domenica 20 dicembre 2015

La triste parabola di Sinistra Italiana a rimorchio di Grillo


Mario Lavia
L'Unità 19 dicembre 2015
La vicenda parlamentare della sfiducia a Boschi conferma la mancanza di strategia e di ambizione del nuovo gruppo.
Vedere Sel, o Sinistra Italiana come si chiama adesso, attovagliarsi al tavolino da picnic di Grillo e Salvini proietta una luce malinconica su un partito che si considera, ed è, ancorato ai valori e alle pratiche della sinistra italiana. Non ha alcun senso politico accodare il proprio vagone ad un treno propagandistico peraltro guidato da una macchinista che con gli ideali della sinistra ha veramente poco a che fare come il Dibba. Soprattutto, in mancanza di argomenti di merito forti.
Già, perché il buon Arturo Scotto, il capogruppo di Si, ieri in aula è dovuto ricorrere ad un fantasioso «conflitto d’interessi potenziale» per trovare uno straccio di motivazione che giustificasse il sì alla mozione grillina, una inedita fattispecie giuridica che grida vendetta davanti a qualunque manuale di diritto privato, oltre che al buon senso. Ma non basta: l’ha buttata in politica, Scotto, un pochettino più rozzamente di quanto la sua esperienza politica potesse far supporre: «Non ci agganceremo mai al vagone di un governo che compie scelte sbagliate sul terreno del lavoro e dell’economia. Non è possibile che da due anni e mezzo non si sia ancora cominciato a lavorare alla legge sul conflitto di interessi».
E cosa c’entra la politica economica con il merito della accuse a Boschi? Nulla. Ma il problema di Sinistra italiana va evidentemente oltre la performance di Scotto. Ed è un problema di strategia, cioè il problema eterno dell’analisi e della individuazione dell’avversario principale. I leader di Sinistra italiana non pare si pongano l’obiettivo di crescere, di andare oltre gli angusti limiti del 3-4% (e ringraziassero il cielo che l’Italicum fissa la soglia di sbarramento al 3, quella è stata davvero una norma ad partitum), di superare l’identità di “cespuglio”: in una parola, di diventare “grandi”. Perché se davvero cercasse di andare oltre la logica antica e comoda della testimonianza, di bypassare la mentalità del gruppuscolo, Sinistra italiana andrebbe a lavorare là dove ci sono suoi voti potenziali, persone conquistabili, ambienti socialmente familiari: e cioè nel vasto bacino che oggi è presidiato da Cinquestelle.
Invece niente. Il nemico è Matteo Renzi, e stop. E Matteo Renzi va preso di punta, e prima di tutto. Da quando c’è Renzi, il partito di Vendola è regredito su posizioni ultraminoritarie smarrendo completamente il riferimento del governo, la comprensione della complessità dei problemi, il gusto della fatica della ricerca di soluzioni. Di qui discendono comportamenti politici e parlamentari alla fine inutili: ostruzionismi e, appunto, propagandistiche mozioni di sfiducia.
La bussola non è la ricerca di intese, pur nella polemica, con il Pd che piaccia o no è evidentemente il partito basilare del sistema politico e nettamente centrale nel centrosinistra, come non è lo lo sforzo per trovare alle amministrative candidature comuni (a proposito, una domanda: ma a Torino al secondo turno voteranno Fassino o la Appendino?); ma il suo contrario, come fare cadere il governo e dare un colpo alla leadership di Renzi. Esattamente quello che dice Grillo. Però, e va detto con una certa amarezza, fra Grillo e Scotto la gente vota Grillo.

venerdì 18 dicembre 2015

Scontro Renzi-Merkel: “Angela, non diteci che date il sangue all’Europa”


Rudy Francesco Calvo
L'Unità 18 dicembre 2015
Al Consiglio europeo, il premier italiano torna all’attacco della Germania: la scintilla è il fondo per salvare i risparmiatori delle banche fallite.
È un Matteo Renzi che gioca ancora all’attacco quello che si è presentato alla seconda giornata del Consiglio europeo in corso a Bruxelles. Dopo aver accusato ieri il ruolo di primus inter pares che sta giocando indebitamente la Germania, oggi il premier italiano ha avuto un vivace scambio di battute con la Cancelliera Merkel sulle questioni economiche, a partire da quelle che riguardano il salvataggio delle banche. “Non potete raccontarci che state donando il sangue all’Europa, cara Angela”, avrebbe detto il presidente del Consiglio, secondo quanto riferisce chi partecipava alla riunione.
La scintilla che ha acceso lo scontro è il completamento dell’unione bancaria, uno dei temi sul tavolo del Consiglio oggi. In particolare, i capi di Stato e di Governo si trovano a discutere del cosiddetto ‘terzo pilastro’, cioè lo schema di assicurazione europea dei depositi che, tanto per fare un esempio, avrebbe consentito un intervento più efficace a tutela dei risparmiatori colpiti dal recente fallimento delle quattro banche italiane.
“Perché la Germania si oppone?”, è stata la domanda di Renzi. Una posizione, quella italiana, che tra l’altro sta trovando sempre più sostenitori al tavolo europeo, a partire dalla Francia, ma anche altri, come Portogallo, Grecia e Ungheria. E perfino i Paesi baltici hanno avuto da ridire sulle posizioni tedesche. Tanto che la soluzione caldeggiata dal nostro Paese era stata inizialmente inserita nello schema di conclusione dei lavori del Consiglio, ma è stata poi cancellata.
Merkel oggi si è limitata a riconoscere che le diverse emergenze intervenute nel frattempo hanno impedito una discussione sulla questione bancaria, ma senza fare alcun passo avanti. Ed è a quel punto che è scattato il battibecco con Renzi, che ha ricordato alla Cancelliera come il suo Paese non avesse certo da piangere di fronte ad alcune scelte imposte recentemente all’Europa, a partire dal salvataggio greco (che ha consentito alle aziende tedesche di acquistare gli aeroporti delle isole elleniche), per finire con il raddoppio del gasdotto NorthStream, a scapito di SouthStream, sul quale si concentrano invece gli interessi italiani.

Travaglio furente contro i giudici: perché non fate come dico io?


Fabrizio Rondolino
L'Unità18 dicembre 2015
L’escalation del direttore del Fatto che accusa tutti, dal Csm in giù, pur di ottenere un avviso di garanzia per papà Boschi
Quando arriva l’avviso di garanzia a Pier Luigi Boschi? Travaglio è impaziente, e da un paio di giorni lancia messaggi neppur troppo velati ai suoi (ex?) amici magistrati. Prima la campagna sul presunto conflitto d’interessi del pm che indaga su Banca Etruria, accusato di essere un consulente di palazzo Chigi (la consulenza fu attivata dal governo Letta, è a titolo gratuito e scade il 31 dicembre); poi, nell’editoriale di ieri, un avvertimento diretto (“Può darsi che il pm di Arezzo iscriva anche papà Boschi sul registro degli indagati…”); infine, oggi, un intero editoriale che vorrebbe parlare di Licio Gelli ma che, in realtà, è una durissima requisitoria contro la magistratura.
Il direttore del Fatto punta fremente l’indice contro, nell’ordine, il Csm (che non ha detto una parola sul presunto conflitto d’interessi del pm di Arezzo Roberto Rossi), la Corte dei conti (colpevole di aver “frettolosamente archiviato, con una rapidità senza precedenti, l’indagine sulle note spese di Renzi sindaco”), la Corte costituzionale (“di stretta osservanza renziana”, se non fosse per Modugno, che essendo stato indicato dal M5S è naturalmente per l’organo del M5S “l’unico che avesse i requisiti”), il Tribunale di Milano e la Corte d’appello (che “assecondarono, con scelte discrezionali e talora mai viste prima, la melina degli avvocati di Berlusconi” nel processo Mills), l’Anm (dove “a menare le danze dei giochi correntizi è l’ex pm Cosimo Ferri, signore delle tessere di Magistratura indipendente”).
Tutti costoro – ripetiamo: il Csm, la Corte dei Conti, la Corte Costituzionale, il Tribunale e la Corte d’Appello di Milano e l’Associazione nazionale magistrati – sarebbero secondo Travaglio asserviti al potere: ieri di Berlusconi, oggi di Renzi. A meno che… a meno che il pm Roberto Rossi, per “rifarsi una verginità”, non decida di inviare un avviso di garanzia a Pier Luigi Boschi. L’intera magistratura italiana è avvertita: o fate come intima Travaglio, oppure siete dei venduti. Berlusconi, al confronto, era un dilettante.

