giovedì 31 luglio 2014

Urgente!!!! Cambiare verso!!!

Sebastiano Messina
La Repubblica 31 luglio 2014 


Il Presidente estivo

Da ieri sappiamo che c'è un portone, a Roma, oltre il quale non arriva neanche il rumore della crisi. E' il portone della Corte Costituzionale, i cui giudici hanno solennemente eletto ieri un nuovo presidente -Giuseppe Tesauro- che però resterà in carica solo per tre mesi. Ormai è la prassi.
Invece di scegliere un presidente che rappresenti autorevolmente la Corte per qualche anno, i giudici eleggono il collega che sta per scadere. Sapendo che così poi toccherà ad ognuno di loro, o quasi, il titolo di "presidente", e quindi di "presidente emerito". Insieme, naturalmente, allo stipendio di 549.407 euro (pari al triplo del collega della Corte Suprema americana) e alla corrispondente, generosa pensione presidenziale. Attingendo alla quale possono pubblicare anche un libro: un pamphlet contro la casta, per esempio

mercoledì 30 luglio 2014

La dittatura delle minoranze


Internazionale 30 luglio 2014
Gerhard Mumelter

È impossibile spiegare a un lettore straniero com’è possibile che un partitino agonizzante come Sel possa bloccare il parlamento italiano con oltre seimila emendamenti alla riforma costituzionale. Un partitino che nei sondaggi viaggia sul 2 per cento e nel quale una taliban come Loredana De Petris ha firmato di propria mano oltre cinquemila emendamenti per diventare l’eroina dell’ostruzionismo trasversale.
L’Italia ha perso 9 punti di pil, ha sei milioni di poveri, il tasso di disoccupazione giovanile sta arrivando al 40 per cento, la situazione economica rimane drammatica. Ma questa emergenza non sembra minimamente contagiare l’aula foderata di palazzo Madama, che somiglia a un circo: cori da stadio, scene isteriche, insulti volgari, accuse di fascismo e dittatura strisciante e l’invito imbarazzante di Vito Crimi del Movimento 5 stelle a “tirare fuori le palle”. Il vergognoso caos al senato conferma la vocazione italiana al teatrino politico, alle beghe ideologiche, la predilezione per le barricate e il muro contro muro. La passione per i cavilli, commi, sofismi e cortocircuiti per rallentare le votazioni a tutti i costi.
Mentre in altri paesi in tempi di crisi si antepongono gli interessi del paese alle differenze politiche, ideologiche o religiose, in Italia si lotta con accanimento per affossare ogni cambiamento. L’Italia è un paese all’inverso, che da sempre tollera con benevolenza la dittatura delle minoranze. Per decenni gli italiani si sono piegati alla prepotenza di camionisti e controllori di volo, alle proteste di corporazioni come avvocati o farmacisti, a sindacati che hanno bloccato Pompei per alcune assemblee, ai musei chiusi per scioperi selvaggi, alle prime
di opere e teatri saltate per la protesta di qualche decina di musicisti. Si sono rassegnati all’isterismo e alla prepotenza dei tifosi negli stadi e ai blocchi dei forconi.
È difficile far capire a un lettore straniero l’esultanza del Fatto quotidiano perché il suo “appello contro i ladri della democrazia” è stato firmato dallo 0,2 per cento della popolazione. Con lo slittamento dell’ennesima riforma a settembre, l’Italia si conferma come paese dell’immobilismo, del settarismo e dell’eterna cialtroneria parlamentare. Dove chi cerca di sbloccare il paese deve temere sgambetti da tutte le parti, anche dalla propria.
Un paese in mano a un partito potente, anche se non ufficialmente costituito: quello contro le riforme. E le penose sceneggiate che vediamo quotidianamente in senato non fanno prevedere nulla di buono per il futuro del bel paese.

L’odio verso i cristiani in Medio Oriente. L’Europa non c’è

Pierluigi Castagnetti 
Europa  

Il dovere di “pensare” e aiutare i popoli mediorientali ad accettare le vie della ricostruzione di una geografia politica rispettosa dei diritti di sopravvivenza e convivenza di tutti
Le drammatiche notizie che continuano a pervenire da Israele e Gaza stanno scuotendo il mondo intero, costretto ad assistere pressochè paralizzato perché, ancora a cento anni dall’inizio della prima guerra mondiale, non è riuscito a costruire la forza della politica e della diplomazia nei conflitti internazionali. Anche la “nostra” guerra nacque così, nella distrazione e sottovalutazione delle potenze europee, bloccate dalla convinzione dell’ineluttabilità. E pure oggi, in presenza di una guerra che ha già provocato la morte di oltre mille persone nel cuore dell’Europa, l’Europa sembra assente.
Comunque immobile, come se le cose potessero sistemarsi da sé e non rischiassero invece di innestare nuovi processi di intensificazione e allargamento. Figuriamoci se “questa” Europa, divisa ed egoista, può posare il suo sguardo su quanto sta accadendo nel perimetro del Mediterraneo e nell’entroterra più prossimo. Non basta giustificarsi dicendo che al punto in cui sono giunte le cose non si sa cosa fare. Occorreva – e occorrerà nell’immediato futuro – lavorare perché le cose non giungessero a questo punto, posto che nulla di quanto sta accadendo era imprevedibile.
Anzi, negli ultimi anni alcune delle maggiori potenze europee si sono rese responsabili dell’aggravamento della situazione, come nel caso della guerra in Iraq e dell’improvvisato sostegno a quelle che avrebbero dovuto essere le primavere arabe. Pensare che il modello di democrazia occidentale potesse essere esportato e rappresentare la soluzione per paesi pur oppressi da forme di dittature giustamente inaccettabili ai nostri occhi, senza un esame serio dei diversi contesti e senza una strategia di sostegno effettivo e duraturo è stato un errore.
Da più parti a suo tempo si è sottovalutato (quando non ridicolizzato) l’ammonimento di un profondo conoscitore del mondo arabo e in particolare mussulmano come don Giuseppe Dossetti, secondo cui la lunga memoria di quei popoli, la loro attitudine a sedimentare l’odio, la loro propensione all’uso della violenza come strumento di dominio ed espansione religiosa, avrebbe portato a un continuo rivolgimento degli equilibri in tutta l’area del vicino e Medio Oriente e, da ultimo, alla espulsione progressiva dei cristiani da luoghi per loro sacri.
Ne hanno parlato in queste settimane su Europa tra gli altri Guido Moltedo, Aldo Maria Valli e da ultimo, con un articolo che in effetti è un bellissimo saggio storico, Franco Cardini. Di per sé qualcuno potrebbe pensare che si tratterebbe di una non-notizia poiché i cristiani dovrebbero conoscere e accettare il destino della Croce, ma la politica ha il dovere di altro tipo di ragionamento e responsabilità. Deve cioè intervenire là dove si perpetuano ingiustizie e violenze, e l’espulsione dei cristiani dai loro Luoghi ha un rilievo politico enorme. Non fosse altro perché la loro presenza lì ha il merito e il valore della rappresentazione di un pensiero “altro” rispetto a quello di culture dominanti che non conoscono, o non conoscono in misura sufficiente, i valori del perdono, della solidarietà, della vita, della convivenza, del pluralismo religioso, senza di cui sarà assai difficile cambiare la situazione.
Quanto sta accadendo, nei conflitti fra sciiti e sunniti, fra islamici in genere e curdi, fra islamici e cristiani, fra israeliani e palestinesi, è l’affermazione di un sistema di controvalori rispetto a quelli del cristianesimo. Se tale sistema di controvalori lo si lascia crescere e dilagare, ciò che osserviamo oggi potrà risultare solo la prima parte di un processo che può investire direttamente e indirettamente anche l’Europa.
Anche per ciò la denuncia di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera, sull’“Indifferenza che uccide”, riguardo al fenomeno delle persecuzioni dei cristiani, a causa della perdita in occidente del senso religioso e della paura che paralizza soprattutto l’Europa, è condivisibile, ed evocherebbe – a mio avviso – una iniziativa del nostro governo che, per bocca del suo presidente in varie occasioni, ha mostrato sensibilità e anticonformismo rispetto ad altri governi dell’Unione, e ha anche ottenuto un risultato importante con la liberazione di Meriam, la ragazza sudanese condannata a morte per la sua fede cristiana.
Non c’è dubbio infatti che l’occidente negli ultimi venti anni si è mostrato privo di strategia al riguardo. L’Europa non ne parliamo. Così come non c’è dubbio che se scattassimo una istantanea oggi sul quadro mediorientale, non possiamo che riconoscere che ha ragione Israele nel pretendere di disarmare i palestinesi di Gaza, cioè l’arsenale militare e ideologico che attenta alla sua esistenza (pur non avendo ragione nell’uso sproporzionato di forza militare e nell’assoluto rifiuto di fermarsi di fronte ai drammatici costi umani che esso determina), ma se solo allarghiamo la prospettiva sul piano storico e su quello del futuro prevedibile, non possiamo non renderci conto che di questo passo il conflitto è destinato a sfuggire di mano e ad accumulare ulteriori e ancora più poderosi serbatoi di odio destinati a rendere in primo luogo ancora più insicura l’esistenza “in pace” di Israele stesso. La spirale va fermata sin che si è in tempo.
Cosa accadrebbe infatti se i palestinesi della Cisgiordania aderissero (vi sono già manifestazioni di piazza a Ramallah, piuttosto inquietanti) alla ripetute sollecitazioni provenienti dall’Iran e dal Qatar ad aprire un nuovo fronte? E se (sto parlando di scenari tutt’altro che improbabili) crollasse la Giordania sotto la pressione dei miliziani dell’Isis, i quali sono già penetrati a Mann, a soli 250 kilometri da Amman? Israele si sentirebbe più sicura? Non credo proprio.
Ma torniamo alla riflessione del professor Cardini. Ieri ha scritto che, a un certo punto della storia recente: «La pesante e spregiudicata politica britannica cominciò a diffondere tra le popolazioni arabe un pregiudizio nuovo, per esse prima sconosciuto: l’astio verso gli occidentali. E dal momento che era (e resta) comune la confusione tra Occidente e Cristianità, l’odio antioccidentale si andò traducendo da allora anche in odio indiscriminatamente anticristiano». La guerra contro l’Iraq – aggiungo io – ha fatto il resto. All’odio verso gli ebrei si è così aggiunto quello verso i cristiani.
Ecco perché l’Europa, che nella sua coscienza da un lato porta il peso della shoah e dall’altro è custode di quei valori cristiani che hanno forgiato la civiltà della tolleranza e del pluralismo religioso, ha oggi il dovere di “pensare” e aiutare i popoli mediorientali ad accettare le vie della ricostruzione di una geografia politica rispettosa dei diritti di sopravvivenza e convivenza di tutti.
Accogliendo in tal modo l’appello disperato di tanti donne e uomini di pace guidati da Nurit Peled, cittadina israeliana che ha perso una figlia in un attentato kamikaze, Premio Sakharov dell’Ue: «Noi cittadini di Israele e popolazione senza Stato della Palestina, non possiamo da soli ottenere la fine dell’occupazione e fermare il bagno di sangue. Abbiamo bisogno dell’aiuto di tutta la comunità internazionale e della Unione europea in particolare…».

