lunedì 27 giugno 2016

Dalla Spagna arrivano buoni argomenti a favore della riforma italiana.


Giorgio Tonini
27 giugno 2016
Le elezioni spagnole, a distanza di soli sei mesi dalle precedenti, hanno di nuovo dato un risultato nullo: i quattro partiti principali si sono spartiti i seggi senza lasciar intravedere alcun governo possibile. I seggi della Camera spagnola sono 350. I popolari ne hanno conquistati 137, i socialisti 85, l'alleanza tra Podemos e Izquierda Unida 71 e Ciudadanos 32. Altri 25 seggi sono andati a forze minori. L'unico governo possibile è una "Grosse Koalition" alla tedesca tra popolari e socialisti. Ma i socialisti spagnoli non sono entusiasti all'idea di seguire le orme della Spd, che sta pagando caro, in termini di consenso, il suo appoggio a Frau Merkel. Per di più, i popolari spagnoli non sono democristiani storici come la Cdu, ma un partito dalle altrettanto storiche radici franchiste. Sarebbe insomma un'alleanza difficile: sia sotto il profilo programmatico, che sotto quello politico-culturale. Rischierebbe di aprire spazi immensi a Podemos-IU. D'altra parte non si può neppure pensare di tornare a votare per la terza volta... Anche perché, nel frattempo, Rajoy continua a governare da mesi senza la fiducia del Parlamento... Un bel rompicapo.
A meno che... A meno che non si faccia decidere agli elettori quale dei due partiti arrivati primi debba governare. Con un bel ballottaggio tra popolari e socialisti. Come prevede la legge elettorale in vigore da noi, il cosiddetto "Italicum". Che assegna al partito che al primo turno supera il 40 per cento dei voti una (limitata) maggioranza assoluta in seggi (340 su 630). E se nessuno arriva a quella soglia (come è successo in Spagna), restituisce la parola agli elettori, facendo decidere a loro quale delle due forze maggiori debba governare.
Sarà opportuno tenere bene a mente la "lezione spagnola" quando, in autunno, andremo a votare al referendum costituzionale. Se voteremo Sì alla riforma avremo un sistema che, superando il bicameralismo paritario, assegnando alla sola Camera il potere di dare e togliere la fiducia al governo e prevedendo (fuori dal testo costituzionale, ma in coerenza con esso), una legge elettorale maggioritaria a doppio turno (per l'appunto l'Italicum), crea le condizioni perché siano i cittadini-elettori a decidere chi debba governare. Se invece vinceranno i No, ci terremo il Senato attuale, doppione della Camera, e ci troveremo in uno scenario spagnolo: alle prossime elezioni, assai probabilmente, non vincerà nessuno e bisognerà mettersi a discettare di governi di coalizione tra forze eterogenee, governi tecnici, deboli, instabili e non decisi dagli elettori. Il massimo, in un momento difficile come quello che tutta l'Europa sta attraversando...
I rapporti di forza emersi dalle recenti elezioni amministrative hanno dimostrato che il governo del paese è e resta contendibile, almeno da tre proposte politiche diverse: Pd, M5s e centrodestra. Tutti e tre possono ragionevolmente aspirare a vincere e governare. Perché allora M5s e centrodestra si ostinano a opporsi alla riforma e all'Italicum? È chiaro: perché non vogliono che Renzi e il Pd si appuntino al petto la medaglia di aver finalmente portato a casa una riforma della quale il paese ha un grande bisogno e che è attesa da decenni. Ma è altrettanto chiaro che si tratta di una posizione cinica e miope. Cinica, perché ignora l'interesse del paese ad avere un governo stabile legittimato dagli elettori. E miope, perché sembra ignorare che alle prossime elezioni politiche potrebbe toccare a uno dei due poli del No mangiarsi le mani, quando si troverà nell'impossibilità di governare, pur avendo, magari, vinto le elezioni.

domenica 26 giugno 2016

Cari ragazzi, l'Europa è vostra: non lasciate vincere i venditori di paure


Oggi le paure dei vostri genitori e dei vostri nonni hanno deciso che la Gran Bretagna tornasse ad essere un’isola, che voi diventaste stranieri dall’altra parte della Manica
di MARIO CALABRESI
Cari ragazzi europei, siete nati in un continente di pace, non avete mai visto la guerra sotto casa, siete cresciuti senza frontiere, progettando di studiare in un altro Paese, fidanzandovi durante l’Erasmus, scambiando messaggi con gli amici sulle occasioni per trovare lavoro o sui voli meno costosi per vedere un concerto.
Non importa se siete nati a Cardiff, a Bologna, a Marsiglia a Barcellona o a Berlino, oggi le paure dei vostri genitori e dei vostri nonni hanno deciso che la Gran Bretagna tornasse ad essere un’isola, che voi diventaste stranieri dall’altra parte della Manica.
I vostri nonni, che sanno cosa è stata la guerra, dovrebbero avere a cuore un futuro di libertà per voi, ma insieme ai vostri genitori si stanno lasciando incantare da chi racconta che rimettere muri, frontiere, filo spinato servirà a farci vivere più tranquilli, sicuri e sereni. Che tornare ad avere ognuno la propria moneta riporterà lavoro, prosperità e futuro.
Vi stanno raccontando che la democrazia diretta e i sondaggi in tempo reale risolvono magicamente i problemi, che esistono sempre soluzioni semplici e a portata di mano, che non c’è più bisogno di esperti e competenze, che la fatica e la pazienza non sono più valori, che smontare vale più di costruire. Il continente è malato, ma la febbre di oggi è la semplificazione, l’idea che sia sufficiente distruggere la casa che ci sta stretta per vivere tutti comodamente. Peccato che poi restino solo macerie.
Aprite gli occhi, guardate lontano e pretendete un’eredità migliore dei debiti. Vogliamo avere pace, speranza e libertà, non rabbia, urla e paure.
Tappatevi le orecchie, non ascoltate gli imbonitori e pretendete politici umili, persone che provino a misurarsi con la complessità del mondo e siano muratori e non picconatori.
Segnatevi sul calendario la data di ieri, venerdì 24 giugno 2016, e cominciate a camminare in un’altra direzione, a seminare i colori e le speranze.
Una ragazza inglese che ha votato sì, ma non è riuscita a convincere suo padre e suo zio a fare lo stesso, ieri ha promesso ai suoi amici europei, con una voce tremante che mescolava imbarazzo e rabbia: “Verrà il nostro turno della nostra generazione e allora torneremo”. Ci contiamo.

sabato 25 giugno 2016

c'era un ragazzo che come me...

