martedì 29 maggio 2018

incredibile!!! Povero Paese ...

Alessia Rotta
PD
Dopo aver lucrato per 84 gg sulla pelle del paese, scommettendo sul suo fallimento, ora capiscono di averla combinata grossa. Dopo lo spreco di denaro pubblico e i rischi evidenti per la tenuta dei conti del Paese, hanno capito che l'Europa alle loro condizioni sarebbe ben contenta di farci uscire da euro. Chi pagherebbe tanto non sarebbero Salvini o Di Maio ma gli italiani onesti a cui hanno promesso in campagna elettorale mari e monti. E, adesso, dopo giorni di bugie, insulti, gravissime minacce e pressioni di ogni genere sul presidente Mattarella, tornano a fare i saggi fino ad ipotizzare una riapertura del cantiere giallo-verde. L’Italia è in ostaggio di due opportunisti senza scrupoli.

caro Presidente


Caro Presidente Sergio Mattarella,

Siamo gente del popolo, portiamo l’esperienza di tante lotte, in fabbrica e nella società, per le riforme e la giustizia sociale.

Siamo a fianco di cittadine e cittadini, italiani ed europei, indignati di fronte agli attacchi che alcuni esponenti politici Le stanno rivolgendo.

Lei Presidente ha esercitato le proprie prerogative costituzionali rispetto alla formazione di un esecutivo che avrebbe rischiato di portarci fuori dalla moneta unica e così minacciare la stabilità economica e finanziaria del nostro Paese.

La permanenza dell'Italia nel sistema monetario dell'Euro e dell'Europa nel suo complesso è un tema vitale per la nostra economia che non può essere ridotto a propaganda politica di basso profilo senza un serio approfondimento in sede istituzionale.

Grazie Presidente per la coraggiosa e illuminata azione a difesa dell’appartenenza dell’Italia all’Europa della pace e della giustizia sociale sognata da De Gasperi, Shumann e Adenauer.

Ci auguriamo che molti parlamentari bresciani, a cominciare da Alfredo Bazoli e Marina Berlinghieri la sostengano in Parlamento così come noi sentiamo il bisogno di sostenerla con i nostri amici, nei nostri luoghi di lavoro, nei nostri quartieri, nelle nostre associazioni. 

Brescia, 28 maggio 2018

Al messaggio del Circolo ACLI OM IVECO di Brescia hanno aderito Aliberto Taglietti, Lorenzo Paletti, Gianni Landi, Riccardo Imperti, Lelia Pagani, Mario Fappani, Franco Gheza, Martino Massoli, Antonio Vivenzi, Leda Liborio, Stefano Dioni, Silvia Marzoli, Arianna Florioli, Rossella Olivari

domenica 27 maggio 2018

sos

Giorgio Tonini
27 maggio 2018
L’idea di democrazia di Salvini e DiMaio assomiglia ad una partita di calcio con l’arbitro in panchina, legato e imbavagliato. E il fischietto, il cronometro e i cartellini gialli e rossi consegnati alla curva dei sostenitori della squadra di casa. Rigore non è più “quando arbitro fischia”, ma quando ”tifosi urlano”. Non sarebbe più calcio, non sarebbe più democrazia.

venerdì 18 maggio 2018

Essere Ferruccio De Bortoli.