Cristiani d’Oriente, le colpe dell’Occidente

Franco Cardini 
Europa  

Nel Vicino e Medio Oriente comunità antichissime sono costrette a lasciare le proprie terre perché viste come nemiche e caricate di colpe non loro
Ci sono un dramma antico e una tragedia attuale nella storia dei “cristiani d’Oriente”: e più precisamente forse delle “Chiese cristiane arabe”, dal momento che nel mondo genericamente definibile come “orientale” (un aggettivo che copre in realtà una serie di oggetti molto diversi fra loro) noi siamo usi a comprendere non solo i fedeli locali asiatici e nordafricani della Chiesa cattolica e di quelle riformate, quanto più specificamente quelli di Chiese detentrici di una loro lunga tradizione.
E qui c’imbattiamo in comunità cristiane molto antiche, appartenenti a etnie che addirittura hanno abbracciato il cristianesimo prima dell’impero latino o che comunque sono state riconosciute dai potentati dei loro paesi in tempi precedenti rispetto alla cristianizzazione formale dell’impero romano, verificatasi alla fine del IV secolo.
Alludiamo qui alla Chiesa armena e a quella copta d’Etiopia e di Nubia, peraltro collegata a quella copta ma araba d’Egitto, e alla Chiesa nestoriana persiana diffusasi in Siria, Iraq e Kurdistan a occidente, in India e in Cina a oriente.
Un altro caso ancora sarebbe quello delle Chiese etniche dell’arco caucasico – la georgiana, l’osseta, l’“albana” azerbagiana –, a lungo contese tra disciplina greca e autocefalia locale.
Chiese cristiane arabe
Limitiamoci qui però ad alcune considerazioni riguardanti le Chiese cristiane etnicamente, linguisticamente, culturalmente e liturgicamente parlando “arabe” o appartenenti ad etnie a quella araba molto vicine (come l’aramaico-siriaca e la caldea) e oggi si può dire ad essa ormai assimilate.
Le genti arabe, riunite in tribù nomadi disseminate tra la “Fertile Mezzaluna” (vale a dire l’arco fertile delle rive dei fiumi Eufrate e Oronte, a nord del deserto detto appunto “arabico”, e quel deserto stesso), erano a lungo vissute ai margini degli imperi romano e persiano senza mai lasciarsi davvero inquadrare in alcuno di essi e dando talora luogo a “regni” che avevano come capitali città carovaniere (come Palmyra in Siria, o Petra capitale dei nabatei, nell’attuale Giordania, o Sanaa capitale dei sabei nell’antica Arabia felix, lo Yemen odierno).
Il cristianesimo dovette diffondersi abbastanza presto tra gli arabi, e fino a tempi recenti alcune tribù nomadi tra Giordania e Arabia saudita hanno mantenuto un loro “coroepiscopo”, vescovo appunto di una diocesi “nomade” che coincideva con l’area interessata dalla loro transumanza.
Il Concilio di Calcedonia
Una prima distinzione importante, tra le Chiese arabe come tra quelle orientali in genere, si stabilì con il Concilio di Calcedonia del 451, allorché da un lato si condannò l’eresia monofisita (il che allontanò dalla Chiesa protetta dall’impero i “copti” egizi, nubiani, etiopi nonché i “giacobiti” siriani e i monofisiti armeni), dall’altro si sancì la superiorità del patriarcato di Costantinopoli su quelli antiocheno e alessandrino, che nel precedente Concilio di Nicea del 325 si erano vista riconoscere pari dignità rispetto a quello.
Da allora, i fedeli siro-caldeo-arabi chiamarono “melkiti” (dal termine malik, che nelle loro lingue affini significa, con qualche variante, “re”: e allude evidentemente al balileus, all’imperatore regnante in Costantinopoli) gli appartenenti alle comunità ecclesiali che si erano dichiarate fedeli al dettato conciliare calcedoniense e che per questo si distinguevano tanto dalle comunità cristiane che erano rimaste invece fedeli alla dottrina nestoriano-eutichiana già condannata nel precedente concilio di Efeso del 431 (e che dal canto loro, in area persiana, erano ben liete di essere suddite del Gran Re sasanide) quanto da quelle monofisite.
Ma nel corso del VII secolo tutto il mondo arabo fu sommerso dall’ondata musulmana e, in massima parte, convertito all’Islam. Il nuovo potere non mostrò particolare preferenza per le diverse confessioni cristiane presenti nella sua compagine, salvo trattare occasionalmente i cristiani “melkiti” con maggior severità nella misura nella quale essi sembravano guardare ancora come al loro centro al patriarcato costantinopolitano, quindi all’impero romano d’Oriente al quale l’Islam aveva peraltro strappato Egitto, Siria, Armenia e parte dell’Anatolia.
Il potere islamico
Ma in linea generale i cristiani soggetti al potere islamico erano considerati come gli ebrei e gli zoroastriani ahl al Kitab (“popoli del Libro”, depositari di una Scrittura d’origine profetica) e quindi dhimmi, “sottomessi-protetti”, autorizzati a convivere in pace con i musulmani pur dovendo pagare certe tasse ed essendo soggetti ad alcune restrizioni.
I due califfi musulmani che allora si dividevano l’obbedienza dei fedeli, il sunnita abbaside di Baghdad e lo sciita fatimide del Cairo, si disinteressarono della faccenda anche allorché, con lo “scisma d’Oriente” del 1054, i cristiani “calcedoniani” si divisero in fedeli alla Chiesa romana – che, autodenominatisi “cattolici”, mantennero nel mondo arabo la denominazione di “melkiti” pur conservando tanto la liturgia greca diffusa in tutto l’Oriente quanto gli usi disciplinari greci ad esempio il matrimonio nel basso clero “secolare” – mentre da allora in poi le comunità rimaste fedeli al patriarcato di Costantinopoli furono dette “ortodosse”: entrambi, peraltro, mantennero il greco come loro lingua liturgica, alla quale accostarono anche l’altro. L’odierna Gaza, ad esempio, dispone di un vescovo arabo “ortodosso”, è quindi sede di diocesi, mentre i “melkiti” (vale a dire gli arabi cattolici di rito greco) hanno solo una parrocchia in quanto al sede vescovile è vacante dal 1964.
Vivere in terra musulmana
I cristiani d’Oriente viventi in terra musulmana, per quanto formalmente protetti dal diritto coranico che ne sancisce però al tempo stesso l’inferiorità giuridica, hanno vissuto – come accadde nella penisola iberica fra VIII e XV secolo – in modo di solito tranquillo, esercitando prevalentemente i mestieri del mercante, dell’artigiano, del contadino e negli ultimi secoli anche qualche professione “liberale” (molti erano medici: per quanto in quello specifico ramo i più esperti e reputati fossero senza dubbio gli ebrei).
Ciò non toglie che, per ricorrenti periodi, essi siano stati vittime occasionali di sommosse o pogrom: come nell’Egitto dell’inizio dell’XI secolo, quando furono perseguitati dal califfo al-Hakim (il fondatore della setta drusa) che distrusse anche la chiesa della Resurrezione a Gerusalemme), nella Spagna dei secoli XI e XII secolo sotto le dinastie rigoriste degli almoravidi prima, degli almohadi poi, o ancora in Libano e in Siria durante il secolo XIX secolo, nonostante la protezione loro accordata dai sultani ottomani. La loro condizione fu comunque senza dubbio migliore di quanto non fosse ad esempio quella degli ebrei nell’Europa medievale e moderna, fino al Sette-Ottocento, per non parlare della Russia zarista.
L’antica Ninive
Mosul, sull’alto Tigri, si trova a poca distanza dall’insediamento dell’antica Ninive, la splendida capitale dell’antico impero assiro, ed è insieme con Aleppo una delle due principali metropoli di quell’area che, corrispondendo appunto all’Assiria storica (dal nome della quale proviene quello moderno di “Siria”), fu organizzata dai califfi abbasidi come governatorato a capo del quale fu posto un funzionario turco (atabeğ, cioè “padre dei beğ”) a sua volta nel XII secolo fondatore di una dinastia, gli “zenqidi”, che ebbero al loro servizio un geniale ufficiale turco, Yusuf ibn-Ayyub, che noi conosciamo come “il Saladino” e che nella seconda metà del secolo avrebbe unificato Siria ed Egitto e cacciato i crociati da Gerusalemme.
I musulmani dell’area di Mosul erano e sono restati tradizionalmente sunniti, ma non tutti sono arabi: la città è difatti anche centro di un grande insediamento curdo e avrebbe dovuto far parte di un “Kurdistan” che peraltro alla fine della prima guerra mondiale non fu mai fondato in quanto gli inglesi, che sulla base di un accordo franco-britannico del ’16 occupavano quell’area, lo eressero con il nome di Iraq in regno assegnandolo a Feisal, uno dei figli dello “sceriffo” hashemita Hussein della Mecca, loro alleato.
Mosul, artificialmente staccata dal suo contesto siriaco, fu negata anche ai curdi, per i quali il sultanato ottomano aveva previsto un particolare vilayat (“governatorato”) ma che invece furono distribuiti arbitrariamente tra Siria, Turchia, Iraq e Iran. Quanto a Mosul, essa interessava in particolar modo agli inglesi in quanto capitale, con la vicina Kirkuk, di un importante distretto petrolifero.
