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POLITICA E GIUSTIZIA
Il dossier
Carceri sovraffollate, malsane e violente l’inferno delle celle da tre metri a persona
PIERO COLAPRICO

MILANO — Negli ultimi tre mesi sono state sette le proteste dei carcerati. Hanno causato a volte incendi tali da far evacuare il carcere (vigilia di ferragosto a Vicenza). A volte intossicazioni (27 ricoverati, a Sollicciano) o black out (Cagliari, 9 luglio). Dietro le spesse mura delle carceri si combatte una guerra che sembra muta solo perché ci è lontana. Basta leggere che cosa è accaduto dal 1° luglio al 30 settembre. Si sono contate, oltre le sette proteste, ventinove aggressioni ad agenti, a volte con un graduato preso da solo e ferito gravemente, a volte con i detenuti che ne circondano un gruppo. Praticamente, un attacco ogni tre giorni, con quasi un centinaio di feriti e contusi. Cinque le risse scoppiate tra carcerati. Ogni giorno la cella può trasformarsi in abisso.
C’è un ultimo dato, riguarda le morti negli istituti di pena: dal 7 dicembre scorso dell’anno al 26 settembre se ne contano più di ottantina. Diciannove sono morti dietro le sbarre per malattia, altrettanti detenuti escono dal carcere con la poco rassicurante dizione «morte da accertare», tutti gli altri si sono tolti la vita. Negli ultimi tre mesi, sedici tra suicidi e tentativi: tra i morti, due ispettori, poco più che quarantenni.
VENT’ANNI PRIMA DELL’ALBA
«I problemi del carcere sono gli stessi da vent’anni», dicono tutti, ed è vero. È un lungo incubo senza sosta. Eppure, negli ultimi mesi sembra esserci una sorta di risveglio. Un primo indizio è a portata di clic, si trova su Internet. Ci sono i siti dei detenuti, a cominciare da www.ristretti.it, figlio del giornale Ristretti orizzonti, tra i migliori d’Italia. Esiste però anche un sorprendente sito del sindacato Uil della polizia penitenziaria ( www.polpenuil.it) dove - e mai era accaduto in passato sono gli agenti a fotografare la situazione delle carceri. Fotografare davvero. Con carrellate di immagini, con una documentazione del tutto inedita.
Ecco diventare visibile a chiunque l’interno del pesante carcere di Monza, con una micidiale carrellata di secchi dell’acqua per raccogliere le perdite dal soffitto. O San Vittore, con la sua umidità ovunque. O il Buoncammino di Cagliari, e così via: «Per conoscere le mura dei misteri, bisogna abbattere i misteri di quelle mura» era lo slogan del segretario nazionale Eugenio Sarno, e lo era vent’anni fa. Solo in questi mesi, finalmente, grazie alle autorizzazioni del vicecapo del Dap, Luigi Pagano, storico direttore di San Vittore, uomo della “trasparenza”, i fotoreporter in divisa sono potuti passare all’azione. Ma che cosa sta accadendo, dunque?
SENTENZA TORREGGIANI
Nel mondo sovraffollato, malsano, nervoso delle carceri, c’è un argomento di cui tutti parlano. È la «sentenza Torreggiani», emessa l’8 gennaio 2013 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Alcuni detenuti italiani, tra i quali uno chiamato Mino Torreggiani, che soffriva nel difficile istituto di Busto Arsizio, avevano presentato un ricorso perché «ciascuno di loro occupavauna cella di nove metri quadrati con altre due persone e disponeva quindi di uno spazio personale di 3 metri quadrati ». E avevano vinto. Ma che cosa significa questa vittoria, oltre a un risarcimento economico? Semplice. Quei concetti che il presidente Giorgio Napolitano, ancora ieri, rilanciava, sono quelli internazionali ai quali l’Italia,stando in Europa, deve obbedire. Subito. È già in ritardo. Perché esiste, parola dei giudici, «un problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario italiano». Lo dimostrano «diverse centinaia di ricorsi (...) pendenti e in continuo aumento». In sintesi, chiede l’Europa all’Italia: vi siete datiun regolamento carcerario bello e funzionante, ma perché non lo applicate?
IL SOVRAFFOLLAMENTO
Nel 205 istituti italiani ci sono - dato aggiornato al 30 settembre scorso quasi 65 mila detenuti (2mila e 800 donne circa), quando i posti sono 47.615. Quasi ventimila in più. Di questi detenuti, 22mila e 770 sono stranieri. «E se gli italiani a volte riescono ad andare alla detenzione domiciliare, lo straniero, che spesso senza casa, resta dentro sino alla fine», spiegano gli avvocati penalisti. L’Italia ha il coefficiente di sovraffollamento più alto d’Europa: gli ultimi dati comparabili risalgono al 2011 e Italia è maglia nera con il 146,4 per cento, segue la Catalogna con il 126, la Romania, la Repubblica Ceca, la Francia (116,7 per cento).
Questi dati, di per sé catastrofici, peggiorano se si pensa che, sempre al30 settembre, i detenuti in attesa del primo giudizio sono ben 12.333, mentre i «definitivi», quelli che in carcere cioè devono starci perché la sentenza è passata in giudicato, 38.845. Si calcola che tre detenuti su dieci siano consumatori di droga. È un carcere per «poveracci», quello italiano, dicono i dati di fatto.
RIVOLUZIONE NORMALE
Al ministero di Giustizia, il ministro Anna Maria Cancellieri parla con il suo entourage di «rivoluzione normale». Cioè, in via Arenula sono convinti che l’inferno delle carceri vada sconfitto «muovendosi». Tra detenuti che aumentano sempre di più e personale che manca sempre di più, è passata, tra le righe, un’idea chiamata «vigilanza dinamica». Quella che Gianluigi Madonia, segretario regionale della Uil“carceri”, spiega così: «Il nuovo modello prevede le sezioni aperte per più tempo, il detenuto responsabilizzato, la fiducia reciproca». È così, su un equilibrio precario, tra suicidi e rischio di rivolte, che si naviga a vista: sembrano però in parecchi a credere di essere finalmente, così dicono, «sulla rotta giusta». Vent’anni dopo Tangentopoli.

Lettera di Papa Francesco a Eugenio Scalfari



Pregiatissimo Dottor Scalfari,
è con viva cordialità che, sia pure solo a grandi linee, vorrei cercare con questa mia di rispondere alla lettera che, dalle pagine di Repubblica, mi ha voluto indirizzare il 7 luglio con una serie di sue personali riflessioni, che poi ha arricchito sulle pagine dello stesso quotidiano il 7 agosto. La ringrazio, innanzi tutto, per l’attenzione con cui ha voluto leggere l’Enciclica Lumen fidei. Essa, infatti, nell’intenzione del mio amato Predecessore, Benedetto XVI, che l’ha concepita e in larga misura redatta, e dal quale, con gratitudine, l’ho ereditata, è diretta non solo a confermare nella fede in Gesù Cristo coloro che in essa già si riconoscono, ma anche a suscitare un dialogo sincero e rigoroso con chi, come Lei, si definisce «un non credente da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazareth». Mi pare dunque sia senz’altro positivo, non solo per noi singolarmente ma anche per la società in cui viviamo, soffermarci a dialogare su di una realtà così importante come la fede, che si richiama alla predicazione e alla figura di Gesù. Penso vi siano, in particolare, due circostanze che rendono oggi doveroso e prezioso questo dialogo.

Esso, del resto, costituisce, come è noto, uno degli obiettivi principali del Concilio Vaticano II, voluto da Giovanni XXIII, e del ministero dei Papi che, ciascuno con la sua sensibilità e il suo apporto, da allora sino ad oggi hanno camminato nel solco tracciato dal Concilio. La prima circostanza — come si richiama nelle pagine iniziali dell’Enciclica — deriva dal fatto che, lungo i secoli della modernità, si è assistito a un paradosso: la fede cristiana, la cui novità e incidenza sulla vita dell’uomo sin dall’inizio sono state espresse proprio attraverso il simbolo della luce, è stata spesso bollata come il buio della superstizione che si oppone alla luce della ragione. Così tra la Chiesa e la cultura d’ispirazione cristiana, da una parte, e la cultura moderna d’impronta illuminista, dall’altra, si è giunti all’incomunicabilità. È venuto ormai il tempo, e il Vaticano II ne ha inaugurato appunto la stagione, di un dialogo aperto e senza preconcetti che riapra le porte per un serio e fecondo incontro. La seconda circostanza, per chi cerca di essere fedele al dono di seguire Gesù nella luce della fede, deriva dal fatto che questo dialogo non è un accessorio secondario dell’esistenza del credente: ne è invece un’espressione intima e indispensabile. Mi permetta di citarLe in proposito un’affermazione a mio avviso molto importante dell’Enciclica: poiché la verità testimoniata dalla fede è quella dell’amore — vi si sottolinea — «risulta chiaro che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l’altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall’irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti» (n. 34). È questo lo spirito che anima le parole che le scrivo.

La fede, per me, è nata dall’incontro con Gesù. Un incontro personale, che ha toccato il mio cuore e ha dato un indirizzo e un senso nuovo alla mia esistenza. Ma al tempo stesso un incontro che è stato reso possibile dalla comunità di fede in cui ho vissuto e grazie a cui ho trovato l’accesso all’intelligenza della Sacra Scrittura, alla vita nuova che come acqua zampillante scaturisce da Gesù attraverso i Sacramenti, alla fraternità con tutti e al servizio dei poveri, immagine vera del Signore. Senza la Chiesa — mi creda — non avrei potuto incontrare Gesù, pur nella consapevolezza che quell’immenso dono che è la fede è custodito nei fragili vasi d’argilla della nostra umanità. Ora, è appunto a partire di qui, da questa personale esperienza di fede vissuta nella Chiesa, che mi trovo a mio agio nell’ascoltare le sue domande e nel cercare, insieme con Lei, le strade lungo le quali possiamo, forse, cominciare a fare un tratto di cammino insieme. Mi perdoni se non seguo passo passo le argomentazioni da Lei proposte nell’editoriale del 7 luglio. Mi sembra più fruttuoso — o se non altro mi è più congeniale — andare in certo modo al cuore delle sue considerazioni. Non entro neppure nella modalità espositiva seguita dall’Enciclica, in cui Lei ravvisa la mancanza di una sezione dedicata specificamente all’esperienza storica di Gesù di Nazareth.

Osservo soltanto, per cominciare, che un’analisi del genere non è secondaria. Si tratta infatti, seguendo del resto la logica che guida lo snodarsi dell’Enciclica, di fermare l’attenzione sul significato di ciò che Gesù ha detto e ha fatto e così, in definitiva, su ciò che Gesù è stato ed è per noi. Le Lettere di Paolo e il Vangelo di Giovanni, a cui si fa particolare riferimento nell’Enciclica, sono costruiti, infatti, sul solido fondamento del ministero messianico di Gesù di Nazareth giunto al suo culmine risolutivo nella pasqua di morte e risurrezione. Dunque, occorre confrontarsi con Gesù, direi, nella concretezza e ruvidezza della sua vicenda, così come ci è narrata soprattutto dal più antico dei Vangeli, quello di Marco. Si costata allora che lo «scandalo» che la parola e la prassi di Gesù provocano attorno a lui derivano dalla sua straordinaria «autorità»: una parola, questa, attestata fin dal Vangelo di Marco, ma che non è facile rendere bene in italiano. La parola greca è «exousia », che alla lettera rimanda a ciò che «proviene dall’essere» che si è. Non si tratta di qualcosa di esteriore o di forzato, dunque, ma di qualcosa che emana da dentro e che si impone da sé. Gesù in effetti colpisce, spiazza, innova a partire— egli stesso lo dice — dal suo rapporto con Dio, chiamato familiarmente Abbà, il quale gli consegna questa «autorità» perché egli la spenda a favore degli uomini. Così Gesù predica «come uno che ha autorità», guarisce, chiama i discepoli a seguirlo, perdona... cose tutte che, nell’Antico Testamento, sono di Dio e soltanto di Dio. La domanda che più volte ritorna nel Vangelo di Marco: «Chi è costui che...?», e che riguarda l’identità di Gesù, nasce dalla costatazione di una autorità diversa da quella del mondo, un’autorità che non è finalizzata ad esercitare un potere sugli altri, ma a servirli, a dare loro libertà e pienezza di vita. E questo sino al
punto di mettere in gioco la propria stessa vita, sino a sperimentare l’incomprensione, il tradimento, il rifiuto, sino a essere condannato a morte, sino a piombare nello stato di abbandono sulla croce. Ma Gesù resta fedele a Dio, sino alla fine. Ed è proprio allora — come esclama il centurione romano ai piedi della croce, nel Vangelo di Marco — che Gesù si mostra, paradossalmente, come il Figlio di Dio! Figlio di un Dio che è amore e che vuole, con tutto se stesso, che l’uomo, ogni uomo, si scopra e viva anch’egli come suo vero figlio. Questo, per la fede cristiana, è certificato dal fatto che Gesù è risorto: non per riportare il trionfo su chi l’ha rifiutato, ma per attestare che l’amore di Dio è più forte della morte, il perdono di Dio è più forte di ogni peccato, e che vale la pena spendere la propria vita, sino in fondo, per testimoniare questo immenso dono.

La fede cristiana crede questo: che Gesù è il Figlio di Dio venuto a dare la sua vita per aprire a tutti la via dell’amore. Ha perciò ragione, egregio Dott. Scalfari, quando vede nell’incarnazione del
Figlio di Dio il cardine della fede cristiana. Già Tertulliano scriveva «caro cardo salutis», la carne (di Cristo) è il cardine della salvezza. Perché l’incarnazione, cioè il fatto che il Figlio di Dio sia venuto nella nostra carne e abbia condiviso gioie e dolori, vittorie e sconfitte della nostra esistenza, sino al grido della croce, vivendo ogni cosa nell’amore e nella fedeltà all’Abbà, testimonia l’incredibile amore che Dio ha per ogni uomo, il valore inestimabile che gli riconosce. Ognuno di noi, per questo, è chiamato a far suo lo sguardo e la scelta di amore di Gesù, a entrare nel suo modo di essere, di pensare e di agire. Questa è la fede, con tutte le espressioni che sono descritte puntualmente nell’Enciclica.

Sempre nell’editoriale del 7 luglio, Lei mi chiede inoltre come capire l’originalità della fede cristiana in quanto essa fa perno appunto sull’incarnazione del Figlio di Dio, rispetto ad altre fedi che gravitano invece attorno alla trascendenza assoluta di Dio. L’originalità, direi, sta proprio nel fatto che la fede ci fa partecipare, in Gesù, al rapporto che Egli ha con Dio che è Abbà e, in questa luce, al rapporto che Egli ha con tutti gli altri uomini, compresi i nemici, nel segno dell’amore. In altri termini, la figliolanza di Gesù, come ce la presenta la fede cristiana, non è rivelata per marcare una separazione insormontabile tra Gesù e tutti gli altri: ma per dirci che, in Lui, tutti siamo chiamati a essere figli dell’unico Padre e fratelli tra di noi. La singolarità di Gesù è per la comunicazione, non per l’esclusione. Certo, da ciò consegue anche — e non è una piccola cosa — quella distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica che è sancita nel «dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare», affermata con nettezza da Gesù e su cui, faticosamente, si è costruita la storia dell’Occidente. La Chiesa, infatti, è chiamata a seminare il lievito e il sale del Vangelo, e cioè l’amore e la misericordia di Dio che raggiungono tutti gli uomini, additando la meta ultraterrena e definitiva del nostro destino, mentre alla società civile e politica tocca il compito arduo di articolare e incarnare nella giustizia e nella solidarietà, nel diritto e nella pace, una vita sempre più umana. Per chi vive la fede cristiana, ciò non significa fuga dal mondo o ricerca di qualsivoglia egemonia, ma servizio all’uomo, a tutto l’uomo e a tutti gli uomini, a partire dalle periferie della storia e tenendo desto il senso della speranza che spinge a operare il bene nonostante tutto e guardando sempre al di là.

Lei mi chiede anche, a conclusione del suo primo articolo, che cosa dire ai fratelli ebrei circa la promessa fatta loro da Dio: è essa del tutto andata a vuoto? È questo — mi creda — un interrogativo che ci interpella radicalmente, come cristiani, perché, con l’aiuto di Dio, soprattutto a
partire dal Concilio Vaticano II, abbiamo riscoperto che il popolo ebreo è tuttora, per noi, la radice
santa da cui è germinato Gesù. Anch’io, nell’amicizia che ho coltivato lungo tutti questi anni con i fratelli ebrei, in Argentina, molte volte nella preghiera ho interrogato Dio, in modo particolare quando la mente andava al ricordo della terribile esperienza della Shoah. Quel che Le posso dire,
con l’apostolo Paolo, è che mai è venuta meno la fedeltà di Dio all’alleanza stretta con Israele e che, attraverso le terribili prove di questi secoli, gli ebrei hanno conservato la loro fede in Dio. E di
questo, a loro, non saremo mai sufficientemente grati, come Chiesa, ma anche come umanità. Essi poi, proprio perseverando nella fede nel Dio dell’alleanza, richiamano tutti, anche noi cristiani, al fatto che siamo sempre in attesa, come dei pellegrini, del ritorno del Signore e che dunque sempre dobbiamo essere aperti verso di Lui e mai arroccarci in ciò che abbiamo già raggiunto.

Vengo così alle tre domande che mi pone nell’articolo del 7 agosto. Mi pare che, nelle prime due, ciò che Le sta a cuore è capire l’atteggiamento della Chiesa verso chi non condivide la fede in Gesù. Innanzi tutto, mi chiede se il Dio dei cristiani perdona chi non crede e non cerca la fede. Premesso che — ed è la cosa fondamentale — la misericordia di Dio non ha limiti se ci si rivolge a lui con cuore sincero e contrito, la questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c’è quando si va contro la coscienza. Ascoltare e obbedire ad essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire.

In secondo luogo, mi chiede se il pensiero secondo il quale non esiste alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma solo una serie di verità relative e soggettive, sia un errore o un peccato. Per cominciare, io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità «assoluta», nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant’è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita. Non ha detto forse Gesù stesso: «Io sono la via, la verità, la vita»? In altri termini, la verità essendo in definitiva tutt’uno con l’amore, richiede l’umiltà e l’apertura per essere cercata, accolta ed espressa. Dunque, bisogna intendersi bene sui termini e, forse, per uscire dalle strettoie di una contrapposizione... assoluta, reimpostare in profondità la questione. Penso che questo sia oggi assolutamente necessario per intavolare quel dialogo sereno e costruttivo che auspicavo all’inizio di questo mio dire. Nell’ultima domanda mi chiede se, con la scomparsa dell’uomo sulla terra, scomparirà anche il pensiero capace di pensare Dio. Certo, la grandezza dell’uomo sta nel poter pensare Dio. E cioè nel poter vivere un rapporto consapevole e responsabile con Lui. Ma il rapporto è tra due realtà. Dio — questo è il mio pensiero e questa la mia esperienza, ma quanti, ieri e oggi, li condividono! — non è un’idea, sia pure altissima, frutto del pensiero dell’uomo. Dio è realtà con la «R» maiuscola. Gesù ce lo rivela — e vive il rapporto con Lui — come un Padre di bontà e misericordia infinita. Dio non dipende, dunque, dal nostro pensiero. Del resto, anche quando venisse a finire la vita dell’uomo sulla terra — e per la fede cristiana, in ogni caso, questo mondo così come lo conosciamo è destinato a venir meno — , l’uomo non terminerà di esistere e, in un modo che non sappiamo, anche l’universo creato con lui. La Scrittura parla di «cieli nuovi e terra nuova» e afferma che, alla fine, nel dove e nel quando che è al di là di noi, ma verso il quale, nella fede, tendiamo con desiderio e attesa, Dio sarà «tutto in tutti».

Egregio Dott. Scalfari, concludo così queste mie riflessioni, suscitate da quanto ha voluto comunicarmi e chiedermi. Le accolga come la risposta tentativa e provvisoria, ma sincera e fiduciosa, all’invito che vi ho scorto di fare un tratto di strada insieme. La Chiesa, mi creda, nonostante tutte le lentezze, le infedeltà, gli errori e i peccati che può aver commesso e può ancora commettere in coloro che la compongono, non ha altro senso e fine se non quello di vivere e testimoniare Gesù: Lui che è stato mandato dall’Abbà «a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore» (Lc4, 18-19).

Con fraterna vicinanza
Francesco

La memoria


Il partigiano Johny nella notte di Allende

Il giorno più nero della storia del Cile spuntò coperto di nuvole. La primavera alle porte, atterrita dall’orrore che si avvicinava, aveva deciso di negarci i primi tepori. Alle sei del mattino Salvador Allende, il Compagno Presidente, ricevette le prime informazioni sul golpe imminente e diede ordine alla scorta, al Gap, di lasciare la residenza di calle Tomás Moro per raggiungere il palazzo de La Moneda.
Un contingente del Gap – Gruppo di Amici Personali – rimase a garantire la sicurezza della residenza e il resto si mise in marcia armato di kalashnikov. Fra i Gap che uscirono insieme al Compagno Presidente c’erano tre ragazzi molto giovani: Juan Alejandro Vargas Contreras, ventitré anni, studente; Julio Hernán Moreno Pulgar, ventiquattro anni, studente e dipendente del palazzo presidenziale e Óscar Reinaldo Lagos Ríos, ventun anni, studente e operaio in un’azienda agroalimentare. Tutti e tre erano militanti della Federación Juvenil Socialista. E oggi, a quarant’anni dal colpo di stato che ha messo fine al più bel sogno collettivo, voglio parlare di uno di loro, di Óscar, un ragazzo cileno pieno di coraggio e generosità.
Óscar era più giovane di me, ci separavano solo due anni, ma visto quanto era intenso il nostro impegno per la Rivoluzione cilena, visti la dedizione totale e il rigore con cui affrontavamo i mille compiti del Governo Popolare, quei due anni scarsi di differenza mi conferivano una certa anzianità. Anch’io avevo avuto l’onore — il più grande onore che mi sia stato concesso in vita — di far parte del GAP, ma dopo aver trascorso quattro mesi nella scorta del Compagno Presidente ero stato chiamato a maggiori responsabilità. Così, a ventidue anni, mi ero ritrovato supervisore di un’azienda agroalimentare a sud di Santiago. Là avevo conosciuto un giovane socialista che si chiamava Óscar Reinaldo Lagos Ríos e che combinava il suo lavoro di meccanico nell’azienda agroalimentare con gli studi in un istituto industriale e con la militanza socialista. Óscar amava il tornio e la fresatrice. Tra i suoi progetti c’era quello di diventare un buon tornitore, un operaio specializzato. Fin dal primo momento si trasformò nel mio braccio destro e più volte respingemmo insieme gli attacchi del gruppo fascista Patria y Libertad, che voleva assassinare i dirigenti sindacali e incendiare i nostri posti di lavoro.
Spesso Óscar portava a passeggio mio figlio Carlos Lenin, che cominciava allora a camminare, e ogni due o tre giorni prendeva in prestito un libro, un romanzo, una raccolta di poesie, qualche saggio sociopolitico. Un pomeriggio, mentre facevamo il nostro turno di guardia, lo vidi leggere e piangere senza nascondere le lacrime. Stava leggendo La sangre y la esperanzadi uno scrittore cileno ormai dimenticato, Nicomedes Guzmán. All’improvviso chiuse il libro, si asciugò gli occhi ed esclamò: «Compagno, ora sì che ho capito perché facciamo la rivoluzione».
Óscar si era sempre distinto come lavoratore, per il senso dell’umorismo che traspariva dalle canzoni degli Iracundos che cantava mentre riparava i macchinari e per l’esemplare solidarietà (era sempre l’ultimo al momento di comprare gli alimenti che trattavamo e che la borghesia si accaparrava per far mancare i rifornimenti), ma si distingueva anche come militante, acuto nelle sue analisi e convincente grazie ad argomenti ancora più acuti. E poiché il GAP era formato dai militanti migliori, un giorno parlai di lui raccomandandolo e ricevetti l’ordine di addestrarlo. Così Óscar imparò a usare un’arma, a pulirla, ricevette i primi rudimenti di difesa personale e di procedure di sicurezza. Quando entrò a far parte del GAP, il più grande onore per un militante, festeggiammo a casa sua, con la sua famiglia umile e generosa. Poi ci perdemmo di vista perché i tanti compiti della Rivoluzione Cilena ci tenevano molto occupati e la giornata era sempre troppo breve, dormivamo poco, ma non perdevamo mai di vista l’importanza di quel che facevamo. Non avevamo diritto né alla stanchezza né allo scoramento. Stavamo costruendo un Paese giusto, fraterno, solidale, seguendo una via cilena, rispettando tutte le libertà e i diritti. E per di più avevamo un leader che ci dava un grande esempio con la sua statura morale.
Un giorno incontrai Óscar a El Cañaveral, una residenza di campagna sulle pendici della cordigliera delle Ande dove il Compagno Presidente andava a riposare. Insieme ad altri due GAP sorvegliava l’ala nord. Ci abbracciammo e quando gli chiesi il nome di battaglia — io ero e continuo a essere Iván per i GAP sopravvissuti — lui rispose: «“Johny”, è quello il mio nome di battaglia, Johny, ma non l’ho scelto io: me l’ha dato il dottor Allende un giorno che mi ha sentito cantare».
Quell’11 settembre 1973, poco prima delle sette di mattina, Salvador Allende e la sua scorta formata da tredici membri del GAP entrarono alla Moneda. Il golpe fascista era iniziato, truppe e carri armati accerchiarono il palazzo, riecheggiarono i primi spari tra difensori e golpisti, le forze aeree bombardarono le antenne delle radio finché ne rimase soltanto una, quella di radio Magallanes, grazie alla quale ascoltammo e avremmo ascoltato le ultime parole del compagno presidente, quel «metallo tranquillo della mia voce».
Con la Moneda assediata, Allende diede ordine di far uscire chiunque lo desiderasse, lui sarebbe rimasto a baluardo della Costituzione e della legalità democratica. In mezzo ai colpi d’arma da fuoco e ai proiettili esplosivi del-l’artiglieria, un pugno di poliziotti socialisti decise di restare, e anche i GAP dissero chiaramente che la guardia non si arrendeva né abbandonava il Compagno Presidente. Fra Allende, i poliziotti rimasti fedeli, il medico del presidente, il giornalista Augusto Olivares e i tredici GAP non erano più di ventidue, ma affrontarono migliaia di soldati golpisti.
Quando era quasi mezzogiorno, le forze aeree bombardarono la Moneda, le fiamme cominciarono a divampare nel palazzo ma il GAP non mollò. Rimane per sempre un’immagine di quel momento: il GAP Antonio Aguirre Vásquez, un patagone eroico, che spara dal balcone principale con la sua mitragliatrice calibro 30 finché le bombe non cancellano completamente la facciata della Moneda. Il simbolo della democrazia cilena, la cosiddetta casa di Toesca bruciava, Allende era morto e Óscar Lagos Ríos, Johny, era stato colpito da due pallottole, ma era ancora vivo. Alle due del pomeriggio, ormai senza più artiglieria, con le munizioni esaurite, i sopravvissuti di quel pugno dipoliziotti e uomini del GAP uscirono dalle macerie e furono immediatamente fatti salire su un camion militare con destinazione ignota. I poliziotti riuscirono a salvarsi la vita, passarono attraverso atroci torture ma sopravvissero. I tredici GAP scomparvero.
In Cile, tuttavia, la terra parla e così è stata scoperta una fossa comune clandestina in un campo militare abbandonato, Fuerte Arteaga, e in quella fossa c’erano più di quattrocento pezzi di ossa umane, alcuni lunghi meno di un centimetro, e quei pezzetti minuscoli hanno raccontato che i tredici GAP erano stati torturati, mutilati, assassinati dalla soldataglia in un’orgia di sangue, durata vari giorni, a cui avevano partecipato ufficiali e truppa del reggimento Tacna. I GAP erano stati sepolti nella caserma, ma quando alcuni testimoni avevano dichiarato di poter indicare il luogo dell’occultamento, i resti degli eroici combattenti della Moneda erano stati trasferiti a Fuerte Arteaga, gettati in una buca profonda dieci metri, fatti saltare in aria con la dinamite e infine coperti di terra.
È impossibile ridurre al silenzio la voce dei combattenti e le loro ossa minuscole hanno rivelato i loro nomi, hanno detto: «Io sono ciò che resta di Óscar Reinaldo Lagos Ríos, ventun anni, nome di battaglia Johny, GAP, assassinato il 13 settembre 1973». Una mattina del 2010, un corteo con in testa tre carri funebri è passato davanti al palazzo della Moneda. A scortarli c’erano uomini e donne di oltre sessant’anni che al braccio sinistro esibivano con orgoglio un nastro rosso con la sigla GAP. Scortavamo Juan Alejandro Vargas Contreras, ventitré anni, Julio Hernán Moreno Pulgar, ventiquattro anni e Óscar, quel Johny che aveva preso il fucile quando bisognava farlo.
nostri compagni oggi riposano nel mausoleo degli eroi, accanto alla tomba del Compagno Presidente. Il GAP non si arrende.Onore e gloria ai combattenti della Moneda. Viva i compagni!
Traduzione di Ilide Carmignani
Luis Sepulveda, la Repubblica, 9 settembre 2013

De Gasperi e Dossetti: Due modelli di cattolicesimo politico.

di Pierluigi Castagnetti.



Pubblichiamo, per gentile concessione della Fondazione De Gasperi (www.degasperitn.it) e dell’autore, il testo della “Lectio Degasperiana”, che si tiene ogni anno, il 18 di agosto, a Pieve Tesino (TN) .



“Quando si (ri)costruiva l’Italia, quando si scriveva la Carta costituzionale, quando si ancorava il destino del paese all’Europa e all’ occidente, quando nasceva il partito “dei” cattolici italiani, quando nascevano per la prima volta le correnti nello stesso partito… (e si potrebbe continuare), quello era il tempo di De Gasperi e Dossetti. Due figure molto diverse Rosostanzialmente concorrenti nel definire una linea politica “tendenzialmente unitaria”.

Non è mia intenzione nascondere le differenze e anche i conflitti tra di loro – che cercherò di richiamare uno per uno – ma mi sembra ormai giunto il momento di mettere in discussione il cliché di una diversità radicale che descrive l’uno come personaggio politico e l’altro meno politico, l’uno esperto e l’altro inesperto, l’uno statista e l’altro inguaribile idealista, l’uno roccioso e l’altro caratterialmente inquieto. Erano entrambi uomini pienamente politici, in modo diverso riformatori e dunque realisti e concreti. Chi ha conosciuto Giuseppe Dossetti e l’ha visto all’opera come organizzatore e mobilitatore popolare e ancor più come ideatore di grandi riforme di sistema, ha potuto apprezzarne l’intelligenza e la capacità di governo impressionanti, sicuramente paragonabili a quelle dello statista trentino. Va aggiunto poi che i due si stimavano molto, anche se non sono mai riusciti, rammaricandosene, a capirsi fino in fondo.