 
Io invidio Ferruccio De Bortoli. Invidio tutti quelli che, come lui, si svegliano una mattina e spiattellano in faccia alla loro audience lobotomizzata idee opposte a quelle della sera prima.
E lo fanno con disinvoltura totale, candida, assoluta, perfetta: come se davvero l’illogicità e l’incoerenza del loro pensiero non fossero motivo di una vergogna anche minima, di un vago rimorso. Come se non vi fosse davvero nessuno capace di accostare due pagine e giudicare ciò che vi è scritto, prescindendo dall’emozione del momento.
Stamattina De Bortoli rampogna Totò e Peppino criticando il loro ridicolo contratto e parlando di ‘ricreazione finita’. Lo fa dopo aver fucilato senza tregua Matteo Renzi e il centrosinistra. Dopo aver scritto – ma soprattutto venduto – un libro sui “poteri forti”, alle cui mammelle è rimasto attaccato per decenni, spacciando per nemico del popolo una Maria Elena Boschi la cui unica colpa era la vicinanza a Renzi. E scegliendosi la Boschi come bersaglio sapeva perfettamente di poter contare sul “crucifige” grillino, che ha fatto da colonna sonora e da cassa di risonanza alla sua operazione editoriale. 
Ma benedett’uomo, tanto poco valuti i quattro lettori che ti sono rimasti? Davvero pensi che fare il giornalista equivalga a imbrattare mezza pagina con il pensierino che in quel momento ti viene più facile e più utile?
Come ti è stato possibile dirigere un quotidiano, come hanno potuto lasciartelo fare?
Chi come te ha vissuto una vita – e che vita – con le parole e di parole, davvero non riesce a misurarle, a dar loro un peso e un valore, a riferirle a una qualche forma di etica e responsabilità sociale?
E poi proprio tu inviti quei due sciagurati, prodotto anche del tuo cinismo e della tua vigliaccheria, a “fare i conti con la realtà”? E tu dov’eri quando quella realtà prendeva forma, giorno dopo giorno, anche grazie alle tue parole? Dov’eri quando i “sogni” venivano imbanditi sulla tavola degli italiani e avrebbero avuto bisogno di un giornalista vero che li denunciasse? Quando la “ricreazione” già ampiamente in corso veniva ostinatamente mistificata da tutti i media nazionali in coro?
Non sai che il nostro primo dovere è quello di scegliere, e tu hai scelto, da tempo e con tutto te stesso, Di Maio e Travaglio?
Ora non li scarichi, caro De Bortoli, non te ne lavi le mani. Chiunque ti abbia letto sa che sei responsabile quanto loro della ricreazione e dei sogni che muoiono all’alba.
Ora sei sullo stesso carro di Travaglio, di Grillo, di Di Maio, di Salvini: goditi la compagnia.


domenica 13 maggio 2018

Che schifo questa Terza Repubblica


Mario Lavia
Democratica 12 maggio 2018
La “ciliegina”-Berlusconi sul caos politico e istituzionale creato dalla coppia Di Maio-Salvini. Un monumento a Mattarella per la pazienza
Che schifezza quest’alba di Terza Repubblica! Ora siamo al punto che due parlamentari – si chiamano Luigi Di Maio e Matteo Salvini – conducono da giorni una “trattativa” per formare il governo senza che nessuno dei due ne sia stato incaricato dal capo dello Stato (al quale dovrà essere eretto un monumento per l’infinita pazienza con la quale aspetta che quei due cavino un ragno dal buco).
L’accordo sulle poltrone non c’è. Altro che “passi avanti”, come recitano le veline che l’informazione si beve e propala.
Come giustamente scrive Lina Palmerini sul Sole 24Ore, “se è vero che sulla lista dei ministri si va avanti ma non c’è un accordo sul premier, questo è un modo di procedere che va contro la prassi costituzionale cui Mattarella intende attenersi scrupolosamente. Non si può chiudere l’accordo prima sulla squadra e infine su chi guiderà Palazzo Chigi”: sarebbe “un rovesciamento logico” ma anche – diciamo noi – una violenza al potere del capo dello Stato di nominare, egli, i ministri.
Siamo dunque al caos politico e ormai anche al caos istituzionale.
Fino all’andreottiana mossa di Di Maio che va a chiedere col cappello in mano alla orbaniana Giorgia Meloni di entrare nel governo (ma a nome di chi lo ha chiesto?), calpestando l’assunto di voler trattare solo con la Lega e spingendo il suo sguardo bramoso di potere verso l’estrema destra. E ottenendone peraltro uno sdegnoso rifiuto – il ragazzo di Pomigliano ne sta collezionando diversi…
Pietoso poi il piagnisteo dei vari De Masi, Jacopo Fo, Marescotti, Flores d’Arcais (chissà che dice, fra un flop e l’altro, Claudio Amendola): in odio al Pd ora si beccano questa mondezza politica. Altro che tradimento dei chierici! Siamo sempre il Paese dei guitti, e pure col ditino alzato a fare la morale a tutti, salvo poi sparire quando fuori comincia a grandinare. Verrà prima o poi il tempo dell’autocritica, cari attori e professori, caro Marco Travaglio che ti lecchi le ferite con rocamboleschi giramenti di frittata?
In tutto questo squallore, infine piomba la notizia che il Tribunale di Sorveglianza di Milano consente a Berlusconi – gran protagonista della fase politica grillino-leghista, altro che – di candidarsi alle elezioni. Un quarto grado, legittimo per carità, che cancella, dispone, riabilita. Coincidenze, certo. Coincidenze. Una ciliegina piovuta dal cielo sulla torta già inacidita preparata da questi “statisti” della Terza Repubblica.
Altro che popcorn, qui presto ci vorranno i cortei.