La pesante e spregiudicata politica britannica cominciò a diffondere tra le popolazioni arabe un pregiudizio nuovo, per esse prima sconosciuto: l’astio per gli occidentali. E, dal momento che era (e resta) comune la confusione tra Occidente e Cristianità, l’odio antioccidentale si andò traducendo da allora anche in odio indiscriminatamente anticristiano.
Il regime di Saddam Hussein
Il regime “baathista” iracheno imposto da Saddam Hussein ispirato al “socialismo arabo” e quindi, come noi usiamo impropriamente dire, “laico”, aveva tenuto a bada l’anticristianesimo dei gruppi musulmani radicali: per l’ideologia nazionalista del “Baath”, contava anzitutto l’essere cittadini iracheni al di là di religioni e di confessioni.
Ma il rovesciamento di quel regime, nel 2003, ha ricondotto con violenza in primo piano tanto la rivalità arabo-curda, quanto quella sunnito-sciita all’interno dell’Islam e, infine, quella anticristiana dei gruppi che adesso si richiamano al radicalismo sunnita nell’àmbito della guerra civile che oppone il governo di Nuri al Maliki (gestito – con paradossale esito dell’aggressione e dell’occupazione statunitense – da sciiti che guardano con simpatia all’Iran e alla Russia, pur restando collegati alla tutela statunitense e sostenuti dai “consiglieri militari” inviati da Obama) ai ribelli sunniti – tanto jihadisti quanto saddamisti (un’alleanza a sua volta paradossale) – che tra Iraq settentrionale e orientale hanno proclamato lo “stato islamico” ed eletto califfo il loro leader al Baghdadi, sia della situazione determinatasi in alcuni paesi africani. Vediamo un po’ più da vicino questi due casi.
La restaurazione del califfato
La notizia della “restaurazione del califfato” (o meglio, dell’instaurazione di un nuovo califfo) da parte dei cosiddetti mujahidin – vale a dire “impegnati in uno sforzo gradito a Dio” – dell’area di confine fra Turchia, Siria e Iraq, è stata diffusa alla fine del giugno 2014.
I “jihadisti” che hanno la loro roccaforte nelle province sunnite dell’Iraq settentrionale (a diretto contatto con i curdi, sunniti anch’essi, ma non arabi) vi hanno fondato una Dawla Islamiya fi Iraq wa Shark, espressione grosso modo traducibile in inglese come Islamic State of Iraq and Levant e da allora conosciuto dai media occidentali con le incerte sigle di Isil o Isis (a seconda che vi si privilegi al parola inglese Levant o quella araba Shark).
Il “Levante” iracheno corrisponde, piuttosto, all’area nordorientale, con i centri di Mosul (occupata nei primi di giugno dai jihadisti), Erbil (in mano alle forze governative del governo di Bagdad) e Kirkuk (difesa dalle milizie curde peshmerga).
Mosul e Kirkuk sono importanti centri di estrazione petrolifera. I miliziani jihadisti, che nella prima metà di giugno avevano occupato anche Tikrit e che, presa Mosul la quale non è lontana né dal confine siriano né da quello turco, minacciano anche la Siria e la Turchia, hanno quindi unilateralmente fondato una vera e propria Dawla Islamiyya (cioè un Islamic State, IS, definito tout court tale), che nelle intenzioni dovrebbe raccogliere tutti i fedeli musulmani del mondo e ricostituire l’umma, la comunità musulmana nel suo complesso: in altri termini, hanno fondato un califfato.
Il nuovo califfo porta il nome del primo califfo dell’Islam, Abu Bakr, suocero del Profeta in quanto padre della di lui prediletta moglie A’isha: si tratta difatti di Abu Bakr al Baghdadi, appunto leader dell’IS.
Il nuovo volto dell’Islam
Lo speaker dell’organizzazione, Abu Muhammad al Adnani, ha sottolineato l’importanza di questo evento, che conferirebbe un volto nuovo all’Islam, e ha esortato i buoni fedeli ad accoglierlo respingendo la “democrazia” e gli altri pseudovalori che l’Occidente proclama.
Alcuni “esperti” hanno commentato che siamo dinanzi al più importante sviluppo del jihad musulmano dopo l’11 settembre del 2001 e che il nuovo califfato potrebbe addirittura travolgere gli equilibri vicino e mediorientali e rappresentare un’effettiva minaccia per la leadership di al-Qaeda. Il che appare alquanto improbabile se non surreale, dal momento che quella galassia di organizzazioni radicali che convivono sotto la denominazione, appunto, di al Qaeda, e che se ne disputano accanitamente la gestione, trova appunto nell’IS a tutt’oggi una delle sue espressioni più coerenti e meno aleatorie.
I rapporti del governo al Maliki con Usa, Russia, Siria e Iran
Dal canto suo il governo ufficiale iracheno, guidato da Nuri al Maliki e a tutt’oggi in una posizione alquanto ambigua – resta nell’orbita degli Stati Uniti che ne hanno determinato la nascita con la loro aggressione del 2003 all’Iraq di Saddam Hussein, ma è espressione delle comunità irachene sciite che in quanto tali guardano con simpatia alla Siria di Assad e all’Iran – è impegnato in una controffensiva tesa a recuperare i territori che gli uomini dell’IS gli hanno strappato con l’offensiva del 9 giugno scorso e si sta per questo coordinando con trecento “consiglieri militari” statunitensi; intanto però ha accettato dalla Russia una fornitura di dodici cacciabombardieri Sukhoi che gli consentirebbero di contrastare concretamente i guerriglieri dell’IS, mentre l’aviazione siriana ha già avviato alcuni raid contro gli uomini del nuovo califfo e l’Iran ha provveduto o sta per provvedere il governo di al Maliki di alcuni droni.
È ovvio che lo sciita al Maliki non sia scontento di questo appoggio russo-siro-iraniano; e il quadro è chiaro e perfetto se si aggiunge che l’esercito dello IS è appoggiato da equipaggiamenti e da finanziamenti degli emirati del Golfo. La situazione, che allarma per motivi differenti i governi di Ankara, di Damasco e di Bagdad i quali d’altronde non sono affatto in buoni rapporti reciproci, è complicata dalla posizione di al Nusra, il più forte movimento jihadista siriano, che sta lottando nel suo paese contro il governo di Assad ma che ha creato faticosamente un sistema di alleanze locali che rischia di saltare a causa della strategia “globalista” del califfato iracheno il quale dal canto suo aspira a un peraltro improbabile riconoscimento più ampio.
La conquista di Mosul da parte delle milizie jihadiste dell’Iraq nordorientale ha rappresentato un evento molto grave: non solo in quanto quella città ha una determinante importanza sul piano dell’estrazione petrolifera, ma anche in quanto si tratta di un’antica, colta città di tradizione sunnita, abitata sia da arabi sia da curdi e sede di una fiorente comunità cristiana “caldea” (vale a dire cattolica, del tipo che altrove appunto si definirebbe “melkita”, ma che usa nella liturgia l’antico aramaico), che nel 2003 – all’atto cioè dell’aggressione statunitense contro l’Iraq di Saddam Hussein – contava ben 35.000 fedeli, mentre nel decennio successivo è scesa a 3.000 (diminuendo cioè di oltre il 90%).
Va detto che in Iraq, accanto alla Chiesa “caldea” che aderisce al cattolicesimo, esisteva ed esiste una Chiesa detta “assira”, di confessione monofisita.
A Mosul i cristiani hanno abbandonato le loro case
I cristiani locali hanno abbandonato tutti le loro case di Mosul, ma sono stati fatti oggetto da parte degli jihadisti di furti e di violenze e minacciati di morte in caso intendessero tornare nella loro terra, ormai dichiarata totalmente islamica.
Il 21 luglio 2014, a Bagdad, è stata celebrata una messa per chiedere a Dio di proteggere le comunità cristiane profughe e minacciate: vi hanno preso parte anche molti musulmani (sciiti in maggioranza; ma anche sunniti) che inalberavano cartelli e indossavano T-shirt recanti la scritta di solidarietà “Sono un iracheno, sono un cristiano”.
D’altronde, il fenomeno dell’esodo cristiano si sta producendo dappertutto nel Vicino e Medio Oriente.
A Gaza i cristiani palestinesi visti come traditori
A Gaza, dove esiste un’ottima scuola cristiana guidata da un sacerdote argentino, padre Jorge Fernández, i cristiani locali (tra cattolici e greco-ortodossi) erano 3000 nel 2009, ridotti nel 2014 a 1300. Hamas è ormai riuscita a fare della causa nazionale palestinese, alla quale i cristiani locali aderivano in quanto arabi ben consci della loro identità etnica, una causa musulmana: e non è quindi raro che i cristiani locali, che gli israeliani considerano pericolosi in quanto palestinesi, siano visti ormai come “traditori” e come “nemici” dai loro compatrioti musulmani.
È questo un aspetto particolarmente ingiusto e doloroso dell’intera questione riguardante i cristiani d’Oriente, ai quali troppo spesso viene fatto carico di colpe non loro, bensì originate dalle antiche e nuove violenze poste in atto dal mondo occidentale, che dal canto suo non è ormai nella sua maggioranza più, se non formalmente e “sociologicamente”, cristiano.