giovedì 17 dicembre 2015

Firmata l’intesa per il governo di unità nazionale in Libia


guido ruotolo
La Stampa 16 dicembre 2015
Gettate le basi per un nuovo inizio nel processo di transizione democratica
In Libia è stata firmata l’intesa decisiva per il governo di unità nazionale. «Questa è una giornata storica» ha detto l’inviato speciale dell’Onu, Martin Kobler, parlando a Skhirat, in Marocco, durante la cerimonia. «Firmando questo accordo politico - ha affermato il diplomatico tedesco - state portando a termine un processo, state voltando pagina». «In Libia - ha continuato Kobler, rivolgendosi ai firmatari - siete personaggi politici importanti e la vostra presenza qui dimostra il vostro impegno a far ripartire la transizione democratica in Libia».
La Libia che nel febbraio del 2011 si liberò del dittatore, del colonnello Muammar Gheddafi, dopo cinque anni di guerra civile strisciante, prova a dare vita a una svolta, sottoscrivendo l’accordo proposto dal mediatore delle Nazioni Unite. 
E’ un giorno storico. Esponenti del Parlamento di Tobruk e del Congresso nazionale di Tripoli, l’Alleanza delle forze nazionali e i Fratelli Musulmani, singole personalità ed esponenti della società libica, delle municipalità più significative, come Misurata e Zintan, hanno sfidato quelle forze che da anni si oppongono alla transizione democratica. 
In questi ultimi anni, la guerra tra le diverse milizie, tra gli schieramenti radicali islamisti ha dovuto fare i conti anche con la penetrazione di centinaia di militanti dell’Isis che hanno conquistato territori e città, nella Cirenaica spingendosi fino a Sirte, ma essendo presente anche a Tripoli e sulla costa confinante con la Tunisia (Sabratha). 
Paesi confinanti e importanti del mondo arabo ma non solo, in questi anni hanno «sponsorizzato» milizie e partiti, gruppi e associazioni con armi e soldi. E ancora oggi ci sono Paesi e forze che perseguono obiettivi di divisione della Libia. C’è ancora chi insegue il sogno di un ritorno al passato con la Libia divisa tra Cirenaica, Fezzan e Tripolitania. 
Quaranta giorni di tempo, ha chiesto il consigliere militare del segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, il generale Paolo Serra, per mettere in sicurezza la capitale, Tripoli, con l’aiuto di forze di polizia internazionale che l’Italia e l’Inghilterra dovrebbero garantire.  
Si parla di migliaia di uomini che insieme alle milizie lealiste con le quali ha dialogato in queste settimane il generale Serra, dovranno garantire la sicurezza a Tripoli, intanto delle ambasciate straniere e dei siti sensibili, come le rappresentanze istituzionali libiche (sede del governo, dei ministeri, del Parlamento), gli aeroporti, le arterie di comunicazione. 
Ma prima che tutto questo diventi operativo ci sarà bisogno di alcuni passaggi decisivi. Già domani si dovrebbe riunire il Consiglio di sicurezza della Nazioni Unite (il nostro ministro degli Esteri, Gentiloni, volerà a New York dopo la firma dell’accordo) che dovrà approvare una risoluzione che potrebbe autorizzare l’uso di contingenti di polizia e di addestratori. Molto dipenderà, naturalmente, dalle richieste libiche, del nuovo presidente del Consiglio Presidenziale, Serraj Faiez, che sarà anche il presidente del consiglio dei ministri. 

mercoledì 16 dicembre 2015

La solita Leopolda


Erasmo D'Angelis
L'Unità16 dicembre 2015
I numeri della Leopolda: 24 mila partecipanti con 621 giornalisti di 400 testate accreditate.
C’è chi prova e riprova da giorni a raccontare e a far immaginare, molto per polemica e un po’ per frustrazione, la tre giorni della sesta edizione della Leopolda come «spettacolo della politicabaraccone», «teatrino renziano», «fiera delle autoreferenzialità», «esibizione di governo e di potere», «occasione mancata», «flop», «esercizio di potere», «una specie di Asilo Mariuccia» , «raduno del principe con i suoi clientes», «iniziativa dallo scarso appeal», «poco trendy», «per nulla cool». C’è chi vorrebbe paragonarla a cosa non è mai stata e a cosa non sarà mai: una specie di X Factor della politica italiana, le convention di Forza Italia, i meeting e i congressi di partito, i workshop e i seminari per addetti, i convegni di corrente, insomma quelle liturgie politiche che per decenni sono servite per spartirsi a pezzi e bocconi lo Stato. Bè, cominciamo allora dando i numeri così mettiamo in fila per bene le cose....

martedì 15 dicembre 2015

Giorgio Gori: “Ora Milano deve aprirsi di più, finora ha fatto tutto da sola”