mercoledì 9 maggio 2018

Liberare Aldo Moro dal "caso Moro"

David Sassoli
9 maggio 2018
L'immagine che abbiamo di Aldo Moro è quella di un prigioniero, con la barba lunga, i capelli spettinati, lo sguardo fisso e la camicia sbottonata. È un'immagine ma anche un contenuto, perché fissa nella memoria del paese un momento tragico della sua storia. Il leader indiscusso della Democrazia cristiana e del paese si avvia verso la morte. È il 1978 e quei 55 giorni del sequestro, con la strage degli uomini della scorta e l'assassinio del prigioniero, fissano un prima e un dopo nella storia della Repubblica. Eravamo a trentacinque anni dalla fine del fascismo, così come oggi siamo a quarant'anni da via Fani. E a contrassegnare il prima e il dopo sono la presenza e l'assenza di Aldo Moro. Fino a quel momento lui c'era sempre stato. C'era stato soprattutto nei passaggi che imponevano audacia e prudenza, determinazione e flessibilità: negli anni della Costituente e del centrismo, nella costruzione dell'incontro fra cattolici e socialisti, nella tenuta del carattere antifascista della Repubblica di fronte ad una destra eversiva alimentata da cenacoli internazionali, nel dialogo con il Partito comunista italiano per consentire di affrontare la crisi del sistema politico senza arroccarsi, ma cercando di superarla allargando l'area di consenso alla maggioranza. Passaggi difficili, segnati da forti tensioni interne ed esterne, da diffidenze e addirittura da tentativi di colpo di Stato. La figura di Moro è quella di un sacerdote della Repubblica a cui ci si affida nel momento del bisogno.
Non è stata un'Italia tranquilla quella degli anni '50, '60 e '70, nonostante il boom economico, l'affermazione di diritti e la crescita di un'opinione pubblica più esigente. L'Italia non era un paese qualsiasi dell'Europa occidentale, ma una vera e propria frontiera. Marcava il confine fra Est e Ovest e questo ne limitava i movimenti. Sul nostro paese l'attenzione internazionale era sempre al massimo grado di osservazione. Come in ogni frontiera, la sfera politica e quella militare non ammettevano vistose dissonanze.
Le ricerche storiche negli ultimi vent'anni hanno consentito di precisare i numerosi conflitti e incomprensioni che via via hanno accompagnato le relazioni fra il sistema governativo italiano e il sistema internazionale di riferimento. Di notevole interesse al riguardo il lavoro dello storico
Umberto Gentiloni Silveri, "L'Italia sospesa" (Einaudi, 2009), in cui emerge la capacità della classe politica italiana di muoversi con sufficiente autonomia consentendo di non snaturare i presupposti del sistema democratico. Lo testimoniano i report degli incontri delle varie delegazioni ministeriali italiane alla Casa Bianca; lo dimostrano le resistenze della classe politica, in numerosi passaggi politici, ad abbandonarsi a forme di rigido atlantismo (vedi Mastrolilli-Molinari "L'Italia vista dalla Cia", Laterza 2005).
Fino al 1978 in ogni passaggio difficile c'era la sicurezza della presenza di Moro. Era stato così nel superamento dell'esperimento Tambroni, nella nascita del centrosinistra organico con la forte opposizione della Chiesa italiana, nella crisi per la formazione del secondo governo di centrosinistra quando "il tintinnar di sciabole" e le pressioni minacciose di circoli atlantici cercarono di interrompere la collaborazione fra la Dc e il Partito socialista italiano. Questo passaggio vide Moro protagonista assoluto della difesa dell'autonomia del paese, anche a costo di sentirsi male per le difficoltà a resistere alle pressioni della destra interna e internazionale, come ha ben raccontato Mimmo Franzinelli nel suo documentatissimo "Il piano Solo" (Mondadori, 2010).