L’involuzione di Sel, fotocopia di Grillo

Stefano Menichini 
Europa  

Dal dibattito interno sui rapporti col socialismo europeo, all'ostruzionismo non contro la riforma ma contro il Pd. Così Vendola ha scelto l'incompatibilità con Renzi.
I giochi si sono scoperti appena si è aperto uno spiraglio per le modifiche possibili. Ed è uscita fuori una verità che francamente era evidente da tempo: né Sel né tanto meno Cinquestelle hanno il minimo interesse al merito della riforma della politica e delle istituzioni. La battaglia di palazzo Madama ha esclusivamente l’obiettivo politico dell’indebolimento di Matteo Renzi, del governo e del Pd. E quindi avrà conseguenze innanzi tutto politiche (considerando che, con qualche giorno o qualche settimana di ritardo, il destino del senato elettivo è comunque segnato): la fine di qualsiasi ipotesi di alleanze con i democratici.
Due cose, tra le tante, si sono dette e scritte all’indomani delle elezioni europee. Una si è realizzata in pieno: Renzi è ripartito da quel 40,8 per cento convinto di avere una responsabilità e un urgenza nuove, un mandato stringente a realizzare gli impegni assunti sull’ammodernamento del sistema istituzionale.
L’altra previsione del dopo-europee si sta confermando in queste ore: gli sconfitti nella prova elettorale avrebbero cercato appena possibile la rivincita in un parlamento dove i numeri sono ancora quelli del febbraio 2013.
Questo e non altro è il senso dell’ostruzionismo contro la riforma Boschi. La strada l’hanno aperta i cosidetti dissidenti del Pd, creando il clima d’opinione nel quale può circolare (senza suscitare particolare allarme sociale) la paradossale parola d’ordine del colpo di stato. Ma Chiti, per quanto possa sbagliare, è persona seria. E quando ieri su sua iniziativa (dopo la lettera di Renzi) sembrava riaprirsi lo spazio del dialogo e del miglioramento dei testi, ciò che è rimasto sul terreno, ben visibile, è appunto il nucleo di un’opposizione non alle riforme bensì ai nuovi equilibri politici e alle speranze che hanno suscitato nel paese.
Alla luce dell’irrigidimento vendoliano si capiscono meglio le ragioni della scissione che ha colpito quel partito. Da quando dentro Sel si dibatteva sui rapporti col socialismo europeo, l’involuzione è clamorosa. Troppo netta per non causare conseguenze. Il profilo di un partito che voleva interpretare «una sinistra di governo» è tornato a somigliare ai gruppi extraparlamentari di una volta, che del resto sono la provenienza di alcuni dirigenti: un’entità politica il cui spazio elettorale, stante M5S, è da verificare; ma che appare totalmente inconciliabile con il progetto del Pd per l’Italia.