...Non è sconvolgente che a decretare la Brexit sia stata proprio la generazione dei Beatles e dei Rolling Stones, quella che voleva cambiare il mondo e oggi in effetti lo ha cambiato, ma nel senso che se lo è chiuso dietro le spalle a doppia mandata? ...
Massimo Gramellini

mercoledì 22 giugno 2016

Romano Prodi: “Contro il populismo serve progetto e radicamento popolare”


L'Unità 22 giugno 2016
Romano Prodi in un’intervista a Repubblica commenta il risultato elettorale e il quadro internazionale
Parlando a Repubblica dal suo ufficio di Bologna Romano Prodi commenta il risultato elettorale e analizza ciò sta succedendo ai partiti e alla politica, più in generale alla classe dirigente.
“Alle grandi forze politiche nazionali manca un’interpretazione della storia e del presente” dice il Professore  che avverte anche sul rischio del logoramento. “Cambiare politiche, non solo politici. Se non cambiano le politiche, il politico cambiato si logora anche in due anni”. E’ la sintesi della ricetta messa in campo.
Prodi sottolinea come non esista un progetto per uscire dalla crisi e che la personalizzazione della politica sia la prima risposta alla crisi. “La gente vota i politici perché spera che cambino le cose, la personalizzazione è un riflesso. Infatti in queste elezioni hanno vinto dei volti sconosciuti. La personalizzazione non regge se non cambia le cose, o non dà almeno la speranza concreta di poterle cambiare”.
L’ex premier si sofferma anche sul quadro internazionale strettamente legato a quello italiano: “Non basta guardare il voto di questa o di quella città. C’è un’ondata mondiale, partita in Francia, ora in America. Lo chiamano populismo perché pur nell’indecifrabilità delle soluzioni interpreta un problema centrale della gente nel mondo contemporaneo: l’insicurezza economica, la paura sociale e identitaria”.
E sulle ragioni della vittoria dei Cinque Stelle, spiega che “Hanno risposte emotive e confuse, semplici motti specifici su angosce specifiche, via gli immigrati, punire le banche, ma neanche una riga che spieghi come potrebbero fare. Ma il loro vantaggio è un altro: sanno adattarsi alle paure. Questi movimenti nascono in genere molto di parte, orientati, partigiani. Hanno un certo successo poi si fermano, perché le loro soluzioni mostrano un limite ideologico. E allora si allargano da destra a sinistra e da sinistra a destra”.
Infine delinea la direzione da seguire: “Progetto e radicamento popolare. Il cambiamento possibile, fatto entrare nel cuore della gente. Il solo ad averlo capito è papa Francesco”.

martedì 21 giugno 2016

Volare al governo


Giorgio Tonini
20 giugno 2016
"E ora voliamo verso il governo nazionale". Così Beppe Grillo ha commentato la netta vittoria del M5s ai ballottaggi di ieri. Un obiettivo non solo legittimo, ma pure realistico. Anche se l'esperienza storica dice che non sempre i successi alle amministrative si ripetono alle elezioni politiche. Perché gli elettori distinguono nettamente e con sapienza tra l'elezione di un sindaco e la scelta del governo nazionale. E perché le grandi città sono solo una parte del Paese e neppure quella maggioritaria: la maggioranza degli italiani vive in provincia, nei piccoli centri e senza il voto di questa Italia "profonda" non si arriva al governo del Paese. Naturalmente questo "caveat" vale per tutti, non solo per il M5s. Vale anche per il Pd. E dunque esso non inficia minimamente il carattere realistico dell'obiettivo indicato ai suoi militanti ed elettori da Beppe Grillo. Piuttosto, l'ambizione di "volare al governo" deve fare i conti con una fastidiosa, ma ineludibile domanda: se il volo dei grillini avrà successo, lo troveranno davvero il governo del Paese? O troveranno invece un sistema ingovernabile? Non è una domanda oziosa. Nei comuni, dove hanno vinto la competizione elettorale, i candidati sindaco hanno conquistato la guida delle rispettive città. Se ciò è potuto accadere è per merito di un sistema istituzionale (elezione diretta del sindaco con annesso premio di maggioranza in consiglio comunale) e di una legge elettorale (a doppio turno) che consentono ai cittadini di decidere chi deve governare le città e a chi vince le elezioni di essere messo nelle condizioni di farlo. Ma questo scenario potrà essere replicato sul piano nazionale alle prossime elezioni politiche? La risposta non può che essere problematica: dipende. Dipende da come andrà il referendum sulla riforma costituzionale (e, indirettamente, su quella elettorale), previsto per il prossimo mese di ottobre. Se vinceranno i Sì e la riforma potrà quindi entrare in vigore, alle prossime elezioni politiche una forza, quella premiata dal voto dei cittadini, potrà effettivamente "volare al governo nazionale". Se invece vinceranno i No e la riforma sarà bocciata, andremo a elezioni politiche che, con tutta probabilità, per non dire con assoluta certezza, non consacreranno nessun vincitore e nessuno potrà quindi "volare" al governo: si dovrà "aprire un tavolo di trattative e verificare la possibilità di convergenze politiche e programmatiche che consentano la formazione di un governo tra forze politiche che sono e restano alternative tra loro", eccetera eccetera eccetera. Auguri. Dunque, solo se e a ottobre vincerà il Sì, nel 2018 saranno gli elettori a decidere chi deve governare il paese. E mi pare di assoluta evidenza, tanto più dopo i risultati di domenica, che la partita sia aperta, anzi apertissima, come deve essere in una vera e solida democrazia. Forse anche a molti avversari del Pd, a cominciare dal M5s, converrebbe quindi riflettere per un attimo, con serietà e onestà: davvero un No in odio a Renzi vale il prezzo di gettare il paese nell'ingovernabilità, quando invece, approvando le riforme, si potrebbe, agli elettori piacendo, "volare" alla guida di un paese governabile e per questo forte e rispettato in Europa?