Vi sono due lettere che si scambiarono al tempo dell’’adesione dell’Italia all’Alleanza Atlantica che a me pare illustrino bene i rispettivi stati d’animo. Il 22 febbraio 1949 Dossetti scriveva a De Gasperi: “In sostanza l’altra sera, come già tante altre volte, ho sentito che non è certo comoda e felice la posizione che spesso assumo nel seno del Partito e nei rapporti con te: posizione che ha per effetto quasi sempre di addolorare te, cui per tanti motivi devo devozione e riguardo, di contrastare molti amici, che non mi comprendono e che si allontanano quasi ritenendomi solo un dottrinario, e infine di impedirmi di impiegare più utilmente e costruttivamente delle energie, che hanno per lo meno un pregio: quello di essere spese al servizio di questo nostro Partito con una intensità e una esclusività non frequente”i. Nonostante questa dichiarazione di stima personale Dossetti continuava: “Devi credermi se ti dico che corrisponderebbe molto di più ai miei desideri e al mio istinto rinunziare a qualche piccola, e per lo più vana protesta, pormi in una linea di piena e cordiale conformità. Ma, temo, sarebbe la via dell’istinto e non quella del dovere. Soprattutto se ciò fosse ottenuto a un prezzo che non mi pare di poter pagare: quello della rinunzia ad una misura e a un senso di responsabilità, che su di un piano di tanto più modesto del tuo tuttavia hanno una loro precisa consistenza per me in quanto deputato e soprattutto in quanto membro del supremo organo del Partito. Perciò l’altra sera mentre come uomo ero commosso e quasi travolto dalle tue parole, come consigliere nazionale del Partito mi sembra di non poter proprio consentire in tutto: non tanto sul merito della questione discussa quanto sul metodo della sua impostazione e sulla definizione delle rispettive responsabilità”ii.

De Gasperi rispose il 5 Marzo 1949 con non minore attenzione umana e sensibilità: “Sarei felice se mi riuscisse di scoprire ove si nasconda la molla segreta del tuo microcosmo, per tentare il sincronismo delle nostre energie costruttive… ma ogni volta che mi pare di esserti venuto incontro, sento che tu mi opponi una resistenza che chiami senso del dovere …. E poiché non posso dubitare della sincerità di questo tuo sentimento, io mi arresto rassegnato sulla soglia della tua coscienza”iii.

E, ancora, De Gasperi nella lettera dell’11 gennaio 1952 con cui risponde all’annuncio di dimissioni di Dossetti, ribadisce: “Vorrei che anche tu credessi che anche in me non è mai mancato il vivo desiderio di comprenderti o meglio comprendere le ragioni dei tuoi atteggiamenti, rifiutando ogni interpretazione meno che nobile o deteriore” iv. Dunque un’incomprensione veramente importante, dall’inizio alla fine della loro relazione politica.

E’ del tutto evidente che se si fosse trattato soltanto di una questione di radicale alterità di strategia politica non sarebbe stato difficile comprenderla. C’è stata invece l’impossibilità o l’incapacità dell’uno e dell’altro di entrare sino in fondo nei reciproci sistemi di pensiero, linguaggi, blocchi psicologici, pregiudizi generazionali. E forse anche il pudore di raccontarsi fino in fondo le reciproche visioni del mondo, custodi nel profondo delle vere differenze politiche.

De Gasperi e Dossetti lavorarono insieme per meno di sette anni. Dossetti si dimise definitivamente all’inizio del 1952, De Gasperi morirà due anni dopo. La densità di quegli anni, come sappiamo, decise il destino del paese, segnandone il percorso politico e democratico per lunghi anni successivi.

E’ commovente il ricordo di una lunga lettera di De Gasperi al suo successore Amintore Fanfani, il 14 agosto 1954, cinque giorni prima di morire, in cui gli chiede un estremo tentativo per salvare la CED, l’ultimo prodotto dalla sua straordinaria strategia europeista.

Dossetti, dopo quella politica, visse una successiva esperienza, assai più lunga (morirà nel 1996) di carattere prima culturale e poi monastico con un paio di riaffacci alla politica, nel 1956 e nel 1994; un’esperienza che proietterà una luce utile a una comprensione più puntuale dei sette anni di impegno politico e parlamentare, vissuti sempre con la tensione a un’ulteriorità inevitabile in chi ritiene il proprio impegno politico generato dalla fede e misurato dalla fede. Una tensione che porterà un amico di Dossetti, Aldo Moro, più tardi, a parlare del valore del “non appagamento” e Pietro Scoppola, in altro contesto, a parlare della politica come “valutazione razionale del possibile e sofferenza per l’impossibile”v.

Ma torniamo ad approfondire la conoscenza dei nostri due, e le differenze che ovviamente non riguardavano soltanto la natura delle due personalità. De Gasperi proveniva da un’esperienza parlamentare lunga e per molti aspetti unica, a Innsbruck, a Vienna e poi nel parlamento italiano prima del fascismo, che, insieme agli studi sviluppati negli anni di permanenza alla Biblioteca Vaticana, gli aveva aperto orizzonti culturali molto ampi. “Nella galleria dei nostri antenati – proclamava - veneriamo anche Lacordaire, Montalémbert, Tocqueville” vi (oltre ovviamente a Lamennais, Sturzo, Maritain), che gli avevano consentito di elaborare l’idea che la modernità dovesse raccordarsi a un modello di stato sostanzialmente liberal-democratico.

De Gasperi non fu un restauratore, come una certa storiografia “di parte” tentò di sostenere nel dopoguerra, e non fu neppure un conservatore in senso classico, poiché vide sin da subito l’esigenza di una forte discontinuità; fu piuttosto un riformista, e come tale realista, o un “moderato creativo”, come l’ha definito Scoppola nella lectio qui a Pieve Tesino nel 2004.

De Gasperi per Craveri concepiva la “democrazia come antirivoluzione”vii, ma sapeva che la rivoluzione non si poteva combattere con l’immobilismo e la conservazione e, perciò, concepì il nuovo partito, la Democrazia Cristiana, come un partito laico ma intenzionalmente unitario dei cattolici, non il partito “fra” o “di” cattolici di Sturzo, ma il partito “dei” cattolici. Per Dossetti questa era quantomeno una scelta rischiosa, perché, al di là delle intenzioni, poteva trascinare la Chiesa e dunque “usurarla”, mentre per De Gasperi era la scelta necessaria sia per evitare che la divisione dei cattolici, com’era accaduto negli anni ’20, favorisse una deriva della democrazia, sia per potere aiutare i cattolici tutti a liberarsi della lunga contaminazione clerico-fascista che li aveva portati ad essere all’inizio del secondo dopoguerra, la parte debole della società democraticaviii.

Ma in lui vi era soprattutto l’ambizione di costruire un partito nazionale e popolare, il partito del paese, in cui potesse riconoscersi – dopo l’esperienza della dittatura e della guerra che avevano diviso in profondità – la maggioranza degli italiani. C’era bisogno di ri-connettere, ri-conciliare e ri-pacificare il paese; la ricostruzione aveva bisogno di tutti e non avrebbe sopportato la prosecuzione di conflittualità politiche, confessionali e di classe e, poiché il cattolicesimo nella storia italiana rappresentava un elemento di identità e unità, un nuovo partito dei cattolici avrebbe potuto fecondare il processo che si stava avviando. Un partito unitario dei cattolici anche per scoraggiare le posizioni antirepubblicane e a-fasciste che dentro la cristianità italiana erano tentate di darsi forma politica, sostenute anche da ambienti confindustriali preoccupati delle incerte prospettive istituzionali e politiche.

Nel fare il nuovo partito De Gasperi non poteva peraltro riferirsi all’esperienza degli altri paesi europei paragonabili all’Italia: i cattolici in Francia erano infatti fortemente segnati dalla condanna dell’ “Action Francaise” di Maurras e da Vichy, mentre la democrazia tedesca nasceva su basi del tutto diverse poiché là, come ha rilevato Scoppola, “il comunismo era un altro Stato”, mentre in Italia il comunismo era parte costitutiva del nuovo stato e, dunque, con esso si doveva instaurare un rapporto di riconoscimento reciproco e di inevitabile competizione democratica. Anche a questo scopo un partito grande, cioè rappresentativo della quasi totalità dei cattolici, avrebbe reso più facile l’obiettivo. Il disegno di De Gasperi per quanto favorito dalla riflessione culturale che nella prima metà degli anni ’40 la parte più avanzata e sensibile del cattolicesimo italiano aveva elaborato (il convegno di Camaldoli nel 1943, i cenacoli dei vecchi gruppi dirigenti Popolari a Roma e a Milano, molti docenti dell’Università Cattolica) sentiva di dover personalmente farsi carico di dare attuazione a un partito che coinvolgesse tutte le esperienze associative politiche ed ecclesiali, ma anche la gran parte di quelle sindacali, professionali ed economiche; un lavoro enorme che la sua capacità organizzativa di indole trentina, concreta e mediatrice, e la sua conoscenza di numerosi ambienti, poteva realizzare. Paradossalmente, ma non troppo, Dossetti, che non sembrava condividere il disegno di un partito così largo e così esposto ai limiti di mediazioni eccessive, finirà per essere uno dei maggiori protagonisti della sua realizzazione concretaix.

Non vi era perfetta coincidenza fra De Gasperi e Dossetti sul ruolo che il partito avrebbe dovuto avere nell’impianto istituzionale della nostra democrazia. Per De Gasperi doveva essere rafforzato il ruolo del Parlamento come luogo principe di discussione su impulso del governo e quindi di partecipazione democratica degli eletti. Secondo Craveri De Gasperi aveva “almeno nelle sue linee di fondo, un approccio assai simile a quello del classico modello del “governo di gabinetto” così schematizzabile: prima il governo, poi la maggioranza parlamentare, infine il partito. La leadership del governo avrebbe costituito dunque il punto di riferimento naturale, se si vuole il momento di sintesi di questa gerarchia istituzionale”x.

Anche per Dossetti il partito non doveva essere la pietra angolare dell’architettura costituzionale, ma lo strumento principale della rappresentanza. Dossetti, influenzato anche dalla tesi sul partito politico del suo amico Costantino Mortatixi esprimerà più volte la sua propensione per una democrazia “sostanziale”, dove la sostanza è la sovranità del popolo, in cui il partito non può essere solo uno strumento di formazione di classi dirigenti e di propaganda elettorale, ma anche e soprattutto di veicolo della volontà del popolo trasferita attraverso i gruppi parlamentari nel cuore delle istituzioni. La posizione di Dossetti appare meno moderna di quella di De Gasperi, e in parte anche contraddittoria con la sua iniziale propensione verso un’ipotesi presidenzialista, ma coglie uno dei problemi più acuti del funzionamento democratico, quello della rappresentanza: chi delega ha il diritto di vedere portato il suo pensiero nel luogo dove la delega viene esercitata e, nello stesso tempo, ha il diritto di vedere “controllato” l’esercizio di questa delega. Come si vede c’è una certa attualità in queste posizioni, anche se oggi, evidentemente, la liquefazione della società non consente “rassodamenti” partitici troppo rigidi. Alla fine, si capisce bene come nella concezione del ruolo così importante che Dossetti assegna al partito sia presente la preoccupazione di evitare che la logica del governo di coalizione imponesse costi di mediazione troppo alti per chi aveva un progetto politico da realizzare. De Gasperi difenderà invece sino in fondo il governo di coalizione, non solo perché gli permetteva di rappresentare e coinvolgere realtà sociali e politiche che pur minoritarie esprimono un peso determinante sul piano economico ed un’apertura verso i mercati e le democrazie straniere, ma anche perché gli consentiva - come detto - di sottrarsi al condizionamento esclusivo del proprio partito e, di conseguenza, del mondo cattolico e delle gerarchie ecclesiali. È soprattutto qui che ha origine la polemica troppo superficiale sul presunto integralismo di Dossetti.

Dossetti non era insofferente verso la politica delle alleanzexii, semplicemente riteneva che compito della Democrazia Cristiana fosse quello di realizzare un cambiamento profondo del paradigma del potere e dunque degli obiettivi verso cui finalizzarne l’esercizio. A suo avviso doveva essere realizzato il progetto politico iscritto nella Costituzione, non solo nella parte istituzionale, che tra l’altro Dossetti giudicava fragile e da ripensare rapidamente, (con interventi apparsi su Cronache sociali già alla fine degli anni ’40) e anzi rimproverava a sé stesso di averla lasciata troppo alla determinazione dei costituenti più anziani e più sensibili all’esigenza di un eccessivo garantismo, sia per lo spettro passato del fascismo e sia ancor più per il “pericolo comunista” che incombeva, ma nella sua parte più sostanziale, dei rapporti economico-sociali. L’alleanza con le forze minori di centro, per Dossetti, avrebbe potuto fatalmente costituire un alibi per non realizzare l’obiettivo. Insomma, Dossetti, che ha avuto un ruolo decisivo nello scioglimento del CLNxiii (ricevendone un importante apprezzamento da De Gasperi), perché riteneva non si potesse sottrarre alle assemblee elettive la prerogativa delle scelte politiche, pensava che in ogni caso non si dovesse ammainare la bandiera dell’antifascismo e la missione di costruire una democrazia politicamente orientata a favorire i ceti popolari più deboli.

Veniamo così alla prima delle due ragioni che a mio avviso spiegano la qualità delle diverse visioni fra nostri due personaggi: l’antifascismo. Per Scoppola “una visione equilibrata della realtà – premessa necessaria di una sintesi politica efficace – era possibile assai più in chi aveva seguito l’esperienza della Resistenza da lontano che in chi l’aveva vissuta sulla sua carne: la posizione di uomini come De Gasperi e come Togliatti risulterà così, in definitiva, privilegiata per la maggiore capacità di cogliere la linea di un equilibrio di insieme e di possibile sviluppo della politica italiana”xiv. Un’osservazione seria ma discutibile, nel senso che se è vero che chi la Resistenza l’ha fatta poteva essere meno obiettivo nel valutarne la portata, è anche vero che proprio l’esperienza vissuta era in grado di radicare il giudizio storico con maggiore cognizione di causa. Ciò che in ogni caso non è discutibile è l’antifascismo anche di De Gasperi. Ma il suo, come rileva Craveri, era “un antifascismo religioso”, nel senso che coglieva la radicale contraddizione del fascismo con i principi del cristianesimo e, anche perciò, si rendeva necessario ri-educare quella vasta area di credenti ancora prigioniera dell’inaccettabile idea che il fascismo “potesse essere cattolicizzabile” e che occorresse portare avanti una lunga guerra di posizione per consolidare gli elementi considerati positivi ed emarginare gli altri”xv (e in tale quadro non si può negare che lo stesso padre Gemelli avesse giocato un ruolo non secondario).

Per Dossetti invece le ragioni dell’antifascismo erano più profonde e definitive. C’era sì il riconoscimento dell’inconciliabilità con il pensiero cristiano, ma c’era anche altro. Dossetti, come rileva Alberto Mellonixvi, mutua da Gobetti l’idea del fascismo come autobiografia della nazione: non solo sul piano storiografico o su quello della coscienza del cattolicesimo democratico, ma proprio come dato permanente, che perdura e si ripropone nel tempo. “È avvenuto, quindi può accadere di nuovo”, scriverà Primo Levixvii. È questa la radice teologica del suo patriottismo costituzionale: ciò che Dossetti intuisce e denuncia a partire dal 1994 (sia nel discorso in memoria di Lazzati sia in numerosi interventi in difesa della Costituzione)xviii non fu dettato da una preoccupazione politica contro Silvio Berlusconi ma dalla preoccupazione fortissima che “quella” novità potesse rappresentare l’inizio di una fase di “de-costituzionalizzazione” della nostra legge fondamentale e dei suoi meccanismi di difesa rispetto ai rischi di rottura dell’unità nazionale e del particolare equilibrio tra i poteri istituzionali che è alla base del modello democratico.

Un rischio che gli era suggerito anche dalla seconda ragione fondamentale che spiega la diversità con De Gasperi: la cosiddetta “cultura della crisi”. Per Dossetti la crisi vissuta dalle istituzioni dell’Europa liberale e democratica non era di natura temporanea né era apparsa all’improvviso, non una parentesi, per dirla con Benedetto Croce, ma un segno più profondo, un solco che bisognava colmare attraverso una paziente opera di ricostruzione morale. Il pensiero dossettiano lavorava secondo una metodologia precisa, seguendo una pista ben definita: la crisi della civiltà occidentale. Crisi che aveva prodotto eventi terribili e radicalmente anticristiani: basterebbe ricordare la originalissima e intensa introduzione a Le Querce di Montesole di Luciano Gherardixix dove si parla degli eccidi nazisti come di delitti “castali”.

Il fratello Ermanno Dossetti ha ricordatoxx che molto influì sulla formazione di Giuseppe il libro di Huizinga “La crisi della civiltà” xxi, una tematica affrontata anche da altri autorixxii frequentati da Dossetti, come Romano Guardini e soprattutto Jacques Maritain. Come ha scritto Paolo Pombeni, Dossetti “era figlio della crisi degli anni ’30, quella che si era interrogata sul perché del fallimento del mondo precedente, ma che soprattutto si era chiesta perché la Chiesa e i cristiani fossero stati incapaci di essere sale e lievito in quei frangenti” xxiii.

Per Dossetti la civiltà contemporanea poteva essere letta come “civiltà della crisi”, di fronte alla quale non soltanto gli strumenti puramente politici ma anche la Chiesa stessa si rivelava impotente. È Paolo Prodi a ricordarcixxiv che “nonostante i richiami di continuità che Dossetti fa rispetto alla sua esperienza politica e spirituale e alle diagnosi già date sulla crisi, mi sembra che la novità del suo pensiero fu proprio quella del giudizio di catastroficità sulla situazione mondiale, che si traduceva in un giudizio sulla criticità del momento ecclesiale a causa del prevalere nel cristianesimo di un modo razionalistico e attivistico – compromesso con la politica, semipelagiano sul piano teologico – di vivere la fede” xxv.

La chiave della crisi di civiltà assume nel pensiero di Dossetti un significato ancora più accentuato dopo la seconda guerra mondiale, un evento che aveva segnato per sempre non solo il secolo ma i tempi a venire. Ne parlò con straordinaria intensità a Monteveglio nel dibattito con Nilde Iotti nel 1994 quando ricordò i 55 milioni di uomini uccisi, la Shoah, l’invenzione della bomba atomica, la spaccatura del mondo in due blocchi contrapposti, un “crogiolo ardente e universale” da cui fortunatamente e per grazia di Dio è scaturito quell’ opus maius rappresentato sul piano politico dalla ripresa e dal perfezionarsi del costituzionalismo interno e internazionale e sul piano ecclesiale dalla convocazione del Concilio Vaticano II. Non si capisce Dossetti se non si tiene presente questa sua chiave di lettura della storia e, necessariamente e di conseguenza, di definizione delle responsabilità che competono alla politica e alla Chiesa.

Pur in presenza di tali diversità, ripeto che a me pare giusto sottolineare i momenti non rari e non marginali di intesa politica con De Gasperi.

Il lavoro costituente rappresentò in particolare un momento di convergenza. Se è vero infatti che De Gasperi partecipò pochissimo ai lavori dell’Assemblea Costituente essendo impegnato a guidare il governo, non è privo di significato il fatto che in quella sede Dossetti e i suoi amici godessero di fatto di titoli di rappresentanza dell’intero partito e margini di autonomia che hanno utilizzato sino in fondo, soprattutto nel definire l’impianto complessivo della Carta e, in particolare, i principi fondamentali. È giusto ricordare che va a merito di Dossetti e di altri costituenti che gravitavano attorno alla Comunità del Porcellino aver definito il sostrato culturale che regge l’impianto costituzionale, ma è non meno importante dare atto che gran parte di quello stesso sostrato si trova nelle Idee ricostruttive di De Gasperi, soprattutto nella prima provvisoria stesura che Scoppola considera il manifesto politico dello statista trentino. Entrambi convergono in modo significativo sull’art. 7 della Costituzione, su quello che sarebbe stato un esempio di laicità dialogante e di comprensione del ruolo della Chiesa in Italia. Sia Dossetti che De Gasperi si muovono con l’intento di sanare una ferita storica che risale al Risorgimento e più tardi al Concordato tra la Chiesa e il regime.

De Gasperi, nel discorso del 25 marzo 1947 dirà: “Vi aggiungo – ed è l’unico riferimento che faccio alla mia carica di governo – che io mi sento portato e deciso a votare anche per l’impegno che ho dato, che ho preso, di consolidare, di universalizzare, di vivificare il regime repubblicano”. Dossetti, nel suo intervento di quattro giorni prima, aveva delineato con finezza, e forse con qualche forzatura, come ammetterà egli stesso, il senso dell’impegno democristiano rispetto al Concordato: “ … perché non si inserisca in questo momento decisivo (come già alle origini del nostro primo Risorgimento) alla base del nuovo edificio quel contrasto interiore, quella riserva che potrebbe impedire a molti di noi, se non di dare la nostra opera e il nostro contributo esteriore, perlomeno di effondere nello sforzo ricostruttivo tutta la nostra interiorità, la porzione più gelosa e più preziosa del nostro spirito”. Fu uno dei momenti più alti del dibattito costituzionale nel quale i costituenti cattolici hanno finito per operare verso la Chiesa quella che Alberto Melloni (parlando nello specifico di Dossetti) ha definito una manuductio. Avevano portato cioè per mano la Chiesa ad accettare il sistema democratico, allontanando le tentazioni di uno stato confessionale e accettando di contribuire a radicare le masse cattoliche nel cuore della Costituzione, al centro del sistema democratico. Era un tempo in cui fra la chiesa e i politici cattolici si determinò una significativa circolarità di apporti e di influenze xxvi.

Com’è noto, date le premesse che abbiamo fatto, non rinuncio a ricordarlo, non mancarono i momenti di incomprensione e qualche volta anche di conflitto tra queste due personalità. È inevitabile menzionarne almeno i tre più significativi: la scelta del referendum istituzionale, la scelta dell’Alleanza atlantica e la politica economica all’inizio degli anni ’50 xxvii.

Referendum istituzionale. Quella del referendum per la scelta istituzionale, monarchia o repubblica, non fu una scelta facile per la divisione tra e nelle forze politiche. In particolare i liberali lo volevano nella speranza di confermare la monarchia e il potere delle vecchie classi dirigenti ad essa legate, mentre le sinistre non lo volevano, quantomeno non volevano che fosse preventivo per non sottrarre all’assemblea costituente una scelta fondamentale. All’interno della Democrazia Cristiana era invece temuto dalla parte repubblicana: dallo stesso Sturzo, che dall’estero guidava, attraverso Mario Scelba, una forte opposizione al referendum; ma anche dalle sinistre interne, soprattutto quella dossettiana, nel timore che potesse prevalere la scelta della monarchia grazie all’appoggio di una parte importante della chiesa che si sentiva più garantita rispetto al rischio di una repubblica eventualmente guidata dalle sinistre. Era per lo più l’elettorato meridionale ad essere schierato su quest’ultima propensione, nonostante la posizione espressa da Scelba e dai dirigenti siciliani, in primo luogo dall’altro vicesegretario Bernardo Mattarella e da esponenti di spicco in Campania e in Puglia.

In questo contesto, era forte il sospetto che De Gasperi fosse animato dalla riserva mentale di favorire la monarchia non schierando in modo netto il partito a favore della repubblica. De Gasperi, in realtà, voleva ancorare la scelta istituzionale a un coinvolgimento diretto del popolo, avendo viva la memoria – come ha sottolineato Paolo Pombeni in varie occasioni – della Repubblica di Weimar, dove pur in presenza di una costituzione certamente di qualità non si era riusciti a frenare la crisi terribile della democrazia anche perché il popolo tedesco, in fondo, non l’aveva mai sentita come “propria”.

In ogni caso, quello che premeva a De Gasperi era poter arrivare alla repubblica senza lacerazioni nel mondo cattolico e nella DC, con un largo consenso che sin dall’inizio assicurasse al nuovo stato una solida base. E’ infine da dire che la scelta del referendum istituzionale lacerò a lungo anche i partiti della sinistra, che pure erano convinti dell’esito a favore della repubblica, ma temevano che l’associazione del referendum alla richiesta degasperiana di introdurre insieme al suffragio universale il voto obbligatorio favorisse la mobilitazione delle masse cattoliche e dunque introducesse qualche rischio per l’esito previsto. È interessante l’esame dei verbali della direzione del Partito Comunista da cui si evince questo travaglio e in particolare il ruolo che hanno avuto Pietro Nenni e, all’interno del PCI, Giorgio Amendola e Girolamo Li Causi, nel modificare le posizioni di partenza xxviii.

Dossetti, persa la battaglia sulla scelta dell’indizione del referendum, come vicesegretario si impegnò moltissimo a sostenere in sede elettorale l’opzione della repubblica, sia nella base del partito, sia nell’elettorato, al punto di vantarsi legittimamente del risultato: “Ma i voti alla repubblica chi li ha portati al primo congresso della Democrazia Cristiana? Ci sono dei fatti. In un certo mio itinerario, federazione per federazione, comitato provinciale per comitato provinciale” xxix. Se è possibile affermare, come fa Leopoldo Elia, che la scelta di De Gasperi per il referendum “fu un vero e proprio capolavoro” nondimeno è doveroso sostenere che il risultato finale è non poco merito di Dossetti e degli altri dirigenti democristiani che si mossero sulla stessa linea, contravvenendo all’indicazione di quello che allora fu definito “l’agnosticismo istituzionale” della Democrazia Cristiana.

La scelta dell’Alleanza atlantica. Per molti aspetti anche questa può essere definita un capolavoro di De Gasperi, nel senso che, determinatesi le condizioni, in parte anche cercate attraverso un intenso lavoro diplomatico, il capo del governo italiano vide nell’adesione al Patto Atlantico la possibilità di ancorare definitivamente l’Italia all’occidente, non senza il pagamento di alcuni costi politici ritenuti discutibili ed esosi non solo da parte di Dossetti e delle altre sinistre interne ma anche di una parte importante della Santa Sede si disse che lo stesso card. Tardini fosse piuttosto freddo sul tema. Com’è noto, la battaglia di Dossetti si sviluppò tutta all’interno del partito, nella direzione nazionale e nei gruppi parlamentari, dove, al dunque, votò contro, mentre in sede parlamentare, pur con qualche resistenza, lui e i suoi amici votarono a favore. Dall’esame dei verbali della direzione e del gruppo parlamentare emerge chiaramente la preoccupazione di Dossetti di portare l’Italia nelle braccia degli Stati Uniti senza possibilità di esercitare una qualche influenza, essendo mancato l’impegno preventivo a costruire una strategia di intesa con gli altri paesi europei dell’Alleanza. Dossetti era molto preoccupato del clima che andava consolidandosi sullo scenario internazionale di forte contrapposizione fra i due blocchi oltre che della rinuncia dell’Italia a giocare un ruolo nel bacino del Mediterraneo e in Europa. Era preoccupato che questa scelta legittimasse definitivamente e ingessasse la linea economica liberista che a suo avviso il governo italiano stava definendo in modo sempre più preciso. Ma non arrivò mai a contestare in radice la scelta. Nel verbale della riunione del 29 novembre 1948 del gruppo parlamentare, in cui si discuteva la mozione Nenni, si legge dell’intervento di Dossetti la seguente sintesi: “Sulla linea è difficile essere in disaccordo. Il pericolo URSS esiste. Il patto di Bruxelles non ha per sé lo stimolo offensivo. Italia (ragione economica, culturale, storica, ideologica) sostanzialmente nell’orbita del mondo occidentale. Ingenuo pensare che l’Italia possa fare il vaso di terra tra vasi di ferro. Quindi non è in questione la neutralità a priori. Astratta. Quindi no alla mozione Nenni, nient’affatto di neutralità e di pace… Di fronte al problema abbiamo avuto quasi la certezza che dalla fine di settembre a metà novembre Min. esteri e alta diplomazia abbiano fatto passi in avanti che non corrispondono esattamente a quanto detto da De Gasperi il quale ha esposto tesi più graduale e concreta”xxx.

Con ciò veniva posta ancora una volta una “questione di metodo” (questo avrebbe dovuto essere anche il titolo della rivista che poi si chiamerà “Cronache sociali”), cioè di non adeguata trasparenza dei propositi e di non completa informazione sugli indirizzi e sugli atti dell’azione governativa, pur mantenendo una sostanziale riserva verso l’Alleanza.

La linea economica. Soprattutto durante la seconda vicesegreteria di Dossetti, 1950-51, si accentua la polemica verso la politica economica di Giuseppe Pella, legatissimo agli ambienti confindustriali tessili e a quello che veniva definito il “quarto partito”xxxi. Vi è traccia di questi suoi giudizi in numerose lettere al segretario nazionale Guido Gonellaxxxii. Queste critiche dossettiane alla linea liberista di Pella esprimevano uno stato d’animo diffuso non solo negli ambienti sindacali ma anche in alcune aree imprenditoriali preoccupate che una strategia di mera difesa della moneta potesse penalizzare il processo di crescita i cui benefici incominciavano a vedersi.

Alcune polemiche recenti che tendono a contrapporre l’eredità positiva del degasperismo liberale a quella negativa del dossettismo statalista, prescindono dalla necessità di storicizzare e di cogliere il maggior problema della stagione riformatrice centrista, quello della ricostruzione delle basi economiche del sistema, per creare occupazione e collegare il mercato interno a quello internazionale. Dimenticare la condizione materiale del paese di allora, ignorare la sterilità di talune posizioni liberiste nazionali chiuse al confronto con la modernità keynesiana, nata non a caso all’interno di un liberalismo più moderno come quello britannico, vuol dire fare la caricatura di un dibattito interno alla D.C. tutt’altro che banale. Ospitare le tesi keynesiana, attraverso gli articoli di Federico Caffè in “Cronache Sociali”, non può essere liquidato come neo-statalismo, essendo al contrario un tentativo di modernizzazione del nascente sistema. Tant’è che lo stesso De Gasperi finì per orientarsi pragmaticamente per un mix di scelte liberiste e interventiste: sostenne la strategia antinflazionistica di Einaudi, salvò l’IRI, appoggiò Mattei, avviò le riforme agraria e del mezzogiorno affidandone una sorta di alta vigilanza politica proprio a Dossetti, aprì al commercio internazionale, diede spazio a tecnici di formazione nittiana, il più significativo dei quali – Giuseppe Medici – fu reclutato da Dossetti stesso. Si aggiunse poi a tal proposito in Dossetti l’amarezza di constatare che all’interno del proprio gruppo di amici si era operata la dissociazione importante di Amintore Fanfani che sempre più si affiancò ad Alcide De Gasperi ritenendo che la sua linea non avesse alternative. Non è un caso se nei due incontri estivi di Rossena nel 1951 in cui fu deciso lo scioglimento del gruppo e annunciato il ritiro dalla politica del suo leader, Dossetti abbia invitato quanti restavano ad assecondare il lavoro di De Gasperi, auspicando, come rivelerà nel colloquio con Lazzati, Scoppola ed Elia, che l’iniziativa passasse nelle mani di Aldo Moroxxxiii, che era considerato vicino anche se non propriamente interno al gruppo medesimo. Finì così l’esperienza politica di Giuseppe Dossetti.