martedì 29 luglio 2014

La Madonna si inchina al covo del padrino processione shock tra i vicoli di Ballarò


SALVO PALAZZOLO
La Repubblica - 29/7/14

Il caso. Il boss Alessandro D’Ambrogio è in carcere a Novara ma domenica, a Palermo, la sfilata del Carmine gli ha reso onore davanti al luogo simbolo di Cosa Nostra. La chiesa: “Ancora una sosta anomala”


Un uomo di mezza età, con la casacca della confraternita di Maria Santissima del Monte Carmelo, urla: «Fermatevi». E così la processione della madonna del Carmine si ferma, mentre la banda continua a suonare. La vara tutta dorata di Maria immacolata si ferma davanti all’agenzia di pompe funebri della famiglia del capomafia Alessandro D’Ambrogio, uno dei nuovi capi carismatici di Cosa nostra palermitana. Lui non c’è, rinchiuso dall’altra parte dell’Italia, nella sezione “41 bis” del carcere di Novara, ma è come se fosse ancora qui, tra i vicoli di Ballarò.
Questo accadeva domenica, intorno alle 19: la processione ferma per quasi cinque minuti davanti all’agenzia di via Ponticello, tra la gente in festa per l’arrivo della statua della madonna. Fino a un anno e mezzo fa, in questi uffici arrivavano solo poche persone, scendevano da auto e moto di lusso e si infilavano velocemente dentro. Nell’agenzia di pompe funebri dove la processione si è fermata Alessandro D’Ambrogio organizzava i summit con i suoi fedelissimi, ripresi dalla telecamera che i carabinieri del nucleo investigativo avevano nascosto da qualche parte. Ecco perché questo luogo è un simbolo per i mafiosi di tutta Palermo, il simbolo della riorganizzazione di Cosa nostra, nonostante la raffica di arresti e di processi. Ecco perché il capomafia di Ballarò sembra ancora qui: la processione gli rende omaggio nella sua via Ponticello, a due passi dall’atrio della facoltà di Giurisprudenza dove sono in bella mostra le foto dei giudici Falcone e Borsellino il giorno della loro laurea.
È questa l’ultima cartolina di Palermo. Ancora una volta, diventa sottilissimo il confine fra mafia e antimafia. Quasi non esiste più confine fra sacro e profano. Due anni fa, D’Ambrogio portava orgoglioso la vara di questa madonna con la casacca della confraternita. Adesso è accusato di aver riorganizzato la mafia di Palermo, aver diretto estorsioni a tappeto e traffici di droga milionari. Ma la processione continua a rendergli onore.
I tre fratelli del padrino sono tutti lì, davanti all’agenzia di pompe funebri, per accogliere la festa più importante dell’anno. Franco, con amici e parenti. Iano e Gaetano un po’ in disparte. I fratelli D’Ambrogio non sono mai stati indagati per mafia, ma non è per loro che si ferma la processione. Sembra una sosta infinita, la più lunga di tutto il corteo. Anzi, soste ce ne sono ben poche lungo il percorso. Per i giochi d’artificio o per le offerte di alcuni fedeli. I D’Ambrogio non fanno né fuochi d’artificio, né offerte. Chiedono ai confrati di portare sin sulla statua due bambini della famiglia. Poi, Franco D’Ambrogio saluta con un sorriso. E la processione riprende.
«È stata una fermata anomala», ammette fra’ Vincenzo, rettore della chiesa del Carmine Maggiore. «Anche quest’anno è accaduto», sussurra il giorno dopo la processione. «Io ero avanti, su via Maqueda, stavo recitando il santo rosario. A un certo punto mi sono ritrovato solo. Ho capito, sono tornato indietro di corsa, e ho visto la statua della madonna ferma. Qualcuno stava passando un bambino ai confrati, per fargli baciare la Vergine. Cosa dovevo fare? Era pur sempre un atto di devozione quello. Qualche attimo dopo, la campanella è suonata e la processione è andata avanti».
Adesso, frate Vincenzo cerca con dolore le parole: «Avevo cercato di esprimere concetti chiari durante la preparazione del triduo della Madonna, richiamando tutti al senso di questa processione così importante. Ho detto certe cose nel modo più gentile possibile, per evitare reazioni, ma le ho dette. Ed è accaduto ancora. Cosa bisogna fare?». Il frate va verso l’altare. «Cosa bisogna fare?», ripete. Da quando l’anziano sacerdote si è ammalato lui è solo nella frontiera di Ballarò, che continua ad essere il regno dei D’Ambrogio, nonostante i blitz disposti dalla procura antimafia.
«Da qualche tempo, la Curia si sta muovendo in modo deciso — il tono della voce di fra’ Vincenzo diventa più sollevato — sono stati chiesti gli elenchi dei componenti delle confraternite, e poi il cardinale ha inviato suoi rappresentanti alle processioni ». Anche domenica pomeriggio, a Ballarò, c’era un ispettore inviato dal cardinale Paolo Romeo. Perché Cosa nostra continua ad essere molto legata ad alcune processioni. Uno degli ultimi boss arrestati, Stefano Comandè, era addirittura l’autorevole superiore della Confraternita delle Anime Sante, che organizza una delle più importanti processioni del Venerdì Santo a Palermo. I carabinieri l’hanno fermato alla vigilia di Pasqua, poche ore dopo aver portato in giro per il quartiere della Zisa le statue di Cristo morto e di Maria Addolorata: le microspie hanno svelato che Comandè era fra i registi di una faida che stava per scoppiare. La Curia l’ha rimosso e ha sciolto la confraternita. Anche perché il boss devoto non si rassegnava e dal carcere faceva sapere tramite i familiari: «A giugno faremo un’altra grande processione. E alla confraternita nomineremo una brava persona». Ma questa volta l’intervento della Chiesa è stato severissimo: «Scioglimento della confraternita a tempo indeterminato per infiltrazioni mafiose». È la prima volta che accade in Sicilia.
Alessandro D’Ambrogio, invece, nessuno l’ha ancora sospeso dalla confraternita di Ballarò. Anche il suo vice, Tonino Seranella, è un devoto speciale della processione di fine luglio, pure lui due anni fa spingeva la vara per le strade del popolare mercato palermitano. E le mamme del quartiere facevano a gara per affidare il loro bambino a D’Ambrogio. Era il boss di Ballarò che offriva i piccoli al bacio della madonna del Carmine.



