha espresso il suo ottimismo sull’economia anche nel Parlamento italiano, dove è intervenuto ieri per la prima volta dopo la sua nomina al vertice della Banca centrale europea. Un ottimismo, il suo, però condizionato: la ripresa, dovuta agli effetti positivi del crollo dei prezzi del petrolio, della politica monetaria espansiva — che secondo i dati della Banca d’Italia, citati dallo stesso Draghi, dovrebbero portare un aumento aggiuntivo del Pil dell’1% in 2 anni — e delle riforme già avviate, «è ciclica» e quindi destinata a finire. «Tutto ritornerà come prima» se nel frattempo approfittando di una situazione congiunturale che facilita l’azione non si rimuovono gli ostacoli strutturali ad una crescita sostenuta, ha detto con un avvertimento appositamente rivolto al nostro Paese. «Già nel 1999, prima dell’entrata dell’euro la crescita potenziale dell’Italia si è ridotta dal 2,5% all’1,5% ed ora secondo il Fmi è pari a zero».

Che fare dunque? Secondo Draghi, che proprio ieri ha guadagnato il secondo posto nella lista dei leader più grandi del mondo redatta dal periodico statunitense Fortune, preceduto da Peter Cook, amministratore delegato dell’Apple ma seguito al quarto posto addirittura da papa Francesco, occorre innanzitutto elevare la produttività. E ciò tenendo conto che dal 2000 al 2013 per esempio questa è aumentata del 9,5% nell’area euro e di appena l’1,3% in Italia. Il fatto è che nel nostro Paese, ha spiegato il banchiere centrale italiano, vi è «un’alta concentrazione di microimprese che hanno una produttività inferiore alla media, in presenza di una regolamentazione che le incentiva a rimanere piccole». E quando si parla di regole si guarda alla lunghezza dei procedimenti civili, all’eccessiva dipendenza delle Piccole e medie imprese dal credito bancario, all’eccessiva tassazione, alla necessità di garantire certezze e tutela della legalità». Tasse troppo alte, unite all’aumento della spesa corrente e soprattutto al taglio completo degli investimenti pubblici sono stati anche gli errori della politica di bilancio dell’Italia per combattere la crisi, ha detto quindi Draghi precisando che non è così che si riequilibrano i conti. Bisogna invece abbassare le tasse e la spesa.

Fondamentale per consolidare la ripresa è infine un sistema solido e sano. La prosecuzione del Quantitative easing, cioè dell’acquisto massiccio di titoli pubblici avviato dalla Bce, riuscirà a riportare il credito a imprese e famiglie, ha assicurato il presidente della Bce sollecitando intanto l’adozione di misure per ridurre il peso delle partite deteriorate «perché ciò libera risorse per il finanziamento delle imprese». La Bce «guarda con favore ogni iniziativa a riguardo» ha aggiunto. E sulle banche italiane, comunque ha detto che costano troppo. Fino a poco fa l’Italia aveva «750 banche che sono 750 consigli di amministrazione ognuno dei quali ha minimo 5 membri — una banca ne aveva 19 qualche anno fa — e tutto questo sistema lo pagano i clienti.



Un Paese diviso fra tribù e sette diventato santuario dei terroristi.


Corriere della Sera 27/03/15
Farina Sabaih
«Architettonicamente è il Paese più bello al mondo. La capitale Sana’a è una Venezia selvaggia sulla polvere, senza San Marco e senza la Giudecca. La sua bellezza non risiede nei deperibili monumenti ma nell’incomparabile disegno». Così negli anni Settanta Pier Paolo Pasolini descrisse lo Yemen. Se la penisola araba è per lo più desertica (anche dal punto di vista culturale), lo Yemen è un angolo ricco di storia, monumenti, cultura. Tradizionale e inaccessibile, assomiglia all’Afghanistan. Come quest’ultimo è un Paese tribale e instabile, un baluardo di Al Qaeda che è riuscito a mobilitare un numero crescente di combattenti e a tessere alleanze con le confederazioni tribali.

Uno Stato strategicamente importante per l’Europa perché da Bab el-Mandeb transitano ogni giorno 3,8 milioni di barili di petrolio provenienti dal Golfo persico: se lo stretto che divide l’Asia dall’Africa diventasse troppo pericoloso, le petroliere dovrebbero circumnavigare l’Africa, con un aumento dei costi di trasporto .