La parabola politica dei nostri due, come abbiamo detto, si è conclusa, per ragioni diverse, quasi contemporaneamente. Non è privo di significato che la maggior parte dei “compagni di strada” dell’uno e dell’altro si ritrovasse, dopo il 1953, nello stesso correntone di “Iniziativa democratica”, che dominò la D.C. e il governo del paese sino alla svolta del centro sinistra di Aldo Moro. Tutti, tranne Andreotti e Scelba. Sarebbe tuttavia un errore ritenere che quelli fossero i loro eredi. Per un certo periodo ne furono i prosecutori, ma eredi in senso proprio sul campo non ne restarono, considerate la grandezza e l’unicità di queste due figure politiche.

In particolare è doveroso riconoscere che l’esperienza di De Gasperi non ha paragoni storici possibili, identificandosi con l’invenzione di un partito “nuovo” (non solo un nuovo partito, come si direbbe oggi), ma soprattutto con la ricostruzione materiale di un paese uscito in macerie dalla seconda guerra mondiale

Per entrambi si può però parlare di un’eredità politica, in parte condivisa e in parte no, che conserva – pur nella diversità dei contesti storici – per una parte significativa, una certa attualità. Il tema dell’Europa unita ad esempio, reso ancora più urgente oggi dalla globalizzazione. Quello della autonomia della politica rispetto ad ogni tipo di “pressura” esterna. Quello di una strategia “unitiva” del paese, a partire dall’esigenza di forti politiche per il mezzogiorno. Quello della selezione e della formazione di una classe dirigente non “fedele” (come sembra preferirsi oggi) ma leale e competente. Quello infine di una difesa definitiva dell’impianto della nostra Carta costituzionale, in particolare dei suoi principi supremi. È solo il caso di ricordare che Dossetti ebbe modo di guidare una campagna in difesa di questi valori negli anni 90 che destò molta impressione e risultò efficace e fruttuosa.

Ma la loro è soprattutto un’eredità morale, che in ultima analisi riguarda il senso, la finalità e la qualità umana della politica. Senso e finalità significano visione e futuro. Significa guardare, come diceva De Gasperi, “non alle prossime elezioni, ma alle prossime generazioni”. Dossetti in particolare ci affida l’impegno a una “dilatazione del cuore e della mente, nella ricerca nova e creativa di traguardi più alti di vita spirituale e sociale. Se ci lasciassimo indurre a ritenerlo un dispensatore di utopie, disperderemmo la sua più autentica testimonianza cristiana e civile: l’impegno rigoroso a riconoscere i “segni dei tempi” e a scrutare l’avvenire per costruirlo con passione”xxxiv.

Infine, la concezione della politica. Se, come diceva Weber, “il mondo è governato da demoni e chi s’immischia nella politica, ossia si serve della forza e della violenza, stringe un patto con potenze diaboliche … chi non lo capisce in politica non è che un fanciullo”xxxv, allora bisogna essere attrezzati per reggere un tale patto. E’ necessaria fortezza interiore e, soprattutto nei cristiani, una vita spirituale profonda, com’era per De Gasperi, Dossetti e la maggior parte della loro generazione. La politica aveva bisogno allora e, a maggior ragione oggi, di donne e uomini che “vestano abiti virtuosi”. Ha bisogno di uomini integri, di uomini verticali. Ha bisogno di uomini distaccati da ogni interesse personale. Di uomini effettivamente liberi di servire il bene comune.

Su un altro piano possiamo rilevare come l’inizio del pontificato di Papa Francesco stia rivelando i frutti di una pedagogia dell’esempio e della coerenza che, se trasferita in politica, potrebbe produrre in tempi rapidi il frutto del “riavvicinamento” dei cittadini, senza del quale essa rischia sempre più la propria delegittimazione. La politica ha bisogno di quei “dodicimila santi” di cui parla Dostoevskij nella Leggenda del Grande Inquisitorexxxvi. Ha bisogno che la loro virtù sia esempio imitabile, ma anche presupposto per un’adeguata comprensione della profondità della crisi morale e antropologica di questo tempo, per poterla affrontare, pur nel rispetto dell’autonomia della società. Oggi ci troviamo nel mezzo di un cambio d’epoca che impone scelte inedite e forti non solo sul piano dell’economia e della definizione di una sovranità europea. È necessario anche ricostruire un nuovo terreno umanistico sul quale possano ritrovarsi e riconoscersi i tanti cittadini ormai stremati da un individualismo esasperato e distruttivo di ogni legamento sociale oltre che di ogni senso esistenziale. Servirà recuperare da parte di tutti quella vera laicità che consente la libertà di una ricerca di senso in ogni direzione laddove lo si possa ritrovare, a partire dalla forza di un cristianesimo essenziale e misericordioso, ancora oggi utile compagno di strada dell’uomo contemporaneo.”

i G. Dossetti, “Scritti politici”, a cura di G. Trotta, Marietti, Genova, 1995

ii
Ib.

iii Ib.

iv
Ib.


v P. Scoppola, Un cattolico a modo suo, Morcelliana, Brescia, 2008

vi
Discorso al Consiglio nazionale di Fiuggi, 1949, in Piccola biblioteca di cultura politica: Alcide De Gasperi, SELI, Roma, 1949

vii
Piero Craveri, De Gasperi, Il Mulino, Bologna, 2006

Significativa la lettera di De Gasperi a Stefano Jacini, in De Gasperi scrive. Corrispondenza con capi di stato, cardinali, uomini politici, giornalisti, diplomatici, a cura di M. R. Catti De Gasperi, Morcelliana, Brescia, 1974

ix “A differenza di quanto ancora largamente si narra o si lascia intendere, la DC come partito di massa fu concretamente fatta da Dossetti, con l’aiuto degli uomini da lui reclutati o coordinati, sia nel corso della prima vicesegreteria nazionale (1945-1946) – politica nella sostanza assai più che la successiva – sia in quello della seconda (1950-1951). Cfr. Giuseppe Dossetti. L’invenzione del partito, a cura di Roberto Villa, in corso di pubblicazione

x
Piero Crateri, De Gasperi op. cit.

xi
Nell’elaborazione di Mortati è molto evidente l’importanza che assume la teoria del partito politico per l’individuazione degli elementi strumentali della costituzione materiale, che sono il suo schema teorico, per l’appunto, il gruppo sociale dominante e il partito che ne è l’espressione politica organizzata. Egli intendeva così superare la dicotomia fra ordine sociale e ordine legale, che tanto aveva caratterizzato la dottrina liberale dello Stato-persona. Secondo Mortati le forze politiche sono l’elemento strumentale alla realizzazione delle finalità dello Stato, e queste ultime sono il contenuto, cioè l’elemento materiale, caratterizzante la costituzione fondamentale”, Salvatore Bonfiglio, I partiti e la democrazia, Il Mulino, Bologna, 2013

xii
Basterebbe riflettere sulla determinazione con cui Dossetti riuscì a imporre a De Gasperi la candidatura del liberale Luigi Einaudi alla presidenza della Repubblica (cfr. Vittorio Gorresio, Il sesto Presidente, Rizzoli, Milano 1972)

xiii Il 20 maggio 1956, in piazza Maggiore a Bologna, nel corso della campagna elettorale per il consiglio comunale, in risposta all’accusa rivoltagli una settimana prima da Togliatti di essere “un traditore delle classi lavoratrici italiane”, Dossetti rivelerà: “se ho cominciato a tradire, ho cominciato molto presto. Ma coscientemente, a occhi aperti, perché pensavo che se veramente il CLN aveva potuto adempiere una funzione nel momento in cui il paese era occupato ed oppresso, avrebbe dato seguito ai meriti che si erano acquistati soprattutto non tentando di defraudare il popolo italiano del diritto di esprimere la sua solidarietà attraverso libere elezioni. Questa mia battaglia per la liquidazione del CLN è continuata fino alla fine. Sono stato io che ho steso il testo finale, dopo le elezioni del 2 giugno, del comunicato di scioglimento del CLN che il Comitato Centrale non voleva decidere di emanare”, in G. Dossetti, Dossetti traditore? Due anni a Palazzo d’Accursio, a cura di R.Villa, Aliberti Editori, Reggio Emilia, 2004


xiv Pietro Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, Il Mulino, Bologna, 1977, p. 136

xv
Lucia Ceci, L’interesse superiore. Il Vaticano e l’Italia di Mussolini, Laterza, Roma-Bari, 2013, p. 143

xvi
Alberto Melloni, lectio magistralis in occasione dell’intitolazione a Giuseppe Dossetti del palazzo Unimore, Reggio Emilia, 9 febbraio 2013, in “http://www.comune.re.it”

Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 1986

G. Dossetti, I valori della Costituzione, Ed. S. Lorenzo, Reggio Emilia, 1995

xix Il Mulino, Bologna, 1986

xx
Conversazioni a Montesole, 15 dicembre 1999”, ora in Giuseppe Dossetti “Immagini di un cammino”, a cura della Piccola Famiglia dell’Annunziata, ed. San Lorenzo, Reggio Emilia, 2013

xxi
Johan Huizinga, La crisi della civiltà, Einaudi, Torino, 1937


xxiii Paolo Pombeni, Rileggere la storia, leggere la politica, Il Margine, A.33 (2013) n°4, p.6

Paolo Prodi, Introduzione, in Telemaco Portoghesi Tuzi e Grazia Tuzi, Quando si faceva la Costituzione, Il Saggiatore, Milano, 2010


xxv Una chiave di lettura della storia contemporanea che più recentemente sarà raccolta anche da Papa Benedetto XVI nelle sue lettere encicliche e in alcuni discorsi rivolti al mondo politico: (Incontro con le autorità della città, Milano,1-3 giugno 2012; Discorso al Reichstag di Berlino, 22 settembre 2011; Incontro con le autorità civili a Westminster Hall – City of Westminster, 15 settembre 2010; Incontro con le autorità politiche e il corpo diplomatico al Castello di Praga, 26 settembre 2009) che destarono un interesse e un dibattito inatteso anche in un gruppo di intellettuali di sinistra (Pietro Barcellona, Paolo Sorbi, Mario Tronti, Giuseppe Vacca). Il dibattito è ora raccolto in Emergenza Antropologica, per una nuova alleanza tra credenti e non credenti, Guerini e associati, Milano, 2012. Sullo stesso tema interessante anche l’analisi di Giorgio Agamben, Il mistero del male. Benedetto XVI e la fine dei tempi, Ed. Laterza, Roma-Bari, 2013

xxvi A.Melloni, No, riuscì a scongiurare tentazioni confessionali. Corriere della Sera, 28/12/2007

Di cui si dà significativo conto in diversi volumi in occasione del centesimo anniversario della nascita, fra i quali è doveroso segnalarne almeno tre: Enrico Galavotti Il professorino, Il Mulino, Bologna, 2013; Paolo Pombeni, Giuseppe Dossetti, Il Mulino, Bologna, 2013; Alberto Melloni, Dossetti e l’indicibile, Donzelli, Roma, 2013


xxviii Luigi Giorgi, L’essenziale e l’accidentale, il PCI, la sinistra italiana e il referendum del 2 giugno, ne “Il Giornale di storia contemporanea”, Cosenza, A. XI, n. 1 giugno 2008, pp. 127-154

A colloquio con Dossetti e Lazzati, op.cit., p. 46

xxx È interessante anche l’ordine del giorno presentato da Dossetti a conclusione della seduta del gruppo:“Il Gruppo, preso atto con soddisfazione delle dichiarazioni fatte dal Presidente del Consiglio nella riunione del 29 novembre, approva l’intento, espresso nel memorandum del 24 agosto, di giungere a concordare con gli altri paesi europei una formula capace di dare inizio all’unità, pacifica e costruttiva dell’Europa: e più precisamente secondo una formula graduale da ricercarsi al di fuori di raggruppamenti particolari d’immediato carattere militare”, in Luigi Giorgi, Giuseppe Dossetti e la politica estera italiana, 1945-1951, Scriptorium, Milano, 2005.


xxxi Dossetti affermò: “Anche sul problema della destra economica contesto molto la politica di De Gasperi. Me ne sono andato anche per questo”, in A colloquio con Dossetti e Lazzati,, a cura di P. Scoppola e L. Elia, Il Mulino, Bologna 2003

Contenute nell’omonimo Fondo depositato presso l’istituto Sturzo e riportate da Roberto Villa nel lavoro in corso di pubblicazione già citato.


xxxiii “E’ certo che a Rossena io non volevo allarmare nessuno; ridussi al minimo possibile le motivazioni per un distacco. Fu un’anestesia quasi totale. Cercai di confortare Moro e di indurlo a continuare; lo confortai in tutte le maniere possibili. Così cercai di andarmene per le mie convinzioni, ma in qualche modo dissimulandole, uscendo in punta di piedi nella maniera più incruenta possibile”. Più avanti, quando Scoppola gli fa notare: “Voi lasciavate un De Gasperi che non rappresentava le vostre aspirazioni e le vostre speranze, ma era pur sempre, rispetto al mondo cattolico, una realtà assai dignitosa, assai decorosa; aveva una moralità nella vita pubblica”, Dossetti rispose: “Questo è incontestabile”.

xxxivCon tutte le tue forze”. I nodi della fede cristiana oggi. Omaggio a Giuseppe Dossetti, a cura di A. e G. Alberigo, Marietti, Genova 1993

M.Weber, Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino, 1976



F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Einaudi, Torino, 1981.



(dal sito: www. degasperitn.it)



Economia

La Stampa 05/08/2013
come cambia il lavoro

Così America ed Europa
dicono addio alle fabbriche


La produzione si sposta in Cina.
Ma in Occidente restano le attività
ad alto valore aggiunto.
Per sopravvivere dobbiamo puntare sulla tecnologia
enrico moretti *
La cartina economica del mondo sta cambiando rapidamente e radicalmente. Nuovi centri di propulsione economica stanno soppiantando i vecchi. Città che fino a qualche decennio fa non erano che minuscoli punti a stento percepibili sulle cartine si sono trasformate in floride megalopoli con migliaia di nuove aziende e milioni di nuovi posti di lavoro.  

In nessun luogo al mondo tale fenomeno è più evidente che nella cinese Shenzhen. Se non l’avete mai sentita nominare, prendetene nota. È uno dei centri urbani con il più rapido ritmo di crescita a livello mondiale.  

In trent’anni si è trasformata da piccolo villaggio di pescatori a immane metropoli di oltre 15 milioni di persone. Shenzhen ha visto crescere la propria popolazione di 300 volte; e in questo processo è diventata una delle capitali dell’industria manifatturiera del pianeta.  

Il suo destino fu deciso nel 1979, quando le autorità cinesi si risolsero a farne la prima «Zona Economica Speciale» del Paese. In breve tempo le aree di questo tipo cominciarono a calamitare investimenti esteri. Il flusso degli investimenti fece sorgere migliaia di nuove fabbriche che producono una parte sempre crescente dei beni di consumo dei paesi ricchi. Una porzione consistente dell’industria manifatturiera americana si è trasferita in quelle fabbriche. Mentre Detroit e Cleveland perdevano posti di lavoro e si avviavano al declino, Shenzhen prendeva quota. Oggi è disseminata di grandi stabilimenti produttivi. È al primo posto tra i centri della Cina per volume di esportazioni e vanta uno dei porti più trafficati del mondo, pieno di gru enormi, camion imponenti e container di tutti i colori, che vengono trasferiti su navi da carico pronte a salpare per la costa occidentale degli Stati Uniti o per l’Europa. Ogni anno lasciano il porto venticinque milioni di container: quasi uno al secondo. In poche settimane la merce arriva a Los Angeles, Rotterdam o Genova e viene immediatamente caricata su un camion diretto verso un centro di distribuzione Walmart, un magazzino Ikea o un Apple store. 

Shenzhen è il luogo dove vengono assemblati l’iPhone e l’Ipad, esempi iconici della globalizzazione. La Apple è nota per dedicare grande attenzione e risorse alla progettazione e al design. Nel caso dell’iPhone e dell’iPad, la Apple ha dedicato la stessa attenzione alla progettazione e all’ottimizzazione della catena di produzione globale. Capire come e dove si svolge la produzione di celebri smartphone e tablet è importante per capire come la nuova economia globale stia ridisegnando la localizzazione dei posti di lavoro e quali siano le sfide del futuro per i lavoratori dei Paesi occidentali.  

L’iPhone e iPad sono stati concepiti e progettati dagli ingegneri della Apple a Cupertino, in California. Questa è l’unica fase del processo di produzione realizzata negli Stati Uniti. Vi rientrano il design del prodotto, lo sviluppo di software e hardware, la gestione commerciale, il marketing e altre funzioni ad alto valore aggiunto. In questo stadio i costi del lavoro non rappresentano il fattore principale. Gli elementi chiave sono piuttosto la creatività e l’inventiva degli ingeneri e dei designer. I componenti elettronici dell’iPhone – sofisticati, ma non innovativi quanto il design – sono fabbricati in gran parte a Singapore e Taiwan. L’ultima fase della produzione è quella a più elevata intensità di manodopera, con gli operai che assemblano a mano le centinaia di componenti che costituiscono il telefono e lo predispongono per la distribuzione. Questo stadio, in cui il fattore essenziale è il costo del lavoro, si svolge nella periferia di Shenzhen. Lo stabilimento è uno dei più grandi al mondo e le sue dimensioni sono già in sé qualcosa di straordinario: con 400.000 dipendenti, supermercati, dormitori, campi da pallavolo e persino sale cinematografiche, più che una fabbrica sembra una città. Se comprate un iPhone online, vi viene spedito direttamente da Shenzhen. 

E quando raggiunge il consumatore americano il prodotto finale è stato toccato da un solo lavoratore americano: l’addetto alle consegne dell’Ups. È naturale, quindi, domandarsi che cosa resterà ai lavoratori americani (e per estensione, europei) nei prossimi decenni. L’America e l’Europa stanno entrando in una fase di irreversibile declino? La risposta, almeno per l’America, è ottimistica. Per l’Europa, un po’ meno. Nel XX secolo, la ricchezza di un Paese era in gran parte determinata dalla forza del suo settore manifatturiero. Oggi questo sta cambiano. In tutti i Paesi occidentali, l’occupazione nell’industria manifatturiera sta calando ormai da trent’anni. Come si vede dalla figura, questo trend accomuna un po’ tutte le società avanzate, dagli Stati Uniti al Giappone, dalla Gran Bretagna all’Italia e persino la Germania. Oggi l’impiego nell’industria rappresenta più l’eccezione che la regola: in America, meno di un lavoratore su dieci lavora in fabbrica. E’ molto più probabile che un americano lavori in un ristorante che in una fabbrica. Dal 1985 negli Stati Uniti l’industria manifatturiera ha perso in media 372.000 posti di lavoro all’anno.  

Questo declino non è solo l’effetto di fenomeni a breve termine, come le recessioni: l’industria perde posti di lavoro anche durante le fasi di espansione. Le ragioni sono due forze economiche profonde: progresso tecnologico e globalizzazione. Grazie agli investimenti in sofisticati macchinari di nuova concezione, le fabbriche occidentali sono molto più efficienti che in passato e per produrre la stessa quantità di beni impiegano sempre meno manodopera. Oggi, in media, l’operaio americano fabbrica ogni anno beni per 180.000 dollari, oltre il triplo che nel 1978. Per l’economia in generale l’accresciuta produttività è un’ottima cosa, ma per le tute blu ha conseguenze negative. Pensiamo, per esempio, alla General Motors. Negli Anni 50, gli anni d’oro di Detroit, ogni operaio dell’azienda produceva una media di sette auto l’anno. Oggi ne produce 29 all’anno. Il calcolo dei posti di lavoro persi è molto semplice: per fabbricare ogni auto oggi la General Motors impiega un numero di operai quattro volte inferiore a quello del 1950. Gli operai dell’industria producono più che in passato, e di conseguenza guadagnano stipendi più alti, ma sono numericamente ridotti. 

La seconda forza che sta decimando l’occupazione manifatturiera dei paesi occidentali è la globalizzazione. Le produzioni più tradizionali sono state le prime a essere delocalizzate. L’industria tessile è l’esempio più ovvio. Provate a guardare dove sono fabbricati gli abiti che indossate. Se si tratta di capi venduti da una ditta occidentale, probabilmente sono stati prodotti da qualche terzista ubicato in Paesi come il Vietnam o il Bangladesh. I brand americani e europei godono di ottima salute, ma solo una manciata di posti di lavoro – nel design, nel marketing e nella distribuzione – sono rimasti negli Stati Uniti e in Europa.  

Altre parti della manifattura tradizionale hanno esattamente le stesse dinamiche. Persino la produzione di componenti elettroniche, computer e semiconduttori non è immune da questi trend. Oggi, in America, lavorano nelle fabbriche di computer meno addetti che nel 1975, quando il personal computer non era ancora stato introdotto.  

La ragione è che ormai fabbricare computer non è più particolarmente innovativo. L’hardware è diventata un’industria matura, quasi quanto il tessile. L’assemblaggio e la fabbricazione di molti componenti è stata trasferita in Cina o Taiwan. Il primo lotto di duecento computer Apple I fu assemblato nel 1976 da Steve Jobs e Steve Wozniak nel leggendario garage di Los Altos, nel cuore di Silicon Valley. Negli Anni 80 la Apple fabbricava la maggior parte dei suoi Mac in uno stabilimento situato poco lontano, a Fremont. Ma nel 1992 l’impianto fu chiuso e la produzione spostata, prima in aree più economiche della California orientale e del Colorado, poi in Irlanda e a Singapore. Oggi a Shenzen. È lo schema seguito da tutte le altre imprese americane. Tutti conosciamo Apple, Ibm, Dell, Sony, Hp e Toshiba. Quasi nessuno ha mai sentito parlare di Quanta, Compal, Inventec, Wistron, Asustek. Eppure il 90% dei computer portatili e dei notebook venduti con quei marchi famosi è in realtà fabbricato negli impianti di una di queste cinque aziende, a Shenzhen. 
Anche se tutte le società occidentali sono accomunate dalla contrazione strutturale del settore manifatturiero, non tutte hanno saputo reagire in maniera soddisfacente a questo declino. In questo quadro, l’economia Americana è posizionata molto meglio di molto altri paesi occidentali.  

A differenza della maggior parte dei Paesi Europei, e dell’Italia in particolare, negli ultimi cinquant’anni, gli Stati Uniti si sono reinventati, passando da un’economia fondata sulla produzione di beni materiali a un’economia basata su innovazione e conoscenza. L’occupazione nel settore dell’innovazione è cresciuta a ritmi travolgenti. L’ingrediente chiave di questo settore è il capitale umano, e dunque istruzione, creatività e inventiva. Il fattore produttivo essenziale sono insomma le persone: sono loro a sfornare nuove idee. Le due forze che hanno decimato le industrie manifatturiere tradizionali – la globalizzazione e il progresso tecnologico – stanno ora determinando l’espansione dei posti di lavoro nel campo dell’innovazione.  

La globalizzazione e il progresso tecnologico hanno trasformato molti beni materiali in prodotti a buon mercato, ma hanno anche innalzato il ritorno economico del capitale umano e dell’innovazione. Per la prima volta nella storia, il fattore economico più prezioso non è il capitale fisico, o qualche materia prima, ma la creatività.  

Non sorprende perciò che la parte più importante di valore aggiunto dei nuovi prodotti sia appannaggio degli innovatori. L’iPhone consta di 634 componenti. Anche se vi lavorano in centinaia di migliaia, il valore aggiunto generato a Shenzhen è molto basso, perché l’assemblaggio potrebbe essere effettuato in qualsiasi parte del mondo. La forte competizione globale limita anche il valore aggiunto dei componenti, comprese le parti elettroniche più sofisticate, come la flash memory o il retina display. La maggior parte del valore aggiunto dell’iPhone viene dall’originalità dell’idea, dalla formidabile progettazione ingegneristica e dall’elegante design. Quindi non deve stupire che, pur non producendo nessuna parte materiale del telefono, la Apple guadagni 321 dollari per ogni iPhone venduto, il 65% del totale, ben più che qualsiasi fornitore di componenti coinvolto nella fabbricazione fisica dell’apparecchio. Ciò è di notevole importanza non solo per i margini di profitto della Apple, ma soprattutto perché si traduce nella creazione di buoni posti di lavoro in America. 
Oggi è questa la parte dell’economia che crea valore aggiunto. Una parte dei 321 dollari incassati dalla Apple finisce nelle tasche degli azionisti della società, ma una parte va ai dipendenti di Cupertino. E l’alta redditività incentiva l’azienda a proseguire sulla via dell’innovazione e a reclutare nuovo personale. Studi economici recenti mostrano che più un’impresa è innovativa, più alti sono i salari offerti ai dipendenti. 

Il settore dell’innovazione comprende l’advanced manufacturing, o industria avanzata (come quella che progetta gli iPhone o gli iPad), software e servizi Internet, le biotecnologia, l’hi-tech del settore medico, la robotica, la scienza dei nuovi materiali e le nanotecnologie. Ma l’ambito dell’innovazione non è circoscritto all’alta tecnologia. Vi rientra qualsiasi occupazione capace di creare nuove idee e nuovi prodotti. Ci sono innovatori nel settore dell’intrattenimento, in quello dell’ambiente e persino nella finanza e nel marketing. L’elemento che li accomuna è la capacità di creare prodotti nuovi che non possono essere facilmente replicati. Tendiamo a concepire l’innovazione in termini di beni materiali, ma può anche trattarsi di servizi, per esempio di nuovi modi per raggiungere i consumatori o per impiegare il nostro tempo libero.  

Nei prossimi decenni la competizione globale sarà incentrata sulla capacità di attrarre capitale umano e imprese innovative. Il numero e la forza degli hub dell’innovazione di un Paese ne decreteranno la fortuna o il declino. I luoghi in cui si fabbricano fisicamente le cose seguiteranno a perdere importanza, mentre le città popolate da lavoratori interconnessi e creativi diventeranno le nuove fabbriche del futuro. Nel prossimo articolo vedremo come l’Italia si posiziona in questo quadro globale sempre più competitivo. 

* Enrico Moretti, docente di Economia alla University of California di Berkeley, è autore di «La nuova geografia del lavoro», per la rivista Forbes «il libro di economia più importante dell’anno» 

 

istat, «la povertà in italia»

In Italia 9,5 milioni di poveri: record  dal 2005, povera una famiglia su cinque

Le persone in povertà assoluta passano dal 5,7%
della popolazione del 2011 all’8% del 2012


(Fotogramma)
Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui in Italia sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. IL MEZZOGIORNO - Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti nel nostro Paese (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011. I minori in povertà assoluta al Sud sono 1 milione e 58 mila (703mila nel 2011, l’incidenza è salita dal 7% al 10,3%) e gli anziani 728 mila (707mila, l’incidenza è pari a 5,8% per entrambi gli anni).
LE FAMIGLIE - Le famiglie in povertà assoluta sono il 6,8% delle famiglie italiane. Dal 2011 al 2012 l’incidenza aumenta tra le famiglie con tre (dal 4,7% al 6,6%) , quattro (dal 5,2% all’8,3%) e cinque o più componenti (dal 12,3% al 17,2%); tra le famiglie composte da coppie con tre e più figli, quelle in povertà assoluta passano dal 10,4% al 16,2%. Se si tratta di tre figli minori, dal 10,9% si raggiunge il 17,1%. Aumenti della povertà assoluta vengono registrati anche nelle famiglie di monogenitori (dal 5,8% al 9,1%) e in quelle con membri aggregati (dal 10,4% al 13,3 %).


Ed Miliband

 

Cambia così il rapporto tra il mio Labour e il sindacato

E ancora, primarie e un nuovo codice di comportamento per i parlamentari nello storico discorso del leader laburista inglese





Cambia così il rapporto tra il mio Labour e il sindacato
Una tappa della campagna elettorale di Ed Miliband, che parla in piedi su una cassetta di legno. 