LA SFIDA AL LEADER


MASSIMO L. SALVADORI

Ecco la scena: i leader dei tre maggiori partiti, e non solo, messi di fronte a contestazioni, in parte aperte e in parte coperte, del loro ruolo; le riforme universalmente invocate, ma molte divisioni e sottodivisioni in relazione al volto che queste dovrebbero assumere; la rivendicazione in materia avanzata da dissidenti, collocati trasversalmente, del diritto di ciascun parlamentare di opporsi per motivi di “coscienza” ai deliberati delle rispettive maggioranze di partito in quanto giudicati persino pericolosi per la stessa democrazia.
Circa la disponibilità universale a varare le riforme, teniamola per quel che vale: niente; poiché è come la conclamata volontà che nessuno vorrebbe negare di perseguire il bene pubblico. In concreto ciò che si osserva sono acuti contrasti. Condizione in verità normale secondo la dialettica democratica; sennonché il problema è che i contrasti dalle conseguenze più rilevanti sono dentro il Pd e Fi, dove emergono critiche intransigenti da parte di bellicose minoranze nei confronti della linea dei leader e delle maggioranze che li seguono (ma ora, per quanto riguarda Fi, dopo la sentenza liberatoria di Milano occorre attendere di vedere in che misura il politicamente ringiovanito Berlusconi sarà in grado di mettere in riga l’ala protestante dei Fitto e compagni). Anche tra i 5 Stelle le nuvole nere non sono poche e il Grillo parlante ha i suoi sudditi riottosi.
La sfida al leader si presenta rilevante soprattutto nel Pd, dove Renzi si trova a misurarsi con uno stato di cose palesemente contraddittorio. Infatti, da un lato egli è fortissimo: per la clamorosa vittoria conseguita alle Primarie, il successo eclatante alle elezioni europee e il consenso dimostratogli da eminenti partner dell’Ue; dall’altro però è non poco indebolito dal fatto che tra il Pd rispecchiato nei suoi gruppi parlamentari — espressioni di una precedente stagione ma in grado di far valere il potere decisionale che quella stagione ha loro consegnato — e il partito degli iscritti e degli elettori conquistati dal giovane leader si è interposta un’ombra profonda. In settori influenti dei gruppi e nelle minoranze del Pd non viene meno la resistenza a Renzi, un segretario e un presidente del Consiglio non amato, mal sopportato, ma molto temuto, che si vuole contrastare tanto nella gestione nel partito quanto nel disegno delle riforme. Si oppone resistenza a che il Pd diventi il “partito di Renzi”, su cui vengono fatte gravare le accuse ogni giorno ripetute di neoberlusconismo e decisionismo autoritario. Alle quali Renzi risponde che coloro i quali gli remano contro sono gufi, e anche, quando perde maldestramente le staffe, persone timorose di un nuovo che potrebbe sbalzarli dalle poltrone. Serpeggia, insomma, nei maggiori partiti in particolare e in generale nell’intero arco politico un malessere che mette in luce squilibri tutt’altro che di secondaria importanza.
Ma veniamo alle rivendicazioni dei parlamentari che affermano il diritto (Chiti, Mineo, Minzolini e altri) di opporre il dissenso che sale dalla loro “coscienza” — in difesa dello spirito autentico della Costituzione e della democrazia — rispetto all’orientamento prevalente nei propri partiti. È una posizione ineccepibile. Un parlamentare non ha vincolo di mandato, è e ha da essere e rimanere libero di obbedire alla sua coscienza. Sennonché un uomo di partito sceglie in quanto tale di operare in un organismo che può agire con efficacia alla condizione che entro di esso prevalga il principio di maggioranza, il quale è il fondamento di una democrazia che non sia soltanto libertà di espressione ma anche da ultimo la capacità di far prevalere un progetto sull’altro. Se, dunque, la minoranza si convince che la maggioranza — caso di estrema gravità — diventi portatrice di progetti antidemocratici, allora essa ha il diritto-dovere di negare il proprio consenso. Ma è chiaro, andando al sodo delle implicazioni, che quanto dettato dalla coscienza politicamente non ha altro significato se non la messa in atto di una linea politica alternativa. Affermare: io ho una coscienza pura e democratica e per questo mi oppongo, suggerisce di necessità che gli altri, consapevolmente o inconsapevolmente, coscienza e spirito democratico non abbiano. Tutto ciò pone o quanto meno dovrebbe porre ai dissidenti l’interrogativo circa la natura e il senso dei loro rapporti con i partiti cui appartengono.
È presumibile che assisteremo a scomposizioni e ricomposizioni nel nostro sistema politico tali da darci una mappa politica segnata da rimescolamenti e rimodellamenti. Mappa la quale non si delinea ancora, ma che — dato che i partiti sono agitati da fibrillazioni e appaiono organismi dai collanti incerti, divenuti per aspetti assai rilevanti decisamente ambigui — pare essere insieme inevitabile e augurabile.

lunedì 28 luglio 2014

Le vie difficili della libertà e dell’uguaglianza.


Corriere della Sera 27/07/14

Il caso dell’insegnante lasciata a casa da una scuola religiosa trentina per non essere disposta a nascondere la propria convivenza omosessuale pone una questione di difficile soluzione: prevale la tutela della libertà morale e sessuale dell’insegnante, o la tutela della libertà religiosa della scuola?

Il problema nasce dal fatto che non può esserci vera libertà politica o religiosa per tutti se non viene garantita anche la libertà delle associazioni politiche o religiose di selezionare il proprio personale secondo criteri di coerenza con le rispettive idee. Questo è il motivo per cui in tutti gli ordinamenti democratici viene protetta la libertà di pensiero e di attività politica delle persone, ma al tempo stesso anche la libertà dei partiti di escludere dai propri organici chi ha un orientamento politico diverso; la libertà religiosa e morale delle persone, ma al tempo stesso la libertà delle Chiese e associazioni religiose di esigere l’adesione al proprio credo da chi da esse dipende.

Non ci sarebbe vera libertà di opinione circa temi etici caldi come quello dell’aborto o dell’eutanasia se si vietasse all’Associazione Luca Coscioni di escludere Paola Binetti dal novero dei propri collaboratori, né se si vietasse a Radio Maria di fare l’esame di catechismo ai propri speaker. A patto, ovviamente, che la «causa» sia lecita, cioè non sia soggetta a uno specifico divieto. Per esempio, il decreto legge n. 122/1993 commina una sanzione penale per chi promuova idee razziste o xenofobe; e vieta la costituzione di associazioni che abbiano tale finalità.

Ora, nel caso da cui siamo partiti la «causa» che la scuola religiosa trentina intende sostenere comporta l’affermazione secondo cui l’esercizio dell’omosessualità costituisce un male, un comportamento immorale, «contro natura». L’opinione di moltissimi italiani, tra i quali chi scrive, e probabilmente anche di papa Francesco, è che questa affermazione sia sbagliata e contraria allo spirito del Vangelo; una cosa, però, è certa: oggi in Italia sostenere questa tesi non è vietato. Anche il disegno di legge n. 1052/2013, approvato dalla Camera dei deputati nel novembre scorso e attualmente all’esame del Senato, che si propone di prevenire e reprimere le manifestazioni di omofobia, esclude dal divieto «la libera espressione e manifestazione di convincimenti od opinioni riconducibili al pluralismo delle idee, purché non istighino all’odio o alla violenza».

Tuttavia possiamo affermare con altrettanta certezza che la discriminazione ai danni di un lavoratore riferita al suo orientamento sessuale oggi in Italia è, in linea generale, positivamente vietata: lo stabilisce il secondo comma dell’articolo 15 dello Statuto dei lavoratori, a seguito di un’integrazione apportata nel 2003. E una recente raccomandazione del Consiglio dei ministri Ue invita gli Stati membri a porre in atto misure efficaci non solo per vietare, ma anche per prevenire la discriminazione omofobica.

Così stando le cose, tre scuole di pensiero si confrontano: quella secondo cui, quando è in gioco una prerogativa essenziale della persona qual è l’esercizio della sua sessualità, la tutela della sua libertà morale deve prevalere in ogni caso sulla tutela della libertà della scuola privata; quella intermedia, sostenuta da Nadia Urbinati su Repubblica di mercoledì scorso e diffusamente condivisa, secondo cui lo Stato può subordinare il sostegno finanziario al rispetto da parte della scuola privata del divieto generale di discriminazione; infine quella secondo cui la libertà di pensiero e di religione sarebbe lesa anche dal condizionare il finanziamento pubblico a una scuola religiosa al rispetto da parte sua del divieto di discriminazione. Quest’ultima linea di pensiero corrisponde di fatto al modo in cui vanno le cose in Italia, dove è accaduto più volte che scuole e atenei religiosi abbiano licenziato per motivi ideologici pur beneficiando di finanziamenti pubblici.

La soluzione intermedia parrebbe a prima vista la più equa. Ma per sposarla occorre superare due argomenti molto forti a sostegno, rispettivamente, delle due tesi estreme. Il primo è quello di chi osserva che negare alla scuola A, perché sostiene una sua ideologia, il finanziamento pubblico concesso invece alla scuola B che aderisce a quella statuale, non è poi così diverso dal mettere fuori legge la prima e, in ultima analisi, limitare la libertà ideologica di entrambe.

Drammaticamente opposto è l’argomento secondo cui negare a una persona, sia pure solo nell’ambito di un rapporto di lavoro, la libertà di manifestare il proprio orientamento sessuale menoma la sua esistenza più intimamente di quanto non faccia una riduzione della sua libertà di manifestazione del pensiero: una mutilazione che neppure la tutela della libertà di una comunità religiosa, con o senza finanziamento pubblico, potrebbe giustificare.