Economia
Complice del successo di Al Qaeda in Yemen è la crisi: le istituzioni sono fragili, la disoccupazione altissima. Il reddito medio pro capite è di soli 1.330 dollari l’anno, dei 25 milioni di abitanti oltre la metà vive con meno di due dollari al giorno (la soglia di povertà secondo le Nazioni Unite). Con risorse petrolifere irrisorie (133 mila barili al giorno), quello che fu il regno della regina di Saba è il più povero tra i Paesi arabi. Scarseggia anche l’acqua, in parte assorbita dalle coltivazioni di qat, un arbusto le cui foglie — masticate da buona parte della popolazione — portano a stati di euforia. L’aspettativa di vita è di 63 anni, molti yemeniti soffrono la fame e i loro tassi di fertilità sono tra i più alti al mondo (hanno in media quattro figli, nel 1990-95 ne avevano sette). Nell’agosto 2014 il presidente Mansour Hadi aveva dato avvio a un ambizioso programma di riforme economiche che prevedeva la rimozione dei sussidi all’energia, riforme nel servizio pubblico e welfare. Ma non è riuscito a mettere in atto i buoni propositi.

Storia e politica
Lo Yemen moderno è una Repubblica presidenziale (il presidente è anche capo dell’esecutivo) con un’Assemblea nazionale composta da membri eletti per cinque anni. È l’unica Repubblica della penisola araba ed è nata dalla fusione, il 22 maggio 1990, tra lo Yemen del Nord e lo Yemen del Sud. Il Nord è stato una Repubblica fin dal 26 novembre 1962 a seguito del colpo di Stato che rovesciò la monarchia il cui sovrano era un Imam (sciita) della setta zaidita che rivendicava legittimità religiosa e politica. Già protettorato britannico, il Sud era una Repubblica socialista indipendente dal 20 novembre 1967 e, legato all’Urss, ha giocato un ruolo nella Guerra fredda. A presiedere fin dall’inizio la Repubblica dello Yemen unificato è stato Ali Abdallah Saleh. Sulla scia delle primavere arabe e in seguito alle proteste guidate dalla giornalista e attivista Tawakkol Karman (Nobel per la pace 2011), nel novembre 2011 Saleh ha passato il testimone al suo vice, Mansour Hadi. Dopodiché è iniziata la Conferenza del dialogo nazionale, ovvero una fase di transizione politica conclusasi nel gennaio 2014 con la decisione di trasformare lo Yemen in uno Stato federale. Non sono state però accolte le istanze di autonomia degli Houthi, da una decina d’anni in conflitto con l’autorità centrale. Di conseguenza, a settembre 2014 gli Houthi hanno lasciato la città di Saada (nel Nord) e sono scesi sulla capitale. A fine febbraio 2015 la situazione è precipitata e il presidente Hadi ha abbandonato la capitale per rifugiarsi ad Aden da dove mercoledì si sarebbe allontanato a bordo di un’imbarcazione. Venticinque anni dopo la riunificazione, lo Yemen è quindi teatro di tensioni politiche e sociali e di ricorrenti ondate di violenza che mettono a rischio la sua unità.

Religioni, tribù
e interferenze esterne
Gli yemeniti sono arabi di religione musulmana. Il 50-55% pratica l’Islam sunnita della scuola giuridica sciafeita, mentre il 40-45% è sciita di rito zaidita (alla morte di Maometto riconoscono suoi legittimi successori cinque suoi famigliari, chiamati Imam). In realtà le differenze dottrinali sono irrilevanti nella vita quotidiana e a fare la differenza sono le tradizioni, la chiamata del muezzin e la preghiera. Maggior peso hanno i legami tribali, spesso strumentalizzati dall’ex presidente Saleh che ha governato a lungo grazie all’amicizia con gli sheykh della famiglia Houthi (sciiti) e della famiglia Ahmar (sunniti) cui lasciava mano libera in cambio del loro sostegno. Morti gli anziani sheykh, la situazione è cambiata: i loro figli si sono lasciati attrarre dagli iraniani e dai sauditi. Da parte sua, Saleh ha spesso cambiato alleanze appoggiandosi dapprima al partito islamico Al Islah (declinazione yemenita dei Fratelli musulmani, e quindi sunnita), per poi schierarsi con gli Houthi sul nascere della primavera araba e poi ribaltare tutto e schierarsi nuovamente con Al Islah contro gli sciiti.