Teresa Cardona
L'Unità 15 dicembre 2015
Il sindaco di Bergamo parla del presente e del futuro del capoluogo: “Avanti con le primarie, serviranno anche a Sala”
In quest’ultimo anno, Milano – grazie a Expo, ma non solo – sta vivendo un momento particolarmente felice…
Sì, assolutamente. L’Expo ha rappresentato per Milano l’occasione per una forte emancipazione, sia dal punto di vista della visibilità internazionale – con importanti ricadute turistiche – sia sotto il profilo della qualità complessiva della vita in città. La prospettiva dell’Esposizione universale ha spinto Milano a un miglioramento che ha coinvolto tutti i settori dell’amministrazione e della vita pubblica, con mobilità e cultura in particolare evidenza. Il risultato è stato ed è sotto i nostri occhi: la città è più viva, più efficiente e più internazionale. 
Come giudica la gestione che è stata fatta dell’evento?
I numeri dell’Expo parlano da soli. Giudico molto positivamente la gestione che è stata fatta. La macchina ha funzionato nel modo migliore nonostante le difficoltà e i ritardi che si erano accumulati. Si è anche riusciti a dare spessore al titolo dell’esposizione: intorno al tema dell’alimentazione sostenibile si è finalmente messa in moto una riflessione di scala mondiale, grazie anche all’Enciclica di Papa Francesco, e in questo contesto mi pare che l’Italia abbia guadagnato una nuova consapevolezza delle proprie potenzialità agroalimentari. Non mi pare si tratti di risultati effimeri, anzi: credo che porteranno frutti significativi nei prossimi anni. È andato bene anche dal punto di vista – un poco più “periferico” – della mia città: grazie allo stimolo dell’Expo il 2015 è stato un anno speciale anche per Bergamo e per la sua provincia, con un forte rilancio della cultura e della vocazione turistica della città.
Come vede il futuro dell’area, anche alla luce del progetto presentato qualche settimana fa dal premier Matteo Renzi?
Mi pare che il disegno che ha via via preso corpo sia quanto mai promettente: trasformare l’area in un grande hub della conoscenza e della ricerca nel campo delle Scienze della Vita, di scala europea, con il concorso delle maggiori università e istituzioni culturali del Paese è quanto di più ambizioso (ma sensato) si possa cercare di fare. Il governo mi sembra determinato. E’ importante che le istituzioni del territorio lo siano altrettanto.
Da amministratore, come valuta l’esperienza della giunta Pisapia?
Molto positivamente. La giunta Pisapia ha restituito dignità e trasparenza all’amministrazione milanese. Ha fatto egregiamente la sua parte sull’Expo e ha guidato il rilancio della città. Alcuni episodi – penso al completamento di Porta Nuova, alla riqualificazione della Darsena e all’apertura della nuova sede di Fondazione Prada – hanno contribuito in modo decisivo alla crescita della statura internazionale di Milano.
Lei è sindaco di Bergamo da un anno e mezzo. Quali sono i punti di forza della sua amministrazione?
Il punto di forza è che lavoriamo tanto, con impegno e con molta concretezza. La città ha di per sé ottime potenzialità: la differenza è che adesso le cose succedono, i cambiamenti si vedono. Dalla riqualificazione delle aree dismesse all’innovazione tecnologica, dalle politiche di welfare municipale all’impiantistica sportiva, dalla cultura al turismo. C’è un bel clima, c’è molta voglia di fare.
Se toccasse a lei essere il prossimo sindaco di Milano, anche alla luce della sua esperienza amministrativa a Bergamo, quale sarebbe la “parola chiave” più efficace per la città dei prossimi cinque anni? A quali temi e progetti darebbe priorità?
Il rilancio della città ha bisogno di essere consolidato, reso concreto e permanente. Se Milano – come può certamente fare – aspira a essere una delle capitali d’Europa deve riuscire a rendere strutturali alcuni elementi di innovazione, come minimo su scala metropolitana, o meglio ancora guidando un processo regionale. In questi anni non è stato così. Milano ha fatto per sé, con poca capacità di allargare lo sguardo. La competizione su scala continentale impone a mio avviso un cambio di prospettiva e maggiore apertura.
Come vede la prossima scadenza delle primarie? Sarà un’opportunità per selezionare la proposta e il candidato sindaco migliore?
Ne sono convinto. Le primarie sono fondamentali anche per costruire il patto di coalizione intorno al vincitore: è lì che nasce l’alleanza per governare insieme. Serviranno quindi a tutti e in primo luogo a Beppe Sala, che andando nei circoli e nei quartieri ha l’occasione per farsi conoscere e apprezzare.

lunedì 14 dicembre 2015

indietro tutta!!!

La Cosa Rossa (l’insieme di tutte le sigle della sinistra, Pd escluso) sembra essere naufragata ancor prima di salpare.

venerdì 11 dicembre 2015

Juncker punisce l'Italia e dimentica l'Europa


David Sassoli
11 dicembre 2015
Punire un paese che ha salvato tante vite umane, speso risorse e rispettato i valori del diritto internazionale è operazione suicida. È ossigeno per xenofobi. Ed è il modo migliore per incoraggiare il nazionalismo, nel momento in cui avremmo bisogno di più Europa per stare al mondo e per rispondere a sfide travolgenti. La decisione della Commissione europea di aprire una procedura d'infrazione contro l'Italia, per la mancata identificazione di una parte dei migranti, è il termometro di una leadership europea attenta a regole e regolamenti, ma incapace di sostenere uno spirito comunitario.
L'Unione sta dimostrando di essere un malato bipolare: da una parte cerca di uscire dalle secche in cui si trova, dall'altra vi si trattiene rafforzando la propria impotenza. Da tempo alcune procedure non rispettavano i requisiti richiesti. Ma è noto a tutti che le autorità italiane, sotto differenti governi, si sono trovate da sole a fronteggiare emergenze in mare aperto in condizioni di difficoltà estrema, a sostenere per anni con le proprie risorse le operazioni di soccorso, ad accogliere centinaia di migliaia di persone, ad inserire, quando è stato possibile, uomini, donne e bambini nei circuiti della vita sociale.
Ogni uomo è mio fratello, ha continuato a dire l'Italia anche nei momenti più bui. E lo ha ripetuto anche quando la crisi economica era acuta e tanti governi europei non si impietosivano troppo per i morti che insanguinavano il Mediterraneo. Fra mille difficoltà e contraddizioni il nostro paese ha sempre risposto con tutt'altra faccia e ha fatto bene il presidente del Consiglio a ricordare ieri alla Commissione europea che l'Italia continuerà a fare la sua parte e a salvare persone. Certo, è importante rispettare le regole europee. Ma è altrettanto importante possedere una scala di valori che consenta di mettere a fuoco le priorità. Ci ha colpito che il presidente Juncker non abbia saputo valutare gli effetti e i rischi dell'iniziativa, in un momento in cui tanti governi non hanno ottemperato agli obblighi di redistribuzione dei richiedenti asilo e il trattato di Dublino è ancora in attesa di essere modificato. Senza discernimento non può esservi casa comune.
L'Europa, con la decisione di aprire la procedura d'infrazione a poche ore dal voto delle regionali francesi, si ritrova più debole di fronte a venti di disgregazione. Per coglierne il segno basta guardare alle reazioni che l'iniziativa della Commissione ha provocato. A parte i commenti italiani, solo associazioni umanitarie e agenzie di solidarietà hanno reagito con sdegno. I partiti politici europei sono rimasti muti. E lo stesso hanno fatto governi e leader. Quando batterà un colpo il Partito socialista europeo? Quando sentiremo dal fronte progressista parole che indichino i punti oltre i quali non si deve andare? In alcuni casi il silenzio è d'oro, in altri è sintomo di agonia.

mercoledì 9 dicembre 2015

Democrazia a rischio? Catastrofi annunciate (e non vere)