Sono qui oggi per parlare di come possiamo costruire un tipo differente di politica. Una politica radicata in ogni comunità del paese. E che raggiunga persone attraverso ogni sentiero della vita. Questo è quello che intendo per «One Nation». Un paese dove ognuno faccia la sua parte. Una politica aperta. Trasparente. E di cui si abbia fiducia. Esattamente l’opposto della politica che abbiamo visto recentemente a Falkirk. Una politica chiusa. Una politica di macchinazione. Una politica che giustamente è odiata.
Quello che abbiamo visto a Falkirk sono gli ultimi spasmi della vecchia politica. E la ragione per cui Falkirk è così nociva è che contribuisce alla sfiducia nella politica. La gente pensa che si faccia politica per se stessi. Non per ottenere fiducia. Non per essere creduti. E ogni volta che qualcosa come Falkirk accade, va a confermare i peggiori sospetti della gente. E come Labour – il partito della classe lavoratrice – abbiamo una speciale responsabilità ad impegnarci per una politica migliore. E perciò voglio costruire un Labour migliore. E una politica migliore per la Gran Bretagna. E questo è quello che farò.
Faremo questo forgiando un partito adeguato al ventunesimo secolo e non al ventesimo secolo, nel quale il Labour è nato. Bisogna capire che viviamo in un mondo dove gli individui legittimamente rivendicano di esprimersi con la propria voce. Dove i partiti devono andare oltre i loro stessi affiliati. E dove il nostro partito, sempre, deve identificarsi con il paese, diverso, che vogliamo servire. Rappresentando l’interesse nazionale. Edificando una politica migliore attraverso un partito che sia ben radicato in ogni comunità e in ogni esperienza di vita.
Cento anni fa i sindacati aiutarono a fondare il Labour. Decennio dopo decennio, da Neil Kinnock a John Smith a Tony Blair, abbiamo cambiato questa relazione. E la nostra generazione, se vuole costruire una nuova politica, deve fare di più, e non di meno, affinché ogni singolo membro dei sindacati faccia parte del nostro partito.
Tre milioni di dipendenti, infermieri, ingegneri, autisti di bus, lavoratori edili, del settore privato o del pubblico: il problema non è se questi lavoratori comuni, uomini e donne, condizionino il Labour. Il problema è che non sono fino in fondo parte di quello che noi facciamo. La stragrande maggioranza di queste persone non sono iscritte alle sezioni locali. Non sono attive nelle nostre campagne. Dobbiamo invertire il senso. I lavoratori devono essere il cuore del nostro partito.
Le nostre relazioni con i membri dei sindacati devono cambiare. I sindacati hanno risorse politiche per ogni campagna o attività che intendono promuovere. Questi fondi sono disciplinati da una legge, approvata negli anni ’80, ed è previsto che si possa scegliere di non prendere questi contributi se non si vuole che il denaro venga speso in attività politiche (il cosiddetto opt-out).
Non dobbiamo cambiare questa legge o il diritto dei sindacati ad avere questi fondi. Piuttosto io voglio cambiare il modo in cui i singoli membri dei sindacati sono affiliati al Labour attraverso questi fondi. Al momento, spesso risultano automaticamente affiliati. Non voglio che per affiliarsi al Labour si paghi questa sorta di tassa, a meno che non si scelga deliberatamente di farlo. I sindacalisti devono poter scegliere di aderire al partito attraverso questa tassa, e non deve valere l’affiliazione automatica.
Nel ventunesimo secolo non ha senso iscriversi a un partito, se non quando si sceglie di farlo. Gli uomini e le donne dei sindacati devono essere in grado di fare scelte individuali, più attive, in relazione alla loro possibile membership nel partito. Sarebbe meglio per loro, e per il nostro partito.
Tutto questo potrebbe accrescere il numero di iscritti, da 200mila a una cifra maggiore. Radicarsi genuinamente nel paese, nell’esperienza di più persone. Ho un messaggio ai milioni di aderenti ai sindacati attualmente iscritti al Labour: con questi cambiamenti vi invito a stare al centro di quello che questo partito realizza, giorno dopo giorno, a livello locale. Cambiamo insieme le nostre comunità e il nostro paese.
Muoverci verso questo sistema ha implicazioni importanti, storiche, sia per i sindacati che per il partito. E bisogna perseguirle. Sarò chiaro sulla direzione verso cui dobbiamo andare. Ho chiesto a Ray Collins, ex segretario generale del Labour, di guidare il lavoro che renderà concreto questo cambiamento. E guarderà anche alle altre riforme che sto per proporre oggi.
Una nuova politica inizia con il vibrare del nostro partito. Questo rende necessario che, alle elezioni, ci siano candidati propriamente scelti e realmente rappresentativi del paese. È quello che stiamo facendo come partito. Questo avviene perché negli ultimi anni abbiamo intrapreso passi per avere più candidati da settori solitamente sottorappresentati. E perché abbiamo riposto un’enfasi sul fatto di avere come candidati più lavoratori comuni. E perché abbiamo le liste femminili, che hanno trasformato la rappresentanza femminile in Parlamento, attualmente al 33%, ma destinata a crescere.
Sono incredibilmente orgoglioso di quanti candidati brillanti abbiamo selezionato per il Labour. Coloro che hanno servito nelle forze armate e nella sanità, imprenditori di successo, insegnanti scolastici, dipendenti dei negozi: tutti selezionati per rappresentare il Labour alle prossime elezioni. Gente proveniente da ogni sentiero della vita. Ma dobbiamo assicurarci che ogni processo selettivo avvenga nella maniera più equa possibile. Non è quello che abbiamo visto a Falkirk. Dunque, vedremo un nuovo codice di condotta per chi aspira a essere selezionato come parlamentare. E osservarlo sarà la condizione per chi intende presentarsi come candidato del nostro partito.
Come forza che crede così solidamente nelle pari opportunità, non possiamo permettere, inoltre, che una parte del partito sia capace di mescolare le carte in modo da favorire un candidato su un altro, semplicemente tramite la spesa di denaro. Eviteremo che questo avvenga. Questo è il motivo per cui imponiamo urgentemente nuovi limiti di spesa per la selezione dei parlamentari, per far sì per la prima volta che tutta la spesa provenga da organizzazioni esterne. E questo varrà anche per le elezioni europee o per le primarie per la leadership.
Una nuova politica concerne la diversità dei candidati, da più background, scelti in modo trasparente. E riguarda la fiducia nei membri del Parlamento. Così come sono orgoglioso dei nuovi candidati, sono fiero dei nostri rappresentanti in Parlamento. Tutti loro servono localmente il partito. Tutti loro sono responsabili verso le loro circoscrizioni elettorali e verso il paese. Questo è il modo in cui agiscono.
Diversi membri del Labour hanno accordi con i sindacati. Questi accordi aiutano a predisporre campagne che localmente interessano la gente del posto, i lavoratori. Voglio che sia assolutamente chiaro che questo è il luogo più adatto per intese come queste. Consentire campagne locali, dalla violenza contro i dipendenti dei negozi, alla promozione dell’apprendistato. Queste cose aiutano il nostro partito a restare connesso con i bisogni dei lavoratori.
Ma questi accordi necessitano di una regolamentazione appropriata.
Quindi d’ora in avanti, il Labour stabilirà accordi standard per collegi elettorali con ciascun sindacato, in modo che nessuno possa più asserire che gli individui subiscono pressioni a livello locale.

E c’è un altro nodo che tutti i partiti devono sciogliere, se vogliamo ricostruire la fiducia nella politica. Ed è ora di parlarne di nuovo.
Il nodo è quello della ricerca di lavori ulteriori, esterni, che a volte permettono di ricevere salari più alti di quello che si riceve come parlamentari. Decenni fa, essere un parlamentare era spesso visto come un secondo lavoro. Le sedute del Parlamento iniziavano nel pomeriggio, per permettere di poter svolgere un altro lavoro la mattina.
Abbiamo cambiato tale approccio. Ma un problema permane, come recenti episodi riguardanti lobbying e lavori esterni ci hanno mostrato.
La grande maggioranza dei Parlamentari ha adempiuto ai proprio obblighi in modo corretto, rispettando le regole. E sollevare la questione non getta alcuna ombra su ciò.
Ma dobbiamo porci delle domande sulle regole. Il problema del secondo lavoro esterno dei parlamentari è stato discusso, ma non affrontato nel modo corretto, per un’intera generazione.
Gli inglesi si aspettano che i loro rappresentanti in Parlamento li rappresentino, e rappresentino la nazione, nessun altro. Capiscono che i parlamentari abbiano bisogno di mantenersi in contatto con il mondo oltre a Westminster, e che scriveranno sempre articoli e terranno sempre discorsi. Ma può essere giusto che le regole permettano loro di guadagnare centinaia di migliaia di sterline dalla pratica privata dell’avvocatura, quando si suppone siano parlamentari? O da aziende esterne, senza una qualsiasi forma di regolamentazione? Cambieremo le cose nella prossima legislatura.
Questo perché credo che come minimo ci debbano essere nuovi limiti ai guadagni da lavori esterni, così come accade in altre nazioni. Che ci debbano essere nuove regole sul conflitto di interessi.
Gli inglesi devono essere sicuri del fatto che i loro rappresentanti in Parlamento lavorino per loro.
Essere un parlamentare non dovrebbe essere un lavoro extra. È un privilegio ed un dovere. E le regole devono riflettere tale condizione. Chiedo anche agli altri leader di partito di rispondere a questa richiesta di cambiare il sistema.
Farò quindi tutto ciò che è in mio potere per potere avere partiti locali differenti, candidati selezionati in modo equo, per chiarire una volta per tutte che la lealtà dei parlamentari va al loro collegio elettorale ed alla nostra nazione.
Ma mentre operiamo tali cambiamenti, dobbiamo riconoscere che una nuova politica deve costantemente creare un dialogo con sempre più persone. Viviamo in un’epoca totalmente differente da quella della fondazione del Labour.
In Gran Bretagna oggigiorno è sempre meno probabile che le persone aderiscano ai partiti politici. È più probabile che si concentrino su singole questioni. E giustamente, pretendono un tipo di politica aperto, piuttosto che chiuso. Ecco perché il Labour sta diventando sempre più un’organizzazione comunitaria. Che guida e partecipa a campagne individuali, dal salario minimo alle chiusure delle biblioteche alle campagne contro l’usura legalizzata.
So che tanti di voi qui oggi sono pionieri di questo tipo di iniziative, e vi faccio i miei più sentiti complimenti per questo.
Mentre ridisegniamo il nostro Partito guardando al futuro, dobbiamo sempre attribuire il giusto valore ai componenti del Partito.
Ed io lo faccio.
Ma attribuire valore ai membri del partito non può essere una scusa per escludere la voce del più ampio pubblico. Da quando sono diventato leader del Labour, abbiamo aperto il processo di creazione di policy, e aperto il partito ai sostenitori registrati. Persone che non vogliono essere membri del Labour ma che condividono i nostri obiettivi.
Ma io voglio andare oltre. Se dobbiamo ricostruire la fiducia nel nostro sistema politico, dobbiamo fare di più per coinvolgere i membri del pubblico nei nostri processi decisionali. Dobbiamo fare ancora di più per aprire il nostro modo di fare politica.
Propongo quindi che per le prossime elezioni per la carica di Sindaco di Londra il Labour organizzi delle primarie per la selezione del candidato.
Qualsiasi londinese dovrebbe poter votare, tutto quello che dovrà fare sarà registrarsi come sostenitore del Labour in qualsiasi momento fino al momento del voto. E Ray Collins sarà incaricato di giudicare la fattibilità di esportare quest’idea anche altrove. In modo che nelle prossime elezioni parlamentari, al momento dell’uscita di un parlamentare il cui partito locale ha subito un calo, una sessione di primarie possa essere maggiormente rappresentativa come processo di selezione. Voglio sentire quello che il Labour a livello locale pensa di questa idea. Perché tutti noi sappiamo che ci sono parti della nazione dove questo processo potrebbe portare nuove energie al nostro partito.
Per poter conquistare fiducia, dobbiamo anche cambiare il modo nel quale il sistema politico della nostra nazione è finanziato. Ripeto qui la mia proposta: tra i cambiamenti dovremmo inserire un tetto massimo alle donazioni da parte degli individui, delle aziende e dei sindacati. Chiedo che gli altri leader di partito riaprano urgentemente le discussioni su come si possa rendere trasparente il modo nel quale finanziamo la nostra politica. E se non lo faranno, allora il prossimo governo Labour inizierà di nuovo quel processo.
Ciò che ho proposto oggi sono grandi cambiamenti al modo in cui facciamo politica. Non vi è spazio all’interno del nostro partito per cattive prassi, da qualsiasi parte esse vengano.
Sono determinato ad ottenere un Labour che operi in modo equo, trasparente, aperto.
Sono determinato a sostenere l’integrità del nostro partito.
E che esso dialoghi con tutta la nazione.
Queste riforme non sono però semplici aggiustamenti di ciò che era sbagliato nel nostro partito. Sono molto di più.
Troppo spesso i partiti politici sono visti come completamente distaccati dalla vita delle persone. Dato che credo fortemente che il Labour debba essere in modo definitivo una forza rilevante, dobbiamo cambiare tale situazione.
Dobbiamo ottenere un partito non di 200mila, ma di molte, molte più persone.
Dobbiamo ottenere un partito con candidati con differenti background, che rispondano ai loro collegi elettorali.
Dobbiamo ottenere un partito che riesca in qualsiasi modo a dialogare con il popolo britannico, anche attraverso le primarie.
Attraverso questi cambiamenti riusciremo a cambiare in meglio la Gran Bretagna.
Tutto nella nostra storia dimostra che il cambiamento non viene da poche persone ai vertici. Il cambiamento si verifica quando le brave persone si riuniscono e lo pretendono. Ma per rendere possibile tale cambiamento, abbiamo bisogno di quelle persone nel nostro partito. E dobbiamo poter parlare anche a quelli che sono al di fuori del nostro partito.
Per poter costruire davvero un movimento.
Un movimento che renda possibile cambiare le cose nelle comunità in tutta la nazione.
Un movimento che cambi la Gran Bretagna.
Questo è ciò in cui io credo.
Questo è ciò che sapevano i fondatori del nostro partito.
Questo è ciò che vogliono ottenere le riforme.
Questo è il partito che vorrei costruissimo.
Queste è il modo nel quale renderemo nuovamente la Gran Bretagna una Nazione Unica.
(traduzione a cura di Matteo Tacconi e Marion Sarah Tuggey)

  Umberto Ambrosoli


Intervento nella discussione

in Consiglio Regionale sul
Piano Regionale di Sviluppo

Introduzione




Gentile Presidente,

il documento che siamo chiamati a valutare oggi, il Piano di Sviluppo Regionale, è un documento fondamentale per la prospettiva politica di una legislatura. La sua discussione arriva in aula allo scadere ormai compiuto dei primi cento giorni di governo, il periodo canonico in cui si ritiene che un esecutivo metta in cantiere le fondamenta dell’edificio politico che poi costruirà nel corso dei cinque anni.

Il documento è quindi fondamentale per comprendere appieno cosa si vuole fare nei prossimi anni per cambiare e migliorare la Lombardia.

In pochi minuti di discorso vorrei quindi tratteggiare perché questo documento pianificatorio vedrà il nostro voto contrario.

Non già perché in esso sia contenuta una visione diversa della gestione della cosa pubblica, ma perché in queste sessanta pagine NON è contenuta alcuna visione politico-strategica.

Se infatti si spolvera il documento da alcuni passaggi che alle nostre orecchie suonano ideologici, resta sul tavolo la collazione di una serie di report prodotti dalle varie direzioni generali, una sorta di diario di bordo di quanto gli uffici stanno facendo da tempo e, presumibilmente, continueranno a fare, soprattutto in assenza di un chiaro indirizzo politico che ne muti il corso.

Questa ASSENZA DI VISIONE POLITICA è infatti tangibile in tutto il documento ed è la prima accusa che rivolgiamo all’operato della sua giunta.

Lei, presidente, che ha fatto della discontinuità uno slogan nella sua campagna elettorale, ci mostra, nel documento fondamentale di Legislatura, come la continuità, nei fatti, sia ormai pianificata. Sarebbe gioco facile, giocando sulle iniziali, dire che questo, più che di strategie per il futuro è il Piano di una Realtà Svanita, che non c’è più.

E potrei dilungarmi in una comparazione con il PRS della IX legislatura (che pure ho qui) per segnalarle i punti sostanzialmente identici fra i due documenti. Sarebbe sicuramente un esercizio interessante - e a tratti divertente - ma credo esuli dal compito che ci siamo dati oggi. Quello cioè di dirle che questa continuità, questa assenza di qualsiasi cambiamento di rotta politica sia ormai da tutti tangibile e ci restituisca un finto formigonismo in assenza di Formigoni.

(Credo che almeno su questo, a quanto leggo, il presidente Cattaneo sia d’accordo con me (se non addirittura più severo)).

A noi pareva, e credo anche agli elettori che l’hanno votata, che la necessità di una discontinuità, di un cambio di rotta fosse auspicato e necessario. Ma, ad oggi, non ve n’è traccia alcuna. Per cui ci troviamo a vivere la fine di una lunga era politica senza vederne sorgere una nuova. Che forse parimenti criticheremmo, ma che comunque oggi non mostra alcun tratto della sua fisionomia.

Questa purtroppo è la storia dei primi giorni della sua attività legislativa, all’insegna di una serie di atti di pura manutenzione dell’esistente senza alcun guizzo significativo che faccia intravedere quale strada si voglia intraprendere da qui al 2018.

E questa, caro Presidente, non è solo un’impressione delle minoranze consiliari, ma appare sempre più manifestamente un tema anche dei vari attori sociali che, uno alla volta, dai sindacati dei lavoratori alle associazioni imprenditoriali, chi sommessamente e chi con più veemenza, fanno sentire il loro stupore per questa inerzia che sta caratterizzando l’inizio di legislatura.

Quello che è ora un mormorio imbarazzato, spesso in cerca di conferme, presto diventerà una domanda chiara e forte.

Ma cosa sta facendo la Giunta Maroni?

Qualche atto, qualche obolo elettorale non andato a buon fine e la prima caduta, grave e rovinosa, su nomine non certo di primo livello.

Tutto qui, verrebbe da dire.

Ed è proprio questo Suo immobilismo, questa Sua assenza di azione che fa sembrare il suo predecessore, del quale condividevamo poco o nulla, un campione di attivismo e dinamismo.

All’esterno c’è una situazione drammatica. Questi cinque anni di grande crisi lasciano macerie dappertutto, ma direi soprattutto in lombardia. Non voglio mettermi a citare le situazioni economiche e sociali che le cronache ci mettono ogni giorno sotto gli occhi. La disoccupazione giovanile, e la nostra lombardia non fa eccezione, viaggia con velocità doppia (!!!) della media nazionale dei disoccupati; la mortalità delle imprese ha superato per la prima volta nella nostra regione la natalità di nuove iniziative imprenditoriali; il crollo degli ordini interni alla regione è impressionante: da noi più che nel resto d’italia, una botta che va oltre il 7 per cento!

Per non citare il grido di dolore e di collera che appena ieri ci è giunto dall’industria edilizia, una delle filiere più importanti della nostra economia, la quale, fatto 100 il 2006, lamenta un crollo delle compravendite immobiliari superiore al 40 per cento!

Cosa fa la Giunta? Di fronte a questa situazione può restare a guardare?

Ed è questo il punto fondamentale. La Lombardia, come terzo ente di Governo per cittadini amministrati, può permettersi di trasformarsi in una sorta di “spettatore imbarazzato”, perdendo ogni ruolo di attore consapevole di quanto accade all’interno dei propri confini?

Purtroppo, però, è proprio il ruolo di “spettatore imbarazzato”, quello che si sta giocando su molte partite: assistiamo infatti a un esecutivo che abdica ad un ruolo di guida politica che invece, a nostro avviso, andrebbe esercitato con forza.

Lo vediamo ogni giorno nelle commissioni, dove ogni giorno si concentrano le lamentele di comuni, province, di associazioni di categoria, di sindacati. In cento giorni avremo fatto decine di audizioni in tutte le commissioni, e centinaia ne faremo ancora. E’ normale, in un tempo complesso come questo, che le lamentele siano molte e di diverso tipo. Ma quello che più stupisce sono le risposte interlocutorie, imbarazzate, dei suoi assessori, spesso senza una bussola precisa per indicare una strada, giusta o sbagliata che sia. Non c’è visione! Non siamo proprio riusciti a percepirla. E non per pregiudizio, per partito preso!

Ci deve infatti dare atto, signor Presidente, che dalla minoranza ci siamo comunque sforzati di interpretare i primi cento giorni in modo molto corretto, con una apertura di credito che ha sempre distinto la propaganda dalla necessità di essere buoni legislatori.

Proprio per questo abbiamo lavorato insieme su alcuni progetti, senza steccati ideologici, ma cercando di migliorare, ad uso dei cittadini, quei testi proposti a diventare leggi. E questo impegno non verrà meno certo ora.

Ma, parliamoci chiaro, fino ad oggi abbiamo fatto interventi di mera manutenzione legislativa. Una proroga, una moratoria (che poi è la stessa cosa detta in altri termini), una di nomine commissariali , e una legge dettataci dal livello nazionale, quella sui costi della politica.

Altro, sinceramente, non si è visto.

E questa inerzia parte proprio dalla sua giunta, inerzia per la quale anche qui in Consiglio la sua stessa maggioranza resta spesso in attesa interlocutoria.

Come se le comunicazioni fra legislativo ed esecutivo, dalla stessa parte politica, non funzionassero poi così bene. Lo abbiamo visto, e cito solo un esempio, nel progetto di riforma dell’Aler, che Lei vorrebbe rinominate in Alpe, accolto in questo palazzo con un certo straniamento, a pochi giorni dalla presentazione da parte della Lega Nord, forza di cui lei continua ad essere segretario generale, di un progetto di Legge sullo stesso tema ma di contenuti ben diversi.

Come possiamo approvare quindi un documento così freddo, privo di anima, in cui comunque non ci ritroviamo?

E come possiamo renderlo vivo, laddove siete proprio voi ad ucciderlo? E i primi a non crederci?

Non possiamo perciò partecipare al gioco emendativo, laddove siamo convinti di dover rigettare in toto l’atto politico. D’altronde come possiamo sperare di migliorare una cosa del cui impianto non vediamo i lineamenti precisi e riconoscibili?

Ovviamente voglio essere chiaro, questo PRS contiene molte cose che prese singolarmente sono buone e lodevoli. Così come in molti emendamenti sono presentati miglioramenti condivisibili. Ma è proprio l’insieme di queste singole cose che non riesce a trasformarsi in un documento politico accettabile.

Non è un insieme di note che fa una sinfonia.

E bocciando il documento non bocciamo i singoli progetti ma l’insieme. Anche uno spartito, che esprime una pessima musica, contiene tante note che, suonate singolarmente, sono perfette; ciononostante nell’insieme possono spesso dare risultati stridenti.


Il PRS 2013 – 2018


Veniamo alla sessantina di pagine che costituiscono il Piano regionale di sviluppo, che già dal titolo contiene due termini fondamentali: il concetto di pianificazione e la necessità di farla per uno sviluppo.

Ho cercato nelle “Premesse” le parole chiave di una certa ispirazione. E’ l’unica occasione che il documento presenta – per come è costruito - per fissare qualche parametro generale rispetto all’annuncio di politiche fatte su segmenti separati.

Lei, presidente Maroni, provi a rileggere queste due pagine di approccio generale. Magari quando è politicamente più ispirato. Vedrà se non le viene un certo magone, come diciamo noi dalle nostre parti.

Sono sicuro che – se glielo faccio notare – anche lei conviene che quelle due paginette così scarne sono un’occasione persa. Persa per dare una cornice davvero strategica all’azione di governo.

La quale azione – finita la campagna elettorale e messi da parte gli arnesi della comunicazione - doveva significare escogitare un’equazione originale ed innovativa tra idee nuove, discontinuità necessarie e intelligente fronteggiamento della crisi delle risorse.

Poteva essere l’occasione per spiegare e far condividere ai cittadini lombardi il senso della sfida presente, cosa vuol dire, a terzo millennio cominciato, governare non il tran tran, ma l’uscita da una crisi tra le più terribili mai verificatesi..

Invece la prima mezza paginetta se ne va a ripetere i quattro arnesi della propaganda elettorale. La seconda e la terza se ne vanno a sciorinare i titoli delle quattordici competenze regionali dove al posto dei contenuti c’è, di solito, la parola “nuovo” (nuove forme, nuove modalità, nuova programmazione, eccetera); insieme alla parola “più” (più trasparenti, più competitivi, più rilevanti, eccetera).

Non vogliamo certo fare le pulci agli uffici che hanno steso i documenti, ma vederne il senso più complessivo. Tema per tema, i miei colleghi, illustrando gli ordini del giorno, aggrediranno più in profondità tutte le tematiche.

Qui invece vorrei proporre una lettura politica più generale, proprio partendo dalle considerazioni istituzionali del documento.

E qui viene spontanea una domanda diretta:

Caro Presidente, ci vuole spiegare, una volta per tutte, cosa è questa MACROREGIONE?

Qui siamo in una sede istituzionale, non abbiamo i tempi di una campagna elettorale o di un’intervista in televisione, per cui credo ci sia tutto il tempo e la possibilità di affrontare il tema in profondità.

Vorremmo infatti capire dal punto di vista istituzionale, ma anche sotto molti altri profili, che contenuto ha questa parola. E non parlo solo in termini di dialettica politica, ma le ricordo che la Macroregione è considerata nel PRS un risultato atteso, precisamente (Ist. 18.1) “l’Attuazione della Macroregione del Nord”. Un punto come un altro, alla stregua cioè della “Certificazione dei bilanci di tutte le aziende sanitarie” (Soc. 13.1) o del “Rinnovo parco autobus” (Ter. 10.2).

Per cui teniamoci al di fuori della polemica politica e, desiderando prendere con la massima serietà questo Piano – come il Presidente Cattaneo ci ha ripetutamente invitato a fare -, vorremmo sapere come pensa di attuare la Macroregione.

Quali sono gli strumenti con cui vuole attuarla? Vorremmo, in sintesi, capire, se lei ritiene che, nel 2018, vivremo tutti in una nuova entità costituzionalmente riconosciuta che si chiamerà “Macroregione del Nord”.

Come ho avuto modo più volte di sottolineare in campagna elettorale ciò ci vede pesantemente scettici, e perciò anche molto contrari. Noi pensiamo che questo sia solo uno slogan, ma ora ce lo troviamo fra i risultati attesi: perciò dovremmo aspettarci che si realizzi?

O dobbiamo pensare che anche tutti gli altri risultati attesi siano stati concepiti con lo stesso grado di fattibilità? Che quindi questo Prs sia un “libro dei sogni” – badi che l’espressione non è mia ma è tratta dalle osservazioni depositate dal Sindacato Padano, non un’autorità indipendente, si direbbe…

Perché se dobbiamo discutere di un documento la cui serietà è messa in discussione dalla stessa parte politica che lo ha presentato, allora forse è meglio fermarsi subito. Anche perché negli allegati al PRS, nel Rapporto sulla situazione economica, sociale e territoriale della regione, a pagina 7, punto 1.1.6, vengono tracciati, pur non esplicitamente, i confini della macroregione: “ipotetico aggregato dei territori regionali di Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli, Liguria, Emilia Romagna che danno evidenza del ruolo economico, sociale e territoriale di questa area del Paese”.

Ecco, che queste regioni abbiano numeri importanti ci vede assolutamente d’accordo, ma quello che non capiamo è come si realizzerebbe un soggetto istituzionale che le racchiuda? Come questo possa partire da questa regione? E soprattutto come possa mai verificarsi, visto che neppure i suoi alleati sembrano tanto convinti della bontà dell’idea?

Ad ora, infatti, la Macroregione viene usata per ironizzare, come quando un reggimento si sposta da Milano a Vercelli o un’industria da Milano a Verona. E’ tutta macroregione, viene ripetuto.

Ma oltre non si è andati.

Per cui le chiedo se gentilmente può spiegarci se esiste una road map per questo progetto, in modo che si possa aprire una riflessione politica sul tema o se invece dobbiamo prendere ogni affermazione sulla macroregione per come ci appare. Cioè uno slogan, forse privo di contenuto geopolitico; forse semplicemente il titolo del vostro libro dei sogni; un modo per ritornare, caduto l’impero romano, al 476, quando il re degli Eruli governava più o meno la stessa regione. Ma, se non sbaglio, si chiamava Odoacre, non Maroni!


Che fare degli enti locali?
 
Esiste poi anche un altro punto su cui il Prs non fornisce alcun chiarimento mentre noi crediamo sia un’urgenza in un’Italia in cui gli Enti Locali soffrono oltre ogni livello di guardia: come pensate di affrontare l’attività pianificatoria rispetto ai conflitti di una governance multilivello ‘irrisolta’?

Questo è uno dei temi sui quali una regione che ha la pretesa di avere una leadership sul territorio lombardo deve dare risposte convincenti.

Il suo predecessore, gentile Presidente, risolveva questo problema alla base, cioè non affrontandolo. Il neocentralismo regionale vigeva come sistema definitivo di governance, tutto il possibile veniva accentrato e riportato al 31esimo (al tempo) piano.

Lei, correttamente nella nostra ottica, ha sempre rifiutato un modello neo centralista, ma non si sta comportando di conseguenza.

Alla prima proposta di legge, quella su Aler, si è affrettato ad accentrare tutto a Milano, compresi i patrimoni storici delle comunità locali, tutto sotto un unico cappello.

Ora, anche grazie alle audizioni, capiamo che il conflitto fra i livelli sta esplodendo. Dai piccoli comuni alle province, dalle comunità montane alla città metropolitana, vediamo che gli enti lombardi cercano, un attore, un interlocutore forte nella regione Lombardia. Ma non lo trovano. Anzi in realtà trovano quello spettatore imbarazzato che non ha un indirizzo preciso e che se la cava rimarcando una terzietà che non è certo governo dei processi.
Expo

Infine, per rimanere a questa area fondamentale della pianificazione, vorremmo capire con chiarezza, con linee ben definite, il ruolo dell’Ente regione su tutta la partita dell’Expo 2015. Sappiamo che il suo predecessore ci teneva particolarmente a giocare un ruolo in prima persona su questa partita internazionale. Ora invece pare proprio che la Regione si limiti a fare da raccordo tra il commissario e gli altri livelli istituzionali.

Ci vorrebbe forse maggior coraggio. Anche approfittando della disponibilità appena dimostrata dalla presenza diretta del Governo e della Presidenza della Repubblica, questa domenica a Monza, chiaramente intenzionati a fare dell’Expo una scommessa di sviluppo per tutto il Paese.

Sarebbe da dedicarci in una visione integrata certamente UNA BUONA PARTE se non addirittura TUTTO il PRS, tra preparazione dell’evento e programmazione del DOPO Expo.

Fino ad ora invece ci siamo occupati delle infrastrutture per Expo ma, alle prime avvisaglie di quello che sarà il programma culturale che verrà presentato, mi consenta di sottolineare una certa delusione. Perché se la proposta finale dovesse essere quella illustrata nell’incontro con le regioni, ciò vorrebbe dire che non c’è nemmeno uno spunto identitario sulla Lombardia che meriti di diventare “racconto internazionale”, “narrazione” della nostra ambizione di leadershep in Europa e nel mondo.


Area Economica

Passiamo ora alla visione economica contenuta nel Prs. Molte singole azioni sono, come ripetuto, lodevoli ma ci consenta di dire che, in un periodo di grave crisi, non è solo questo di cui c’è bisogno.

Sembra infatti che la programmazione quinquennale sia semplicemente impostata su un criterio di mera difesa dell’esistente, una lettura quasi di cura di un sistema malato senza nessuno spunto per un rilancio. E noi abbiamo bisogno, oggi in Lombardia, di una visione di politica economica, di un indirizzo. E’ quello che chiedono ripetutamente i sistemi imprenditoriali, ed è un compito che il pubblico, soprattutto in un momento di crisi, deve prendersi.

Noi riteniamo che sia necessario un cambio di passo delle istituzioni sotto questo profilo. E crediamo che la nostra bussola debba essere quella della CREAZIONE DI VALORE.

Per troppi anni la politica italiana è stata incentrata su politiche di riduzione dei costi e sul taglio delle spese. L’accesso più diretto a nuove risorse è stato implementato con l’utilizzo massiccio della leva fiscale.

E questo sistema, purtroppo, non e’ diverso in lombardia. In tutti questi anni al potere non siete stati capaci di cambiare: e così la nostra regione si trova ad avere l’87 per cento delle entrate coperte dal GETTITO FISCALE, tra le regioni italiane unica insieme al Lazio ad avere una quota così alta.