"Moro è uomo tenace, legato al progetto politico", scrive Pietro Nenni nei " Diari 1957-'66". Una definizione che stride con l'immagine che rimbalzava sui media, propensi a definirlo fumoso, arzigogolato, addirittura inconcludente. In realtà il carattere schivo e pacato non deve trarre in inganno. Moro era un uomo scrupoloso, attento ai dettagli, fine ragionatore. Un costruttore di equilibri politici sempre più avanzati portati avanti con lucidità e coraggio. Chi ha potuto esaminare le sue carte, custodite presso l'Archivio di Stato, si sarà reso conto della mole di materiali conservati nel suo studio in via Savoia. Un vero antro di mago Merlino, con rapporti che arrivavano da tutte le ambasciate del mondo, carte riservate, report di amici e personaggi influenti, documenti governativi protocollati, carteggi, rassegne stampa internazionali, dossier. Per trent'anni, materiali di ogni tipo e provenienza, sistemati metodicamente, arrivavano al Presidente anche quando non aveva incarichi ministeriali. Le informazioni servivano ad avere notizie di prima mano, a capire grandi e piccole strategie, sommovimenti, reazioni, attrezzare risposte e offrire rassicurazioni.
Costruire una politica non è intuirla, ma darle consenso. E non è mai un procedere per strappi. "In Moro - scriverà Pietro Scoppola - non vi sono illusioni illuministiche e neppure l'idea che si possa costruire la storia senza difficoltà, senza ostacoli, solo intuendo gli obiettivi e dichiarandoli. In Moro c'è il senso che la costruzione è lenta, faticosa, che continuamente si misura con la debolezza degli uomini, con l'incoerenza, con la caduta. E' un insieme di pessimismo e speranza".
E per incoraggiare o placare, rassicurare e convincere vi è la parola. Per Moro è strumento della politica. Parole soppesate, calibrate che lascino spazio a molteplici interpretazioni in cui gli avversari non trovino mai la porta chiusa e gli amici non percepiscano abbassamenti di guardia.
La parola e il tempo. Lungo, lento. Moro scrive giovanissimo che la politica lascerà sempre insoddisfatti, mai appagati. Non è uno scrigno che custodisce la felicità. Le riflessione giovanili, contenute nel volume di Lucio D'Ubaldo "La vanità della forza" (Eurilink, 2016), offrono spunti per comprendere il percorso formativo che ritroveremo coerente nell'età matura.
L'immagine di Moro, in trent'anni di cronaca italiana, è stata quella di un uomo riflessivo, appartato, a volte malinconico, carico di pudore, e di un pudore antico e sofferto. E soprattutto quella di un uomo paziente. Dello Stato sa tutto, conosce tutti, non è una meteora. Nel '48, a 32 anni, è sottosegretario agli Esteri e da allora capogruppo della DC, ministro tante volte, segretario della DC, Presidente del Consiglio. E' professore di diritto, un filosofo del diritto, ed è padre di quattro figli.
Prima del rapimento era considerato un instancabile mediatore. In tanti, e Henry Kissinger è fra costoro, lo indicavano come un uomo che sfumava sempre e non decideva mai. Sommava su di se anche fisicamente il peso di una politica alla ricerca del male minore. Fra ideali e realtà lo scarto è sempre grande. E la politica è il luogo dove interessi e valori devono trovare composizione.