Non vanno inoltre sottovalutate le ingerenze esterne. Se oggi l’Iran appoggia gli Houthi, i sauditi hanno condizionato la storia dello Yemen: fino al 1962 hanno sostenuto il regno dell’Imam mentre l’Egitto favoriva un esito repubblicano; nel 1991, quando Saleh appoggia l’invasione irachena del Kuwait, Riad espelle un milione di immigrati che con le loro rimesse tengono in piedi l’economia yemenita; nella guerra civile del 1994 appoggiano fazioni diverse; e ieri l’aviazione saudita ha iniziato a bombardare la capitale yemenita con il sostegno di Bahrein e Qatar. Mentre la coalizione capeggiata dai sauditi bombarda Sana’a, le luci si abbassano sui negoziati, in corso in Svizzera, sul programma nucleare di Teheran. I negoziatori dei 5+1 e il team iraniano hanno cinque giorni di tempo per giungere a un accordo. Gli ultimi fatti in Yemen sono forse un diversivo per concludere?

Pippo, la legge elettorale e Anassagora


Attilio Caso 
27 marzo 2015
Pippo sul calendario del legge elettorale: "Il vostro Affezionatissimo esprime tutto il proprio garbato e resistente rammarico rispetto ad una decisione che colpisce la democrazia, lacerando ogni speranza di un ritorno al lascito dei Padri Costituzionali. Oggi, 26 marzo, in ossequio alla deriva autoritaria del secondo anno della Costituzione Nazarena, si decide di far giungere alla Camera il 27 aprile la famigerata Legge Elettorale, voluta da Darth Sylvius e sostenuta da Darth Renzer. Perché tutta questa fretta? Trentadue giorni sono pochi. Noi ci eravamo limitati a chiedere di valutare un tempo ragionevole: trentadue mesi. Del resto, questa legislatura prosegue a ritmi insostenibili. Pensate che ilpresidentedelconsiglio vorrebbe anche che andassimo alla Camera per valutare, discutere, procedere a votazioni e decidere! Noi siamo lì per sfumare, cesellare e dettagliare elenchi di virgole, punti e citazioni di Anassagora, per avanzare dubbi e distinzioni.
Ora, preparo la valigia per rientrare a casa: domani ho lezione di judo. A proposito, il 27 non ci sarò: ho l'esame di cintura bianca. Prendo lezioni da vent'anni e mi sembra un traguardo notevole per velocità."