Il voto


Pierluigi Castagnetti
20 giugno 2016
"Non è stato un voto di protesta, ma di cambiamento", ha appena detto Matteo Renzi. Le due valutazioni peraltro non sono in contraddizione: si protesta perché si vuole un cambiamento; si vuole cambiare perché non piace la situazione precedente. Io mi limito a osservare che non si tornerà indietro, chi ha votato in un certo modo lo ha voluto fare e non è vero che può essersi pentito: le esperienze passate ce lo confermano. E, dunque, chi pensa che se il Pd si fosse collocato un po' più a sinistra o un po' più a destra avrebbe vinto, metta il cuore in pace: è cambiato lo stato d'animo dei cittadini, la loro mobilità elettorale, il loro abbandono di ogni senso di appartenenza ideologica. Sarà bene che nella Direzione nazionale Pd del 24 giugno lo si consideri. Ci possono essere macro-questioni specifiche nei risultati di Roma e di Torino su cui meriterà soffermarsi. Ad esempio, sin dall'inizio della campagna di Roma mi è capitato di osservare con Giacchetti che non riuscivo a capacitarmi del fatto che tutta la grande indignazione per lo scandalo di mafia-capitale si scaricasse solo sul Pd mentre veniva graziato l'arcipelago delle destre, pur essendo stato quello scandalo incubato e costruito sotto la gestione Alemanno. Forse andava denunciato nettamente da parte Pd. Fermo restando che verso questo partito si è ripetuto l'atteggiamento che l'elettorato manifestò nei confronti della Dc al tempo di tangentopoli: vi sono forze politiche, infatti, che avendo dichiarato nel proprio Dna l'esigenza etica, quando la contraddicono - non importa la misura -non vengono assolutamente perdonate, mentre verso altre vi è maggiore tolleranza. La questione morale è cosa ben più ampia e seria della questione delle indennità parlamentari, dovremmo sempre saperlo. A Torino, invece, a me pare che sia prevalsa la volontà di spezzare il circuito di un establishment che da troppi anni controlla la città e noi, senza sottovalutare i grandi meriti di Fassino, siamo vissuti come parte di tale sistema. Il caso o l'intelligenza dei nostri avversari ha messo in campo una candidata di una certa qualità (un amico che la conosce bene me l'ha definita una "democristiana" di qualità: si vedrà) e ciò ha concorso a determinare quel risultato. In entrambe queste metropoli poi abbiamo assistito (basta esaminare il voto di zona) a una vera e propria esplosione di rabbia popolare. La condizione reale della vita delle persone sta tornando un motore politico di straordinaria forza. Conclusione: la politica, in particolare la politica del Pd, deve tornare a incarnarsi maggiormente nella realtà, deve cercare di conoscerla prima di ogni altra cosa, deve spiegare le proprie scelte difficili con parole umili e convincenti, trasmettendo la sofferenza per non riuscire a soddisfare le esigenze più gravi e urgenti assicurando che le stesse continueranno a rappresentare il proprio assillo. Meno circolano ideologie e fedi religiose, più c'è necessità di calore umano anche nel linguaggio politico. E infine: è necessario dedicarsi sistematicamente alla coltivazione di una militanza politica personalmente disinteressata e capace di tenere l'orecchio a terra. Per non avere sorprese, almeno. Per fare questo non è necessario separare il doppio incarico, anzi!, è necessario avere un progetto preciso al riguardo. E fede.

domenica 19 giugno 2016

grande!!!


Per la bella politica


Walter Veltroni
L'Unità 19 giugno 2016
Sarebbe un giorno sprecato questo se, anche nelle elezioni comunali, prevalesse l’emotività sulla ragione
Chi segue questa rubrica sa bene che la mia principale inquietudine, da mesi, risiede nell’intreccio tra recessione, precarizzazione della vita, emotività della “società dell’istante”, una combustione che temo possa generare qualcosa di spaventosamente inedito per la nostra generazione.
Non parlo solo dell’Italia, ma del mondo occidentale e dell’Europa in particolare. Stiamo vivendo una di quelle fasi di perdita di senso e di ragione che , ciclicamente, colpiscono, date determinate condizioni, le opinioni pubbliche. Ce lo dice l’assassinio della deputata laburista inglese, straziata da un neonazista. Una deputata, una donna che ha fatto della politica il senso della sua vita e che forse, se non fosse stata uccisa, sarebbe stata dipinta, dallo spirito del tempo, come un’esponente del potere, dell’establishment, il vero nemico di tutti quelli che, cancellando destra e sinistra, aspirano a farsi loro establishment. Jo Cox è stata una vittima della intolleranza ed era una donna che credeva nei propri valori, che combatteva belle battaglie e difendeva principi. Era una delle tante espressioni della buona politica, quella che dovrebbe ritornare , per strappare l’erba maligna della riduzione della più bella missione civile a puro potere, a personalismo, correntismo, affarismo, corruzione.