Moro mediatore, ma con una missione da compiere: quella indicata fin dal dopoguerra dalle migliori intelligenze cattoliche che, nella DC o alla Costituente, pensavano che per rendere forte la democrazia, le istituzioni dovessero poggiarsi su un vasto consenso popolare. Con Dossetti, La Pira, Fanfani, Lazzati c'era anche Moro. Allargare le basi democratiche dello Stato, si dirà in seguito. E allargarle a sinistra, ai socialisti prima, ai comunisti poi, con una formula politica tutta da inventare, ma sempre senza allarmare, impaurire, tranquillizzando, coinvolgendo e avvolgendo, alla ricerca di un consenso largo. Consenso: questo è il principio di una politica democratica.
La classe dirigente era abituata ad affidarsi ad Aldo Moro come ad uno che consiglia, invita alla prudenza, stimola. Ma dal 16 marzo '78, per la prima volta da trent'anni lui non c'è più. In quei 55 giorni di sequestro, Moro non può incontrare i suoi colleghi e loro non riescono ad ascoltarlo.
Un mese prima del rapimento, dopo anni di dibattiti e polemiche sulla strada da seguire per uscire da una crisi politica ed economica molto grave, il leader DC convince il suo partito ad accettare una collaborazione con il PCI. I comunisti erano da sempre l'avversario da battere ad ogni competizione elettorale e l'anticomunismo era un collante forte e robusto per la DC. Ma la situazione era tale che alcuni steccati dovessero cadere per consentire di superare la crisi con la nascita di un governo monocolore democristiano.
Moro parla a braccio ai gruppi parlamentari del suo partito ed il discorso per contenuto, psicologia, lessico, ritmo, sviluppo, tecnica di ragionamento, capacità di convincimento, coinvolgimento emotivo, è un capolavoro dell'oratoria politica. Il leader DC fa sue le obiezioni che gli vengono rivolte, se ne appropria, le svuota, le usa per rafforzare il suo punto di vista.
Per molti l'accordo con il Partito Comunista è un passaggio spericolato, ma Moro convince i suoi amici e lo stesso fa con il Pci che, per la prima volta accetta di sostenere un governo di soli democristiani, anzi di DC scelti negli ambienti più moderati, senza entrare nell'Esecutivo. Ancora una volta istituzioni sostenute da un sempre più largo consenso popolare.
La democrazia è processo, non sono soltanto regole. Il governo di solidarietà nazionale deve nascere proprio la mattina del 16 marzo. Moro deve andare in Parlamento per il battesimo del nuovo governo, poi all'Università perché ci sono le tesi di laurea.
In via Fani finisce il prima e da quel momento Moro non ci sarà più.
La sera del 15 marzo è la viglia del sequestro ma anche, come abbiamo visto, la vigilia di un passaggio storico nella vita della Repubblica. Giovanni, il figlio dello statista, ha 20 anni, torna tardi a casa la sera e trova suo padre seduto in poltrona a leggere un libro. Si saluteranno per l'ultima volta, come racconta Miguel Gotor nel "Memoriale della Repubblica" (Einaudi 2011). Il testo, insieme a quello di Giovanni Bianconi "Eseguendo la sentenza (Einaudi, 2008), è obbligatorio per chiunque voglia capire il contesto e quanto avvenuto in quei 55 giorni.
Quella sera Aldo Moro sta leggendo l'opera del teologo protestante Jürgen Moltmann, "Il Dio crocifisso". Un classico che sarà preso a prestito dai teorici della teologia della Liberazione. Poche ore dopo Moro diventerà "il caso Moro" e il politico, l'intellettuale e il giurista resteranno schiacciati da una vicenda per molti aspetti ancora da chiarire, ma che non lo riassume. Aveva 61 anni, sembrava molto più anziano, e le sue riflessioni hanno ancora molte cose da dire ad un paese in cui l'orgoglio prevale sulla responsabilità e nel quale la moralità della politica non si valuta mai nelle conseguenze che si provocano.