mercoledì 25 marzo 2015

LE TRE SINISTRE


MARC LAZAR
La Repubblica 25 marzo 2015
Gli attacchi contro Matteo Renzi durante la riunione della sinistra del Partito democratico, sabato scorso a Roma, non sono il segno di un fenomeno tipicamente italiano, ma testimoniano di un processo generale, in atto in molti partiti della sinistra europea — ad esempio in Francia e in Spagna — anche se con lievi differenze da un Paese all’altro. Per lungo tempo la sinistra europea era organizzata in due grandi famiglie, la prima riformista, l’altra rivoluzionaria e radicale; mentre oggi le sue diverse sensibilità la suddividono in tre principali settori, uno dei quali manifesta una chiara perdita di velocità.
Il primo, quello della sinistra liberale e pragmatica, è incarnato in maniera quasi emblematica da Matteo Renzi. Deliberatamente post-ideologico, il primo ministro ha già proclamato più volte di ritenere superata la divisione sinistradestra: per lui contano solo le riforme economiche, amministrative e politiche necessarie al rilancio dell’Italia e dell’Europa. Ispirandosi al metodo della triangolazione, caro a Bill Clinton, che consiste nell’impossessarsi dei temi dell’avversario, Renzi si propone di attirare elettori dal centro-destra e da categorie normalmente poco inclini a votare a sinistra. Per lui il partito del XXI secolo non avrà più nulla a che vedere col classico partito di massa nato alla fine del’800, con strutture rigide e una forte dottrina, radicato nella società, con numerosi iscritti. Ma non sarà neppure il partito acchiappa-tutto della seconda metà del secolo scorso, che cercava di ammorbidire la propria dottrina per conquistare fasce sociali diversificate.
Il partito moderno è quello del leader che si rivolge agli individui, grazie al suo carisma e a tutti i moderni mezzi di comunicazione. Un leader forte, talora decisionista, al limite dell’autoritarismo, capace se occorre di giocare una carta populista per cercare di ridestare nei cittadini più diffidenti verso le istituzioni e per i loro dirigenti il gusto della politica. In breve, una sinistra che si adatti alle mutazioni di società più individualiste, e alle odierne “democrazie del pubblico” — pur continuando a richiamarsi ad alcuni suoi valori storici: l’uguaglianza — distinta però dall’egualitarismo — o la giustizia sociale, per orientare la propria azione pubblica. In questo senso Manuel Valls in Francia, pur con la sua peculiare personalità e le sue singolarità, è vicino a Matteo Renzi.
A questa sinistra se ne contrappone un’altra, in maniera sempre più dura e violenta: quella radicale, che afferma di incarnare la “vera sinistra”. Presente in Italia con Sel, e da ultimo con Maurizio Landini, e in Francia col Front de gauche di Jean-Luc Mélenchon, questa “sinistra della sinistra”, incoraggiata dal successo di Syriza in Grecia e dall’avanzata di Podemos in Spagna, ricorre a una retorica della rottura radicale col liberismo, con l’Unione Europea e coi partiti tradizionali; ma in concreto propone un programma di difesa del welfare, o magari la sua estensione, e un’ampia ridistribuzione sociale. Anche questo schieramento, che dispone di forze variabili, manifesta in ciascun Paese le sue particolarità, cercando ovunque di affermare la propria autonomia politica. E si sforza di crearsi, a seconda dei sistemi elettorali in vigore, uno spazio elettorale suo proprio — a volte col rischio di seguire una strategia suicida, come in Francia in occasione delle elezioni dipartimentali: di fatto, qui il Front de gauche ha contribuito all’indebolimento del Partito socialista, rimanendo a sua volta sconfitto. Tutto ciò ha scavato un fossato sempre più profondo, quasi incolmabile, tra queste due sinistre, a beneficio (tranne che in Italia, almeno per ora) delle formazioni populiste di estrema destra, così come di quelle che rifiutano di collocarsi su quest’asse.
Esiste infine una terza sinistra, strattonata tra le due prime e molto eterogenea: quella di mezzo. In Italia fa capo a D’Alema, Bersani, Cuperlo e Civati, e attacca Renzi sia per la sua gestione del partito, sia per alcune sue riforme (anche se non tutte) e il suo metodo di governo. Per il momento questo gruppo conduce la propria battaglia all’interno del Pd e non pensa a una scissione, anche perché il suo margine di manovra è troppo stretto. Lo stesso avviene in Spagna con Izquierda socialista in seno al Psoe, o in Francia con la “fronda” del Ps, più influente, in seno al suo partito, della sinistra Pd, che si contrappone a Valls e a Hollande, ma in fondo non ha una vera alternativa da proporre. Non è né social-liberale, né radicale di sinistra. Questi ninistes ( da ni, che in francese vuol dire né) si proclamano socialdemocratici, nel momento stesso in cui le ricette della socialdemocrazia sono in crisi, sia per la concezione del partito che per l’azione al governo. Presi come in una tenaglia tra due poli — la sinistra social-liberale e quella radicale — sono alla ricerca di un’identità perduta.
Oggi questa tripartizione squilibrata, che illustra l’importante evoluzione in atto in seno alla sinistra europea, sta disorientando elettori e simpatizzanti. Ma indubbiamente preannuncia, in un futuro più o meno prossimo, importanti ricomposizioni politiche e drammatiche rotture. (Traduzione di Elisabetta Horvat)