Sabino Cassese
Corriere della Sera 9 dicembre 2015
Si moltiplicano le voci di allarme sullo stato della nostra democrazia. L’astensionismo rende debole la rappresentanza. I cittadini sono privati del potere di scegliere i loro rappresentanti. Il governo fagocita il Parlamento. La dirigenza politica è inadeguata sul piano istituzionale e nello spazio internazionale. Vi sono un uomo solo al comando, presidenzialismo strisciante, pericoli di autoritarismo. Le riforme avviate vanno nella direzione sbagliata e ci conducono fuori della democrazia parlamentare e del disegno costituzionale. I poteri si spostano dallo Stato alle oligarchie finanziarie e industriali internazionali.
Sono corrette queste diagnosi catastrofiche? C’è qualcosa di vero in questi segnali di pericolo? Gli indicatori dello stato di salute della nostra democrazia non confermano queste interpretazioni allarmistiche. Se si sommano tutti i rappresentanti popolari periodicamente eletti in tutte le sedi di decisione (Comuni, Regioni, Stato, Unione Europea) si può dire che poche nazioni danno tanta voce alle scelte popolari quanto l’Italia. Se, poi, si calcolano regolamenti comunali, leggi regionali e nazionali, direttive e regolamenti europei, si nota che gli organi rappresentativi sono in buona salute, attivi, pronti a fare e disfare leggi e norme (qualche volta, anzi, troppo attivi). Se si considera il ruolo svolto dai contropoteri, si registra una loro complessiva crescente indipendenza, maggiore in alcuni casi, come quello delle corti, minore in altri, quale quello delle autorità amministrative di regolazione.
Se si misurano i poteri esercitati dal capo del governo, si nota che essi sono di dimensioni paragonabili con quelli del cancelliere tedesco, o del primo ministro inglese, o di altri capi di esecutivo, e ciò per una ragione semplice: chiamati a collaborare quotidianamente nelle sedi più disparate, dall’Onu all’Unione Europea, dall’Organizzazione mondiale del commercio al G20, i capi del governo debbono necessariamente avere poteri comparabili. Se si considerano le riforme dei «rami alti», quella costituzionale e quella elettorale, si nota che andiamo in una direzione comune a tante altre democrazie, con due Camere a diversa investitura e una formula elettorale che premia la più forte minoranza.
Questo non vuol dire che vada tutto bene. Ma lamentare catastrofi oscura alcuni mali del nostro sistema politico, dei quali dovremmo invece preoccuparci. Il primo riguarda la debolezza del capitale sociale. La società italiana non ha mai avuto un buon tessuto e, se ha dato prova di capacità di mobilitazione nelle emergenze, non ha mostrato buone capacità aggregative nella vita di ogni giorno. Ora i corpi intermedi languiscono. Le fondazioni, che si sperava dessero voce alla società civile, sono nelle mani di ristrette oligarchie che si autoperpetuano.
I partiti, ridotti in organizzazioni di seguiti elettorali, si sfaldano in Parlamento. I sindacati sono chiusi nel loro particulare . Le elite - quelle poche che abbiamo - si comportano da caste.
Il secondo riguarda le forme della dialettica politica. Qui le opposizioni non cercano una voce per sé, un riconoscimento formale, un proprio «statuto», in vista di diventare maggioranza, ma tentano solo di buttare sabbia nelle ruote di chi governa. La politica (alleanze, schermaglie, rinvii, tattiche di ogni tipo) oscura sempre le politiche, cioè gli indirizzi, di governo e di opposizione, rendendo incomprensibili all’elettorato le linee di azione delle varie forze. Infine, la macchina dello Stato da troppo tempo è senza una guida. Quindi, i migliori suoi servitori sono disorientati, mentre i peggiori traggono profitto dall’assenza di orientamenti per consolidare posizioni di potere, corporative, o semplicemente benefici e rendite di posizione. Gli utenti, i cittadini, subiscono e si lamentano, pagando la tassa occulta che deriva dalla cattiva gestione dei servizi.
Sono questi i veri problemi, che gli annunciatori di catastrofi finiscono per oscurare. La loro soluzione non è facile, non dipende dal governo, è legata alla storia, al modo in cui si è formata la società italiana, al ruolo svolto dalla classe dirigente, al non sanato divario tra Nord e Sud, alla insufficiente cultura organizzativa diffusa, allo stile e ai costumi della politica. Questo non vuol dire che non possano essere affrontati e risolti. Vuol dire che richiedono un’opera di ingegneria sociale lunga e complessa, non pianti, sgomenti e allarmi.

lunedì 7 dicembre 2015

L’Europa deve cambiare

Matteo Renzi
Credo che sia arrivato il momento per le Istituzioni Europee di guardare in faccia la realtà: di sola tattica si muore. Senza un disegno strategico, soprattutto sull’economia e la crescita, i populisti vinceranno prima o poi anche alcune politiche nazionali.
In Italia no. In Italia vinciamo noi perché le riforme stanno finalmente dando frutti: la maggioranza degli italiani sta con chi vuole cambiare, non con chi sa solo lamentarsi.
Io non sono, dunque, preoccupato per l’Italia, ma sono molto preoccupato per l’Europa.
Se l’Europa non cambia direzione subito, le Istituzioni Europee rischiano di diventare (più o meno inconsapevolmente) le migliori alleate di Marine Le Pen e di quelli che provano a emularla.