Ma c’è di più. BEN IL 91 per cento di questa quota totale VA IN SPESA CORRENTE, dove la parte del leone (l’85%) va in spesa sanitaria. Ecco il MODELLO LOMBARDO, riproposto in questo PIANO. MI CHIEDO E CHIEDO A VOI: E’ UN MODELLO SANO? SIAMO SICURI CHE NON SI POSSA MIGLIORARE?

La semplificazione è divenuta il centro di ogni nostro discorso, ed è un impegno che noi ci prendiamo.

Ma temiamo che tutto ciò non sia più sufficiente per la ripresa economica.

A GIOCARE IN DIFESA NON SI VINCE MAI.

C’è la necessità di politiche vere per la creazione di valore. E’ questo il motore che ci deve spingere. E una pianificazione che si rispetti deve avere questo obiettivo come stella polare.

Oggi, pare chiaro a tutti, in queste condizioni, il valore è IL LAVORO, l’OCCUPAZIONE.

E dovremo finalizzare le nostre risorse, le nostre idee, i nostri sforzi verso questa domanda che ci viene da tutti i settori della nostra società, da quelli più fragili a quelli imprenditoriali, a quelli istituzionali (dalla Chiesa ai Comuni…).

E’ un criterio di priorità assoluta, dovrebbe essere un’ossessione del legislatore, se mi si passa il termine.

E purtroppo quello che non vediamo in questo Prs è proprio una gerarchia, un criterio di priorità.

Vengono invece proposti 346 obiettivi, senza alcuna priorità tra di essi. Senza alcuna visione di politica economica integrata tra i vari comparti industriali.

Manca una indicazione di politica energetica. Manca addirittura una politica per l’agricoltura, la quale fatica a trovare un suo spazio tra industria, artigianato e terziario. Ecco perché in questo piano, il quale, sottolineo, dovrebbe accompagnarci fino al 2018, non si riesce a percepire una VISIONE. Al meglio può essere definito un piano tecnico, non politico: perché la scelta politica avviene proprio sulla gerarchia delle domande. E questa scelta purtroppo non c’è.

Sappiamo che in politica l’operazione più difficile è proprio passare dallo slogan al progetto. Ma quando ci sarà un progetto credibile e serio in questa direzione non faremo mancare certo il nostro impegno. Ad oggi, sinceramente, giudichiamo questo strumento pianificatorio altamente insufficiente per fronteggiare quel convitato sgradevole che è la crisi.

Occorre infatti una terapia d’urto che qui non si ravvede neppure lessicalmente. E non credo che prendersela con Roma, con il governo nazionale o centrale – che dir si voglia - sia sufficiente. Come non basta nascondersi dietro al ritornello del 75% che abbiamo già più volte sbugiardato.

Le parole infatti più usate in questo documento sono SUPPORTO e SOSTEGNO, misure che, nella loro nobiltà, danno già l’idea di staticità e non di propulsione.

Un’idea ancillare, non protagonista.

Non c’è una seria politica per l’innovazione (verrebbe da chiedere se per voi l’innovazione è un valore), pochissimo sulla ricerca, sul commercio solo misure placebo, una delle quali l’abbiamo votata qui in Aula congiuntamente.

Green Economy come volano



Esiste poi una riflessione sulla Green Economy che appare al momento assolutamente insufficiente, quasi di maniera.

Le politiche per la sostenibilità non sono una concessione di maniera all’ambientalismo ma un’occasione concreta per rilanciare la ricerca, lo sviluppo tecnologico, la produzione artigianale, industriale, e particolarmente importante per noi, la produzione agricola nella nostra Regione, all’avanguardia delle coltivazioni biologiche. Sono un’occasione irrinunciabile per riposizionare la Lombardia sulla frontiera dell’innovazione e della green economy, agganciandola a un futuro che è già realtà nelle regioni più moderne e competitive d’Europa, con le quali vorremmo finalmente confrontarci.

Qualità dell’ambiente significa qualità dell’aria, dell’acqua e dei suoli, tutela del paesaggio, della biodiversità, dell’identità locale. Significa tutela della salute e qualità della vita: un nuovo welfare per i cittadini di oggi e un modo concreto per sostenere e promuovere i comportamenti virtuosi, a vantaggio delle attuali e delle future generazioni.

La strategia per la sostenibilità si deve fondare su pochi obiettivi: chiari, praticabili, graduati nel tempo. Comprensibili dai cittadini, dalle imprese, dalle istituzioni, affinché tutti si sentano partecipi e beneficiari del nuovo corso.

Esiste poi il grande tema del CONSUMO DI SUOLO, di cui altri oggi parleranno e che credo diventi un’urgenza da non rimandare oltre, anche nel quadro di una revisione complessiva della legge 12 sul territorio.

Restituire integrità al territorio lombardo, devastato da costruzioni inutilizzate, da discariche e cave, è una priorità per il futuro dei nostri giovani. Così come ridare al Po la sua dignità di Grande Fiume e all’importantissimo reticolo idrico lombardo una salvaguardia degna di questo nome. Acqua, aria e terra sono il nostro patrimonio più grande, il futuro dei nostri figli, e su queste occorre un’attenzione che va ben oltre quanto è stato messo in cantiere.

Area sociale



Parlando della qualità dell’ambiente in cui viviamo, parliamo anche direttamente della nostra salute.

Vorrei ricordare alcuni punti qualificanti del nostro modo di intendere la sanità, di cui non abbiamo mai disconosciuto l’eccellenza medica ma sulla quale abbiamo una visione diversa dal punto di vista organizzativo, di risparmi ottenibili e di differenza di investimento rispetto alla prevenzione.

I cittadini lombardi infatti – e purtroppo – vivono meno di quelli toscani ed emiliani, muoiono più spesso di tumore e infarto e sono più a rischio per alcool e fumo. Se a tutto questo aggiungiamo che, paradossalmente, pagano di più di tasca propria in sanità capiamo che c’è qualcosa che non va.

Facciamo un esempio su ciò che intendiamo per prevenzione. L’aria della pianura padana è tra le più inquinate d’Europa. E’ necessario quindi fare qualcosa non solo sul versante della cura, ma anche sulla prevenzione. Con una politica per il controllo dell’inquinamento atmosferico e del traffico urbano si può fare molto. Molto anche con la promozione di stili di vita più salutari ma soprattutto con campagne più intense di diagnosi precoce di alcune malattie e tumori.

Questo deve essere un impegno prioritario, perché se i cittadini sono messi in condizioni di seria prevenzione si spenderà di meno per la cura. Serve una stagione che rilanci la prevenzione, si occupi di cosa e come si produce e non solo di quanto e a che costi.

Le eccellenze cliniche che esistono nella nostra Regione possono e devono trovare valorizzazione e espressione in una rete di presidi e servizi che collaborano operativamente tra di loro, in cui l’accoglienza e l’attenzione ai bisogni essenziali dei pazienti sia il criterio di azione.

In sanità poi solo un certo livello di competizione è potenzialmente fruttuosa.

Se la competizione diventa eccessiva, mirata al profitto e alle rendite di posizione, allora produce inefficienze, duplicazioni, frammentazione dei servizi per gli utenti. La Lombardia, e tanto più il resto del Paese, ha bisogno di più efficienza nel pubblico e meno opportunismo nel privato accreditato.

Ha bisogno di solidarietà di sistema, di sviluppare forme di collaborazioni tra aziende e enti non profit e profit, tra reti professionali, tra sociale e sanitario, evitando duplicazioni e frammentazioni dei servizi.

La scarsa collaborazione tra pubblico e privato sfocia in situazioni evidenti di antagonismo tra i produttori, in una logica dove l’importante non è che si facciano le cose bene, ma di conquista di quote di mercato, potenzialmente a scapito della prevenzione e della “produzione” di salute.

Le quote necessarie di competizione debbono quindi essere regolate, affinché siano virtuose. Siamo invece in un contesto dove, a fronte di un pubblico troppo spesso burocratizzato, il privato ha potuto svilupparsi anche a causa dell’assente funzione di regolazione e programmazione regionale che, ad esempio, permette differenziali retributivi tra gli operatori di base fino al 50% per le identiche mansioni e livelli di produttività.

La Lombardia, così come il Paese, ha bisogno di una rivoluzione nelle logiche di selezione e promozione dei professionisti e dei manager del servizio pubblico, questo lo diciamo perché per sostenere il sistema nella sua complessità sono richieste persone preparate e competenti, scelte per merito e non per i percorsi di carriera nella loro affiliazione politica.

Ripeto queste cose perché erano analisi che in campagna elettorale condividevamo anche se, a ben vedere, alla prima occasione siete ricaduti immediatamente nell’antico errore. Quando con le nomine si affronterà il turn over dei direttori generali vi aspetteremo al varco, non senza un certo scetticismo di fondo.

La nostra convinzione è quindi che in questa regione con 10 milioni di abitanti, in profondo e costante cambiamento, è necessario innovare la geografia e tipologia dei servizi sociali e sanitari disponibili, rendendoli coerenti ai quadri dei bisogni emergenti, valorizzando le autonomie e le differenze locali, che richiedono una riorganizzazione delle Aziende Sanitarie e Ospedaliere e soluzioni differenti tra metropoli e zone lacustri o montane.

E questo, purtroppo, non emerge con chiarezza dal vostro Piano di Sviluppo.

Conclusioni



Per concludere, caro Presidente, quello che emerge da questi primi cento giorni e dal suo documento programmatico è una sostanziale assenza di visione. Politica e strategica. Forse i problemi nella gestione di un partito come il suo, che sta attraversando una crisi complessa e importante, forse una struttura organizzativa che non sente ancora la mano del nuovo guidatore e che tende a rifare quello che faceva con il vecchio nocchiero, non le hanno consentito di imprimere a questa legislatura un nuovo corso, come forse è tuttora nelle sue intenzioni.

In questo documento, che di seguito sarà analizzato con metodo, io trovo più filosofia della competenza che filosofia del rendimento.

Trovo molta autogiustificazione del percorso amministrativo fin qui intrapreso, che certo avrà anche avuto i suoi buoni momenti, ma che oggi deve rispondere ai cittadini di un macigno caduto addosso alla Regione, per cui un governo si è dimesso per crac politico e ha chiuso con largo anticipo una legislatura.



Dov’è il senso di riorganizzazione delle politiche pubbliche?

In questo documento non lo vediamo.

Una ampia e radicale riorganizzazione sarebbe invece necessaria:

  • a un nuovo discorso con i soggetti produttivi;
  • ad una diversa proposta in ordine alle potenzialità di investimento;
  • ad un nuovo ed etico presidio pubblico a fronte dell’infinita cattiva amministrazione e varia corruttela che hanno rovinato la reputazione di questa regione tra i lombardi e, quel che è più grave, anche al di fuori della Lombardia.

Se si pensa che ciò sia un problema inesistente di cui imputare i media e l’opposizione rancorosa, beh, avete cominciato con il piede sbagliato a fare la vostra rivoluzione verde.

Nessuna “rivoluzione” esce dalle pagine di questo documento. Tutto il blocco di potere che si è costruito in venti anni è qui a dire: grazie Maroni; certo abbiamo dovuto fare qualche concessione per le impresentabilità, siamo ancora tutti al nostro posto.

Eppure, le confesso, qualche attesa c’era, con il Suo arrivo avevamo anche noi qualche speranza di cambiamento…

Negli anni passati la componente liberale della destra (l’etichetta sarebbe europea) aveva caratterizzato la linea progettuale - in generale e in un territorio come la Lombardia in particolare - con una visione di rinuncia alla progettualità istituzionale; dentro cui poi, come si è visto, i piani di sussidiarietà di quelle realtà a voi più vicine, costruivano un loro sistema di opportunità più che una visione generale dello sviluppo.

Con questa regia, la componente della Lega si limitava a presidiare una sorta di protezione a testa bassa, rispetto al processo di globalizzazione.

La nostra attesa era di vedere se, spostata la regia sulla Lega, gli indirizzi progettuali per lo sviluppo del centrodestra sarebbero evoluti e in quale chiave.

Fermo restando il sostanziale “copia&incolla” sui dossier settoriali – che è un dato di trascuratezza più che di cultura politica – quello che si ricava dalla lettura del documento è il tentativo di far planare tutti sul terreno delle soluzioni fiscali e non su quello della rigenerazione di processi pubblico-privati per la creazione di nuova attrattività e quindi di nuova cultura imprenditoriale dello sviluppo.

Insomma una risposta che assomiglia a quelle di certi paesi asiatici e molto poco a quelle dei paesi dell’Europa continentale ai quali si dice che la Lombardia vuole assomigliare.



La controprova sta nella parte finale del documento in cui sono tracciate indicazioni che dovrebbero permettere di comprendere l’analisi dell’andamento attuativo della precedente progettazione.

La prego di mettere in mano a qualunque scuola di valutazione delle politiche pubbliche questa parte del documento (e le università della Lombardia pullulano di esperti in questo campo) per farsi dire se c’è la configurazione di qualche serio parametro che permetta davvero alla società civile ed economica di andare al di là delle aggettivazioni per farsi due conti veri sui processi in atto e per capire sul serio se le cose vanno meglio o peggio.

La seconda parte del documento dovrebbe essere una sorta di “controprova”. Essa è invece la “controprova” di questa nostra percezione di vuoto strategico che dipende – per l’appunto – dalla pochezza (e quindi dalla mancanza di severità gestita nell’interesse dei cittadini e delle imprese) di approccio valutativo.



Ecco, sono queste le considerazioni che l’opposizione esprime sui profili generali in ordine a un documento su cui la politica:

  • non ha fissato i piani di discontinuità nelle chiavi generali di analisi,
  • non ha tenuto a freno il protagonismo burocratico della gestione tecnica delle competenze,
  • non ha imposto a sé (dando anche un’esemplare indicazione alle amministrazioni locali) una severa valutazione dell’anno di crisi facendo credere – come fossimo un sistema tribale – che è il destino a voltarci le spalle o è la fortuna che ancora non ci sorride.



Le auguro, presidente Maroni, di trovare la grinta necessaria per cambiare spartito musicale su questa materia. La Lombardia subirà la perdita di tempo, ma lei troverà un ruolo per concentrarsi meglio su quella che dovrebbe essere la sua competenza ultra-prioritaria.

Per ora quindi il nostro parere resta negativo, visto che quel poco che si cerca di fare o pianificare ha poco o nulla di nuovo rispetto a una lunga deriva che ormai dura da diciotto anni e che non è in grado di modificare le sue abitudini.

Noi crediamo che i Lombardi abbiano bisogno di qualcosa di diverso di una non rassicurante routine. La crisi morde e voi non vi muovete a sufficienza.

Occorre quindi un cambio di passo e forse una riformulazione del Piano Regionale di Sviluppo in chiave più aderente alle reali necessità di cambiamento.

Questo darebbe un valore diverso, meno compilativo e stanco, al documento, e consentirebbe alla discussione politica di dispiegarsi su profili più alti.

Altrimenti prendiamo atto che il Prs è un esercizio retorico, un ritratto dell’esistente e come tale assomiglia ancora troppo al Suo predecessore per avere da noi una pur minima apertura di credito.

Per questo le confermo

con dispiacere per un documento di questo tipo,

il nostro voto contrario.

Lumen fidei

ecco la prima enciclica di Papa Francesco

Il testo della prima lettera di Bergoglio. In controluce la stesura di Benedetto XVI







Lumen fidei,ecco la prima enciclica di Papa Francesco

LETTERA ENCICLICA
1. La luce della fede: con quest’espressione, la tradizione della Chiesa ha indicato il grande dono portato da Gesù, il quale, nel Vangelo di Giovanni, così si presenta: « Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre » (Gv 12,46). Anche san Paolo si esprime in questi termini: « E Dio, che disse: “Rifulga la luce dalle tenebre”, rifulge nei nostri cuori » (2 Cor 4,6). Nel mondo pagano, affamato di luce, si era sviluppato il culto al dio Sole, Sol invictus, invocato nel suo sorgere. Anche se il sole rinasceva ogni giorno, si capiva bene che era incapace di irradiare la sua luce sull’intera esistenza dell’uomo. Il sole, infatti, non illumina tutto il reale, il suo raggio è incapace di arrivare fino all’ombra della morte, là dove l’occhio umano si chiude alla sua luce. « Per la sua fede nel sole — afferma san Giustino Martire — non si è mai visto nessuno pronto a morire ».[1] Consapevoli dell’orizzonte grande che la fede apriva loro, i cristiani chiamarono Cristo il vero sole, « i cui raggi donano la vita ».[2] A Marta, che piange per la morte del fratello Lazzaro, Gesù dice: « Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio? » (Gv 11,40). Chi crede, vede; vede con una luce che illumina tutto il percorso della strada, perché viene a noi da Cristo risorto, stella mattutina che non tramonta.
Una luce illusoria?
2. Eppure, parlando di questa luce della fede, possiamo sentire l’obiezione di tanti nostri contemporanei. Nell’epoca moderna si è pensato che una tale luce potesse bastare per le società antiche, ma non servisse per i nuovi tempi, per l’uomo diventato adulto, fiero della sua ragione, desideroso di esplorare in modo nuovo il futuro. In questo senso, la fede appariva come una luce illusoria, che impediva all’uomo di coltivare l’audacia del sapere. Il giovane Nietzsche invitava la sorella Elisabeth a rischiare, percorrendo « nuove vie…, nell’incertezza del procedere autonomo ». E aggiungeva: « A questo punto si separano le vie dell’umanità: se vuoi raggiungere la pace dell’anima e la felicità, abbi pur fede, ma se vuoi essere un discepolo della verità, allora indaga ».[3] Il credere si opporrebbe al cercare. A partire da qui, Nietzsche svilupperà la sua critica al cristianesimo per aver sminuito la portata dell’esistenza umana, togliendo alla vita novità e avventura. La fede sarebbe allora come un’illusione di luce che impedisce il nostro cammino di uomini liberi verso il domani.
3. In questo processo, la fede ha finito per essere associata al buio. Si è pensato di poterla conservare, di trovare per essa uno spazio perché convivesse con la luce della ragione. Lo spazio per la fede si apriva lì dove la ragione non poteva illuminare, lì dove l’uomo non poteva più avere certezze. La fede è stata intesa allora come un salto nel vuoto che compiamo per mancanza di luce, spinti da un sentimento cieco; o come una luce soggettiva, capace forse di riscaldare il cuore, di portare una consolazione privata, ma che non può proporsi agli altri come luce oggettiva e comune per rischiarare il cammino. Poco a poco, però, si è visto che la luce della ragione autonoma non riesce a illuminare abbastanza il futuro; alla fine, esso resta nella sua oscurità e lascia l’uomo nella paura dell’ignoto. E così l’uomo ha rinunciato alla ricerca di una luce grande, di una verità grande, per accontentarsi delle piccole luci che illuminano il breve istante, ma sono incapaci di aprire la strada. Quando manca la luce, tutto diventa confuso, è impossibile distinguere il bene dal male, la strada che porta alla mèta da quella che ci fa camminare in cerchi ripetitivi, senza direzione.
Una luce da riscoprire
4. È urgente perciò recuperare il carattere di luce proprio della fede, perché quando la sua fiamma si spegne anche tutte le altre luci finiscono per perdere il loro vigore. La luce della fede possiede, infatti, un carattere singolare, essendo capace di illuminare tutta l’esistenza dell’uomo. Perché una luce sia così potente, non può procedere da noi stessi, deve venire da una fonte più originaria, deve venire, in definitiva, da Dio. La fede nasce nell’incontro con il Dio vivente, che ci chiama e ci svela il suo amore, un amore che ci precede e su cui possiamo poggiare per essere saldi e costruire la vita. Trasformati da questo amore riceviamo occhi nuovi, sperimentiamo che in esso c’è una grande promessa di pienezza e si apre a noi lo sguardo del futuro. La fede, che riceviamo da Dio come dono soprannaturale, appare come luce per la strada, luce che orienta il nostro cammino nel tempo. Da una parte, essa procede dal passato, è la luce di una memoria fondante, quella della vita di Gesù, dove si è manifestato il suo amore pienamente affidabile, capace di vincere la morte. Allo stesso tempo, però, poiché Cristo è risorto e ci attira oltre la morte, la fede è luce che viene dal futuro, che schiude davanti a noi orizzonti grandi, e ci porta al di là del nostro “io” isolato verso l’ampiezza della comunione. Comprendiamo allora che la fede non abita nel buio; che essa è una luce per le nostre tenebre. Dante, nella Divina Commedia, dopo aver confessato la sua fede davanti a san Pietro, la descrive come una “favilla, / che si dilata in fiamma poi vivace / e come stella in cielo in me scintilla”.[4] Proprio di questa luce della fede vorrei parlare, perché cresca per illuminare il presente fino a diventare stella che mostra gli orizzonti del nostro cammino, in un tempo in cui l’uomo è particolarmente bisognoso di luce.
5. Il Signore, prima della sua passione, assicurava a Pietro: « Ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno » (Lc 22,32). Poi gli ha chiesto di “confermare i fratelli” in quella stessa fede. Consapevole del compito affidato al Successore di Pietro, Benedetto XVI ha voluto indire quest’Anno della fede, un tempo di grazia che ci sta aiutando a sentire la grande gioia di credere, a ravvivare la percezione dell’ampiezza di orizzonti che la fede dischiude, per confessarla nella sua unità e integrità, fedeli alla memoria del Signore, sostenuti dalla sua presenza e dall’azione dello Spirito Santo. La convinzione di una fede che fa grande e piena la vita, centrata su Cristo e sulla forza della sua grazia, animava la missione dei primi cristiani. Negli Atti dei martiri leggiamo questo dialogo tra il prefetto romano Rustico e il cristiano Gerace: « Dove sono i tuoi genitori? », chiedeva il giudice al martire, e questi rispose: « Nostro vero padre è Cristo, e nostra madre la fede in Lui ».[5] Per quei cristiani la fede, in quanto incontro con il Dio vivente manifestato in Cristo, era una “madre”, perché li faceva venire alla luce, generava in essi la vita divina, una nuova esperienza, una visione luminosa dell’esistenza per cui si era pronti a dare testimonianza pubblica fino alla fine.
6. L’Anno della fede ha avuto inizio nel 50° anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II. Questa coincidenza ci consente di vedere che il Vaticano II è stato un Concilio sulla fede,[6] in quanto ci ha invitato a rimettere al centro della nostra vita ecclesiale e personale il primato di Dio in Cristo. La Chiesa, infatti, non presuppone mai la fede come un fatto scontato, ma sa che questo dono di Dio deve essere nutrito e rafforzato, perché continui a guidare il suo cammino. Il Concilio Vaticano II ha fatto brillare la fede all’interno dell’esperienza umana, percorrendo così le vie dell’uomo contemporaneo. In questo modo è apparso come la fede arricchisce l’esistenza umana in tutte le sue dimensioni.

7. Queste considerazioni sulla fede — in continuità con tutto quello che il Magistero della Chiesa ha pronunciato circa questa virtù teologale[7] —,intendono aggiungersi a quanto Benedetto XVI ha scritto nelle Lettere encicliche sulla carità e sulla speranza. Egli aveva già quasi completato una prima stesura di Lettera enciclica sulla fede. Gliene sono profondamente grato e, nella fraternità di Cristo, assumo il suo prezioso lavoro, aggiungendo al testo alcuni ulteriori contributi. Il Successore di Pietro, ieri, oggi e domani, è infatti sempre chiamato a “confermare i fratelli” in quell’incommensurabile tesoro della fede che Dio dona come luce sulla strada di ogni uomo.
Nella fede, dono di Dio, virtù soprannaturale da Lui infusa, riconosciamo che un grande Amore ci è stato offerto, che una Parola buona ci è stata rivolta e che, accogliendo questa Parola, che è Gesù Cristo, Parola incarnata, lo Spirito Santo ci trasforma, illumina il cammino del futuro, e fa crescere in noi le ali della speranza per percorrerlo con gioia. Fede, speranza e carità costituiscono, in un mirabile intreccio, il dinamismo dell’esistenza cristiana verso la comunione piena con Dio. Com’è questa via che la fede schiude davanti a noi? Da dove viene la sua luce potente che consente di illuminare il cammino di una vita riuscita e feconda, piena di frutto?
CAPITOLO PRIMO
ABBIAMO CREDUTO ALL’AMORE
(cfr 1 Gv 4,16)
Abramo, nostro padre nella fede
8. La fede ci apre il cammino e accompagna i nostri passi nella storia. È per questo che, se vogliamo capire che cosa è la fede, dobbiamo raccontare il suo percorso, la via degli uomini credenti, testimoniata in primo luogo nell’Antico Testamento. Un posto singolare appartiene ad Abramo, nostro padre nella fede. Nella sua vita accade un fatto sconvolgente: Dio gli rivolge la Parola, si rivela come un Dio che parla e che lo chiama per nome. La fede è legata all’ascolto. Abramo non vede Dio, ma sente la sua voce. In questo modo la fede assume un carattere personale. Dio risulta così non il Dio di un luogo, e neanche il Dio legato a un tempo sacro specifico, ma il Dio di una persona, il Dio appunto di Abramo, Isacco e Giacobbe, capace di entrare in contatto con l’uomo e di stabilire con lui un’alleanza. La fede è la risposta a una Parola che interpella personalmente, a un Tu che ci chiama per nome.
9. Ciò che questa Parola dice ad Abramo consiste in una chiamata e in una promessa. È prima di tutto chiamata ad uscire dalla propria terra, invito ad aprirsi a una vita nuova, inizio di un esodo che lo incammina verso un futuro inatteso. La visione che la fede darà ad Abramo sarà sempre congiunta a questo passo in avanti da compiere: la fede “vede” nella misura in cui cammina, in cui entra nello spazio aperto dalla Parola di Dio. Questa Parola contiene inoltre una promessa: la tua discendenza sarà numerosa, sarai padre di un grande popolo (cfrGen 13,16; 15,5; 22,17). È vero che, in quanto risposta a una Parola che precede, la fede di Abramo sarà sempre un atto di memoria. Tuttavia questa memoria non fissa nel passato ma, essendo memoria di una promessa, diventa capace di aprire al futuro, di illuminare i passi lungo la via. Si vede così come la fede, in quanto memoria del futuro, memoria futuri, sia strettamente legata alla speranza.
10. Quello che viene chiesto ad Abramo è di affidarsi a questa Parola. La fede capisce che la parola, una realtà apparentemente effimera e passeggera, quando è pronunciata dal Dio fedele diventa quanto di più sicuro e di più incrollabile possa esistere, ciò che rende possibile la continui-tà del nostro cammino nel tempo. La fede accoglie questa Parola come roccia sicura sulla quale si può costruire con solide fondamenta. Per questo nella Bibbia la fede è indicata con la parola ebraica ’emûnah, derivata dal verbo ’amàn, che nella sua radice significa “sostenere”. Il termine ’emûnah può significare sia la fedeltà di Dio, sia la fede dell’uomo. L’uomo fedele riceve la sua forza dall’affidarsi nelle mani del Dio fedele. Giocando sui due significati della parola — presenti anche nei termini corrispondenti in greco (pistós) e latino (fidelis) —, san Cirillo di Gerusalemme esalterà la dignità del cristiano, che riceve il nome stesso di Dio: ambedue sono chiamati “fedeli”.[8] Sant’Agostino lo spiegherà così: « L’uomo fedele è colui che crede a Dio che promette; il Dio fedele è colui che concede ciò che ha promesso all’uomo ».[9]