Quando, per effetto di una serie di fattori di crisi, la paura diventa regina e l’intolleranza dilaga, allora la violenza, forma estrema di perdita del senso della vita, compare con il suo carico di sangue e di vittime. Come la follia che sta trasformando ogni giorno una manifestazione sportiva, gli Europei di calcio, in una spaventosa saga di violenza, di razzi sparati, di aggressioni a persone ree solo di essere nate in un altro paese, come in guerra. E che dire dell’orrore di un essere umano che uccide un uomo, la moglie e si chiede, in diretta su un social network, cosa fare di un bambino di tre anni che dorme nella casa in cui lui ha appena sgozzato sua madre? Cosa pensare di chi entra in un locale gay e spara su ragazzi inermi? La violenza, forma estrema dell’intolleranza, è un nemico che abbiamo imparato a conoscere, noi che abbiamo visto persone che conoscevamo essere uccise o uccidere, negli anni della follia terrorista.
La politica sembra ignorare tutto quello che accade, salvo inseguire, affannata, le conseguenze. Sembra, spesso, avere l’astuzia di un ispettore Clouseau che, pur avendo squadernati davanti agli occhi tutti gli indizi, non riesce a metterli insieme con un ragionamento compiuto e venire a capo di un caso. Cos’altro deve succedere per far capire che siamo entrati in un tempo inedito della storia dell’uomo? Che nulla tornerà come prima, dopo la bufera? Tutto è messo in gioco, tutto è in discussione. Persino la democrazia.
La politica, quando c’era, era un laboratorio di idee, di analisi e di tentativi di leggere il presente. Era la costruzione collettiva di una consapevolezza comune. Si parlava, si discuteva, si passavano ore e giornate per i decifrare, dalle sezioni di un quartiere ai vertici nazionali, i passaggi di fase storica e per spiegarsi ciò che accadeva. Ora si è moderni se si parla cinque minuti, preferibilmente per dire che il leader di turno è un genio o un cretino e per farsi belli agli occhi del capocorrente, che non si sa mai. La politica è chiamata oggi a lottare contro le semplificazioni, le risposte emotive e irrazionali, contro il dominio della paura. È, deve essere, lo strumento dell’affermazione della razionalità e della speranza. Per farlo deve essere alta, colta, attenta al disagio delle persone, deve indicare nuovi modi di lavorare, sapere, vivere. Non deve spaventarsi di fronte alla necessità di immaginare, oltre questa crisi, una società diversa.
Non so quanto tempo ci sia, lo dico sinceramente. So che ogni giorno buttato in frivolezze è un giorno sprecato.
Come, lo dico, senza doverlo fare per ufficio, sarebbe un giorno sprecato questo se, anche nelle elezioni comunali, prevalesse l’emotività sulla ragione. Una città è una macchina complessa e l’argomento di provarne “uno nuovo” per guidarla non è l’argo – mento che si adopererebbe se si dovesse scegliere il proprio chirurgo. Non sarà promuovendo un referendum al giorno tra i cittadini – “sul sito del comune o sul blog di Grillo” è stato detto confondendo partiti e istituzioni – che si renderà più forte la democrazia e la partecipazione popolare. Un sindaco deve scegliere, spesso in un istante , su cose che possono riguardare la sicurezza e il destino della propria comunità. Ci vogliono esperienza e capacità, virtù che non sono certo in contrasto con il nuovo.
Considero una delle cose più importanti della mia vita pubblica, quando avevo la massima responsabilità politica, aver voluto eleggere, al primo turno, Carlo Azeglio Ciampi come presidente della Repubblica. Posso assicurare che Ciampi è stato, nel suo lavoro, più moderno, nel senso che forse Italo Calvino avrebbe attribuito al termine, di tanti che oggi pensano che un referendum tra centinaia di persone su un blog sia democrazia o sia essere alla stregua dei tempi. Per questo spero che, nei ballottaggi, i candidati del centrosinistra, di Roma, Milano, Torino, Bologna, Trieste e gli altri, dopo questi mesi difficili, possano farcela. Perché sarebbe un segno di ragione e di speranza. Di cui c’è un grande bisogno.
Un’ultima cosa. Dopo il voto si discuta. Si discuta davvero. Si cerchi di capire perché milioni di persone hanno scelto di non votare. E non si abbia imbarazzi nel dirsi che anche una parte del sostegno a Cinque stelle viene da elettori di sinistra delusi. Non si ignori che la destra esiste e non è sparita. Si sia consapevoli della forza e delle possibilità della sinistra riformista, del Pd. Ci si dica, insomma, la verità.
Ma, forse, più che del voto stesso, si cerchi di capire quello che sta accadendo, della storia che sta cambiando molti dei paradigmi del novecento, con una velocità impressionante. Si discuta come essere una forza di sinistra moderna. Di sinistra e moderna, le due cose insieme .Si discuta volendo, tutti, il bene del Pd che , continuo a pensarlo, è la principale speranza di salvezza e cambiamento di questo paese. O, almeno, può esserlo.