venerdì 4 dicembre 2015

I numeri dell’immigrazione: i nuovi cittadini italiani superano gli sbarchi


4 dicembre 2015
Lidia Baratta
La Fondazione Ismu ha presentato il 21esimo rapporto sulle migrazioni: i regolari sono il 93%, molti vivono in famiglia, meno di un terzo è di religione musulmana. Diminuiscono gli ingressi per motivi di lavoro. L’Italia è diventata Paese di transito per chi punta verso il Nord Europa
Duecentotrentunomila contro duecentotredicimila. «Tra il 2013 e 2014 sono stati di più gli immigrati approdati alla cittadinanza italiana che quelli sbarcati sulle nostre coste», dice Gian Carlo Blangiardo, professore di demografia all’Università Bicocca di Milano e responsabile del monitoraggio immigrazione della Fondazione Ismu, che ha presentato il suo ventunesimo rapporto sulle migrazioni in Italia. «In Italia è residente il 14,5% del totale degli stranieri presenti nei 28 Paesi europei. Il nostro Paese va considerato a pieno titolo uno dei grandi Paesi europei di immigrazione». Al 1 gennaio 2015 la popolazione straniera in Italia ammonta a 5,8 milioni di individui, di cui circa 5 milioni (93%) sono regolarmente residenti nel nostro Paese. E quattro su cinque vivono all’interno di nuclei familiari con un progetto di vita stabile. Gli irregolari restano però oltre 400mila, in crescita rispetto ai 350mila dell’anno scorso.
GLI SBARCHI Negli ultimi anni gli sbarchi via mare di migranti e richiedenti protezione internazionale sono aumentati. Ma i numeri sono lontani da un’invasione, come qualcuno vorrebbe far credere. Tanto più che l’Italia più che meta di immigrazione è diventata Paese di transito verso altri Paesi europei. Nel bienno 2013-2014 gli sbarcati sulle nostre coste sono stati 231mila (mentre nel 2012 erano stati meno di 20mila), di cui 170mila sono nel 2014, molti dei quali poi hanno «proseguito la loro traiettoria migratoria verso altri Paesi, soprattutto nel Nord Europa», spiegano i ricercatori di Ismu. Nel corso del 2015 lo scenario è cambiato: a causa della pericolosità della tratta tra la Libia e l’Italia i flussi migratori hanno deviato su altre rotte, dirigendosi soprattutto verso la Grecia, per poi proseguire lungo i Balcani. Dall’inizio del 2015 fino al 20 novembre hanno raggiunto l’Europa via mare 863mila migranti, di cui solo 143mila sono arrivati in Italia. Principalmente eritrei, nigeriani e somali. Un fenomeno in crescita è però quello dei minori non accompagnati. Solo dal 1 gennaio alla fine di ottobre del 2015 in Italia ne sono arrivati 10.820. Di molti di loro si perde traccia.
Il 2014 e il 2015 sono stati anni record per il numero dei morti nelle acque del Mediterraneo: dal 1 gennaio al 24 novembre 2015 3.548 hanno perso la vita in mare. L’aumento degli sbarchi è legato all’aumento dei richiedenti asilo. Le domande di asilo nel nostro Paese nel 2014 sono state 65mila. Nei primi dieci mesi del 2015 sono state 61.545 (in Germania sono più del doppio).
“Dall’inizio del 2015 fino al 20 novembre hanno raggiunto l’Europa via mare 863mila migranti, di cui solo 143mila sono arrivati in Italia. Principalmente eritrei, nigeriani e somali”
IMMIGRAZIONE STABILE Dal 2010, per colpa della crisi economica, gli ingressi di non comunitari con permesso per motivo di lavoro sono scesi dell’84 per cento.
Sono in salita invece i permessi per motivi familiari, che nel 2014 rappresentano il 40% del totale. All’inizio del 2015 il numero di famiglie composte da 3-4 persone tra gli stranieri è superiore al numero dei single. Cifre che «dimostrano che la popolazione straniera che vive in Italia è sempre più radicata sul nostro territorio», dice Blangiardo. Le coppie con figli sono quasi il 60% dei residenti. I single sono il 21 per cento. I minori stranieri sono ormai oltre 1 milione. «Le famiglie si radicano così sul territorio attorno a questi bambini che crescono».
Uno straniero su 16 è presente nel nostro Paese sin dalla nascita, mentre oltre il 45% è arrivato prima del 2003, oltre dieci anni fa. Crescono anche i residenti con permesso di soggiorno di lungo periodo. Negli ultimi quattro anni gli extracomunitari con questo permesso hanno superato il 56 per cento. La quota più alta tra albanesi, marocchini ed egiziani.
NUOVI CITTADINI Le acquisizioni di cittadinanza sono in aumento, soprattutto da parte di interi gruppi familiari. Nel biennio 2013-2014, 231mila stranieri hanno ottenuto la cittadinanza italiana, di cui 130mila nel 2014. Nel 2012 erano poco più di 60mila. Un nuovo italiano su tre ha meno di 15 anni.
I MUSULMANI NON SONO LA MAGGIORANZA Gli stranieri aderenti all’Islam rappresentano meno di un terzo del totale degli stranieri, circa un milione e 700mila unità. Poco più di un terzo è rappresentato da cristiani, per metà cattolici, ma crescono anche ortodossi e copti.
“Gli stranieri aderenti all’Islam rappresentano meno di un terzo del totale degli stranieri, circa un milione e 700mila unità. Poco più di un terzo è rappresentato da cristiani, per metà cattolici”
IL MERCATO DEL LAVORO DEGLI STRANIERI Dopo un calo nel primo trimestre del 2015, l’occupazione tra gli immigrati è tornata a crescere, aumentando di 50mila unità rispetto al 2014. Gli occupati stranieri hanno superato la soglia del 10% sul totale degli occupati. Ma se prima della crisi gli stranieri godevano di tassi di occupazione più elevati rispetto agli italiani, questo vantaggio si è via via ridotto, passando dal 65,5% del 2005 al 59,2% del 2015. Gli italiani sono fermi al 56 per cento. Cresce anche la disoccupazione, che è arrivata al 16,9 per cento. «Sempre più», dicono dall’Ismu, «l’Italia si trova così a condividere con gli altri grandi Paesi europei la duplice sfida rappresentata da un lato dagli immigrati che perdono il loro lavoro e dai nuovi immigrati che faticano a trovarne uno».
Tra gli stranieri, gli inattivi sono 1,2 milioni, di cui oltre il 70% è costituito da donne, per via della «difficoltà che trovano nel conciliare l’impegno lavorativo con la necessità di accudire i figli o persone non autosufficienti». Aumentano i Neet anche tra i giovani stranieri, toccando punte preoccupanti soprattutto in alcune comunità. Sono Neet quasi otto donne su dieci nel caso del Bangladesh, quasi sette su dieci nel caso del Pakistan, Marocco ed Egitto.
Ma per gli stranieri che arrivano in Italia le possibilità di carriera sono poche, anche per i più istruiti. Oltre il 70% è occupato come operaio, solo l’1% occupa posti dirigenziali. Dopo il primo lavoro, quasi la metà degli stranieri non ne trova uno migliore. Anzi, quasi un terzo peggiora la propria condizione lavorativa. E negli ultimi anni è aumentata la quota di immigrati occupata nell’agricoltura, con fenomeni diffusi di sottoretribuzioni e lavoro nero. Unica novità: l’imprenditoria straniera, cresciuta del 7% rispetto all’anno precedente.
Si conferma l’immagine dell’Italia come un Paese che attrae soprattutto manodopera poco qualificata: il 42% degli stranieri ha un livello di istruzione basso, solo il 12% alto, contro una media europea del 31 per cento. L’immigrazione nel tempo è divenuta il bacino di reclutamento normale per tutta la fascia di lavori poco qualificati. Non a caso, quattro immigrati su dieci guadagnano meno di 800 euro al mese. Soltanto lo 0,6% ha una busta paga superiore a 2mila euro.
“L’immigrazione nel tempo è divenuta il bacino di reclutamento normale per tutta la fascia di lavori poco qualificati, concorrendo in questo modo ad alimentare un processo di complessivo peggioramento delle condizioni di lavoro“
GLI STRANIERI TRA I BANCHI Nell’anno scolastico 2014/2015 gli studenti stranieri erano 805.800. Ma la percentuale di coloro che abbandonano la scuola, 34,4%, è ancora troppo alta. Così come è alto il tasso dei ragazzi sotto i 15 anni che non riescono a raggiungere un livello sufficiente in lettura, matematica e scienze.
Tra il 2010 e il 2014 le politiche di integrazione scolastiche in Italia sono peggiorate, tant'è che in questi quattro anni il nostro Paese è passato dal 19esimo posto al 23esimo. Gli studiosi di Mipex (Migrant Integration Policy Index) sottolineano la difficoltà che ha la scuola italiana nel rispondere ai bisogni dei differenti target di allievi stranieri, oltre all'assenza di misure per inserire i neo-arrivati più svantaggiati.
“DEFICIT DI INTEGRAZIONE” «Non dobbiamo sottovalutare il deficit di integrazione degli immigrati nei Paesi europei», spiega Vincenzo Cesareo, segretario generale della Fondazione Ismu. «È anche questo che induce a sposare il terrorismo di matrice islamica, un malessere profondo che può indurre i giovani, anche quelli della classe media, a sposare le idee estremiste».
«Non dobbiamo sottovalutare il deficit di integrazione degli immigrati nei Paesi europei. È anche questo che induce a sposare il terrorismo di matrice islamica, un malessere profondo che può indurre i giovani, anche quelli della classe media, a sposare le idee estremiste»
Vincenzo Cesareo, segretario generale della Fondazione Ismu

giovedì 3 dicembre 2015

California, tutte le nostre paure in una sola strage

Vittorio Zucconi 

Astio verso i colleghi? Una pista terroristica? Tante incognite nella strage di San Bernardino di Syed Rizwan Farook e sua moglie Tashfeen Malik. Ma la certezza è che nell'America delle armi libere l'impulso alla violenza si trasforma in sangue. Tra il 2001 e il 2013 le armi da fuoco hanno ucciso oltre quattrocentomila americani (i dati sono dei Centers for Disease Control and Prevention). Nel 2015 le sparatorie sono state ben 355, mentre i morti in un anno raggiungono i 33mila.