La questione è aperta. La soluzione incerta come poche.

domenica 27 luglio 2014

La ricetta di Vassallo 
per «liberare» la politica.

Corriere della Sera  26/07/14
Renato Benedetto

Ora più che mai, mentre si affilano le armi, tra ostruzionismo e tagliole, per la battaglia parlamentare sulle riforme questo libro può essere letto come «un argomentato sostegno a chi sta provando a cambiare verso». È così che Salvatore Vassallo definisce il suo ultimo lavoro, Liberiamo la politica (il Mulino, 192 pp.). L’ex deputato pd, professore di Scienza politica che ha presieduto la commissione per lo statuto del partito, espone una ricetta che incrocia in più punti l’agenda Renzi. L’orizzonte è quello di una «normale democrazia dell’alternanza» e della competizione tra due forti partiti a vocazione maggioritaria. Per raggiungerlo servono partiti caratterizzati da una leadership forte e contendibile, a differenza del modello Pci, dove i «dirigenti autorevoli» lo erano a vita, o Dc, con «l’oligarchia dei capicorrente». Sono necessarie una legge elettorale e un’architettura istituzionale che permettano ai cittadini la scelta di deputati e premier (l’ottimo sarebbero i collegi uninominali; ma dato che l’ottimo è nemico del bene «l’Italicum è un compromesso ragionevole»); la riforma del bicameralismo e un Parlamento che lavori più in commissione che in Aula; un governo più forte, con premier scelti dai cittadini e con più poteri. Ricco di approfondimenti comparativi, con le altre democrazie, e storici, dalla Prima alla Seconda Repubblica, il lavoro di Vassallo lascia affiorare la passione del militante. Riflettendo, ad esempio, sulle occasioni mancate della scorsa legislatura, quando era deputato. Oppure riguardo la decisione della Consulta sul Porcellum: «Se il veleno proporzionale iniettato dai giudici della Corte costituzionale entrasse in circolo, allora sì che, di fronte alla moltiplicazione dei partiti e a un Parlamento incapace di decidere, molti comincerebbero a dire che è meglio liberarsi della politica democratica, invece di liberarla».





Ncd e centristi non credono al ritorno 
con l’ex Cavaliere.


Corriere della Sera 26/07/14

Fino a un paio di anni fa le vicende giudiziarie di Berlusconi radicalizzavano gli elettori: i berlusconiani si indignavano per ciò che veniva considerato un complotto della magistratura politicizzata ai danni del loro leader e gli antiberlusconiani per i reati di cui il Cavaliere veniva accusato. Questo copione, durato quasi vent’anni, ha subito una battuta d’arresto un anno fa, in occasione della sentenza definitiva di condanna per i diritti Mediaset, a conferma del cambiamento del clima sociale e politico dopo il voto del 2013: con l’affermazione dell’M5S si è creato uno scenario tripolare che ha sostituito quello bipolare della Seconda repubblica; il Pdl ha subito un tracollo perdendo 6,3 milioni di elettori rispetto al 2008 e il perdurare della crisi economica ha modificato le priorità dei cittadini. Tutto ciò spiegava la mancata mobilitazione degli elettori del Pdl e la loro volontà di continuare a sostenere il governo di larghe intese guidato da Enrico Letta nonostante la condanna di Berlusconi e le conseguenti minacce di uscita dalla maggioranza. All’indomani della sentenza d’appello del processo Ruby, che ha assolto Berlusconi ribaltando il verdetto di primo grado, si ha la conferma di questo cambiamento del clima. Con poche eccezioni, non ci sono state reazioni di indignazione o di trionfalismo da parte degli elettori: la maggior parte degli italiani (34%) ritiene che la sentenza sia una libera decisione dei magistrati e come tale non vada discussa ma accettata; il 31% pensa che sia una sentenza sbagliata e il 25%, al contrario, la considera giusta. Tra gli elettori del Pd il 46% ritiene che le sentenze non vadano discusse, il 41% giudica la sentenza sbagliata e quasi un elettore su dieci è d’accordo con l’assoluzione. Tra gli elettori di Forza Italia quattro su cinque plaudono alla sentenza e, al contrario, il 7% la giudica sbagliata. Si è quindi fortemente attenuato il giustizialismo tra gli elettori pd (la cui composizione è molto cambiata in occasione delle Europee) e tra quelli di FI fa capolino qualche dubbio sui comportamenti del loro leader. Solo un elettore su tre ritiene che con la sentenza di assoluzione Berlusconi possa tornare ad essere il leader del centrodestra mentre prevale largamente (63%) l’idea che sia ormai superato. Tra gli elettori di FI una minoranza non trascurabile (22%) è dello stesso parere. Lo scetticismo si spiega non tanto in termini di limitata agibilità politica di un leader che sta scontando una condanna (che finora non gli ha impedito di svolgere il proprio ruolo, come dimostra il patto del Nazareno) quanto in termini di ricambio generazionale. Berlusconi rimane difficilmente sostituibile, ma appartiene ad una stagione politica che secondo molti si è chiusa. Ne è una conferma anche la perplessità che accompagna l’ipotesi di definizione di una nuova alleanza tra Forza Italia e le altre formazioni del centrodestra: solo il 33% ritiene che dopo l’assoluzione di Berlusconi questa possibilità sia realistica mentre il 59% pensa che sia difficile alleare partiti tanto diversi. L’elettorato di FI è molto diviso in proposito: gli ottimisti rappresentano il 50% e i pessimisti il 46%. Tra gli elettori del Ncd e i centristi il 57% non sembra credere a un’alleanza sulla cui composizione, peraltro, le opinioni sono tutt’altro che univoche: il 49% ritiene che per il centrodestra sarebbe più opportuno unire le formazioni più moderate, escludendo quelle che hanno posizioni più estremistiche, mentre per il 41% sarebbe più utile aggregare tutte le forze: FI, Ncd, Fratelli d’Italia e Lega Nord. Nell’elettorato berlusconiano quest’ultima è l’opinione prevalente (55%), alla quale si contrappone una consistente minoranza (38%) che auspica un accordo limitato alle sole forze moderate. La fase di difficoltà del centrodestra è testimoniata dai risultati elettorali, prima ancora che dai sondaggi: alle Europee i quattro partiti principali che lo compongono hanno ottenuto 8,5 milioni di voti (contro i circa 14 del 2009) e rappresentano il 17% degli elettori. Per risalire la china il tema dell’alleanza e quello della leadership appaiono inderogabili

sabato 26 luglio 2014

la distruzione dei tunnel....secondo israele...


Alle Camere privilegi ormai intollerabili 
Ma a sforbiciare siano anche le Regioni.


Corriere della Sera 26/07/14

Un tetto puro e semplice agli stipendi è la soluzione più facile e diretta. Ma forse non la cura più efficace per eliminare certi compensi astronomicamente ingiusti corsi nelle tasche degli alti burocrati per troppo tempo e insieme far trionfare la meritocrazia nella Pubblica amministrazione. Tanto per fare un esempio il tetto non ha effetti su retribuzioni magari appena più modeste, ma certo altrettanto ingiustificate. C’è quindi da domandarsi se non funzioni meglio, in funzione del merito, un sistema di retribuzioni fortemente variabili sulla base di valutazioni serie, rigorose e soprattutto indipendenti. Fatta questa doverosa premessa, è davvero difficile contraddire Matteo Renzi sul fatto che 240 mila euro l’anno non siano un parametro più che adeguato per le buste paga di Camera e Senato. Dove la cosiddetta «autodichìa», ovvero quel principio secondo il quale gli organi costituzionali gestiscono in piena autonomia e senza controlli esterni le proprie risorse, ha prodotto situazioni di privilegio inenarrabili e anacronistiche.

Legate a folli automatismi, come la sopravvivenza di una specie di generosissima scala mobile e un meccanismo di scatti capace di far salire anche del 400 per cento lo stipendio netto dall’assunzione alla pensione, le retribuzioni dei dipendenti avevano raggiunto livelli assolutamente senza senso, mandando letteralmente in orbita le spese di Montecitorio e Palazzo Madama. Per non parlare di regimi pensionistici che non hanno pari nel mondo del lavoro pubblico e privato. Il tutto grazie ad accordi scellerati con un pulviscolo di sindacati interni, costantemente protesi alla difesa degli interessi corporativi.