11. Un ultimo aspetto della storia di Abramo è importante per capire la sua fede. La Parola di Dio, anche se porta con sé novità e sorpresa, non risulta per nulla estranea all’esperienza del Patriarca. Nella voce che si rivolge ad Abramo, egli riconosce un appello profondo, inscritto da sempre nel cuore del suo essere. Dio associa la sua promessa a quel “luogo” in cui l’esistenza dell’uomo si mostra da sempre promettente: la paternità, il generarsi di una nuova vita — « Sara, tua moglie, ti partorirà un figlio e lo chiamerai Isacco » (Gen17,19). Quel Dio che chiede ad Abramo di affidarsi totalmente a Lui si rivela come la fonte da cui proviene ogni vita. In questo modo la fede si collega con la Paternità di Dio, dalla quale scaturisce la creazione: il Dio che chiama Abramo è il Dio creatore, Colui che « chiama all’esistenza le cose che non esistono » (Rm 4,17), Colui che « ci ha scelti prima della creazione del mondo… predestinandoci a essere suoi figli adottivi » (Ef 1,4-5). Per Abramo la fede in Dio illumina le più profonde radici del suo essere, gli permette di riconoscere la sorgente di bontà che è all’origine di tutte le cose, e di confermare che la sua vita non procede dal nulla o dal caso, ma da una chiamata e un amore personali. Il Dio misterioso che lo ha chiamato non è un Dio estraneo, ma Colui che è origine di tutto e che sostiene tutto. La grande prova della fede di Abramo, il sacrificio del figlio Isacco, mostrerà fino a che punto questo amore originario è capace di garantire la vita anche al di là della morte. La Parola che è stata capace di suscitare un figlio nel suo corpo “come morto” e “nel seno morto” di Sara sterile (cfr Rm 4,19), sarà anche capace di garantire la promessa di un futuro al di là di ogni minaccia o pericolo (cfr Eb 11,19; Rm 4, 21).
La fede di Israele
12. La storia del popolo d’Israele, nel libro dell’Esodo, prosegue sulla scia della fede di Abramo. La fede nasce di nuovo da un dono originario: Israele si apre all’azione di Dio che vuole liberarlo dalla sua miseria. La fede è chiamata a un lungo cammino per poter adorare il Signore sul Sinai ed ereditare una terra promessa. L’amore divino possiede i tratti del padre che porta suo figlio lungo il cammino (cfr Dt 1,31). La confessione di fede di Israele si sviluppa come racconto dei benefici di Dio, del suo agire per liberare e guidare il popolo (cfr Dt 26,5-11), racconto che il popolo trasmette di generazione in generazione. La luce di Dio brilla per Israele attraverso la memoria dei fatti operati dal Signore, ricordati e confessati nel culto, trasmessi dai genitori ai figli. Impariamo così che la luce portata dalla fede è legata al racconto concreto della vita, al ricordo grato dei benefici di Dio e al compiersi progressivo delle sue promesse. L’architettura gotica l’ha espresso molto bene: nelle grandi Cattedrali la luce arriva dal cielo attraverso le vetrate dove si raffigura la storia sacra. La luce di Dio ci viene attraverso il racconto della sua rivelazione, e così è capace di illuminare il nostro cammino nel tempo, ricordando i benefici divini, mostrando come si compiono le sue promesse.
13. La storia di Israele ci mostra ancora la tentazione dell’incredulità in cui il popolo più volte è caduto. L’opposto della fede appare qui come idolatria. Mentre Mosè parla con Dio sul Sinai, il popolo non sopporta il mistero del volto divino nascosto, non sopporta il tempo dell’attesa. La fede per sua natura chiede di rinunciare al possesso immediato che la visione sembra offrire, è un invito ad aprirsi verso la fonte della luce, rispettando il mistero proprio di un Volto che intende rivelarsi in modo personale e a tempo opportuno. Martin Buber citava questa definizione dell’idolatria offerta dal rabbino di Kock: vi è idolatria « quando un volto si rivolge riverente a un volto che non è un volto ».[10] Invece della fede in Dio si preferisce adorare l’idolo, il cui volto si può fissare, la cui origine è nota perché fatto da noi. Davanti all’idolo non si rischia la possibilità di una chiamata che faccia uscire dalle proprie sicurezze, perché gli idoli « hanno bocca e non parlano » (Sal 115,5). Capiamo allora che l’idolo è un pretesto per porre se stessi al centro della realtà, nell’adorazione dell’opera delle proprie mani. L’uomo, perso l’orientamento fondamentale che dà unità alla sua esistenza, si disperde nella molteplicità dei suoi desideri; negandosi ad attendere il tempo della promessa, si disintegra nei mille istanti della sua storia. Per questo l’idolatria è sempre politeismo, movimento senza meta da un signore all’altro. L’idolatria non offre un cammino, ma una molteplicità di sentieri, che non conducono a una meta certa e configurano piuttosto un labirinto. Chi non vuole affidarsi a Dio deve ascoltare le voci dei tanti idoli che gli gridano: “Affidati a me!”. La fede in quanto legata alla conversione, è l’opposto dell’idolatria; è separazione dagli idoli per tornare al Dio vivente, mediante un incontro personale. Credere significa affidarsi a un amore misericordioso che sempre accoglie e perdona, che sostiene e orienta l’esistenza, che si mostra potente nella sua capacità di raddrizzare le storture della nostra storia. La fede consiste nella disponibilità a lasciarsi trasformare sempre di nuovo dalla chiamata di Dio. Ecco il paradosso: nel continuo volgersi verso il Signore, l’uomo trova una strada stabile che lo libera dal movimento dispersivo cui lo sottomettono gli idoli.
14. Nella fede di Israele emerge anche la figura di Mosè, il mediatore. Il popolo non può vedere il volto di Dio; è Mosè a parlare con YHWH sulla montagna e a riferire a tutti il volere del Signore. Con questa presenza del mediatore, Israele ha imparato a camminare unito. L’atto di fede del singolo si inserisce in una comunità, nel “noi” comune del popolo che, nella fede, è come un solo uomo, “il mio figlio primogenito”, come Dio chiamerà l’intero Israele (cfr Es 4,22). La mediazione non diventa qui un ostacolo, ma un’apertura: nell’incontro con gli altri lo sguardo si apre verso una verità più grande di noi stessi. J. J. Rousseau si lamentava di non poter vedere Dio personalmente: « Quanti uomini tra Dio e me! »;[11] « È così semplice e naturale che Dio sia andato da Mosè per parlare a Jean-Jacques Rousseau? ».[12] A partire da una concezione individualista e limitata della conoscenza non si può capire il senso della mediazione, questa capacità di partecipare alla visione dell’altro, sapere condiviso che è il sapere proprio dell’amore. La fede è un dono gratuito di Dio che chiede l’umiltà e il coraggio di fidarsi e affidarsi, per vedere il luminoso cammino dell’incontro tra Dio e gli uomini, la storia della salvezza.
La pienezza della fede cristiana
15. « Abramo […] esultò nella speranza di vedere il mio giorno, lo vide e fu pieno di gioia » (Gv 8,56). Secondo queste parole di Gesù, la fede di Abramo era orientata verso di Lui, era, in un certo senso, visione anticipata del suo mistero. Così lo intende sant’Agostino, quando afferma che i Patriarchi si salvarono per la fede, non fede in Cristo già venuto, ma fede in Cristo che stava per venire, fede tesa verso l’evento futuro di Gesù.[13] La fede cristiana è centrata in Cristo, è confessione che Gesù è il Signore e che Dio lo ha risuscitato dai morti (cfr Rm10,9). Tutte le linee dell’Antico Testamento si raccolgono in Cristo, Egli diventa il “sì” definitivo a tutte le promesse, fondamento del nostro “Amen” finale a Dio (cfr 2 Cor 1,20). La storia di Gesù è la manifestazione piena dell’affidabilità di Dio. Se Israele ricordava i grandi atti di amore di Dio, che formavano il centro della sua confessione e aprivano lo sguardo della sua fede, adesso la vita di Gesù appare come il luogo dell’intervento definitivo di Dio, la suprema manifestazione del suo amore per noi. Quella che Dio ci rivolge in Gesù non è una parola in più tra tante altre, ma la sua Parola eterna (cfr Eb 1,1-2). Non c’è nessuna garanzia più grande che Dio possa dare per rassicurarci del suo amore, come ci ricorda san Paolo (cfr Rm 8,31-39). La fede cristiana è dunque fede nell’Amore pieno, nel suo potere efficace, nella sua capacità di trasformare il mondo e di illuminare il tempo. « Abbiamo conosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi » (1 Gv 4,16). La fede coglie nell’amore di Dio manifestato in Gesù il fondamento su cui poggia la realtà e la sua destinazione ultima.
16. La prova massima dell’affidabilità dell’amore di Cristo si trova nella sua morte per l’uomo. Se dare la vita per gli amici è la massima prova di amore (cfr Gv 15,13), Gesù ha offerto la sua per tutti, anche per coloro che erano nemici, per trasformare il cuore. Ecco perché gli evangelisti hanno situato nell’ora della Croce il momento culminante dello sguardo di fede, perché in quell’ora risplende l’altezza e l’ampiezza dell’amore divino. San Giovanni collocherà qui la sua testimonianza solenne quando, insieme alla Madre di Gesù, contemplò Colui che hanno trafitto (cfr Gv 19,37): « Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate » (Gv 19,35). F. M. Dostoevskij, nella sua opera L’Idiota, fa dire al protagonista, il principe Myskin, alla vista del dipinto di Cristo morto nel sepolcro, opera di Hans Holbein il Giovane: « Quel quadro potrebbe anche far perdere la fede a qualcuno ».[14] Il dipinto rappresenta infatti, in modo molto crudo, gli effetti distruttivi della morte sul corpo di Cristo. E tuttavia, è proprio nella contemplazione della morte di Gesù che la fede si rafforza e riceve una luce sfolgorante, quando essa si rivela come fede nel suo amore incrollabile per noi, che è capace di entrare nella morte per salvarci. In questo amore, che non si è sottratto alla morte per manifestare quanto mi ama, è possibile credere; la sua totalità vince ogni sospetto e ci permette di affidarci pienamente a Cristo.
17. Ora, la morte di Cristo svela l’affidabilità totale dell’amore di Dio alla luce della sua Risurrezione. In quanto risorto, Cristo è testimone affidabile, degno di fede (cfr Ap 1,5; Eb 2,17), appoggio solido per la nostra fede. « Se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede », afferma san Paolo (1 Cor 15,17). Se l’amore del Padre non avesse fatto risorgere Gesù dai morti, se non avesse potuto ridare vita al suo corpo, allora non sarebbe un amore pienamente affidabile, capace di illuminare anche le tenebre della morte. Quando san Paolo parla della sua nuova vita in Cristo, si riferisce alla « fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me » (Gal 2,20). Questa “fede del Figlio di Dio” è certamente la fede dell’Apostolo delle genti in Gesù, ma suppone anche l’affidabilità di Gesù, che si fonda, sì, nel suo amore fino alla morte, ma anche nel suo essere Figlio di Dio. Proprio perché Gesù è il Figlio, perché è radicato in modo assoluto nel Padre, ha potuto vincere la morte e far risplendere in pienezza la vita. La nostra cultura ha perso la percezione di questa presenza concreta di Dio, della sua azione nel mondo. Pensiamo che Dio si trovi solo al di là, in un altro livello di realtà, separato dai nostri rapporti concreti. Ma se fosse così, se Dio fosse incapace di agire nel mondo, il suo amore non sarebbe veramente potente, veramente reale, e non sarebbe quindi neanche vero amore, capace di compiere quella felicità che promette. Credere o non credere in Lui sarebbe allora del tutto indifferente. I cristiani, invece, confessano l’amore concreto e potente di Dio, che opera veramente nella storia e ne determina il destino finale, amore che si è fatto incontrabile, che si è rivelato in pienezza nella Passione, Morte e Risurrezione di Cristo.
18. La pienezza cui Gesù porta la fede ha un altro aspetto decisivo. Nella fede, Cristo non è soltanto Colui in cui crediamo, la manifestazione massima dell’amore di Dio, ma anche Colui al quale ci uniamo per poter credere. La fede, non solo guarda a Gesù, ma guarda dal punto di vista di Gesù, con i suoi occhi: è una partecipazione al suo modo di vedere. In tanti ambiti della vita ci affidiamo ad altre persone che conoscono le cose meglio di noi. Abbiamo fiducia nell’architetto che costruisce la nostra casa, nel farmacista che ci offre il medicamento per la guarigione, nell’avvocato che ci difende in tribunale. Abbiamo anche bisogno di qualcuno che sia affidabile ed esperto nelle cose di Dio. Gesù, suo Figlio, si presenta come Colui che ci spiega Dio (cfr Gv 1,18).La vita di Cristo — il suo modo di conoscere il Padre, di vivere totalmente nella relazione con Lui — apre uno spazio nuovo all’esperienza umana e noi vi possiamo entrare. San Giovanni ha espresso l’importanza del rapporto personale con Gesù per la nostra fede attraverso vari usi del verbo credere. Insieme al “credere che” è vero ciò che Gesù ci dice (cfr Gv 14,10; 20,31), Giovanni usa anche le locuzioni “credere a” Gesù e “credere in” Gesù. “Crediamo a” Gesù, quando accettiamo la sua Parola, la sua testimonianza, perché egli è veritiero (cfr Gv 6,30). “Crediamo in” Gesù, quando lo accogliamo personalmente nella nostra vita e ci affidiamo a Lui, aderendo a Lui nell’amore e seguendolo lungo la strada (cfr Gv 2,11; 6,47; 12,44).
Per permetterci di conoscerlo, accoglierlo e seguirlo, il Figlio di Dio ha assunto la nostra carne, e così la sua visione del Padre è avvenuta anche in modo umano, attraverso un cammino e un percorso nel tempo. La fede cristiana è fede nell’Incarnazione del Verbo e nella sua Risurrezione nella carne; è fede in un Dio che si è fatto così vicino da entrare nella nostra storia. La fede nel Figlio di Dio fatto uomo in Gesù di Nazaret non ci separa dalla realtà, ma ci permette di cogliere il suo significato più profondo, di scoprire quanto Dio ama questo mondo e lo orienta incessantemente verso di Sé; e questo porta il cristiano a impegnarsi, a vivere in modo ancora più intenso il cammino sulla terra.
La salvezza mediante la fede
19. A partire da questa partecipazione al modo di vedere di Gesù, l’Apostolo Paolo, nei suoi scritti, ci ha lasciato una descrizione dell’esistenza credente. Colui che crede, nell’accettare il dono della fede, è trasformato in una creatura nuova, riceve un nuovo essere, un essere filiale, diventa figlio nel Figlio. “Abbà, Padre” è la parola più caratteristica dell’esperienza di Gesù, che diventa centro dell’esperienza cristiana (cfr Rm 8,15). La vita nella fede, in quanto esistenza filiale, è riconoscere il dono originario e radicale che sta alla base dell’esistenza dell’uomo, e può riassumersi nella frase di san Paolo ai Corinzi: « Che cosa possiedi che tu non l’abbia ricevuto? » (1 Cor 4,7). Proprio qui si colloca il cuore della polemica di san Paolo con i farisei, la discussione sulla salvezza mediante la fede o mediante le opere della legge. Ciò che san Paolo rifiuta è l’atteggiamento di chi vuole giustificare se stesso davanti a Dio tramite il proprio operare. Costui, anche quando obbedisce ai comandamenti, anche quando compie opere buone, mette al centro se stesso, e non riconosce che l’origine della bontà è Dio. Chi opera così, chi vuole essere fonte della propria giustizia, la vede presto esaurirsi e scopre di non potersi neppure mantenere nella fedeltà alla legge. Si rinchiude, isolandosi dal Signore e dagli altri, e per questo la sua vita si rende vana, le sue opere sterili, come albero lontano dall’acqua. Sant’Agostino così si esprime nel suo linguaggio conciso ed efficace: « Ab eo qui fecit te noli deficere nec ad te », « Da colui che ha fatto te, non allontanarti neppure per andare verso di te ».[15] Quando l’uomo pensa che allontanandosi da Dio troverà se stesso, la sua esistenza fallisce (cfr Lc 15,11-24). L’inizio della salvezza è l’apertura a qualcosa che precede, a un dono originario che afferma la vita e custodisce nell’esistenza. Solo nell’aprirci a quest’origine e nel riconoscerla è possibile essere trasformati, lasciando che la salvezza operi in noi e renda la vita feconda, piena di frutti buoni. La salvezza attraverso la fede consiste nel riconoscere il primato del dono di Dio, come riassume san Paolo: « Per grazia infatti siete stati salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio » (Ef 2,8).
20. La nuova logica della fede è centrata su Cristo. La fede in Cristo ci salva perché è in Lui che la vita si apre radicalmente a un Amore che ci precede e ci trasforma dall’interno, che agisce in noi e con noi. Ciò appare con chiarezza nell’esegesi che l’Apostolo delle genti fa di un testo del Deuteronomio, esegesi che si inserisce nella dinamica più profonda dell’Antico Testamento. Mosè dice al popolo che il comando di Dio non è troppo alto né troppo lontano dall’uomo. Non si deve dire: « Chi salirà in cielo per prendercelo? » o « Chi attraverserà per noi il mare per prendercelo? » (cfr Dt 30,11-14). Questa vicinanza della Parola di Dio viene interpretata da san Paolo come riferita alla presenza di Cristo nel cristiano: « Non dire nel tuo cuore: Chi salirà al cielo? — per farne cioè discendere Cristo —; oppure: Chi scenderà nell’abisso? — per fare cioè risalire Cristo dai morti » (Rm 10,6-7). Cristo è disceso sulla terra ed è risuscitato dai morti; con la sua Incarnazione e Risurrezione, il Figlio di Dio ha abbracciato l’intero cammino dell’uomo e dimora nei nostri cuori attraverso lo Spirito Santo. La fede sa che Dio si è fatto molto vicino a noi, che Cristo ci è stato dato come grande dono che ci trasforma interiormente, che abita in noi, e così ci dona la luce che illumina l’origine e la fine della vita, l’intero arco del cammino umano.
21. Possiamo così capire la novità alla quale la fede ci porta. Il credente è trasformato dall’Amore, a cui si è aperto nella fede, e nel suo aprirsi a questo Amore che gli è offerto, la sua esistenza si dilata oltre sé. San Paolo può affermare: « Non vivo più io, ma Cristo vive in me » (Gal 2,20), ed esortare: « Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori » (Ef 3,17). Nella fede, l’”io” del credente si espande per essere abitato da un Altro, per vivere in un Altro, e così la sua vita si allarga nell’Amore. Qui si situa l’azione propria dello Spirito Santo. Il cristiano può avere gli occhi di Gesù, i suoi sentimenti, la sua disposizione filiale, perché viene reso partecipe del suo Amore, che è lo Spirito. È in questo Amore che si riceve in qualche modo la visione propria di Gesù. Fuori da questa conformazione nell’Amore, fuori della presenza dello Spirito che lo infonde nei nostri cuori (cfr Rm 5,5), è impossibile confessare Gesù come Signore (cfr 1 Cor 12,3).
La forma ecclesiale della fede
22. In questo modo l’esistenza credente diventa esistenza ecclesiale. Quando san Paolo parla ai cristiani di Roma di quell’unico corpo che tutti i credenti sono in Cristo, li esorta a non vantarsi; ognuno deve valutarsi invece « secondo la misura di fede che Dio gli ha dato » (Rm 12,3). Il credente impara a vedere se stesso a partire dalla fede che professa: la figura di Cristo è lo specchio in cui scopre la propria immagine realizzata. E come Cristo abbraccia in sé tutti i credenti, che formano il suo corpo, il cristiano comprende se stesso in questo corpo, in relazione originaria a Cristo e ai fratelli nella fede. L’immagine del corpo non vuole ridurre il credente a semplice parte di un tutto anonimo, a mero elemento di un grande ingranaggio, ma sottolinea piuttosto l’unione vitale di Cristo con i credenti e di tutti i credenti tra loro (cfr Rm 12,4-5). I cristiani sono “uno” (cfr Gal 3,28), senza perdere la loro individualità, e nel servizio agli altri ognuno guadagna fino in fondo il proprio essere. Si capisce allora perché fuori da questo corpo, da questa unità della Chiesa in Cristo, da questa Chiesa che — secondo le parole di Romano Guardini — « è la portatrice storica dello sguardo plenario di Cristo sul mondo »,[16] la fede perde la sua “misura”, non trova più il suo equilibrio, lo spazio necessario per sorreggersi. La fede ha una forma necessariamente ecclesiale, si confessa dall’interno del corpo di Cristo, come comunione concreta dei credenti. È da questo luogo ecclesiale che essa apre il singolo cristiano verso tutti gli uomini. La parola di Cristo, una volta ascoltata e per il suo stesso dinamismo, si trasforma nel cristiano in risposta, e diventa essa stessa parola pronunciata, confessione di fede. San Paolo afferma: « Con il cuore infatti si crede […], e con la bocca si fa la professione di fede… » (Rm 10,10). La fede non è un fatto privato, una concezione individualistica, un’opinione soggettiva, ma nasce da un ascolto ed è destinata a pronunciarsi e a diventare annuncio. Infatti, « come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? » (Rm 10,14). La fede si fa allora operante nel cristiano a partire dal dono ricevuto, dall’Amore che attira verso Cristo (cfr Gal 5,6) e rende partecipi del cammino della Chiesa, pellegrina nella storia verso il compimento. Per chi è stato trasformato in questo modo, si apre un nuovo modo di vedere, la fede diventa luce per i suoi occhi.
CAPITOLO SECONDO
SE NON CREDERETE,
NON COMPRENDERETE 