Gli investimenti sono arrivati: la ripresa dov’è?


Tortuga dal blog l'inkiesta
Il governo Renzi ha deciso di rinunciare alla redistribuzione e si è lanciato su riforme per aumentare la produttività e la crescita. Ma se gli investimenti finalmente tornano a salire, ora servono segnali dalla produttività per consolidare la ripresa dopo un ventennio bruciato
Stefano Fassina ha definito la politica economica di Matteo Renzi un “liberismo da happy days”, Berlusconi lo accusa di “copiare il nostro programma”, Brunetta e i Cinque Stelle la giudicano fallimentare e incoerente. In effetti, le ricette economiche di Renzi non erano chiare fin dall’inizio, hanno piuttosto preso forma col proseguire degli eventi e dell’azione di governo, passo dopo passo, cercando di mantenere un equilibrio politico precario e cogliendo le occasioni quando si presentavano.
Questa politica economica, giudicata da alcuni un po’ “à la carte”, si è lanciata con forza su riforme riconosciute come “prioritarie”, “di buon senso”, “necessarie” per il rilancio dell’economia in termini produttività e crescita. Piuttosto che da una volontà di redistribuzione della ricchezza o di difesa di particolari interessi o classi sociali, la Renzinomics sembra partire dal concetto che in vent’anni di mancate riforme l’economia italiana sia rimasta ben al di sotto della sua frontiera di efficienza, lasciando ampio spazio per provvedimenti “pareto improving”, in grado nel lungo periodo di alzare tutte le barche, aumentando la torta per tutti. Pochi preconcetti (si parte “da sinistra” ma anche “parlando alla parte più produttiva del Paese”), molto focus sui risultati. Per questo forse il dibattito sui dati è più infiammato del solito: la pura efficacia in termini economici della politica di Renzi è per molti la discriminante fondamentale nel giudizio sul governo.
“Secondo l’Ocse, se implementate fino in fondo le riforme introdotte in Italia potrebbero portare ad un rialzo del Pil del 6 per cento”
Purtroppo, i dati non sono così semplici da interpretare, ma sono facili da estrapolare e sfoderare in un discorso o in un “cartello” di un programma televisivo. Crediamo invece sia utile tirare un attimo le fila riguardo ai fondamentali della nostra economia: crescita, debito e finanza pubblica, lavoro, diseguaglianza e povertà saranno i capitoli su cui costruiremo questa analisi. Facciamo quindi una panoramica volutamente generale, confrontando l’Italia con i partner europei, guardando agli ultimi decenni e utilizzando qualche stima nel breve periodo da fonti autorevoli.
In termini reali l’Italia ha sicuramente recuperato terreno rispetto ai principali partner europei. La crescita del nostro Paese raggiungerà livelli di poco inferiori alla Germania nel 2016, superando la Francia. Padoan you-tuber annuncia questo risultato come il successo della politica di riforme, che ha restituito credibilità e capacità di innovare al Paese. Questa visione è in buona parte condivisa da molti analisti, dalla Commissione Europea e dall Ocse, secondo cui “se implementate fino in fondo le riforme introdotte in Italia potrebbero portare ad un rialzo del Pil del 6 per cento”. Tra queste riforme, si citano la riforma del processo civile, della Pa, il credito d’imposta R&S, ma sopratutto il Jobs Act. Secondo l’Ocse, la riforma del lavoro “traina la crescita”, puntando a sbloccare le assunzioni, a favorire l’investimento in formazione, a rendere più flessibile il mercato del lavoro a fronte però di maggiori sussidi di disoccupazione.
“Prima o poi, il segno più dovrà venire non più dal deficit, ma dall’aumento degli investimenti e della produttività. Gli investimenti negli ultimi sei anni sono crollati, con una ripresa solo negli ultimi trimestri”
Bisogna tuttavia considerare i fattori esterni di cui ha beneficiato la nostra economia, per esempio il basso prezzo del petrolio, che per un Paese con poche risorse energetiche come il nostro significa un crollo nei costi di produzione, ed il QE, che garantisce bassi interessi sul debito pubblico e un euro debole a favore dell’export. Inoltre, come spiegato in questo articolo, le manovre “espansive”, ovvero che utilizzano un deficit di bilancio come successo nel 2014 e nel 2015, per definizione danno una spinta “extra” al Pil che in futuro dovrà essere rimodulata, per evitare l’aumento esponenziale del debito. Prima o poi, il segno più dovrà venire non più dal deficit, ma dall’aumento degli investimenti e della produttività.
Investimenti e produttività erano in effetti due punti chiave del programma Renzinomics: con crescita demografica nulla, investire nell’innovazione ed aumentare la produttività rappresentano l’unica strada per poter crescere nel lungo periodo. Dal 2008 al 2014 gli investimenti sono crollati ad un ritmo medio di 80 miliardi l’anno: le aziende ed i privati hanno congelato gli investimenti, lo Stato ha ridotto la spesa in conto capitale e gli investitori stranieri sono stati spaventati da un Paese inefficiente e a rischio default. Negli ultimi trimestri vi è stato tuttavia un netto miglioramento: da gennaio gli investimenti hanno ricominciato a crescere fino al 6% a trimestre e l’Italia è tornata tra le prime 20 mete per gli investimenti esteri. Ora bisognerà vedere se anche la produttività reagirà ai nuovi investimenti e alle riforme che, come quella del lavoro, hanno l’esplicito obiettivo di aumentare la formazione dei lavoratori e l’efficienza del mercato del lavoro.
Se questo governo ha davvero cambiato verso alla crescita del Paese si vedrà quindi solo nei prossimi anni. Tuttavia, allargando lo sguardo ai dati decennali, dobbiamo renderci conto di come l’Italia esca da un ventennio completamente bruciato: in termini reali, il Pil si attesta su una media di -0,75% tra 2001 e 2014, peggio della Grecia. Il fatto che dopo decenni di stagnazione e i duri colpi inflitti della doppia crisi il nostro Paese stia reagendo testimonia, come dice Padoan, la resilience della nostra economia. In aggiunta a questo, bisogna però riconoscere i meriti di un contesto politico mutato rispetto al Berlusconi deriso in Europa o alle manovre d’emergenza del governo Monti, insieme a una politica economica giudicata favorevole alla crescita dalla maggior parte degli addetti ai lavori e che forse permette una maggiore fiducia, perseguendo esplicitamente un obbiettivo di crescita della produttività.