martedì 1 maggio 2018

Non sono in gioco le vostre carriere ma un Partito


Mario Lavia
Democratica 1 maggio 2018
Ora fateci capire se è possibile un gruppo dirigente unitario e regole condivise per arrivare al congresso-primarie
Un Primo Maggio umido e per davvero con le bandiere abbassate, questo, per la sinistra italiana, il centrosinistra,il Partito democratico.
C’ė ben poco da festeggiare, e non sarà il pur inaspettato più 1% in Friuli a tirare su il morale. È veramente da mangiarsi i gomiti, come si dice a Roma: nel momento in cui gli autoproclamati “vincitori” del 4 marzo annaspano fra le onde della loro cupidigia di potere e della loro insipienza politica (in questo senso la parabola di Luigi Di Maio è illuminante), proprio in questo momento – dicevamo – ecco che il Pd eleva al cubo tutte le sue contraddizioni, fino a creare un ginepraio di cui quasi si smarrisce il senso.
Noi che naturalmente siamo da questa parte – Democratica cerca di fare il suo lavoro di comprensione e descrizione della realtà con un chiaro indirizzo politico – dovremo cercare di capire quanto sta avvenendo e raccontarlo in modo chiaro: ma stavolta è più difficile di altre.
Non la vogliamo fare lunga. Pensiamo che in queste ultimi giorni abbiano sbagliato un po’ tutti, in forme diverse.
C’è un errore a monte. Non aver discusso seriamente le cause della sconfitta del 4 marzo per poter apportare subito quelle correzioni e quelle innovazioni che il voto ha sentenziato essere indispensabili. Si è pensato – sbagliando – che le dimissioni di Renzi lavassero tutte le colpe. Anche e soprattutto Renzi ha sbagliato ad assecondare questa fuga dalla realtà, diretta conseguenza delle sue dimissioni, peraltro dovute.
A parzialissima giustificazione di questo, c’è il fatto che è piombata sul Pd tutta la questione del che fare in relazione alla crisi di governo. Per cui il tema della “linea” si è accantonato (il rinvio dell’Assemblea Nazionale è un’emblema di questa situazione).
Sulla crisi, una posizione comunque si era individuata: niente intese con i “vincitori”. Per varie e sensatissime motivazioni.
Via via, anche per effetto della inevitabile iniziativa altrui, Martina ha ammorbidito il nyet iniziale: per duttilità personale? Per la pressione di autorevolissimi dirigenti, da Franceschini a Fassino? Per l’influenza dei ragionamenti del Quirinale? Per autonomizzarsi da Renzi?
Fatto sta che Martina ha un po’ forzato, nelle parole più che nei gesti, la posizione.
Intanto cresceva, sui social soprattutto (con tratti di arroganza e indisponibilità a discutere), una forte presa di posizione “renziana” per mantenere la linea del no all’intera con i grillini.
Poi – venerdì scorso – era maturata la classica mediazione: la Direzione accetti un confronto con il M5s ponendo però un'”asticella di compatibilità” così alta da rendere inevitabile il naufragio della trattativa. Era parso, a noi almeno, un discreto punto di compromesso in grado di evitare una conta/spaccatura.
Quindi domanica sera Renzi è andato da Fazio spiegando le ragioni della posizione formalmente ancora “vigente”, quella del no. Cioè, Renzi ha difeso la linea del Pd. Ma Renzi è Renzi. E dà sempre la sensazione di passare sopra le cose come un carro armato. Martina ha platealmente preso cappello – uno scatto che ha drammatizzato la situazione. Franceschini è sceso in campo con insolita ruvidezza.
Molti dicono che Renzi avrebbe dovuto aspettare la Direzione del 3 per parlare: cosa plausibile, ma ovviamente ignorata da tutti gli altri dirigenti, che rilasciano interviste tutti i giorni non pensando minimamente ad aspettare il 3. Ma Renzi è Renzi. E ogni volta che parla (ma anche quando sta zitto!) si crea un problema.
Non sappiamo in che modo, ma questo problema va affrontato e risolto una volta per tutte. Ci spieghino se sia ancora possibile un compromesso serio fra i dirigenti del Pd tale per cui nasca un gruppo dirigente largo, plurale, autorevole, riconosciuto da tutte le componenti. Si indichino regole condivise sul come si deve dirigere il partito. Si stabilisca chi ci sta e chi no.
Forse per il Pd ci vorrebbe quello che ci vuole per l’Italia: una fase di decantazione con un “governo del Presidente” che rimetta in sesto il corpo malato del partito e lo riporti alle urne, cioè al Congresso-primarie.
Intanto si tratterebbe di darsi tutti una calmata. Non sono in gioco le vostre carriere, sono in gioco le sorti del solo partito della sinistra italiana che è rimasto.