Più dei valori assoluti, dicono tutto certi rapporti. Lo stipendio medio di un dipendente della Camera e del Senato, sulle basi dei rispettivi bilanci, è superiore a 150 mila euro lordi l’anno (la paga dell’amministratore delegato di un’azienda privata), mentre quello del loro collega della Camera dei comuni britannica si aggira intorno ai 40 mila euro. Quattro a uno. Le segretissime tabelle retributive del Senato informavano nel 2008 che la retribuzione di un commesso (il livello inferiore della scala) al massimo livello della carriera poteva raggiungere 159 mila euro lordi l’anno. Mentre quella di uno stenografo che avesse completato il quarantesimo anno di attività era in grado di toccare 289 mila euro: tremila euro in meno dell’appannaggio annuale del Re di Spagna, o 70 mila in più del compenso del segretario generale dell’Onu, se preferite. Fece scalpore, nel 2006, la rivelazione dell’Espresso secondo cui il segretario generale del Senato Antonio Malaschini percepiva 485 mila euro l’anno: quando è uscito da Palazzo Madama, pochi anni dopo, viaggiava intorno ai 550 mila. Nel 2012, da sottosegretario alla presidenza del governo Monti, ha reso noto l’ammontare della sua pensione parlamentare: 519 mila euro lordi l’anno. Quasi il doppio dell’indennità del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama.

L’esempio delle Camere ha prodotto a cascata guasti anche in molte Regioni. Dove gli apparati politici, rivendicando la stessa «autodichìa» degli organi costituzionali, hanno dilagato con modalità in qualche caso decisamente peggiori. Stipendi stellari, assunzioni clientelari, strutture ipertrofiche e inefficienti. Come documenta il rapporto sui costi della politica preparato dal gruppo di lavoro coordinato da Massimo Bordignon per il commissario alla spending review Carlo Cottarelli, i venti Consigli regionali italiani spendevano per il personale nel 2012 quasi 360 milioni di euro. Somma paragonabile, considerando il numero degli eletti, a quella delle due Camere. Nella sola Sicilia, con il governatore Rosario Crocetta che ha denunciato scandalizzato che la retribuzione del segretario generale dell’Assemblea regionale sarebbe addirittura più alta di quelle dei suoi colleghi di Montecitorio e Palazzo Madama, il personale consiliare costa la bellezza di 86,6 milioni: contro i 20,8 della Lombardia, Regione che ha una popolazione doppia.

Cose che se erano già inaccettabili anni fa, quando l’economia arrancava ma il Paese galleggiava, oggi lo sono ancora di più. Un insulto alla realtà di una disoccupazione a livelli record da quarant’anni, di un Prodotto interno lordo crollato dal 10 per cento dall’inizio della crisi, di una povertà che cresce a livelli vertiginosi, di una speranza per i giovani di trovare lavoro semplicemente inesistente.

Quella vecchia impalcatura di privilegi appartiene a un mondo che ormai non esiste più. Va solo smantellata. E chi si ostina ancora a difenderla, sappia che difende ormai l’indifendibile.

Quei paletti sociali che ostacolano la parità.


Corriere della Sera 26/07/14

Il governo ha aperto il semestre europeo con una conferenza sui progressi delle donne nei governing boards : la percentuale femminile nei Consigli italiani è oggi al 22% dal 6% di prima della Legge 120/2011. La direttiva europea 2012 e la Legge Mosca-Golfo hanno avuto un impatto formidabile, ma il successo delle donne istruite al vertice è in contrasto brutale con lo status sociale della popolazione femminile italiana e la lentezza del processo di riforma del mercato del lavoro rispetto alle promesse del governo e alle aspettative dell’Europa.

Il tasso di attività al 53,9% è il più basso dell’Unione Europea, simile alla Siria; l’occupazione al 46,5% è 10 punti sotto la media Ue27 e la fertilità è all’1,42. Un quadro scoraggiante, che misura quanta ricchezza venga persa a causa dell’assenza delle donne dal mercato del lavoro. Per capire queste anomalie bisogna andare oltre le leggi dell’economia, al cuore delle norme sociali e culturali che definiscono il ruolo della donna e del lavoro in Italia.

Una prima misura è data dall’aumento dei casi di femminicidio: l’Onu ci considera un caso problematico per l’inefficacia della legge sullo stalking. Il centro antiviolenza SVSeD della Clinica Mangiagalli di Milano ha accolto 656 vittime nel 2012, 746 nel 2013 e 433 da inizio anno, nel 36,05% per mano del marito o convivente. Persino il monitoraggio di questa emergenza quotidiana è carente: l’unica rilevazione nazionale è l’indagine Istat 2006, con il 2013-2014 in corso. All’organizzazione non governativa Intervita dobbiamo l’unico studio sui costi della violenza: 16,7 miliardi nel solo 2012, anno in cui 6,3 milioni sono stati spesi in prevenzione e 124 donne hanno perso la vita — il 25% più del 2011. Oltre 30 donne su 100 hanno subito violenza una volta nella vita; solo 18 l’hanno considerata un reato.

Per spiegare questi dati occorre capire cosa determini il potere contrattuale delle donne. L’economista Gary Becker vedeva la famiglia come un’unità produttiva dove coniugi complementari dividono il surplus in base a produttività individuali e vantaggi comparati. La rivoluzione femminista ha spostato l’accento sull’eguaglianza anziché sulla specializzazione di genere e la teoria economica si è concentrata sul potere contrattuale: uomo e donna interagiscono fino alla soglia dello scambio di minacce. Perché esso risulti credibile, deve avere come fondamento l’indipendenza economica: la minaccia di divorzio da una donna priva di mezzi, ad esempio, non è credibile.

Le politiche della famiglia aumentano l’occupazione femminile, ma le donne s’indirizzano ancora verso settori meno tecnici, con minori prospettive di reddito. Inoltre, il loro potere contrattuale è influenzato da convenzioni sociali. Le donne che non lavorano, quando entrano nel matrimonio o nel rapporto di coppia, finiscono per tornare a ruoli ancestrali. In contesti dove la condizione di donna divorziata o sola è marchiata da uno stigma sociale, il matrimonio o la convivenza diventano irreversibili e rallentano la fuga da unioni segnate da violenza.

Politiche sociali più efficaci sono possibili. Nonostante gli alti livelli d’istruzione — è donna il 60% dei laureati — meno del 50% lavora. L’istruzione universitaria in Italia è sussidiata dallo Stato: donne che si laureano ed escono dal mercato per sostenere la famiglia bruciano risorse preziose per se stesse e la collettività. La scarsa presenza femminile sul mercato è però anche una questione di cultura dell’offerta. È necessario incentivare le donne a conservare la propria identità lavorativa, soprattutto in una crisi come questa. Si può pensare a un sistema di incentivi tale per cui i sussidi universitari, in forma di prestiti, debbano essere restituiti solo se chi li riceve decidesse di uscire volontariamente dalla forza lavoro per stare a casa.

Un’altra via per aumentare il potere contrattuale femminile è trasformare le convenzioni sociali che regolano la cura della famiglia, rendendole più egualitarie. In Norvegia il congedo parentale è diviso equamente tra donne e uomini ed è obbligatorio per entrambi; in Italia la legge obbliga gli uomini a un solo giorno nei primi 5 mesi di vita del neonato.

Una parità di genere radicata nel profondo dei comportamenti significa non solo promuovere donne con istruzione superiore a salire al vertice, ma anche più responsabilità verso l’intera popolazione femminile italiana, ancora priva di una coscienza compiuta della propria indipendenza economica.



.... e adesso?...

I ragazzi israeliani rapiti «uccisi da una cellula solitaria, non da Hamas» 

Lo avrebbe detto un portavoce della polizia israeliana, Mickey Rosenfeld, al giornalista della Bbc Jon Donnison, che ne dà notizia su Twitter 


Europa 25 luglio 2014