martedì 1 dicembre 2015

“Diamogli tempo ma Renzi si occupi di più del partito”. Parla Michele Salvati


Stefano Cagelli
L'Unità 30 novembre 2015
Il partito, l’ideologia, le primarie, il doppio ruolo di premier-segretario, il rinnovamento: otto anni dopo la sua nascita, il punto sul Pd con uno dei suoi principali teorici
È stato uno dei teorici più autorevoli del Partito democratico. Otto anni dopo gli abbiamo chiesto quanto di quell’idea originaria ci sia nel partito di oggi. Michele Salvati, economista e politologo vede il bicchiere mezzo pieno: “Il Pd di oggi si avvicina molto a quello che ci eravamo immaginati”. Non nasconde le difficoltà e percepisce tutta la delicatezza del momento. “Diamo tempo a Renzi, ma lui si occupi di più del partito”. Nella nostra chiacchierata parliamo di primarie e di rottamazione, del ruolo del premier-segretario e della necessità di una nuova elaborazione ideologica.
Professore, otto anni dopo la nascita del Pd, che partito abbiamo? Si avvicina a quella che era la sua idea originaria?
“Anche se non coincide perfettamente con l’idea di partito che avevamo allora, si può dire che si avvicina molto. Crollate le grandi ideologie del passato, dal comunismo alla visione dei democristiani di sinistra, l’ideale comune alla base della nascita del Partito democratico doveva essere quello che io chiamo ‘liberalismo di sinistra’. E così è stato, in questo senso si può dire che quello che abbiamo oggi si avvicina all’idea di partito riformista che avevamo otto anni fa”.
In questi otto anni il Partito democratico è cambiato molto e molto rapidamente. Dalla brevissima ma intensa suggestione del Partito del Lingotto con Veltroni alla ditta di Bersani, fino al partito del cambiamento di Renzi basato sul concetto forte di rottamazione. In quale di queste impostazioni si è ritrovato di più?
“Io mi sono ritrovato, da subito con l’impostazione iniziale di Veltroni, perché lui rappresentava l’idea di partito liberale di sinistra. Un partito che superava nettamente le due componenti ideologiche che hanno dato origine al Partito democratico, cioè quella democristiana di sinistra e quella comunista. Dopo di lui la cosa si è attenuata, le due componenti di un tempo, benché ideologicamente defunte, sono tornate ad emergere. Con Renzi è avvenuta una cosa che non poteva accadere con Veltroni: il superamento delle tradizioni precedenti. Renzi è il primo leader del Pd veramente post ideologico”.
Nei giorni scorsi uno dei ‘renziani della prima ora’, Matteo Richetti, ha dato voce ad un malcontento abbastanza diffuso. Partendo dalla constatazione che la rottamazione, soprattutto sui territori e specialmente nella scelte delle candidature, sia sostanzialmente fallita, ha lanciato un campanello d’allarme: “Il Pd – ha detto – è un partito senza identità”. E’ d’accordo?
“Non sono d’accordo con l’idea che il Pd sia un partito senza identità. Sono però d’accordo con il fatto che la rottamazione, intesa come necessario processo di cambiamento, sui territori non si sia ancora compiuta. Stiamo però parlando di un processo che è in corso ed estremamente difficile e complesso. Tenendo conto che Renzi ha dovuto lavorare sulla rielaborazione di un messaggio ideologico da una parte e su un’agenda di governo particolarmente fitta dall’altra, io gli concederei ancora spazio per affrontare la questione del partito”.
Se c’è un problema di gestione del partito, a fronte di quanto di buono sta facendo invece il governo, crede che la questione del doppio incarico premier-segretario debba essere rivista?
“Assolutamente no, non vorrei che si approfittasse di questa situazione per rimettere mano a quella norma. Tornare alla distinzione tra capo del governo e capo del partito porterebbe ad un dualismo che ad un certo punto diventerebbe insanabile con l’uomo del partito che inevitabilmente vorrebbe esercitare un’azione di controllo sull’uomo del governo. Io credo che il segretario, anche delegando, debba trovare le risorse che gli consentano di tenere sotto controllo la gestione del partito. Soprattutto per quanto riguarda il rapporto con i poteri locali, c’è bisogno di un partito forte. Se Renzi riesce a lavorare bene sull’ideologia, a far passare l’idea che l’essere dei liberali di sinistra è altrettanto sexy che essere dei rivoluzionari, penso che gli riuscirà anche meglio il lavoro di ricucitura sui territori. Sì, credo che Renzi debba ristudiare la forma di interazione personale con il partito e con le sue componenti”.
Primarie sì, primarie no. L’ultimo caso che sembra aver mandato un po’ in tilt il partito è proprio quello di Bassolino a Napoli. Secondo lei le primarie sono ancora uno strumento identitario del Pd e pensa sia necessario apportare delle modifiche allo statuto affinché non diano più adito a polemiche?
“Le primarie sono regolate bene, complessivamente. Pensare a modifiche in questo momento sarebbe folle, ma quando lo si potrà fare, lontano da appuntamenti elettorali, io una modifica la farei. Il successo delle primarie sta nel fatto che allargano la platea di votanti rispetto alla base classica del partito degli iscritti, dei militanti. Ma perché le primarie possano esercitare questo ruolo ci deve essere una partecipazione piuttosto elevata di persone. La modifica che farei è l’inserimento di un quorum: per esempio potremmo tenere contro del risultato delle primarie solo se andassero al voto almeno il 10-15% del numero di elettori che ha votato Pd alle precedenti elezioni. Dopodiché se la partecipazione non supera quella soglia, il partito ha il diritto-dovere di intervenire e scegliere il candidato”.
A proposito di primarie, a Milano c’è un dibattito aperto sulla scelta del candidato sindaco che succederà Giuliano Pisapia. Uno dei nomi forti è quello del commissario di Expo Giuseppe Sala. Come giudica la sua (probabile) candidatura?
“Sala è un bravo amministratore, che ha avuto un grande successo e una grande notorietà e che assicura di stare nell’alveo politico-culturale del Partito democratico. Perché non Sala dunque? Io vedo due problemi. Il primo, che spero non si avveri, è che qualche procuratore assetato di notorietà tiri fuori qualcosa che può essere successo durante l’organizzazione di una manifestazione così complessa e così grande come Expo. Se venissero fuori questioni che riguardano Sala nel bel mezzo delle primarie sarebbe un danno non di poco conto. Il secondo rischio della candidatura di Sala è che assomiglia troppo all’uomo per tutte le stagioni, al buon amministratore di condominio che non ha dietro un afflato politico di spessore”.
Sono anni che sentiamo parlare della necessità di rinnovamento della classe dirigente, della necessità per i partiti di fare selezione e formazione. Di fatto, secondo lei, come si forma un nuovo gruppo dirigente, solo attorno alle figure dei nuovi leader?
“I nuovi leader sono sicuramente essenziali, ma non bastano alla formazione di una nuova classe dirigente. Io credo che debba esserci una grande varietà di esperienze, anche professionali. Mi piace l’idea di nuovi leader che si dedichino con passione alla politica ma che abbiano anche altre competenze alla base, gente che non viva e non sia sempre vissuta di sola politica. Vi è poi la necessità, secondo me, che nel partito venga costruito un gruppo che si occupa di elaborazione ideologica e teorica. E’ assolutamente essenziale, soprattutto per una visione estremamente moderna di partito di sinistra come quella di Renzi”.

domenica 29 novembre 2015

Castagnetti: “Nella linea del governo c’è una sapienza antica”