mercoledì 15 giugno 2016

Ancora ....rieccolo...

Ma anche basta, D’Alema, ché sono tutte cose viste e riviste mille volte le sdegnate smentite per le “false ricostruzioni”, le volgari allusioni sui “mandanti”, i “il Presidente è quasi sempre all’estero” e “non si occupa di campagna elettorale”. E trova finalmente, alla tua non più tenera età, una dimensione che renda giustizia prima di tutto a te stesso. Pensa a cosa hai fatto all'Ulivo di prodi....

venerdì 10 giugno 2016

Renzi: «Devo cambiare di più il Pd Le critiche? Perché l’ho fatto poco»


Il presidente del Consiglio e leader dem: «Queste elezioni sono soltanto locali. Uno schieramento trasversale mi attacca? Non temo chi fa politica contro qualcuno»
di Maria Teresa Meli 
Corriere della sera 10 giugno 2016
Presidente Renzi, partiamo dai fischi di oggi. È finita la sua luna di miele con il Paese?
«Non vorrei deluderla troppo. Ma io ho preso i fischi dal primo giorno e continuerò a prenderli, mettendo la faccia ovunque. Nella campagna delle Europee 2014, quelle del mitico 41%, ho fatto comizi interi da Palermo a Napoli fino a piazza della Signoria nella mia Firenze dove c’erano centinaia di fischietti, striscioni e contestazioni. E governavamo da due mesi appena, altro che luna di miele. Il 2015 è stato un lungo elenco di fischi dal Jobs act, con la Fiom in tutti i miei eventi a contestare, fino alle proteste dei professori. Non è una novità. Sono invece molto contento del fatto che chi ieri contestava da Confcommercio alla fine è sceso a discutere e con un paio di loro è scattato persino l’abbraccio. Hanno ragione a chiedere meno tasse, ma sanno anche che stiamo riducendo ogni anno la pressione fiscale. Certo, loro non vogliono che diamo gli 80 euro a chi guadagna meno di 1.500 euro netti. Li rispetto, ma non sono d’accordo: io penso che sia una misura di giustizia sociale e non torno indietro».
Se le Amministrative andassero male per il Pd, si aprirebbe un periodo di grande fibrillazione...
«Ho legato la mia permanenza al governo all’approvazione delle riforme nel referendum di ottobre e mi hanno accusato di aver personalizzato. Adesso gli stessi vorrebbero legare il governo al voto di alcune realtà municipali? Ma non scherziamo. Nessun Paese del mondo civile fa così. Si rassegnino: le elezioni amministrative sono un passaggio locale. Utili tutte le riflessioni sociologiche di questo mondo. Ma che vada in un modo o in un altro stiamo parlando di episodi territoriali, non di un voto nazionale».
Ma se il Pd perdesse a Roma e Milano per lei sarebbe un brutto colpo.
«È ovvio che preferisco che vinca. È ovvio anche che il Pd — anche in caso di vittoria — deve affrontare un problema interno perché non è possibile continuare con un gruppo dirigente che tira e altri che tutti i giorni lavorano per dividere. Ci parliamo tra noi e invece dovremmo parlare alla gente. Ma uno alla volta, per carità. Adesso lavoriamo sui ballottaggi, poi discuteremo. Oggi ho visto l’ennesima perla del gruppo dirigente Cinque Stelle: la senatrice Taverna, membro dello staff cui deve rispondere l’eventuale sindaco Raggi, propone di posticipare le Olimpiadi. Dal baratto alle Olimpiadi una volta ogni tanto, dopo averci deliziato con le sirene, i complotti americani sull’allunaggio e altre amenità. Non è un problema di Pd: davvero i romani vogliono questo gruppo dirigente?».
Il 5 giugno si è visto che c’è un ampio schieramento trasversale contro di lei, non ha paura che si rinsaldi e si allarghi al referendum?
«Io credo che sia poco corretto fare analisi di politica nazionale sul voto amministrativo. Ma se proprio si deve fare, dico che non mi fa paura chi fa politica contro qualcuno. Se c’è una novità che ho portato — fin dall’inizio del travagliato rapporto con Berlusconi — è stata quella di fare politica per un’idea e non contro un nemico. Io penso che gli italiani siano molto maturi, più dei politici e più dei raffinati commentatori. Al referendum sulla scheda c’è la possibilità di avere un Paese più semplice o di mantenere il sistema com’è. Di superare finalmente le storture del bicameralismo paritario e dare governabilità o continuare con inciuci, larghe intese e piccoli cabotaggi. Di attaccare quella che viene ritenuta la casta della politica riducendo le spese per parlamentari e consiglieri regionali o tenersi il sistema politico più costoso d’Occidente. Io credo che un elettore deluso, che magari vota 5 Stelle o Lega, al referendum voterà sì. Poi alle politiche del 2018 magari sceglierà un altro premier. Ma quel premier, ammesso che vinca, potrà governare».
Bersani le chiede di non far mettere i banchetti per il Sì alle feste dell’Unità.
«È un atteggiamento che non capisco e mi colpisce molto. Ci siamo giocati tutta la legislatura, nata dal fallimento elettorale, sulla possibilità di fare le riforme. Abbiamo fatto sei letture cambiando più volte il testo per venire incontro alle esigenze di tutti e segnatamente della minoranza del Pd. Sappiamo che se la riforma non passa l’Italia tornerà a ballare per l’instabilità e l’ingovernabilità e torneremmo a essere il problema dell’Europa. E io dovrei vergognarmi di quello che abbiamo fatto? Qui sta il punto. La nostra comunità rispetta chi vuole votare in altro modo, noi non espelliamo nessuno. Ma una cosa è il rispetto per chi non la pensa come la maggioranza, altra cosa è annullarsi, vergognarsi delle nostre riforme, nascondere i nostri tavolini e le nostre bandiere».
Quindi non accetta la richiesta di Bersani?