(cfr Is 7,9)
Fede e verità
23. Se non crederete, non comprenderete (cfr Is 7,9). La versione greca della Bibbia ebraica, la traduzione dei Settanta realizzata in Alessandria d’Egitto, traduceva così le parole del profeta Isaia al re Acaz. In questo modo la questione della conoscenza della verità veniva messa al centro della fede. Nel testo ebraico, tuttavia, leggiamo diversamente. In esso il profeta dice al re: “Se non crederete, non resterete saldi”. C’è qui un gioco di parole con due forme del verbo ’amàn: “crederete” (ta’aminu), e “resterete saldi” (te’amenu). Impaurito dalla potenza dei suoi nemici, il re cerca la sicurezza che gli può dare un’alleanza con il grande impero di Assiria. Il profeta, allora, lo invita ad affidarsi soltanto alla vera roccia che non vacilla, il Dio di Israele. Poiché Dio è affidabile, è ragionevole avere fede in Lui, costruire la propria sicurezza sulla sua Parola. È questo il Dio che Isaia più avanti chiamerà, per due volte, “il Dio-Amen” (cfr Is 65,16), fondamento incrollabile di fedeltà all’alleanza. Si potrebbe pensare che la versione greca della Bibbia, nel tradurre “essere saldo” con “comprendere”, abbia operato un cambiamento profondo del testo, passando dalla nozione biblica di affidamento a Dio a quella greca della comprensione. Tuttavia, questa traduzione, che accettava certamente il dialogo con la cultura ellenistica, non è estranea alla dinamica profonda del testo ebraico. La saldezza che Isaia promette al re passa, infatti, per la comprensione dell’agire di Dio e dell’unità che Egli dà alla vita dell’uomo e alla storia del popolo. Il profeta esorta a comprendere le vie del Signore, trovando nella fedeltà di Dio il piano di saggezza che governa i secoli. Sant’Agostino ha espresso la sintesi del “comprendere” e dell’”essere saldo” nelle sue Confessioni, quando parla della verità, cui ci si può affidare per poter restare in piedi: « Sarò saldo e mi consoliderò in te, […] nella tua verità ».[17] Dal contesto sappiamo che sant’Agostino vuole mostrare il modo in cui questa verità affidabile di Dio è, come emerge nella Bibbia, la sua presenza fedele lungo la storia, la sua capacità di tenere insieme i tempi, raccogliendo la dispersione dei giorni dell’uomo.[18]
24. Il testo di Isaia, letto in questa luce, porta a una conclusione: l’uomo ha bisogno di conoscenza, ha bisogno di verità, perché senza di essa non si sostiene, non va avanti. La fede, senza verità, non salva, non rende sicuri i nostri passi. Resta una bella fiaba, la proiezione dei nostri desideri di felicità, qualcosa che ci accontenta solo nella misura in cui vogliamo illuderci. Oppure si riduce a un bel sentimento, che consola e riscalda, ma resta soggetto al mutarsi del nostro animo, alla variabilità dei tempi, incapace di sorreggere un cammino costante nella vita. Se la fede fosse così, il re Acaz avrebbe ragione a non giocare la sua vita e la sicurezza del suo regno su di un’emozione. Ma proprio per il suo nesso intrinseco con la verità, la fede è capace di offrire una luce nuova, superiore ai calcoli del re, perché essa vede più lontano, perché comprende l’agire di Dio, che è fedele alla sua alleanza e alle sue promesse.
25. Richiamare la connessione della fede con la verità è oggi più che mai necessario, proprio per la crisi di verità in cui viviamo. Nella cultura contemporanea si tende spesso ad accettare come verità solo quella della tecnologia: è vero ciò che l’uomo riesce a costruire e misurare con la sua scienza, vero perché funziona, e così rende più comoda e agevole la vita. Questa sembra oggi l’unica verità certa, l’unica condivisibile con altri, l’unica su cui si può discutere e impegnarsi insieme. Dall’altra parte vi sarebbero poi le verità del singolo, che consistono nell’essere autentici davanti a quello che ognuno sente nel suo interno, valide solo per l’individuo e che non possono essere proposte agli altri con la pretesa di servire il bene comune. La verità grande, la verità che spiega l’insieme della vita personale e sociale, è guardata con sospetto. Non è stata forse questa — ci si domanda — la verità pretesa dai grandi totalitarismi del secolo scorso, una verità che imponeva la propria concezione globale per schiacciare la storia concreta del singolo? Rimane allora solo un relativismo in cui la domanda sulla verità di tutto, che è in fondo anche la domanda su Dio, non interessa più. È logico, in questa prospettiva, che si voglia togliere la connessione della religione con la verità, perché questo nesso sarebbe alla radice del fanatismo, che vuole sopraffare chi non condivide la propria credenza. Possiamo parlare, a questo riguardo, di un grande oblio nel nostro mondo contemporaneo. La domanda sulla verità è, infatti, una questione di memoria, di memoria profonda, perché si rivolge a qualcosa che ci precede e, in questo modo, può riuscire a unirci oltre il nostro “io” piccolo e limitato. È una domanda sull’origine di tutto, alla cui luce si può vedere la meta e così anche il senso della strada comune.
Conoscenza della verità e amore
26. In questa situazione, può la fede cristiana offrire un servizio al bene comune circa il modo giusto di intendere la verità? Per rispondere è necessario riflettere sul tipo di conoscenza proprio della fede. Può aiutarci un’espressione di san Paolo, quando afferma: « Con il cuore si crede » (Rm 10,10). Il cuore, nella Bibbia, è il centro dell’uomo, dove s’intrecciano tutte le sue dimensioni: il corpo e lo spirito; l’interiorità della persona e la sua apertura al mondo e agli altri; l’intelletto, il volere, l’affettività. Ebbene, se il cuore è capace di tenere insieme queste dimensioni, è perché esso è il luogo dove ci apriamo alla verità e all’amore e lasciamo che ci tocchino e ci trasformino nel profondo. La fede trasforma la persona intera, appunto in quanto essa si apre all’amore. È in questo intreccio della fede con l’amore che si comprende la forma di conoscenza propria della fede, la sua forza di convinzione, la sua capacità di illuminare i nostri passi. La fede conosce in quanto è legata all’amore, in quanto l’amore stesso porta una luce. La comprensione della fede è quella che nasce quando riceviamo il grande amore di Dio che ci trasforma interiormente e ci dona occhi nuovi per vedere la realtà.
27. È noto il modo in cui il filosofo Ludwig Wittgenstein ha spiegato la connessione tra la fede e la certezza. Credere sarebbe simile, secondo lui, all’esperienza dell’innamoramento, concepita come qualcosa di soggettivo, improponibile come verità valida per tutti.[19] All’uomo moderno sembra, infatti, che la questione dell’amore non abbia a che fare con il vero. L’amore risulta oggi un’esperienza legata al mondo dei sentimenti incostanti e non più alla verità.
Davvero questa è una descrizione adeguata dell’amore? In realtà, l’amore non si può ridurre a un sentimento che va e viene. Esso tocca, sì, la nostra affettività, ma per aprirla alla persona amata e iniziare così un cammino, che è un uscire dalla chiusura nel proprio io e andare verso l’altra persona, per edificare un rapporto duraturo; l’amore mira all’unione con la persona amata. Si rivela allora in che senso l’amore ha bisogno di verità. Solo in quanto è fondato sulla verità l’amore può perdurare nel tempo, superare l’istante effimero e rimanere saldo per sostenere un cammino comune. Se l’amore non ha rapporto con la verità, è soggetto al mutare dei sentimenti e non supera la prova del tempo. L’amore vero invece unifica tutti gli elementi della nostra persona e diventa una luce nuova verso una vita grande e piena. Senza verità l’amore non può offrire un vincolo solido, non riesce a portare l’”io” al di là del suo isolamento, né a liberarlo dall’istante fugace per edificare la vita e portare frutto.
Se l’amore ha bisogno della verità, anche la verità ha bisogno dell’amore. Amore e verità non si possono separare. Senza amore, la verità diventa fredda, impersonale, oppressiva per la vita concreta della persona. La verità che cerchiamo, quella che offre significato ai nostri passi, ci illumina quando siamo toccati dall’amore. Chi ama capisce che l’amore è esperienza di verità, che esso stesso apre i nostri occhi per vedere tutta la realtà in modo nuovo, in unione con la persona amata. In questo senso, san Gregorio Magno ha scritto che « amor ipse notitia est », l’amore stesso è una conoscenza, porta con sé una logica nuova.[20] Si tratta di un modo relazionale di guardare il mondo, che diventa conoscenza condivisa, visione nella visione dell’altro e visione comune su tutte le cose. Guglielmo di Saint Thierry, nel Medioevo, segue questa tradizione quando commenta un versetto del Cantico dei Cantici in cui l’amato dice all’amata: I tuoi occhi sono occhi di colomba (cfr Ct1,15).[21] Questi due occhi, spiega Guglielmo, sono la ragione credente e l’amore, che diventano un solo occhio per giungere a contemplare Dio, quando l’intelletto si fa « intelletto di un amore illuminato ».[22]
28. Questa scoperta dell’amore come fonte di conoscenza, che appartiene all’esperienza originaria di ogni uomo, trova espressione autorevole nella concezione biblica della fede. Gustando l’amore con cui Dio lo ha scelto e lo ha generato come popolo, Israele arriva a comprendere l’unità del disegno divino, dall’origine al compimento. La conoscenza della fede, per il fatto di nascere dall’amore di Dio che stabilisce l’Alleanza, è conoscenza che illumina un cammino nella storia. È per questo, inoltre, che, nella Bibbia, verità e fedeltà vanno insieme: il Dio vero è il Dio fedele, Colui che mantiene le sue promesse e permette, nel tempo, di comprendere il suo disegno. Attraverso l’esperienza dei profeti, nel dolore dell’esilio e nella speranza di un ritorno definitivo alla città santa, Israele ha intuito che questa verità di Dio si estendeva oltre la propria storia, per abbracciare la storia intera del mondo, a cominciare dalla creazione. La conoscenza della fede illumina non solo il percorso particolare di un popolo, ma il corso intero del mondo creato, dalla sua origine alla sua consumazione.
La fede come ascolto e visione
29. Proprio perché la conoscenza della fede è legata all’alleanza di un Dio fedele, che intreccia un rapporto di amore con l’uomo e gli rivolge la Parola, essa è presentata dalla Bibbia come un ascolto, è associata al senso dell’udito. San Paolo userà una formula diventata classica: fides ex auditu, « la fede viene dall’ascolto » (Rm10,17). La conoscenza associata alla parola è sempre conoscenza personale, che riconosce la voce, si apre ad essa in libertà e la segue in obbedienza. Perciò san Paolo ha parlato dell’”obbedienza della fede” (cfr Rm 1,5; 16,26).[23] La fede è, inoltre, conoscenza legata al trascorrere del tempo, di cui la parola ha bisogno per pronunciarsi: è conoscenza che s’impara solo in un cammino di sequela. L’ascolto aiuta a raffigurare bene il nesso tra conoscenza e amore.
Per quanto concerne la conoscenza della verità, l’ascolto è stato a volte contrapposto alla visione, che sarebbe propria della cultura greca. La luce, se da una parte offre la contemplazione del tutto, cui l’uomo ha sempre aspirato, dall’altra non sembra lasciar spazio alla libertà, perché discende dal cielo e arriva direttamente all’occhio, senza chiedere che l’occhio risponda. Essa, inoltre, sembrerebbe invitare a una contemplazione statica, separata dal tempo concreto in cui l’uomo gode e soffre. Secondo questa concezione, l’approccio biblico alla conoscenza si opporrebbe a quello greco, che, nella ricerca di una comprensione completa del reale, ha collegato la conoscenza alla visione.
È invece chiaro che questa pretesa opposizione non corrisponde al dato biblico. L’Antico Testamento ha combinato ambedue i tipi di conoscenza, perché all’ascolto della Parola di Dio si unisce il desiderio di vedere il suo volto. In questo modo si è potuto sviluppare un dialogo con la cultura ellenistica, dialogo che appartiene al cuore della Scrittura. L’udito attesta la chiamata personale e l’obbedienza, e anche il fatto che la verità si rivela nel tempo; la vista offre la visione piena dell’intero percorso e permette di situarsi nel grande progetto di Dio; senza tale visione disporremmo solo di frammenti isolati di un tutto sconosciuto.
30. La connessione tra il vedere e l’ascoltare, come organi di conoscenza della fede, appare con la massima chiarezza nel Vangelo di Giovanni. Per il quarto Vangelo, credere è ascoltare e, allo stesso tempo, vedere. L’ascolto della fede avviene secondo la forma di conoscenza propria dell’amore: è un ascolto personale, che distingue la voce e riconosce quella del Buon Pastore (cfr Gv 10,3-5); un ascolto che richiede la sequela, come accade con i primi discepoli che, « sentendolo parlare così, seguirono Gesù » (Gv 1,37). D’altra parte, la fede è collegata anche alla visione. A volte, la visione dei segni di Gesù precede la fede, come con i giudei che, dopo la risurrezione di Lazzaro, « alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui » (Gv 11,45). Altre volte, è la fede che porta a una visione più profonda: « Se crederai, vedrai la gloria di Dio » (Gv 11,40). Alla fine, credere e vedere s’intrecciano: « Chi crede in me […] crede in colui che mi ha mandato; chi vede me, vede colui che mi ha mandato » (Gv 12,44-45). Grazie a quest’unione con l’ascolto, il vedere diventa sequela di Cristo, e la fede appare come un cammino dello sguardo, in cui gli occhi si abituano a vedere in profondità. E così, il mattino di Pasqua, si passa da Giovanni che, ancora nel buio, davanti al sepolcro vuoto, “vide e credette” (Gv 20,8); a Maria Maddalena che, ormai, vede Gesù (cfr Gv 20,14) e vuole trattenerlo, ma è invitata a contemplarlo nel suo cammino verso il Padre; fino alla piena confessione della stessa Maddalena davanti ai discepoli: « Ho visto il Signore! » (Gv 20,18).
Come si arriva a questa sintesi tra l’udire e il vedere? Diventa possibile a partire dalla persona concreta di Gesù, che si vede e si ascolta. Egli è la Parola fatta carne, di cui abbiamo contemplato la gloria (cfr Gv 1,14). La luce della fede è quella di un Volto in cui si vede il Padre. Infatti, la verità che la fede coglie è, nel quarto Vangelo, la manifestazione del Padre nel Figlio, nella sua carne e nelle sue opere terrene, verità che si può definire come la “vita luminosa” di Gesù.[24] Ciò significa che la conoscenza della fede non ci invita a guardare una verità puramente interiore. La verità che la fede ci dischiude è una verità centrata sull’incontro con Cristo, sulla contemplazione della sua vita, sulla percezione della sua presenza. In questo senso, san Tommaso d’Aquino parla dell’oculata fides degli Apostoli — fede che vede! — davanti alla visione corporea del Risorto.[25] Hanno visto Gesù risorto con i loro occhi e hanno creduto, hanno, cioè, potuto penetrare nella profondità di quello che vedevano per confessare il Figlio di Dio, seduto alla destra del Padre.
31. Soltanto così, attraverso l’Incarnazione, attraverso la condivisione della nostra umanità, poteva giungere a pienezza la conoscenza propria dell’amore. La luce dell’amore, infatti, nasce quando siamo toccati nel cuore, ricevendo così in noi la presenza interiore dell’amato, che ci permette di riconoscere il suo mistero. Capiamo allora perché, insieme all’ascoltare e al vedere, la fede è, per san Giovanni, un toccare, come afferma nella sua prima Lettera: « Quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto […] e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita… » (1 Gv 1,1). Con la sua Incarnazione, con la sua venuta tra noi, Gesù ci ha toccato e, attraverso i Sacramenti, anche oggi ci tocca; in questo modo, trasformando il nostro cuore, ci ha permesso e ci permette di riconoscerlo e di confessarlo come Figlio di Dio. Con la fede, noi possiamo toccarlo, e ricevere la potenza della sua grazia. Sant’Agostino, commentando il passo dell’emorroissa che tocca Gesù per essere guarita (cfr Lc 8,45-46), afferma: « Toccare con il cuore, questo è credere ».[26] La folla si stringe attorno a Lui, ma non lo raggiunge con il tocco personale della fede, che riconosce il suo mistero, il suo essere Figlio che manifesta il Padre. Solo quando siamo configurati a Gesù, riceviamo occhi adeguati per vederlo.
Il dialogo tra fede e ragione
32. La fede cristiana, in quanto annuncia la verità dell’amore totale di Dio e apre alla potenza di questo amore, arriva al centro più profondo dell’esperienza di ogni uomo, che viene alla luce grazie all’amore ed è chiamato ad amare per rimanere nella luce. Mossi dal desiderio di illuminare tutta la realtà a partire dall’amore di Dio manifestato in Gesù, cercando di amare con quello stesso amore, i primi cristiani trovarono nel mondo greco, nella sua fame di verità, un partner idoneo per il dialogo. L’incontro del messaggio evangelico con il pensiero filosofico del mondo antico costituì un passaggio decisivo affinché il Vangelo arrivasse a tutti i popoli, e favorì una feconda interazione tra fede e ragione, che si è andata sviluppando nel corso dei secoli, fino ai nostri giorni. Il beato Giovanni Paolo II, nella sua Lettera enciclica Fides et ratio, ha mostrato come fede e ragione si rafforzino a vicenda.[27] Quando troviamo la luce piena dell’amore di Gesù, scopriamo che in ogni nostro amore era presente un barlume di quella luce e capiamo qual era il suo traguardo ultimo. E, nello stesso tempo, il fatto che il nostro amore porti con sé una luce, ci aiuta a vedere il cammino dell’amore verso la pienezza di donazione totale del Figlio di Dio per noi. In questo movimento circolare, la luce della fede illumina tutti i nostri rapporti umani, che possono essere vissuti in unione con l’amore e la tenerezza di Cristo.
33. Nella vita di sant’Agostino, troviamo un esempio significativo di questo cammino in cui la ricerca della ragione, con il suo desiderio di verità e di chiarezza, è stata integrata nell’orizzonte della fede, da cui ha ricevuto nuova comprensione. Da una parte, egli accoglie la filosofia greca della luce con la sua insistenza sulla visione. Il suo incontro con il neoplatonismo gli ha fatto conoscere il paradigma della luce, che discende dall’alto per illuminare le cose, ed è così un simbolo di Dio. In questo modo sant’Agostino ha capito la trascendenza divina e ha scoperto che tutte le cose hanno in sé una trasparenza, che potevano cioè riflettere la bontà di Dio, il Bene. Si è così liberato dal manicheismo in cui prima viveva e che lo inclinava a pensare che il male e il bene lottassero continuamente tra loro, confondendosi e mescolandosi, senza contorni chiari. Capire che Dio è luce gli ha dato un orientamento nuovo nell’esistenza, la capacità di riconoscere il male di cui era colpevole e di volgersi verso il bene.
D’altra parte, però, nell’esperienza concreta di sant’Agostino, che egli stesso racconta nelle sue Confessioni, il momento decisivo nel suo cammino di fede non è stato quello di una visione di Dio, oltre questo mondo, ma piuttosto quello dell’ascolto, quando nel giardino sentì una voce che gli diceva: “Prendi e leggi”; egli prese il volume con le Lettere di san Paolo soffermandosi sul capitolo tredicesimo di quella ai Romani.[28] Appariva così il Dio personale della Bibbia, capace di parlare all’uomo, di scendere a vivere con lui e di accompagnare il suo cammino nella storia, manifestandosi nel tempo dell’ascolto e della risposta.
E tuttavia, questo incontro con il Dio della Parola non ha portato sant’Agostino a rifiutare la luce e la visione. Egli ha integrato ambedue le prospettive, guidato sempre dalla rivelazione dell’amore di Dio in Gesù. E così ha elaborato una filosofia della luce che accoglie in sé la reciprocità propria della parola e apre uno spazio alla libertà dello sguardo verso la luce. Come alla parola corrisponde una risposta libera, così la luce trova come risposta un’immagine che la riflette. Sant’Agostino può riferirsi allora, associando ascolto e visione, alla « parola che risplende all’interno dell’uomo ».[29] In questo modo la luce diventa, per così dire, la luce di una parola, perché è la luce di un Volto personale, una luce che, illuminandoci, ci chiama e vuole riflettersi nel nostro volto per risplendere dal di dentro di noi. D’altronde, il desiderio della visione del tutto, e non solo dei frammenti della storia, rimane presente e si compirà alla fine, quando l’uomo, come dice il Santo di Ippona, vedrà e amerà.[30] E questo, non perché sarà capace di possedere tutta la luce, che sempre sarà inesauribile, ma perché entrerà, tutto intero, nella luce.
34. La luce dell’amore, propria della fede, può illuminare gli interrogativi del nostro tempo sulla verità. La verità oggi è ridotta spesso ad autenticità soggettiva del singolo, valida solo per la vita individuale. Una verità comune ci fa paura, perché la identifichiamo con l’imposizione intransigente dei totalitarismi. Se però la verità è la verità dell’amore, se è la verità che si schiude nell’incontro personale con l’Altro e con gli altri, allora resta liberata dalla chiusura nel singolo e può fare parte del bene comune. Essendo la verità di un amore, non è verità che s’imponga con la violenza, non è verità che schiaccia il singolo. Nascendo dall’amore può arrivare al cuore, al centro personale di ogni uomo. Risulta chiaro così che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l’altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall’irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti.
D’altra parte, la luce della fede, in quanto unita alla verità dell’amore, non è aliena al mondo materiale, perché l’amore si vive sempre in corpo e anima; la luce della fede è luce incarnata, che procede dalla vita luminosa di Gesù. Essa illumina anche la materia, confida nel suo ordine, conosce che in essa si apre un cammino di armonia e di comprensione sempre più ampio. Lo sguardo della scienza riceve così un beneficio dalla fede: questa invita lo scienziato a rimanere aperto alla realtà, in tutta la sua ricchezza inesauribile. La fede risveglia il senso critico, in quanto impedisce alla ricerca di essere soddisfatta nelle sue formule e la aiuta a capire che la natura è sempre più grande. Invitando alla meraviglia davanti al mistero del creato, la fede allarga gli orizzonti della ragione per illuminare meglio il mondo che si schiude agli studi della scienza.
La fede e la ricerca di Dio
35. La luce della fede in Gesù illumina anche il cammino di tutti coloro che cercano Dio, e offre il contributo proprio del cristianesimo nel dialogo con i seguaci delle diverse religioni. La Lettera agli Ebrei ci parla della testimonianza dei giusti che, prima dell’Alleanza con Abramo, già cercavano Dio con fede. Di Enoc si dice che « fu dichiarato persona gradita a Dio » (Eb 11,5), cosa impossibile senza la fede, perché chi « si avvicina a Dio, deve credere che egli esiste e che ricompensa coloro che lo cercano » (Eb 11,6). Possiamo così capire che il cammino dell’uomo religioso passa per la confessione di un Dio che si prende cura di lui e che non è impossibile trovare. Quale altra ricompensa potrebbe offrire Dio a coloro che lo cercano, se non lasciarsi incontrare? Prima ancora, troviamo la figura di Abele, di cui pure si loda la fede a causa della quale Dio ha gradito i suoi doni, l’offerta dei primogeniti dei suoi greggi (cfr Eb 11,4). L’uomo religioso cerca di riconoscere i segni di Dio nelle esperienze quotidiane della sua vita, nel ciclo delle stagioni, nella fecondità della terra e in tutto il movimento del cosmo. Dio è luminoso, e può essere trovato anche da coloro che lo cercano con cuore sincero.
Immagine di questa ricerca sono i Magi, guidati dalla stella fino a Betlemme (cfr Mt 2,1-12). Per loro la luce di Dio si è mostrata come cammino, come stella che guida lungo una strada di scoperte. La stella parla così della pazienza di Dio con i nostri occhi, che devono abituarsi al suo splendore. L’uomo religioso è in cammino e deve essere pronto a lasciarsi guidare, a uscire da sé per trovare il Dio che sorprende sempre. Questo rispetto di Dio per gli occhi dell’uomo ci mostra che, quando l’uomo si avvicina a Lui, la luce umana non si dissolve nell’immensità luminosa di Dio, come se fosse una stella inghiottita dall’alba, ma diventa più brillante quanto è più prossima al fuoco originario, come lo specchio che riflette lo splendore. La confessione cristiana di Gesù, unico salvatore, afferma che tutta la luce di Dio si è concentrata in Lui, nella sua “vita luminosa”, in cui si svela l’origine e la consumazione della storia.[31] Non c’è nessuna esperienza umana, nessun itinerario dell’uomo verso Dio, che non possa essere accolto, illuminato e purificato da questa luce. Quanto più il cristiano s’immerge nel cerchio aperto dalla luce di Cristo, tanto più è capace di capire e di accompagnare la strada di ogni uomo verso Dio.
Poiché la fede si configura come via, essa riguarda anche la vita degli uomini che, pur non credendo, desiderano credere e non cessano di cercare. Nella misura in cui si aprono all’amore con cuore sincero e si mettono in cammino con quella luce che riescono a cogliere, già vivono, senza saperlo, nella strada verso la fede. Essi cercano di agire come se Dio esistesse, a volte perché riconoscono la sua importanza per trovare orientamenti saldi nella vita comune, oppure perché sperimentano il desiderio di luce in mezzo al buio, ma anche perché, nel percepire quanto è grande e bella la vita, intuiscono che la presenza di Dio la renderebbe ancora più grande. Racconta sant’Ireneo di Lione che Abramo, prima di ascoltare la voce di Dio, già lo cercava « nell’ardente desiderio del suo cuore », e « percorreva tutto il mondo, domandandosi dove fosse Dio », finché « Dio ebbe pietà di colui che, solo, lo cercava nel silenzio ».[32] Chi si mette in cammino per praticare il bene si avvicina già a Dio, è già sorretto dal suo aiuto, perché è proprio della dinamica della luce divina illuminare i nostri occhi quando camminiamo verso la pienezza dell’amore.
Fede e teologia
36. Poiché la fede è una luce, ci invita a inoltrarci in essa, a esplorare sempre di più l’orizzonte che illumina, per conoscere meglio ciò che amiamo. Da questo desiderio nasce la teologia cristiana. È chiaro allora che la teologia è impossibile senza la fede e che essa appartiene al movimento stesso della fede, che cerca l’intelligenza più profonda dell’autorivelazione di Dio, culminata nel Mistero di Cristo. La prima conseguenza è che nella teologia non si dà solo uno sforzo della ragione per scrutare e conoscere, come nelle scienze sperimentali. Dio non si può ridurre ad oggetto. Egli è Soggetto che si fa conoscere e si manifesta nel rapporto da persona a persona. La fede retta orienta la ragione ad aprirsi alla luce che viene da Dio, affinché essa, guidata dall’amore per la verità, possa conoscere Dio in modo più profondo. I grandi dottori e teologi medievali hanno indicato che la teologia, come scienza della fede, è una partecipazione alla conoscenza che Dio ha di se stesso. La teologia, allora, non è soltanto parola su Dio, ma prima di tutto accoglienza e ricerca di un’intelligenza più profonda di quella parola che Dio ci rivolge, parola che Dio pronuncia su se stesso, perché è un dialogo eterno di comunione, e ammette l’uomo all’interno di questo dialogo.[33] Fa parte allora della teologia l’umiltà che si lascia “toccare” da Dio, riconosce i suoi limiti di fronte al Mistero e si spinge ad esplorare, con la disciplina propria della ragione, le insondabili ricchezze di questo Mistero.
La teologia poi condivide la forma ecclesiale della fede; la sua luce è la luce del soggetto credente che è la Chiesa. Ciò implica, da una parte, che la teologia sia al servizio della fede dei cristiani, si metta umilmente a custodire e ad approfondire il credere di tutti, soprattutto dei più semplici. Inoltre, la teologia, poiché vive della fede, non consideri il Magistero del Papa e dei Vescovi in comunione con lui come qualcosa di estrinseco, un limite alla sua libertà, ma, al contrario, come uno dei suoi momenti interni, costitutivi, in quanto il Magistero assicura il contatto con la fonte originaria, e offre dunque la certezza di attingere alla Parola di Cristo nella sua integrità.
CAPITOLO TERZO
VI TRASMETTO
QUELLO CHE HO RICEVUTO
(cfr 1 Cor 15,3)
La Chiesa, madre della nostra fede
37. Chi si è aperto all’amore di Dio, ha ascoltato la sua voce e ha ricevuto la sua luce, non può tenere questo dono per sé. Poiché la fede è ascolto e visione, essa si trasmette anche come parola e come luce. Parlando ai Corinzi, l’Apostolo Paolo ha usato proprio queste due immagini. Da un lato, egli dice: « Animati tuttavia da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: Ho creduto, perciò ho parlato, anche noi crediamo e perciò parliamo » (2 Cor 4,13). La parola ricevuta si fa risposta, confessione e, in questo modo, risuona per gli altri, invitandoli a credere. Dall’altro, san Paolo si riferisce anche alla luce: « Riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine » (2 Cor 3,18). È una luce che si rispecchia di volto in volto, come Mosè portava in sé il riflesso della gloria di Dio dopo aver parlato con Lui: « [Dio] rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo » (2 Cor 4,6). La luce di Gesù brilla, come in uno specchio, sul volto dei cristiani e così si diffonde, così arriva fino a noi, perché anche noi possiamo partecipare a questa visione e riflettere ad altri la sua luce, come nella liturgia di Pasqua la luce del cero accende tante altre candele. La fede si trasmette, per così dire, nella forma del contatto, da persona a persona, come una fiamma si accende da un’altra fiamma. I cristiani, nella loro povertà, piantano un seme così fecondo che diventa un grande albero ed è capace di riempire il mondo di frutti.
38. La trasmissione della fede, che brilla per tutti gli uomini di tutti i luoghi, passa anche attraverso l’asse del tempo, di generazione in generazione. Poiché la fede nasce da un incontro che accade nella storia e illumina il nostro cammino nel tempo, essa si deve trasmettere lungo i secoli. È attraverso una catena ininterrotta di testimonianze che arriva a noi il volto di Gesù. Come è possibile questo? Come essere sicuri di attingere al “vero Gesù”, attraverso i secoli? Se l’uomo fosse un individuo isolato, se volessimo partire soltanto dall’”io” individuale, che vuole trovare in sé la sicurezza della sua conoscenza, questa certezza sarebbe impossibile. Non posso vedere da me stesso quello che è accaduto in un’epoca così distante da me. Non è questo, tuttavia, l’unico modo in cui l’uomo conosce. La persona vive sempre in relazione. Viene da altri, appartiene ad altri, la sua vita si fa più grande nell’incontro con altri. E anche la propria conoscenza, la stessa coscienza di sé, è di tipo relazionale, ed è legata ad altri che ci hanno preceduto: in primo luogo i nostri genitori, che ci hanno dato la vita e il nome. Il linguaggio stesso, le parole con cui interpretiamo la nostra vita e la nostra realtà, ci arriva attraverso altri, preservato nella memoria viva di altri. La conoscenza di noi stessi è possibile solo quando partecipiamo a una memoria più grande. Avviene così anche nella fede, che porta a pienezza il modo umano di comprendere. Il passato della fede, quell’atto di amore di Gesù che ha generato nel mondo una nuova vita, ci arriva nella memoria di altri, dei testimoni, conservato vivo in quel soggetto unico di memoria che è la Chiesa. La Chiesa è una Madre che ci insegna a parlare il linguaggio della fede. San Giovanni ha insistito su quest’aspetto nel suo Vangelo, unendo assieme fede e memoria, e associando ambedue all’azione dello Spirito Santo che, come dice Gesù, « vi ricorderà tutto » (Gv 14,26). L’Amore che è lo Spirito, e che dimora nella Chiesa, mantiene uniti tra di loro tutti i tempi e ci rende contemporanei di Gesù, diventando così la guida del nostro camminare nella fede.
39. È impossibile credere da soli. La fede non è solo un’opzione individuale che avviene nell’interiorità del credente, non è rapporto isolato tra l’”io” del fedele e il “Tu” divino, tra il soggetto autonomo e Dio. Essa si apre, per sua natura, al “noi”, avviene sempre all’interno della comunione della Chiesa. La forma dialogata del Credo, usata nella liturgia battesimale, ce lo ricorda. Il credere si esprime come risposta a un invito, ad una parola che deve essere ascoltata e non procede da me, e per questo si inserisce all’interno di un dialogo, non può essere una mera confessione che nasce dal singolo. È possibile rispondere in prima persona, “credo”, solo perché si appartiene a una comunione grande, solo perché si dice anche “crediamo”. Questa apertura al “noi” ecclesiale avviene secondo l’apertura propria dell’amore di Dio, che non è solo rapporto tra Padre e Figlio, tra “io” e “tu”, ma nello Spirito è anche un “noi”, una comunione di persone. Ecco perché chi crede non è mai solo, e perché la fede tende a diffondersi, ad invitare altri alla sua gioia. Chi riceve la fede scopre che gli spazi del suo “io” si allargano, e si generano in lui nuove relazioni che arricchiscono la vita. Tertulliano l’ha espresso con efficacia parlando del catecumeno, che “dopo il lavacro della nuova nascita” è accolto nella casa della Madre per stendere le mani e pregare, insieme ai fratelli, il Padre nostro, come accolto in una nuova famiglia.[34]
I Sacramenti e la trasmissione della fede
40. La Chiesa, come ogni famiglia, trasmette ai suoi figli il contenuto della sua memoria. Come farlo, in modo che niente si perda e che, al contrario, tutto si approfondisca sempre più nell’eredità della fede? È attraverso la Tradizione Apostolica conservata nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo, che noi abbiamo un contatto vivo con la memoria fondante. E quanto è stato trasmesso dagli Apostoli — come afferma il Concilio Vaticano II — « racchiude tutto quello che serve per vivere la vita santa e per accrescere la fede del Popolo di Dio, e così nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto la Chiesa perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede ».[35]
La fede, infatti, ha bisogno di un ambito in cui si possa testimoniare e comunicare, e che questo sia corrispondente e proporzionato a ciò che si comunica. Per trasmettere un contenuto meramente dottrinale, un’idea, forse basterebbe un libro, o la ripetizione di un messaggio orale. Ma ciò che si comunica nella Chiesa, ciò che si trasmette nella sua Tradizione vivente, è la luce nuova che nasce dall’incontro con il Dio vivo, una luce che tocca la persona nel suo centro, nel cuore, coinvolgendo la sua mente, il suo volere e la sua affettività, aprendola a relazioni vive nella comunione con Dio e con gli altri. Per trasmettere tale pienezza esiste un mezzo speciale, che mette in gioco tutta la persona, corpo e spirito, interiorità e relazioni. Questo mezzo sono i Sacramenti, celebrati nella liturgia della Chiesa. In essi si comunica una memoria incarnata, legata ai luoghi e ai tempi della vita, associata a tutti i sensi; in essi la persona è coinvolta, in quanto membro di un soggetto vivo, in un tessuto di relazioni comunitarie. Per questo, se è vero che i Sacramenti sono i Sacramenti della fede,[36] si deve anche dire che la fede ha una struttura sacramentale. Il risveglio della fede passa per il risveglio di un nuovo senso sacramentale della vita dell’uomo e dell’esistenza cristiana, mostrando come il visibile e il materiale si aprono verso il mistero dell’eterno.
41. La trasmissione della fede avviene in primo luogo attraverso il Battesimo. Potrebbe sembrare che il Battesimo sia solo un modo per simbolizzare la confessione di fede, un atto pedagogico per chi ha bisogno di immagini e gesti, ma da cui, in fondo, si potrebbe prescindere. Una parola di san Paolo, a proposito del Battesimo, ci ricorda che non è così. Egli afferma che « per mezzo del battesimo siamo […] sepolti insieme a Cristo nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova » (Rm 6,4). Nel Battesimo diventiamo nuova creatura e figli adottivi di Dio. L’Apostolo afferma poi che il cristiano è stato affidato a una “forma di insegnamento” (typos didachés), cui obbedisce di cuore (cfr Rm 6,17). Nel Battesimo l’uomo riceve anche una dottrina da professare e una forma concreta di vita che richiede il coinvolgimento di tutta la sua persona e lo incammina verso il bene. Viene trasferito in un ambito nuovo, affidato a un nuovo ambiente, a un nuovo modo di agire comune, nella Chiesa. Il Battesimo ci ricorda così che la fede non è opera dell’individuo isolato, non è un atto che l’uomo possa compiere contando solo sulle proprie forze, ma deve essere ricevuta, entrando nella comunione ecclesiale che trasmette il dono di Dio: nessuno battezza se stesso, così come nessuno nasce da solo all’esistenza. Siamo stati battezzati.
42. Quali sono gli elementi battesimali che ci introducono in questa nuova “forma di insegnamento”? Sul catecumeno s’invoca in primo luogo il nome della Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo. Si offre così fin dall’inizio una sintesi del cammino della fede. Il Dio che ha chiamato Abramo e ha voluto chiamarsi suo Dio; il Dio che ha rivelato il suo nome a Mosè; il Dio che nel consegnarci suo Figlio ci ha rivelato pienamente il mistero del suo Nome, dona al battezzato una nuova identità filiale. Appare in questo modo il senso dell’azione che si compie nel Battesimo, l’immersione nell’acqua: l’acqua è, allo stesso tempo, simbolo di morte, che ci invita a passare per la conversione dell’”io”, in vista della sua apertura a un “Io” più grande; ma è anche simbolo di vita, del grembo in cui rinasciamo seguendo Cristo nella sua nuova esistenza. In questo modo, attraverso l’immersione nell’acqua, il Battesimo ci parla della struttura incarnata della fede. L’azione di Cristo ci tocca nella nostra realtà personale, trasformandoci radicalmente, rendendoci figli adottivi di Dio, partecipi della natura divina; modifica così tutti i nostri rapporti, la nostra situazione concreta nel mondo e nel cosmo, aprendoli alla sua stessa vita di comunione. Questo dinamismo di trasformazione proprio del Battesimo ci aiuta a cogliere l’importanza del catecumenato, che oggi, anche nelle società di antiche radici cristiane, nelle quali un numero crescente di adulti si avvicina al sacramento battesimale, riveste un’importanza singolare per la nuova evangelizzazione. È la strada di preparazione al Battesimo, alla trasformazione dell’intera esistenza in Cristo.
Per comprendere la connessione tra Battesimo e fede, ci può essere di aiuto ricordare un testo del profeta Isaia, che è stato associato al Battesimo nell’antica letteratura cristiana: « Fortezze rocciose saranno il suo rifugio […] la sua acqua sarà assicurata » (Is 33,16).[37] Il battezzato, riscattato dall’acqua della morte, poteva ergersi in piedi sulla “roccia forte”, perché aveva trovato la saldezza cui affidarsi. Così, l’acqua di morte si è trasformata in acqua di vita. Il testo greco la descriveva come acqua pistós, acqua “fedele”. L’acqua del Battesimo è fedele perché ad essa ci si può affidare, perché la sua corrente immette nella dinamica di amore di Gesù, fonte di sicurezza per il nostro cammino nella vita.
43. La struttura del Battesimo, la sua configurazione come rinascita, in cui riceviamo un nuovo nome e una nuova vita, ci aiuta a capire il senso e l’importanza del Battesimo dei bambini. Il bambino non è capace di un atto libero che accolga la fede, non può confessarla ancora da solo, e proprio per questo essa è confessata dai suoi genitori e dai padrini in suo nome. La fede è vissuta all’interno della comunità della Chiesa, è inserita in un “noi” comune. Così, il bambino può essere sostenuto da altri, dai suoi genitori e padrini, e può essere accolto nella loro fede, che è la fede della Chiesa, simbolizzata dalla luce che il padre attinge dal cero nella liturgia battesimale. Questa struttura del Battesimo evidenzia l’importanza della sinergia tra la Chiesa e la famiglia nella trasmissione della fede. I genitori sono chiamati, secondo una parola di sant’Agostino, non solo a generare i figli alla vita, ma a portarli a Dio affinché, attraverso il Battesimo, siano rigenerati come figli di Dio, ricevano il dono della fede.[38] Così, insieme alla vita, viene dato loro l’orientamento fondamentale dell’esistenza e la sicurezza di un futuro buono, orientamento che verrà ulteriormente corroborato nel Sacramento della Confermazione con il sigillo dello Spirito Santo.
44. La natura sacramentale della fede trova la sua espressione massima nell’Eucaristia. Essa è nutrimento prezioso della fede, incontro con Cristo presente in modo reale con l’atto supremo di amore, il dono di Se stesso che genera vita.
Nell’Eucaristia troviamo l’incrocio dei due assi su cui la fede percorre il suo cammino. Da una parte, l’asse della storia: l’Eucaristia è atto di memoria, attualizzazione del mistero, in cui il passato, come evento di morte e risurrezione, mostra la sua capacità di aprire al futuro, di anticipare la pienezza finale. La liturgia ce lo ricorda con il suo hodie, l’”oggi” dei misteri della salvezza. D’altra parte, si trova qui anche l’asse che conduce dal mondo visibile verso l’invisibile. Nell’Eucaristia impariamo a vedere la profondità del reale. Il pane e il vino si trasformano nel corpo e sangue di Cristo, che si fa presente nel suo cammino pasquale verso il Padre: questo movimento ci introduce, corpo e anima, nel movimento di tutto il creato verso la sua pienezza in Dio.
45. Nella celebrazione dei Sacramenti, la Chiesa trasmette la sua memoria, in particolare, con la professione di fede. In essa, non si tratta tanto di prestare l’assenso a un insieme di verità astratte. Al contrario, nella confessione di fede tutta la vita entra in un cammino verso la comunione piena con il Dio vivente. Possiamo dire che nel Credo il credente viene invitato a entrare nel mistero che professa e a lasciarsi trasformare da ciò che professa. Per capire il senso di questa affermazione, pensiamo anzitutto al contenuto del Credo. Esso ha una struttura trinitaria: il Padre e il Figlio si uniscono nello Spirito di amore. Il credente afferma così che il centro dell’essere, il segreto più profondo di tutte le cose, è la comunione divina. Inoltre, il Credo contiene anche una confessione cristologica: si ripercorrono i misteri della vita di Gesù, fino alla sua Morte, Risurrezione e Ascensione al Cielo, nell’attesa della sua venuta finale nella gloria. Si dice, dunque, che questo Dio comunione, scambio di amore tra Padre e Figlio nello Spirito, è capace di abbracciare la storia dell’uomo, di introdurlo nel suo dinamismo di comunione, che ha nel Padre la sua origine e la sua mèta finale. Colui che confessa la fede, si vede coinvolto nella verità che confessa. Non può pronunciare con verità le parole del Credo, senza essere per ciò stesso trasformato, senza immettersi nella storia di amore che lo abbraccia, che dilata il suo essere rendendolo parte di una comunione grande, del soggetto ultimo che pronuncia il Credo e che è la Chiesa. Tutte le verità che si credono dicono il mistero della nuova vita della fede come cammino di comunione con il Dio vivente.
Fede, preghiera e Decalogo
46. Altri due elementi sono essenziali nella trasmissione fedele della memoria della Chiesa. In primo luogo, la preghiera del Signore, il Padre nostro. In essa il cristiano impara a condividere la stessa esperienza spirituale di Cristo e incomincia a vedere con gli occhi di Cristo. A partire da Colui che è Luce da Luce, dal Figlio Unigenito del Padre, conosciamo Dio anche noi e possiamo accendere in altri il desiderio di avvicinarsi a Lui.
È altrettanto importante, inoltre, la connessione tra la fede e il Decalogo. La fede, abbiamo detto, appare come un cammino, una strada da percorrere, aperta dall’incontro con il Dio vivente. Per questo, alla luce della fede, dell’affidamento totale al Dio che salva, il Decalogo acquista la sua verità più profonda, contenuta nelle parole che introducono i dieci comandamenti: « Io sono il tuo Dio che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto » (Es 20,2). Il Decalogo non è un insieme di precetti negativi, ma di indicazioni concrete per uscire dal deserto dell’ “io” autoreferenziale, chiuso in se stesso, ed entrare in dialogo con Dio, lasciandosi abbracciare dalla sua misericordia per portare la sua misericordia. La fede confessa così l’amore di Dio, origine e sostegno di tutto, si lascia muovere da questo amore per camminare verso la pienezza della comunione con Dio. Il Decalogo appare come il cammino della gratitudine, della risposta di amore, possibile perché, nella fede, ci siamo aperti all’esperienza dell’amore trasformante di Dio per noi. E questo cammino riceve una nuova luce da quanto Gesù insegna nel Discorso della Montagna (cfr Mt 5-7).
Ho toccato così i quattro elementi che riassumono il tesoro di memoria che la Chiesa trasmette: la Confessione di fede, la celebrazione dei Sacramenti, il cammino del Decalogo, la preghiera. La catechesi della Chiesa si è strutturata tradizionalmente attorno ad essi, incluso il Catechismo della Chiesa Cattolica, strumento fondamentale per quell’atto unitario con cui la Chiesa comunica il contenuto intero della fede, « tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede ».[39]
L’unità e l’integrità della fede
47. L’unità della Chiesa, nel tempo e nello spazio, è collegata all’unità della fede: « Un solo corpo e un solo spirito […] una sola fede » (Ef 4, 4-5).Oggi può sembrare realizzabile un’unione degli uomini in un impegno comune, nel volersi bene, nel condividere una stessa sorte, in una meta comune. Ma ci risulta molto difficile concepire un’unità nella stessa verità. Ci sembra che un’unione del genere si opponga alla libertà del pensiero e all’autonomia del soggetto. L’esperienza dell’amore ci dice invece che proprio nell’amore è possibile avere una visione comune, che in esso impariamo a vedere la realtà con gli occhi dell’altro, e che ciò non ci impoverisce, ma arricchisce il nostro sguardo. L’amore vero, a misura dell’amore divino, esige la verità e nello sguardo comune della verità, che è Gesù Cristo, diventa saldo e profondo. Questa è anche la gioia della fede, l’unità di visione in un solo corpo e in un solo spirito. In questo senso san Leone Magno poteva affermare: « Se la fede non è una, non è fede ».[40]
Qual è il segreto di questa unità? La fede è “una”, in primo luogo, per l’unità del Dio conosciuto e confessato. Tutti gli articoli di fede si riferiscono a Lui, sono vie per conoscere il suo essere e il suo agire, e per questo possiedono un’unità superiore a qualsiasi altra che possiamo costruire con il nostro pensiero, possiedono l’unità che ci arricchisce, perché si comunica a noi e ci rende “uno”.
La fede è una, inoltre, perché si rivolge all’unico Signore, alla vita di Gesù, alla sua storia concreta che condivide con noi. Sant’Ireneo di Lione l’ha chiarito in opposizione agli eretici gnostici. Costoro sostenevano l’esistenza di due tipi di fede, una fede rozza, la fede dei semplici, imperfetta, che si manteneva al livello della carne di Cristo e della contemplazione dei suoi misteri; e un altro tipo di fede più profondo e perfetto, la fede vera riservata a una piccola cerchia di iniziati che si elevava con l’intelletto al di là della carne di Gesù verso i misteri della divinità ignota. Davanti a questa pretesa, che continua ad avere il suo fascino e i suoi seguaci anche ai nostri giorni, sant’Ireneo ribadisce che la fede è una sola, perché passa sempre per il punto concreto dell’Incarnazione, senza superare mai la carne e la storia di Cristo, dal momento che Dio si è voluto rivelare pienamente in essa. È per questo che non c’è differenza nella fede tra “colui che è in grado di parlarne più a lungo” e “colui che ne parla poco”, tra colui che è superiore e chi è meno capace: né il primo può ampliare la fede, né il secondo diminuirla.[41]
Infine, la fede è una perché è condivisa da tutta la Chiesa, che è un solo corpo e un solo Spirito. Nella comunione dell’unico soggetto che è la Chiesa, riceviamo uno sguardo comune. Confessando la stessa fede poggiamo sulla stessa roccia, siamo trasformati dallo stesso Spirito d’amore, irradiamo un’unica luce e abbiamo un unico sguardo per penetrare la realtà.
48. Dato che la fede è una sola, deve essere confessata in tutta la sua purezza e integrità. Proprio perché tutti gli articoli di fede sono collegati in unità, negare uno di essi, anche di quelli che sembrerebbero meno importanti, equivale a danneggiare il tutto. Ogni epoca può trovare punti della fede più facili o difficili da accettare: per questo è importante vigilare perché si trasmetta tutto il deposito della fede (cfr 1 Tm 6,20), perché si insista opportunamente su tutti gli aspetti della confessione di fede. Infatti, in quanto l’unità della fede è l’unità della Chiesa, togliere qualcosa alla fede è togliere qualcosa alla verità della comunione. I Padri hanno descritto la fede come un corpo, il corpo della verità, con diverse membra, in analogia con il corpo di Cristo e con il suo prolungamento nella Chiesa.[42] L’integrità della fede è stata legata anche all’immagine della Chiesa vergine, alla sua fedeltà nell’amore sponsale per Cristo: danneggiare la fede significa danneggiare la comunione con il Signore.[43] L’unità della fede è dunque quella di un organismo vivente, come ha ben rilevato il beato John Henry Newman quando enumerava, tra le note caratteristiche per distinguere la continuità della dottrina nel tempo, il suo potere di assimilare in sé tutto ciò che trova, nei diversi ambiti in cui si fa presente, nelle diverse culture che incontra,[44] tutto purificando e portando alla sua migliore espressione. La fede si mostra così universale, cattolica, perché la sua luce cresce per illuminare tutto il cosmo e tutta la storia.
49. Come servizio all’unità della fede e alla sua trasmissione integra, il Signore ha dato alla Chiesa il dono della successione apostolica. Per suo tramite, risulta garantita la continuità della memoria della Chiesa ed è possibile attingere con certezza alla fonte pura da cui la fede sorge. La garanzia della connessione con l’origine è data dunque da persone vive, e ciò corrisponde alla fede viva che la Chiesa trasmette. Essa poggia sulla fedeltà dei testimoni che sono stati scelti dal Signore per tale compito. Per questo il Magistero parla sempre in obbedienza alla Parola originaria su cui si basa la fede ed è affidabile perché si affida alla Parola che ascolta, custodisce ed espone.[45] Nel discorso di addio agli anziani di Efeso, a Mileto, raccolto da san Luca negli Atti degli Apostoli, san Paolo testimonia di aver compiuto l’incarico affidatogli dal Signore di annunciare « tutta la volontà di Dio » (At 20,27). È grazie al Magistero della Chiesa che ci può arrivare integra questa volontà, e con essa la gioia di poterla compiere in pienezza.
CAPITOLO QUARTO
DIO PREPARA PER LORO UNA CITTÀ
(cfr Eb 11,16)
La fede e il bene comune
50. Nel presentare la storia dei Patriarchi e dei giusti dell’Antico Testamento, la Lettera agli Ebrei pone in rilievo un aspetto essenziale della loro fede. Essa non si configura solo come un cammino, ma anche come l’edificazione, la preparazione di un luogo nel quale l’uomo possa abitare insieme con gli altri. Il primo costruttore è Noè che, nell’arca, riesce a salvare la sua famiglia (cfr Eb 11,7). Appare poi Abramo, di cui si dice che, per fede, abitava in tende, aspettando la città dalle salde fondamenta (cfr Eb 11,9-10). Sorge, dunque, in rapporto alla fede, una nuova affidabilità, una nuova solidità, che solo Dio può donare. Se l’uomo di fede poggia sul Dio-Amen, sul Dio fedele (cfr Is 65,16), e così diventa egli stesso saldo, possiamo aggiungere che la saldezza della fede si riferisce anche alla città che Dio sta preparando per l’uomo. La fede rivela quanto possono essere saldi i vincoli tra gli uomini, quando Dio si rende presente in mezzo ad essi. Non evoca soltanto una solidità interiore, una convinzione stabile del credente; la fede illumina anche i rapporti tra gli uomini, perché nasce dall’amore e segue la dinamica dell’amore di Dio. Il Dio affidabile dona agli uomini una città affidabile.
51. Proprio grazie alla sua connessione con l’amore (cfr Gal 5,6), la luce della fede si pone al servizio concreto della giustizia, del diritto e della pace. La fede nasce dall’incontro con l’amore originario di Dio in cui appare il senso e la bontà della nostra vita; questa viene illuminata nella misura in cui entra nel dinamismo aperto da quest’amore, in quanto diventa cioè cammino e pratica verso la pienezza dell’amore. La luce della fede è in grado di valorizzare la ricchezza delle relazioni umane, la loro capacità di mantenersi, di essere affidabili, di arricchire la vita comune. La fede non allontana dal mondo e non risulta estranea all’impegno concreto dei nostri contemporanei. Senza un amore affidabile nulla potrebbe tenere veramente uniti gli uomini. L’unità tra loro sarebbe concepibile solo come fondata sull’utilità, sulla composizione degli interessi, sulla paura, ma non sulla bontà di vivere insieme, non sulla gioia che la semplice presenza dell’altro può suscitare. La fede fa comprendere l’architettura dei rapporti umani, perché ne coglie il fondamento ultimo e il destino definitivo in Dio, nel suo amore, e così illumina l’arte dell’edificazione, diventando un servizio al bene comune. Sì, la fede è un bene per tutti, è un bene comune, la sua luce non illumina solo l’interno della Chiesa, né serve unicamente a costruire una città eterna nell’aldilà; essa ci aiuta a edificare le nostre società, in modo che camminino verso un futuro di speranza. La Lettera agli Ebrei offre un esempio al riguardo quando, tra gli uomini di fede, nomina Samuele e Davide, ai quali la fede permise di « esercitare la giustizia » (Eb 11,33). L’espressione si riferisce qui alla loro giustizia nel governare, a quella saggezza che porta la pace al popolo (cfr 1 Sam 12,3-5; 2 Sam 8,15). Le mani della fede si alzano verso il cielo, ma lo fanno mentre edificano, nella carità, una città costruita su rapporti in cui l’amore di Dio è il fondamento.
La fede e la famiglia
52. Nel cammino di Abramo verso la città futura, la Lettera agli Ebrei accenna alla benedizione che si trasmette dai genitori ai figli (cfr Eb 11, 20-21). Il primo ambito in cui la fede illumina la città degli uomini si trova nella famiglia. Penso anzitutto all’unione stabile dell’uomo e della donna nel matrimonio. Essa nasce dal loro amore, segno e presenza dell’amore di Dio, dal riconoscimento e dall’accettazione della bontà della differenza sessuale, per cui i coniugi possono unirsi in una sola carne (cfr Gen 2,24) e sono capaci di generare una nuova vita, manifestazione della bontà del Creatore, della sua saggezza e del suo disegno di amore. Fondati su quest’amore, uomo e donna possono promettersi l’amore mutuo con un gesto che coinvolge tutta la vita e che ricorda tanti tratti della fede. Promettere un amore che sia per sempre è possibile quando si scopre un disegno più grande dei propri progetti, che ci sostiene e ci permette di donare l’intero futuro alla persona amata. La fede poi aiuta a cogliere in tutta la sua profondità e ricchezza la generazione dei figli, perché fa riconoscere in essa l’amore creatore che ci dona e ci affida il mistero di una nuova persona. È così che Sara, per la sua fede, è diventata madre, contando sulla fedeltà di Dio alla sua promessa (cfr Eb 11,11).
53. In famiglia, la fede accompagna tutte le età della vita, a cominciare dall’infanzia: i bambini imparano a fidarsi dell’amore dei loro genitori. Per questo è importante che i genitori coltivino pratiche comuni di fede nella famiglia, che accompagnino la maturazione della fede dei figli. Soprattutto i giovani, che attraversano un’età della vita così complessa, ricca e importante per la fede, devono sentire la vicinanza e l’attenzione della famiglia e della comunità ecclesiale nel loro cammino di crescita nella fede. Tutti abbiamo visto come, nelle Giornate Mondiali della Gioventù, i giovani mostrino la gioia della fede, l’impegno di vivere una fede sempre più salda e generosa. I giovani hanno il desiderio di una vita grande. L’incontro con Cristo, il lasciarsi afferrare e guidare dal suo amore allarga l’orizzonte dell’esistenza, le dona una speranza solida che non delude. La fede non è un rifugio per gente senza coraggio, ma la dilatazione della vita. Essa fa scoprire una grande chiamata, la vocazione all’amore, e assicura che quest’amore è affidabile, che vale la pena di consegnarsi ad esso, perché il suo fondamento si trova nella fedeltà di Dio, più forte di ogni nostra fragilità.
Una luce per la vita in società
54. Assimilata e approfondita in famiglia, la fede diventa luce per illuminare tutti i rapporti sociali. Come esperienza della paternità di Dio e della misericordia di Dio, si dilata poi in cammino fraterno. Nella “modernità” si è cercato di costruire la fraternità universale tra gli uomini, fondandosi sulla loro uguaglianza. A poco a poco, però, abbiamo compreso che questa fraternità, privata del riferimento a un Padre comune quale suo fondamento ultimo, non riesce a sussistere. Occorre dunque tornare alla vera radice della fraternità. La storia di fede, fin dal suo inizio, è stata una storia di fraternità, anche se non priva di conflitti. Dio chiama Abramo ad uscire dalla sua terra e gli promette di fare di lui un’unica grande nazione, un grande popolo, sul quale riposa la Benedizione divina (cfr Gen 12,1-3). Nel procedere della storia della salvezza, l’uomo scopre che Dio vuol far partecipare tutti, come fratelli, all’unica benedizione, che trova la sua pienezza in Gesù, affinché tutti diventino uno. L’amore inesauribile del Padre ci viene comunicato, in Gesù, anche attraverso la presenza del fratello. La fede ci insegna a vedere che in ogni uomo c’è una benedizione per me, che la luce del volto di Dio mi illumina attraverso il volto del fratello. Quanti benefici ha portato lo sguardo della fede cristiana alla città degli uomini per la loro vita comune! Grazie alla fede abbiamo capito la dignità unica della singola persona, che non era così evidente nel mondo antico. Nel secondo secolo, il pagano Celso rimproverava ai cristiani quello che a lui pareva un’illusione e un inganno: pensare che Dio avesse creato il mondo per l’uomo, ponendolo al vertice di tutto il cosmo. Si chiedeva allora: « Perché pretendere che [l’erba] cresca per gli uomini, e non meglio per i più selvatici degli animali senza ragione? »,[46] « Se guardiamo la terra dall’alto del cielo, che differenza offrirebbero le nostre attività e quelle delle formiche e delle api? ».[47] Al centro della fede biblica, c’è l’amore di Dio, la sua cura concreta per ogni persona, il suo disegno di salvezza che abbraccia tutta l’umanità e l’intera creazione e che raggiunge il vertice nell’Incarnazione, Morte e Risurrezione di Gesù Cristo. Quando questa realtà viene oscurata, viene a mancare il criterio per distinguere ciò che rende preziosa e unica la vita dell’uomo. Egli perde il suo posto nell’universo, si smarrisce nella natura, rinunciando alla propria responsabilità morale, oppure pretende di essere arbitro assoluto, attribuendosi un potere di manipolazione senza limiti.
55. La fede, inoltre, nel rivelarci l’amore di Dio Creatore, ci fa rispettare maggiormente la natura, facendoci riconoscere in essa una grammatica da Lui scritta e una dimora a noi affidata perché sia coltivata e custodita; ci aiuta a trovare modelli di sviluppo che non si basino solo sull’utilità e sul profitto, ma che considerino il creato come dono, di cui tutti siamo debitori; ci insegna a individuare forme giuste di governo, riconoscendo che l’autorità viene da Dio per essere al servizio del bene comune. La fede afferma anche la possibilità del perdono, che necessita molte volte di tempo, di fatica, di pazienza e di impegno; perdono possibile se si scopre che il bene è sempre più originario e più forte del male, che la parola con cui Dio afferma la nostra vita è più profonda di tutte le nostre negazioni. Anche da un punto di vista semplicemente antropologico, d’altronde, l’unità è superiore al conflitto; dobbiamo farci carico anche del conflitto, ma il viverlo deve portarci a risolverlo, a superarlo, trasformandolo in un anello di una catena, in uno sviluppo verso l’unità.
Quando la fede viene meno, c’è il rischio che anche i fondamenti del vivere vengano meno, come ammoniva il poeta T. S. Eliot: « Avete forse bisogno che vi si dica che perfino quei modesti successi / che vi permettono di essere fieri di una società educata / difficilmente sopravviveranno alla fede a cui devono il loro significato? ».[48] Se togliamo la fede in Dio dalle nostre città, si affievolirà la fiducia tra di noi, ci terremmo uniti soltanto per paura, e la stabilità sarebbe minacciata. La Lettera agli Ebrei afferma: « Dio non si vergogna di essere chiamato loro Dio. Ha preparato infatti per loro una città » (Eb 11,16). L’espressione “non vergognarsi” è associata a un riconoscimento pubblico. Si vuol dire che Dio confessa pubblicamente, con il suo agire concreto, la sua presenza tra noi, il suo desiderio di rendere saldi i rapporti tra gli uomini. Saremo forse noi a vergognarci di chiamare Dio il nostro Dio? Saremo noi a non confessarlo come tale nella nostra vita pubblica, a non proporre la grandezza della vita comune che Egli rende possibile? La fede illumina il vivere sociale; essa possiede una luce creativa per ogni momento nuovo della storia, perché colloca tutti gli eventi in rapporto con l’origine e il destino di tutto nel Padre che ci ama.
Una forza consolante nella sofferenza
56. San Paolo scrivendo ai cristiani di Corinto delle sue tribolazioni e delle sue sofferenze mette in relazione la sua fede con la predicazione del Vangelo. Dice, infatti che in lui si compie il passo della Scrittura: « Ho creduto, perciò ho parlato » (2 Cor 4,13). L’Apostolo si riferisce ad un’espressione del Salmo 116, in cui il Salmista esclama: « Ho creduto anche quando dicevo: sono troppo infelice » (v. 10). Parlare della fede spesso comporta parlare anche di prove dolorose, ma appunto in esse san Paolo vede l’annuncio più convincente del Vangelo, perché è nella debolezza e nella sofferenza che emerge e si scopre la potenza di Dio che supera la nostra debolezza e la nostra sofferenza. L’Apostolo stesso si trova in una situazione di morte, che diventerà vita per i cristiani (cfr 2 Cor 4,7-12). Nell’ora della prova, la fede ci illumina, e proprio nella sofferenza e nella debolezza si rende chiaro come « noi […] non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore » (2 Cor 4,5). Il capitolo 11 della Lettera agli Ebrei si conclude con il riferimento a coloro che hanno sofferto per la fede (cfr Eb 11, 35-38), tra i quali un posto particolare lo occupa Mosè, che ha preso su di sé l’oltraggio del Cristo (cfr v. 26). Il cristiano sa che la sofferenza non può essere eliminata, ma può ricevere un senso, può diventare atto di amore, affidamento alle mani di Dio che non ci abbandona e, in questo modo, essere una tappa di crescita della fede e dell’amore. Contemplando l’unione di Cristo con il Padre, anche nel momento della sofferenza più grande sulla croce (cfr Mc 15,34), il cristiano impara a partecipare allo sguardo stesso di Gesù. Perfino la morte risulta illuminata e può essere vissuta come l’ultima chiamata della fede, l’ultimo “Esci dalla tua terra” (Gen 12,1), l’ultimo “Vieni!” pronunciato dal Padre, cui ci consegniamo con la fiducia che Egli ci renderà saldi anche nel passo definitivo.
57. La luce della fede non ci fa dimenticare le sofferenze del mondo. Per quanti uomini e donne di fede i sofferenti sono stati mediatori di luce! Così per san Francesco d’Assisi il lebbroso, o per la Beata Madre Teresa di Calcutta i suoi poveri. Hanno capito il mistero che c’è in loro. Avvicinandosi ad essi non hanno certo cancellato tutte le loro sofferenze, né hanno potuto spiegare ogni male. La fede non è luce che dissipa tutte le nostre tenebre, ma lampada che guida nella notte i nostri passi, e questo basta per il cammino. All’uomo che soffre, Dio non dona un ragionamento che spieghi tutto, ma offre la sua risposta nella forma di una presenza che accompagna, di una storia di bene che si unisce ad ogni storia di sofferenza per aprire in essa un varco di luce. In Cristo, Dio stesso ha voluto condividere con noi questa strada e offrirci il suo sguardo per vedere in essa la luce. Cristo è colui che, avendo sopportato il dolore, « dà origine alla fede e la porta a compimento » (Eb 12,2).
La sofferenza ci ricorda che il servizio della fede al bene comune è sempre servizio di speranza, che guarda in avanti, sapendo che solo da Dio, dal futuro che viene da Gesù risorto, può trovare fondamenta solide e durature la nostra società. In questo senso, la fede è congiunta alla speranza perché, anche se la nostra dimora quaggiù si va distruggendo, c’è una dimora eterna che Dio ha ormai inaugurato in Cristo, nel suo corpo (cfr 2 Cor 4,16–5,5). Il dinamismo di fede, speranza e carità (cfr 1 Ts 1,3; 1 Cor 13,13) ci fa così abbracciare le preoccupazioni di tutti gli uomini, nel nostro cammino verso quella città, « il cui architetto e costruttore è Dio stesso » (Eb 11,10), perché « la speranza non delude » (Rm 5,5).
Nell’unità con la fede e la carità, la speranza ci proietta verso un futuro certo, che si colloca in una prospettiva diversa rispetto alle proposte illusorie degli idoli del mondo, ma che dona nuovo slancio e nuova forza al vivere quotidiano. Non facciamoci rubare la speranza, non permettiamo che sia vanificata con soluzioni e proposte immediate che ci bloccano nel cammino, che “frammentano” il tempo, trasformandolo in spazio. Il tempo è sempre superiore allo spazio. Lo spazio cristallizza i processi, il tempo proietta invece verso il futuro e spinge a camminare con speranza.
Beata colei che ha creduto (Lc 1,45)
58. Nella parabola del seminatore, san Luca riporta queste parole con cui Gesù spiega il significato del “terreno buono”: « Sono coloro che, dopo aver ascoltato la Parola con cuore integro e buono, la custodiscono e producono frutto con perseveranza » (Lc 8,15). Nel contesto del Vangelo di Luca, la menzione del cuore integro e buono, in riferimento alla Parola ascoltata e custodita, costituisce un ritratto implicito della fede della Vergine Maria. Lo stesso evangelista ci parla della memoria di Maria, di come conservava nel cuore tutto ciò che ascoltava e vedeva, in modo che la Parola portasse frutto nella sua vita. La Madre del Signore è icona perfetta della fede, come dirà santa Elisabetta: « Beata colei che ha creduto » (Lc 1,45).
In Maria, Figlia di Sion, si compie la lunga storia di fede dell’Antico Testamento, con il racconto di tante donne fedeli, a cominciare da Sara, donne che, accanto ai Patriarchi, erano il luogo in cui la promessa di Dio si compiva, e la vita nuova sbocciava. Nella pienezza dei tempi, la Parola di Dio si è rivolta a Maria, ed ella l’ha accolta con tutto il suo essere, nel suo cuore, perché in lei prendesse carne e nascesse come luce per gli uomini. San Giustino Martire, nel suo Dialogo con Trifone, ha una bella espressione in cui dice che Maria, nell’accettare il messaggio dell’Angelo, ha concepito “fede e gioia”.[49] Nella Madre di Gesù, infatti, la fede si è mostrata piena di frutto, e quando la nostra vita spirituale dà frutto, ci riem-piamo di gioia, che è il segno più chiaro della grandezza della fede. Nella sua vita, Maria ha compiuto il pellegrinaggio della fede, alla sequela di suo Figlio.[50] Così, in Maria, il cammino di fede dell’Antico Testamento è assunto nella sequela di Gesù e si lascia trasformare da Lui, entrando nello sguardo proprio del Figlio di Dio incarnato.
59. Possiamo dire che nella Beata Vergine Maria si avvera ciò su cui ho in precedenza insistito, vale a dire che il credente è coinvolto totalmente nella sua confessione di fede. Maria è strettamente associata, per il suo legame con Gesù, a ciò che crediamo. Nel concepimento verginale di Maria abbiamo un segno chiaro della filiazione divina di Cristo. L’origine eterna di Cristo è nel Padre, Egli è il Figlio in senso totale e unico; e per questo nasce nel tempo senza intervento di uomo. Essendo Figlio, Gesù può portare al mondo un nuovo inizio e una nuova luce, la pienezza dell’amore fedele di Dio che si consegna agli uomini. D’altra parte, la vera maternità di Maria ha assicurato per il Figlio di Dio una vera storia umana, una vera carne nella quale morirà sulla croce e risorgerà dai morti. Maria lo accompagnerà fino alla croce (cfr Gv 19,25), da dove la sua maternità si estenderà ad ogni discepolo del suo Figlio (cfr Gv 19,26-27). Sarà presente anche nel cenacolo, dopo la Risurrezione e l’Ascensione di Gesù, per implorare con gli Apostoli il dono dello Spirito Santo (cfr At 1,14). Il movimento di amore tra il Padre e il Figlio nello Spirito ha percorso la nostra storia; Cristo ci attira a Sé per poterci salvare (cfr Gv 12,32). Al centro della fede si trova la confessione di Gesù, Figlio di Dio, nato da donna, che ci introduce, per il dono dello Spirito Santo, nella figliolanza adottiva (cfr Gal 4,4-6).
60. A Maria, madre della Chiesa e madre della nostra fede, ci rivolgiamo in preghiera.