Francesco Cundari
L'Unità 27 novembre 2015
“La prudenza non è moderatismo, ma intelligenza della realtà e delle situazioni”
«C’è una sapienza antica, un sedimento storico, nell’intelligenza con cui il governo italiano sta affrontando la crisi». Autorevole dirigente del Pd e prima della Democrazia cristiana (fu tra i quattro deputati della Dc che nel 1991 votarono contro la partecipazione dell’Italia alla prima guerra del Golfo, quella di George Bush padre), Pierluigi Castagnetti condivide pienamente la linea adottata dal presidente del Consiglio. Sia la sua prudenza dinanzi ai toni bellicisti di altri paesi, rispetto ai quali ha privilegiato finora il momento politico e diplomatico (la priorità di un allargamento della coalizione anti-Isis, la necessità di pensare anche al “dopo” per evitare una «Libia bis»), sia la scelta, sul piano il ruolo dell’Italia è stato preziossimo ed è stato spesso anche un ruolo attivo, per costruire mediazioni e occasioni di dialogo, e per prevenire scontri. È la storia del nostro paese. Probabilmente Renzi non si pone nemmeno l’esigenza di recuperare questa tradizione: certe cose entrano naturalmente nelle vene della politica. E nelle sue vene, evidentemente, sono entrate bene…». Vogliamo dire che stiamo parlando della tradizione democristiana, da Moro a Andreotti? «Sì, ma attenzione: parliamo di una sapienza che era condivisa anche dalle opposizioni, a cominciare dal Pci, e che ha caratterizzato la politica di tutti i governi italiani per una lunghissima stagione, compreso il governo Craxi». La accuseranno di nostalgia per la Prima Repubblica. «Non sono stati anni infecondi, quelli di cui parliamo. Non tutto quel che appartiene al passato è da buttare. Per evitare l’esplosione di conflitti tremendi c’era bisogno di un impegno di grande respiro. L’Italia ha avuto in questo un ruolo molto attivo e di grande iniziativa. La nostra linea non era un’espressione del classico doroteismo dc, era intelligenza e capacità di mediazione in tutto il bacino del Mediterraneo». Si tratta di una linea che è stata anche molto criticata. Alcuni ritengono che poggiasse su una ambiguità di fondo, per non dire su una sorta di doppio gioco, nei confronti dell’alleanza Atlantica. «Era una linea che poggiava sulla conoscenza del mondo arabo. Perché, vede, prerequisito indispensabile per avere qualche idea su come affrontare una situazione, è averne qualche conoscenza. Ma da quando i due Bush hanno cominciato a interno, di accompagnare agli investimenti in sicurezza investimenti di pari ammontare sulla cultura e l’integrazione.
Probabilmente per Matteo Renzi questa è la prova più difficile da quando è diventato capo del governo. Come la sta affrontando?
«Sicuramente è la prova più difficile e a mio avviso Renzi la sta affrontando benissimo: con intelligenza politica e anche con un disegno strategico. Tanto è vero che nessuno riesce a eccepirgli alcunché».
Non si tratta però di una linea così lontana dalla tradizionale politica estera dell’Italia, o sbaglio?
«Certo che no. È una tradizione antica. In occidente, direi almeno dalla crisi di Suez in poi, c’è stata quasi una sorta di delega all’Italia sulle vicende del Medio Oriente e in particolare del mondo arabo. Per decenni il ruolo dell’Italia è stato preziossimo ed è stato spesso anche un ruolo attivo, per costruire mediazioni e occasioni di dialogo, e per prevenire scontri. È la storia del nostro paese. Probabilmente Renzi non si pone nemmeno l’esigenza di recuperare questa tradizione: certe cose entrano naturalmente nelle vene della politica. E nelle sue vene, evidentemente, sono entrate bene…».
Vogliamo dire che stiamo parlando della tradizione democristiana, da Moro a Andreotti?
«Sì, ma attenzione: parliamo di una sapienza che era condivisa anche dalle opposizioni, a cominciare dal Pci, e che ha caratterizzato la politica di tutti i governi italiani per una lunghissima stagione, compreso il governo Craxi». La accuseranno di nostalgia per la Prima Repubblica. «Non sono stati anni infecondi, quelli di cui parliamo. Non tutto quel che appartiene al passato è da buttare. Per evitare l’esplosione di conflitti tremendi c’era bisogno di un impegno di grande respiro. L’Italia ha avuto in questo un ruolo molto attivo e di grande iniziativa. La nostra linea non era un’espressione del classico doroteismo dc, era intelligenza e capacità di mediazione in tutto il bacino del Mediterraneo».
Si tratta di una linea che è stata anche molto criticata. Alcuni ritengono che poggiasse su una ambiguità di fondo, per non dire su una sorta di doppio gioco, nei confronti dell’alleanza Atlantica.
«Era una linea che poggiava sulla conoscenza del mondo arabo. Perché, vede, prerequisito indispensabile per avere qualche idea su come affrontare una situazione, è averne qualche conoscenza. Ma da quando i due Bush hanno cominciato a lanciare interventi privi di logica e prospettiva, solo reattivi, e spesso ingiustificati anche sotto questo profilo, abbiamo disimparato a capire il mondo arabo, e quello islamico in particolare. Ecco, io credo che Renzi, con la linea che sta tenendo, stia dimostrando di conoscere il mondo arabo».
C’è chi lo accusa di eccessiva prudenza, per non dire di peggio. Non vede il rischio di un’autoemarginazione dell’Italia?
«C’è, anche nel dibattito italiano, chi ritiene che la maturità della politica si identifichi con la capacità di fare la guerra. Io penso che coincida invece con la capacità di evitare la guerra. Mi vengono in mente le parole di San Brunone: “Se sei santo prega per noi, se sei dotto insegnaci quello che sai, se sei prudente governaci”. La prudenza non è moderatismo, ma intelligenza della realtà e delle situazioni».

Da Ingroia a Tsipras fino a Grillo, Flores d’Arcais in marcia verso il nulla


Fabrizio Rondolino
L'Unità 28 novembre 2015
L’endorsement del direttore di Micromega mette in difficoltà perfino Di Battista
C’è qualcosa di commovente in Paolo Flores d’Arcais, il direttore di MicroMega, qualcosa che ispira tenerezza in chi lo ascolta: come l’omino Duracell è sempre in marcia, con la risolutezza un po’ cocciuta di chi pensa soltanto a sé nella convinzione che il mondo prima o poi si adeguerà, e ogni volta che cambia direzione – il che gli accade molto spesso – è il mondo che ha cambiato verso, mentre lui, impettito, riprende la sua marcia lineare verso il nulla.
Ieri, ci riferisce il Fatto, ha invitato Stefano Rodotà e Alessandro Di Battista alla presentazione del nuovo numero di MicroMega, e per l’occasione si è solennemente dichiarato grillino: “A sinistra non ci sono più corpi da rianimare. I Cinque stelle sono l’unico movimento votabile, e lo faccio convintamente da anni”. Naturalmente non è affatto vero: alle ultime europee Flores è stato fra i garanti della Lista Tsipras, alle precedenti politiche dichiarò di aver votato la “Rivoluzione civile” di Ingroia – due successi clamorosi, davvero difficili da dimenticare. Ma Flores sbianchetta il proprio passato, forse per ingraziarsi il suo nuovo eroe, Beppe Grillo, e convintamente spiega che “c’è solo una forza che rappresenta le istanze di rappresentanza e legalità, ed è il M5s”.
Neppure il cronista del Fatto riesce a rimanere serio, e nel riportare le parole di Flores osserva: “Troppa grazia, per Di Battista”, descrivendolo “con postura da studente rispettoso” ma anche un pochino preoccupato: “Incassa, ma deve fugare subito sospetti di deriva sinistroide”, e dunque ribadisce che “il Movimento è oltre le ideologie, sinistra e destra sono corpi morti”. Ma Flores-Duracell è già in cammino e non c’è modo di fermarlo: “Il M5s non deve essere autoreferenziale, deve passare all’offensiva”. Come? “Raccogliendo migliaia di firme sul web”. Questa Di Battista deve averla già sentita: ma è un ragazzo educato, e aspetta educatamente che il dibattito finisca.