«Me lo lasci dire: facciamo il Jobs act con 455 mila posti di lavoro in più e stiamo zitti in pubblico per paura di irritare qualche sindacalista. Riduciamo il precariato nella scuola come nel privato con i nuovi contratti a tempo indeterminato e non lo rivendichiamo perché temiamo le polemiche. Eliminiamo l’Imu e non possiamo dirlo perché lo voleva anche Berlusconi. Eliminiamo la componente costo del lavoro dell’Irap e ci vergogniamo perché è una richiesta di Confindustria. Otteniamo il doppio turno e le preferenze e non ci va bene perché il premio alla lista e non alla coalizione mette in crisi la sinistra radicale. Facciamo la legge sui diritti civili e non va bene perché la vota anche Verdini. Otteniamo la flessibilità e non lo diciamo perché il problema è il Fiscal Compact, che peraltro il precedente gruppo dirigente ha ratificato in silenzio. Le feste dell’Unità sono le feste del Pd. Non le feste di una corrente minoritaria del Pd. Se ci togliamo la politica, cosa rimane? E la proposta di dire “Sì al referendum” alle feste viene dal segretario regionale dell’Emilia-Romagna, non dal nazionale».
Anche ieri alla Confcommercio vi hanno chiesto di ridurre le tasse. Almeno a questa richiesta dirà di sì?
«Certo. Se vanno avanti le riforme, avremo ancora margini di azione per ridurre ulteriormente le tasse. Ma non voglio parlare di nessuna ipotesi fino al giorno dopo il referendum. Altrimenti mi diranno, come in passato, che si tratta di una mancia elettorale».
Dopo il 5 giugno se la sente di dire che aveva ragione la minoranza? L’alleanza con Verdini non paga.
«L’alleanza parlamentare con Verdini nasce dal fatto che nel 2013 si sono perse le elezioni. E con Verdini quel gruppo dirigente ha già governato votando insieme la fiducia a Monti e a Letta. Quel gruppo dirigente ha scelto Migliavacca e Verdini per fare un accordo — poi saltato — sulla legge elettorale. E adesso se Verdini — che non è ovviamente rappresentato al governo — vota con noi in Parlamento questo sarebbe un problema? Quanto alle Amministrative, l’alleanza a Napoli e Cosenza, perché queste erano le due città interessate, mi pare che avesse carattere locale. E che non abbia funzionato per nessuno. Nel 2018 il Pd si presenterà da solo, un partito a vocazione maggioritaria come previsto dallo statuto. Punto».
Il Pd non sembra attrarre l’elettorato di sinistra...
«Sinceramente non mi pare questo il punto. Io almeno non vedo un trasloco di voti verso Fassina e Airaudo. Quelli che invece votano Cinque Stelle — meno comunque del passato — sono diversi. Chi non ci ha votato, non ci ha votato per problemi sul territorio, sui singoli candidati. Ma se proprio vogliamo trasformarlo in un voto di protesta contro di me, ok, diciamola tutta: chi non ci vota più per colpa mia non mi accusa di aver cambiato troppo nel Pd. Mi accusa di aver cambiato troppo poco. Mi accusano di aver mediato fino allo sfinimento con tutte le correnti e le correntine del Pd. Ogni giorno ho cercato di mediare, di discutere, di tenere buoni tutti. Dobbiamo cambiare di più, non di meno».
Lei ha detto di voler «usare il lanciafiamme» nel Pd e la minoranza si è sentita nel mirino. Che cosa intendeva dire?
«Il problema non riguarda solo la minoranza. Ma il modo con il quale vogliamo usare questi diciotto mesi che ci separano dal congresso. Vorrei che ci occupassimo del futuro del Paese, non del futuro dei parlamentari. Il male della politica italiana è di avere troppi partiti e troppi politici. Ci vogliono invece più idee nei partiti e più buona politica».
Perché è così contrario all’idea di attribuire il premio di maggioranza alla coalizione vincente e non al partito?
«Mi sembra di essere stato chiaro. Ma le sembra normale che mentre il mondo fuori discute di Trump, mentre l’Europa riconosce il nostro passo in avanti sul Mediterraneo e l’Africa con il Migration Compact, mentre finalmente si passa dalla cultura dell’austerity a una stagione di investimenti, la preoccupazione principale della classe politica italiana sia capire se il premio di maggioranza lo diamo alla lista o alla coalizione?».
I 5 Stelle sembrano pronti a passare dalla protesta alla proposta. Non la spaventa il fatto che Grillo potrebbe rappresentare la novità che prima sembrava rappresentata da lei?
«Quando ci saranno le elezioni politiche la partita sarà una partita a tre. Il Pd, un candidato del Movimento 5 Stelle e vedremo chi sarà, un candidato del centrodestra, e vedremo chi sarà. Gli italiani sceglieranno, a quel punto. Ma se ci sarà un sistema istituzionale finalmente funzionante l’Italia avrà fatto un passo avanti chiunque vincerà quelle elezioni. Io personalmente rispetto tutti e non ho paura di nessuno».
L’hanno criticata perché va da Putin quando in Italia ci sono i ballottaggi...
«Sta scherzando spero. Scusi, che facciamo? Siccome ci sono le amministrative smettiamo di governare il Paese? Non partecipo al Forum di San Pietroburgo su cui ho garantito la presenza da mesi? Ma ci rendiamo conto che in questi anni l’Italia ha recuperato credibilità a livello internazionale? E dovremmo tornare alla piccola guerriglia politica locale, con decine di partiti che si scontrano tutti gli anni in elezioni territoriali mentre gli altri Paesi fanno politica internazionale? Spiacente, io non ci sto. Sono il leader pro-tempore di uno dei Paesi più importanti del mondo, l’Italia che parla con Obama e con Putin. Non l’Italietta che spende settimane a discutere della percentuale di due liste civiche».