martedì 24 marzo 2015

LA LETTERA CORRUZIONE, CHE COSA SI PUÒ FARE SUBITO

La Repubblica 24 marzo 2015
SERGIO EREDE E ALESSANDRO MUSELLA*
Caro Direttore, la lotta alla corruzione è più che mai una priorità per l’Italia. Non soltanto per l’emergere dell’ennesimo nuovo filone di indagini, ma soprattutto perché la riduzione del fenomeno corruttivo è essenziale per sostenere i segnali positivi di ripresa economica (Roubini nell’intervista a Repubblica del 15 marzo).
Quest’ultima si consolida solamente con un aumento significativo degli investimenti e al momento in Europa manca una propensione agli investimenti del capitale privato sufficiente a sostenere, da sola, la ripresa. Ci vogliono dunque nuovi e significativi investimenti pubblici (Mariana Mazzucato su Repubblica del 16 marzo), i quali però sono di dubbia efficacia in presenza di elevati livelli di corruzione (Centro Studi Confindustria, dicembre 2014).
Per consolidare la ripresa economica è quindi necessario quello che Roubini ha efficacemente chiamato un “attacco frontale” alla corruzione. Questa offensiva è peraltro necessaria anche per combattere le mafie e la criminalità organizzata (Procuratore antimafia Scarpinato).
Per questi obiettivi servono senza dubbio le nuove norme penali che ci raccomandano da tem- po le principali organizzazioni internazionali (Onu, Consiglio d’Europa e Ocse) e delle quali tanto si parla e poco si è realizzato. Occorre il coraggio di adottare, in un colpo solo, tutte le regole che — anche a livello internazionale — sono considerate indispensabili, con riguardo almeno ai seguenti punti: 1) estensione della durata e interruzione/sospensione della prescrizione; 2) pene e sanzioni economiche efficaci e dissuasive (inclusa l’estensione ai reati di corruzione delle misure di sequestro/confisca previste dal Codice Antimafia); 3) reintroduzione del falso in bilancio; 4) non-punibilità per chi si auto-denuncia e collabora con la giustizia; 5) procedibilità d’ufficio per la “corruzione tra privati”; 6) estensione dell’ambito di ammissibilità delle intercettazioni per i reati contro la pubblica amministrazione. Il ddl Grasso in parte andava in queste direzioni, ma nel suo lungo e ancora incompiuto iter parlamentare è stato progressivamente svuotato e gravemente indebolito.
Ma ancor più urgentemente serve un piano governativo di azioni concrete che, in tempi brevi, riduca il “prelievo” di 60 miliardi l’anno gravante sul nostro Pil a causa della corruzione (stime Commissione europea e Corte dei Conti). È quasi superfluo sottolineare l’effetto positivo che tale piano potrebbe avere sulla fiducia degli investitori esteri, inducendoli a considerare nuovi investimenti in Italia, anche in associazione con investimenti pubblici.
Un piano governativo anticorruzione si può fare subito, perché non richiede un iter parlamentare, se non in misura limitata. Il piano può essere insomma la vera cartina di tornasole della effettiva volontà del Paese di segnare rapidamente una svolta decisiva contro la corruzione.
Oggi in Italia esiste un “piano anticorruzione” emanato dall’Anac (l’Autorità per la prevenzione della corruzione nella pubblica amministrazione, presieduta dal Dott. Cantone): si tratta di uno strumento importante, che però è focalizzato sulla prevenzione, è limitato al settore delle pubbliche amministrazioni (anche se — come anticipato da Repubblica il 23 marzo — verrà esteso alle società a partecipazione pubblica) e richiede tempi lunghi per dare risultati tangibili.
La lotta alla corruzione impone azioni concrete a 360 gradi, anche in tema di repressione, prevenzione verso le imprese private, riorganizzazione amministrativa e comunicaziovamo ne. Per tutto ciò serve quindi un piano di azioni più ampio, che vada oltre le ristrette competenze dell’Anac e che provenga direttamente dal Governo.
Un buon esempio pratico cui ispirarsi è il piano anticorruzione recentemente adottato dal governo inglese, che consta di 66 azioni specifiche, tutte ispirate alla best practice internazionale e articolate sulle aree fondamentali di contrasto alla corruzione. Ciò che colpisce molto positivamente di questo piano è la sua concretezza e la ferma volontà, che esprime in modo convincente, di combattere la corruzione attraverso l’assunzione di un impegno incondizionato proveniente direttamente dal governo.
Nessun governo italiano ha mai fatto nulla di paragonabile, ma un piano di questo tipo potrebbe davvero segnare una svolta di grande impatto.