mercoledì 8 giugno 2016

Raggi abbaglianti. Le responsabilità dei media


Luigi Di Gregorio
7 giugno 2016
I mezzi di comunicazione di massa producono un sacco di danni alla politica.
La cosiddetta media logic – ossia, in sintesi, la necessità che i mass media hanno di stare sul mercato, “vendendoci” le notizie – spinge giornali e tv a trasformare ogni avvenimento e ogni settore della società in un mix di sensazionalismo, personalizzazione, banalizzazione, voyeurismo, gossip. In una parola: spettacolo. Come diceva Guy Debord, nulla sfugge dalla logica dello spettacolo, è come un blob che avanza e si mangia tutto. Se non ci si adegua a quella logica, semplicemente non si vende alcuna informazione. Perché non intrattiene e nessuno la “compra”.
La politica non è per niente indenne da questa logica, anzi ne è la prima vittima sacrificale.
Sono spariti i programmi, le politiche pubbliche, le aree culturali, le idee, i partiti, a tutto vantaggio di storie individuali, “immagini dei candidati”, profili più o meno veritieri di singoli “eroi” chiamati a sobbarcarsi imprese sempre più impossibili. Con campagne elettorali incentrate su gravidanze, curriculum, Ferrari, pettegolezzi, retroscena, ecc.. E niente altro, questo è il problema…
Questa deriva ha trasformato completamente la percezione della politica agli occhi dei cittadini, buona parte dei quali ritiene che un singolo può governare qualunque cosa, praticamente da solo, pur non avendo idea di ciò che sta per governare. La complessità è sparita, le competenze pure. Tutti possono fare tutto, basta che siano onesti (il che peraltro è semplice da dimostrare, quando non hai mai governato nulla…).
Tempo fa scrissi questo pezzo sottolineando quanto fossi rimasto colpito dal fatto che nel M5S ci fossero ben 209 persone convinte di poter fare il sindaco di Roma, mentre i partiti “tradizionali” faticavano a trovare candidati.
Perché oltre 200 cittadini romani si candidano con un videoclip alla carica di massimo cittadino della capitale? Semplice, perché non hanno idea di quello che stanno facendo.E non avendo idea, si sentono in grado di farlo.
E perché ci si dovrebbe lanciare in un’impresa del tutto ignota con tanta leggerezza? Perché la politica ormai passa per una cosa alla portata di tutti. La ragione per cui “gli altri” hanno fallito è “solo” la loro disonestà. Se io sono moralmente granitico, anche se non ho idea di cosa sia la politica e l’amministrazione, sono serenamente in grado di guidare l’amministrazione più complessa e messa male d’Italia…
Ieri, a Piazza Pulita, Formigli, Berlinguer, Mieli e Sgarbi si interrogavano sulla capacità di Virginia Raggi di governare Roma. Uno di loro, addirittura, ha detto: “se riesce a mettere a posto le buche e a migliorare il traffico, è fatta”. Ecco, questo è il messaggio che passa e che fa danni incredibili. Se gli opinion leader, le “autorità cognitive”, ci dicono in tv che basta fare due cose “semplici” per governare bene Roma, noi ci convinciamo del fatto che tutti i predecessori siano stati degli inetti totali, oltre che ladri (ovviamente). E che dunque basta una “brava ragazza” che arriva e risolve tutti i problemi con la bacchetta magica e una dose massiccia di buona volontà.
Diamo qualche numero su Roma:
–       oltre 1200km quadrati di superficie, pari a 8 volte Milano e alla somma delle superfici delle prime 9 città italiane per abitanti. Il territorio amministrato dal Sindaco di Roma è pari alla somma delle superfici di Milano, Torino, Napoli, Palermo, Genova, Firenze, Bologna, Venezia e Catania.
–       Circa 6000km di strade: da Roma alla Groenlandia, per capirci.
–       Un bilancio di circa 7 miliardi di euro (e di circa 3 mila pagine…).
–       Un debito residuo ancora oggi pari a oltre 13 miliardi.
–       23 mila dipendenti; circa 55 mila considerando anche le aziende municipalizzate.
–       15 Municipi, 23 Dipartimenti, 6 strutture di supporto agli organi politici.
–       Un numero di centri di costo imprecisato, nessuno è riuscito a quantificarli….in ogni caso nell’ordine delle centinaia.
–       Circa 20 mila provvedimenti amministrativi all’anno, tra delibere, determine dirigenziali e ordinanze sindacali.
Potrei andare avanti, ma mi fermo qui. Aggiungo solo una mia notazione personale. Quando dirigevo il Dipartimento di comunicazione istituzionale di Roma Capitale “viaggiavo” a 100 telefonate in entrata al giorno e circa 400 mail. Nessuna delle quali era per salututarmi o per chiedermi “Ciao, come stai?”… Immaginate cosa arriva alla segreteria del Sindaco.
Ora, torniamo alla domanda di Formigli. Può farcela Virginia Raggi a governare Roma meglio degli altri? Ecco, questa domanda è semplicemente insensata. La domanda sensata dovrebbe essere: è in grado Virginia Raggi di mettere in piedi una squadra super competente, che conosca perfettamente la città, i suoi diversi territori, gli stakeholders principali, la macchina amministrativa e le sue municipalizzate? Ed è in grado di portare avanti a livello nazionale una discussione seria sulla governance di Roma? O, in alternativa, di ottenere risorse abbondanti da Governo e Regione Lazio per provare a mettere qualche toppa ai tanti problemi strutturali di questa città?
Invece, niente. Le “squadre” non esistono più nell’era della personalizzazione: è tutta una questione individuale. Come non esiste la complessità: tutto semplice, basta riempire qualche buca… (per le quali servirebbero 4-500 milioni l’anno, particolare che “sfugge” a tutti).
Dove ci porta questa logica? Mi pare abbastanza evidente. Ci porta a tritare e a consumare come caramelle tutti gli “eroi” individuali possibili e immaginabili. Ognuno è costretto a sobbarcarsi “mari e monti” per essere eletto e poi paga l’onere di dover affrontare individualmente anche ogni responsabilità, dagli scontrini alle multe, fino alle vicende più grandi e complesse. E nessuno può uscire indenne. Neanche Mandrake può governare Roma da solo.
Alle condizioni attuali, il Sindaco di Roma è l’incarico pubblico più difficile in Italia e sul quale vi è il carico di aspettative più alto in assoluto. Servirebbe un dream team e probabilmente non basterebbe. Una squadra iperlegittimata, in grado di dialogare con autorevolezza con tutti i settori della città, con gli stakeholders più importanti, capace di trasformare un’amministrazione affaticata e “impaurita” in un’azienda virtuosa ed efficiente e in grado di impostare una riforma della legge su Roma Capitale dialogando con le istituzioni statali. Una squadra con una vision della città, che dia un senso alla Roma contemporanea, al suo ruolo nella “megalopoli globale”: una vera e propria metamorfosi culturale e strategica.
Insomma, mai come oggi Roma avrebbe bisogno di una classe dirigente super e di un appoggio incondizionato delle altre istituzioni nazionali.
Quello che vedo, invece, come probabile maggioranza tra due settimane, è un gruppetto di ragazzi di buona volontà senza competenze specifiche che ritengono gli stakeholders solo lobbies e “poteri forti” da evitare come la peste, vedono l’amministrazione come un covo di potenziali corrotti da far ruotare come trottole per evitare le tentazioni, e possiedono una vision della città che ha prodotto pannolini lavabili e baratto come magiche soluzioni di lungo periodo. Inutile dire poi come sarebbe il rapporto col governo nazionale e con la Regione Lazio, data l’innata ritrosia del M5S a “trattare” con chiunque faccia parte dei “vecchi partiti” (le parole più usate da Virginia Raggi in tutta la campagna elettorale).
Ecco, non credo sia questa la classe dirigente super di cui abbiamo bisogno. Ma d’altronde, se “a Roma basta riempire qualche buca per fare il Sindaco”…è quella che ci meritiamo ed è quella che vince grazie alla deformazione della realtà impressa dalla banalizzazione mediatica.
La “realtà mediaticamente determinata” che viviamo quotidianamente ci riempie di illusioni ottiche. Una vera e propria malattia autodegenerativa per il sistema. Per ora questa dinamica folle ha “solo” ucciso la politica di professione. Fra breve ucciderà anche gli outsider civici (i tecnici li ha già fatti fuori). Resta solo da capire quanto ci metterà a distruggere il sistema-paese e l’intera comunità politica.

martedì 7 giugno 2016

Amministrative: una sberla al PD? L'analisi di Giorgio Tonini


Archiviato il primo turno delle amministrative, con alcuni risultati clamorosi, è già partito il secondo round. Un secondo round che si annuncia apertissimo (a Milano in particolare). Facciamo un’analisi, in questa intervista, con Giorgio Tonini (PD), Presidente della Commissione Bilancio del Senato, sul risultato deludente del Partito Democratico. 

di Pierluigi Mele 07 giugno 2016 
Senatore Tonini, ieri il premier Matteo Renzi si è detto "non soddisfatto" dell'esito del primo turno elettorale amministrativo, ma continua a non riconoscere una rilevanza nazionale alla competizione. Mi scusi la provocazione, non è presuntuosa come posizione? 
Tutti hanno capito che il voto è stata una sberla per il PD e per Renzi. 
Per Lei? 
Due anni fa, il 25 maggio del 2014, alle elezioni europee, il Pd guidato da Matteo Renzi conquistava il 40,8 per cento dei voti e 31 seggi al parlamento di Strasburgo, affermandosi come il primo partito d'Europa. Lo stesso giorno, il Pd perdeva comuni importanti, da decenni amministrati da sindaci di sinistra, come Livorno, Perugia, Potenza. Quel giorno dunque, migliaia di cittadini si sono recati ai seggi elettorali, hanno preso due schede, sono entrati nella cabina e in una scheda, quella per il parlamento europeo, hanno messo una bella croce sul simbolo tricolore del Pd, mentre l'altra, quella per le comunali, l'hanno usata per mandare a casa un sindaco del Pd. Non c'è nulla di provocatorio o di presuntuoso nel ricordare a tutti noi che una parte significativa e crescente degli elettori non vota più sulla base di un sentimento di appartenenza a questa o quella comunità politica, ma effettua le sue scelte sulla base di un giudizio politico circostanziato: che riguarda il governo nazionale, alle elezioni politiche generali, e invece il sindaco quando si deve eleggere il primo cittadino del proprio comune. Questa capacità di distinguere sì è vista in modo clamorosamente evidente quel 25 maggio di due anni fa. Ma si è vista anche domenica scorsa, con la vistosa multiformità del voto alle amministrative, nel quale ognuna delle grandi città che andavano al voto ha fatto storia a sé. Basti pensare a Napoli e Salerno: il peggiore e il migliore risultato per il Pd si sono realizzati a pochi chilometri di distanza. A Napoli siamo fuori dal ballottaggio, a Salerno vinciamo al primo turno col 70 per cento. Ho l'impressione che il governo c'entri poco sia col primo che col secondo risultato. Il Pd indubbiamente ha preso qualche sberla, peraltro annunciata, ma ha anche messo a segno qualche buon risultato. Tutte le forze politiche maggiori possono dire di aver vinto da qualche parte, ma nessuna può dire di aver vinto queste elezioni come tali. Tra le forze maggiori, il Pd è il partito che esce con più risultati utili da questa tornata elettorale: più eletti al primo turno, più candidati piazzati al ballottaggio. Vediamo al dato politico: sul ballottaggio oltre a Roma e Milano anche Torino è a rischio, se dovesse esserci la confluenza del voto leghista sul candidato 5 stelle. Insomma a parte Roma, dove le cause del risultato del PD sappiamo quali sono, come mai invece a Milano e Torino, dove il centrosinistra ha governato bene, il PD rischia così tanto? 
Sia a Milano che a Torino il candidato sindaco del Pd è al ballottaggio con più del 40 per cento dei voti. Ma non è affatto scontato l'esito finale di entrambi i confronti. A Torino, come per altri versi a Bologna, il centrosinistra governa da sempre e deve quindi fare i conti con la fisiologica voglia di cambiamento, tanto più forte in un contesto di disagio sociale, come ha giustamente ricordato Fassino. Non basta avere governato bene, bisogna anche riuscire ad essere e apparire "alternativi a se stessi", come raccomandava Moro alla Dc. A Milano, la candidatura di Sala, che poteva dilagare in un centrodestra ridotto ad un disordinato campo di forze, ha invece provocato una riorganizzazione di quello schieramento, riproponendo un confronto bipolare classico centrodestra contro centrosinistra. Uno scenario virtuoso, che rende i milanesi giustamente orgogliosi. Grazie a Pisapia, grazie a Sala e grazie anche alla intelligente risposta del centrodestra. La differenza rispetto al passato è che stavolta è il centrodestra a inseguire. Ma il confronto è apertissimo. 
Milano è strategica per il PD, Sala che carta può giocare per riuscire a vincere il "derby" con Parisi? 
La candidatura di Parisi è espressione di un centrodestra che si è ricompattato sotto la guida di Berlusconi e su una linea di governo. Tanto di cappello, ma si tratta di un accordo tattico, dietro il quale permangono radicali divergenze strategiche, tra il lepenismo di Salvini e i moderati di Lupi e Albertini. Parisi, qualora diventasse sindaco, potrebbe trovarsi dinanzi a contraddizioni insanabili. Dietro Sala c'è invece uno schieramento molto più coeso e armonico, sotto il profilo politico e programmatico. L'astensione ha pesato tanto per il PD, molti elettori di sinistra non sono andati a votare (sinistra italiana è stata una delusione).  
Insomma qualcosa dovra' pur cambiare nel pd e nel governo per riconquistare quell'elettorato: è ora di ripensare il doppio incarico di Renzi? 
Dalle prime analisi sui flussi emerge una perdita, da parte del Pd, di elettori tradizionalmente di sinistra, solo parzialmente compensata (e non dappertutto) dall'arrivo di elettori moderati. In parte questo è il prezzo inevitabile di politiche innovative, sia nazionali che locali, che non si possono fare a costo zero in termini di consenso, almeno nell'immediato. Il fatto peraltro che questi elettori non premino le piccole formazioni di sinistra a sinistra del Pd, ma si dirigano o verso il non-voto o verso il M5s, ci dice che il rimedio a questo problema non sta nel ritorno al passato, ma in un di più di innovazione, sia sul piano dei contenuti programmatici, sia su quello delle forme della politica. Una innovazione, beninteso, che non può vivere solo nei laboratori di ricerca, ma deve vivere nel rapporto quotidiano con il popolo. Non servirebbe a nulla quindi né tornare ai vecchi linguaggi della sinistra né farsi prendere dalla nostalgia per un vecchio modello di partito da lunga pezza superato dai fatti. È fuor di dubbio che serva un salto di qualità nel governo del partito, ma sarebbe una pia illusione cercarlo nella riproposizione di un vecchio dualismo "democristiano" tra segretario e premier: un dualismo che già nel 1970 un allora giovane Leopoldo Elia giudicava incompatibile con una politica riformista. 
Il Boom dei 5 Stelle è stato sorprendente (roma e torino), anche se non tutti i candidati sono andati bene. Cosa ha reso competitivo questo movimento rispetto al PD? Non sarebbe ora di prenderli sul serio? 
Ciò che rende competitivo il M5s è la sua natura esasperatamente post-ideologica, che gli consente di sommare elettori delusi sia dal centrosinistra sia dal centrodestra. Demonizzare non serve a niente. Semmai si tratta di sfidarli a maturare politicamente. In questi giorni, i leader del movimento stanno dicendo all'unisono che la "favoletta" che sarebbe un sentimento di mera protesta a gonfiare le loro vele, non regge più. È vero, ma solo fino ad un certo punto. Spetta a loro dimostrare di essere capaci di proposta e non solo di gridare un "vaffa" alla classe politica. Un banco di prova è proprio la riforma costituzionale ed elettorale. Il Referendum è l'armageddon di Renzi. 
Non trova che è stato un clamoroso errore politico far partire subito la campagna per il SI. O comunque non vede rischi, dopo questi risultati, per un esito positivo del Referendum? 
I risultati delle amministrative, se letti con attenzione, dovrebbero rappresentare un potente incentivo a sostenere la riforma con un bel SÌ, forte e chiaro, al referendum. Dico questo per due ragioni. La prima è di sistema. In un contesto politico multipolare ad elevata frammentazione, che ne sarebbe dei comuni se non potessero avvalersi dei benefici della elezione diretta del sindaco col doppio turno? Immaginatevi cosa succederebbe a Roma se il sindaco dovesse eleggerlo un consiglio comunale espresso in modo proporzionale dal voto di domenica scorsa. Sarebbe, semplicemente, il caos. E invece, tra due settimane, i romani decideranno col loro voto se il sindaco sarà la Raggi o sarà Giachetti. E così in tutte le altre città. La riforma Boschi e l'Italicum, con i dovuti adattamenti, applicano al governo nazionale lo stesso schema: alla fine c'è uno che vince e governa per cinque anni, grazie ad una maggioranza certa, nell'unica Camera titolare del potere di fiducia. Senza minimamente intaccare il sistema di garanzie e contrappesi. Sento dire, anche nel mio partito, che bisognerebbe rivedere l'Italicum perché non siamo più in un contesto di bipolarismo politico, ma almeno di tripolarismo o forse di multipolarismo. E che il sistema previsto dalla riforma rischia di far vincere il M5s. A me queste sembrano due osservazioni che rafforzano le ragioni del SÌ alla riforma. Proprio perché siamo in un contesto multipolare c'è bisogno di un sistema che alla fine produca un vincitore, se non vogliamo condannare il paese all'ingovernabilità, che è anche, non dimentichiamolo, il vero pericolo per la democrazia. Il fatto poi che con la riforma tutti possano vincere, a cominciare proprio dall'ultimo arrivato, il M5s, è il più potente argomento contro la teoria di un Renzi uomo solo al comando che si disegna un abito costituzionale e una legge elettorale su misura.