Un piano anticorruzione italiano, sulla base dell’esempio inglese, dovrebbe agire almeno sulle seguenti aree: 1) Scoperta e repressione: potenziamento dell’attività di “intelligence”, mediante creazione anche in Italia di un’unità investigativa dedicata all’anticorruzione e al sequestro/confisca dei patrimoni di corrotti e corruttori; impiego di banche dati e dei sistemi informatici di fraud detection ormai disponibili sul mercato (sistemi in grado di scoprire “Red Flags” di possibili condotte illecite su cui investigare); impiego di agenti infiltrati; rafforzamento del whistleblowing , mediante un ufficio pubblico dedicato a raccogliere le denunce di corruzione anche via internet (come l’“Office of Whistleblower” degli Stati Uniti), che garantisca ai denuncianti protezione, anonimato e una ricompensa economica commisurata al beneficio ottenuto dallo Stato.
2) Prevenzione: ulteriori azioni per dare concretezza ed effettività al piano di prevenzione varato dall’Anac (in particolare favorendo l’implementazione effettiva e rapida dei principali presidi previsti da tale piano, in tema di nomina dei responsabili della prevenzione, trasparenza, “Whistleblowing” e formazione); azioni specifiche di prevenzione per singoli settori “a rischio”, come “grandi opere”, sanità, previdenza, fisco, giustizia, ecc., prendendo a base i vari studi che già esistono.
3) Collaborazione delle imprese: incentivare le imprese private ad adottare programmi di compliance anticorruzione e ad aderire a “iniziative collettive” contro la corruzione, per esempio condizionando all’adozione di tali misure l’accesso ad appalti, concessioni e finanziamenti pubblici; i programmi anticorruzione sono volti a prevenire e, in ogni caso, a scoprire tempestivamente e neutralizzare eventuali condotte corruttive di esponenti di un’impresa. A livello internazionale tutte le maggiori imprese adottano e attuano seriamente questi programmi ed esistono ormai numerose guide emesse dalle maggiori organizzazioni (Onu, Ocse, Icc, World Bank, Transparency, ecc.) che spiegano come i programmi devono essere strutturati, attuati e anche monitorati per verificarne la serietà; le “iniziative collettive” consistono in un patto tra un gruppo di imprese con cui ciascuna di esse si impegna ad astenersi da qualsiasi pratica corruttiva e accetta di subire sanzioni in caso di violazione di questo obbligo; la diffusione delle “iniziative collettive”, insieme con l’adozione dei programmi di compliance anticorruzione, può ridurre in modo drastico le dimensioni del fenomeno corruttivo, poiché riduce la platea delle imprese inclini alla corruzione e le emargina dal mercato.
4) Riorganizzazione amministrativa: rafforzare il sistema dei controlli (troppo depotenziato fin dalla riforma del 1994); ridurre i tempi dei procedimenti decisionali delle amministrazioni; ampliare gli istituti di interlocuzione dell’amministrazione con i privati, rendendo più trasparente ogni rapporto; razionalizzare e ridurre i centri decisionali, in modo particolare nei settori più a rischio di corruzione.
5) Comunicazione: campagna di informazione e sensibilizzazione, per segnare una svolta culturale nel Paese e per incentivare l’adesione dei cittadini e delle imprese alle azioni previste dal piano; sradicare dalla cultura italiana la indulgenza e auto-indulgenza verso la corruzione che sono tra le cause della situazione attuale; stimolare il ricorso dei cittadini al whistleblowing , facendo comprendere che la corruzione non va tollerata, ma anzi va denunciata a tutti i livelli.
Insomma, è giunto il momento di uscire dagli equivoci. Non è più credibile dire di voler combattere la corruzione e limitarsi a varare nuove norme penali a macchia di leopardo, che nascono già deboli a causa dei compromessi politici che le precedono. Le norme che ancora servono vanno tutte adottate, senza limitazioni e in tempi rapidi. Ma ancor più rapidamente, deve essere varato un piano di azioni concrete contro la corruzione, un piano su cui il Governo deve “mettere la faccia” per dare un messaggio inequivocabile di svolta. Un tale piano può essere decisivo non solo perché capace di produrre effetti di prevenzione e dissuasivi in tempi molto più brevi delle norme penali, ma anche e, soprattutto, perché in grado di produrre un impatto immediato sull’opinione degli investitori e della comunità internazionali e sulla loro propensione a investire nel nostro paese, così sostenendone la ripresa economica.
* Avvocati