Aiuta, o Madre, la nostra fede!
Apri il nostro ascolto alla Parola, perché riconosciamo la voce di Dio e la sua chiamata.
Sveglia in noi il desiderio di seguire i suoi passi, uscendo dalla nostra terra e accogliendo la sua promessa.
Aiutaci a lasciarci toccare dal suo amore, perché possiamo toccarlo con la fede.
Aiutaci ad affidarci pienamente a Lui, a credere nel suo amore, soprattutto nei momenti di tribolazione e di croce, quando la nostra fede è chiamata a maturare.
Semina nella nostra fede la gioia del Risorto.
Ricordaci che chi crede non è mai solo.
Insegnaci a guardare con gli occhi di Gesù, affinché Egli sia luce sul nostro cammino. E che questa luce della fede cresca sempre in noi, finché arrivi quel giorno senza tramonto, che è lo stesso Cristo, il Figlio tuo, nostro Signore!
Dato a Roma, presso San Pietro, il 29 giugno, solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, dell’anno 2013, primo di Pontificato.

FRANCISCUS

 

Flussi e regolarizzazione. In vigore le nuove norme

Lunedì 01 Luglio 2013 15:14
Pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto legge sul lavoro. Ecco cosa cambia sul fronte dell’immigrazione
Roma – 1 luglio 2013 – Assunzioni dall’estero solo dopo aver cercato lavoratori disponibili in Italia e sì alla regolarizzazione del lavoratore anche se il datore non aveva i requisiti previsti dalla legge o se il rapporto è finito prima della firma del contratto di soggiorno.
Sono due novità importanti, sul fronte dell’immigrazione, nascoste tra le pieghe del decreto legge 76/2013, “Primi interventi urgenti per la promozione dell’occupazione”. Il testo, approvato il 26 giugno dal Consiglio dei Ministri, è stato pubblicato venerdì in gazzetta ufficiale ed è in vigore da sabato.
Per quanto riguarda i flussi, il decreto prevede che d’ora in poi, prima di presentare la richiesta nominativa per far venire in Italia e assumere un lavoratore straniero, bisognerà verificare presso il Centro per l’Impiego “l’indisponibilità di un lavoratore presente sul territorio nazionale, idoneamente documentata”. Una famiglia in cerca di una colf o un’impresa che ha bisogno di un operaio dovrà insomma dimostrare di aver cercato manodopera tra i disoccupati (italiani o immigrati) prima di farla arrivare dall’estero.
In realtà questo tipo di controllo era già previsto dal Testo Unico sull’Immigrazione, ma è stato finora una semplice formalità. Si faceva infatti dopo la presentazione della domanda per i flussi, che veniva trasmessa anche al Centro per l’Impiego perché diffondesse l’offerta di lavoro in Italia per venti giorni. Se c’era un disoccupato disponibile, si informava il datore di lavoro.
Famiglie e imprese, però, anche se c’era questa disponibilità, il più delle volte preferivano comunque assumere dall’estero con i flussi, anche perché nella maggior parte dei casi il lavoratore che volevano ufficialmente portare in Italia era già qui irregolarmente, magari impiegato in nero presso di loro, e quindi lo conosceva bene. Ora questo passaggio successivo alla domanda viene eliminato.
Cambia anche la programmazione degli ingressi per chi viene in Italia a frequentare corsi di formazione professionale o a svolgere tirocini. Il tetto massimo verrà fissato ogni tre anni, entro la fine di giugno, con un decreto del ministero del Lavoro, d’accordo con Viminale e Farnesina. Finchè non uscirà per la prima volta il decreto, i consolati potranno comunque rilasciare visti d’ingresso a chi ha i requisiti, senza limiti numerici.
Arrivano anche nuove risorse per il “Fondo nazionale per l’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati”, perché il decreto del governo vi fa confluire i soldi non utilizzati che erano stati destinati all’emergenza nord africa. Una buona notizia per i Comuni che si accollano l’accoglienza e che da tempo chiedono allo Stato centrale di sbloccare i rimborsi.
Buone notizie arrivano anche, sul fronte della regolarizzazione, per i tantissimi lavoratori che rischiavano di rimanere fuori per colpa di datori che si sono rivelati privi dei requisiti (ad esempio di reddito) previsti dalla legge o che si sono tirati indietro dopo aver presentato la domanda.
Se la domanda è stata bocciata “per cause imputabili esclusivamente al datore di lavoro”, ma sono stati pagati i mille euro di forfait e gli arretrati di tasse e contributi e il lavoratore può comunque provare la sua presenza in Italia almeno dal 2011, gli viene rilasciato “un permesso di soggiorno per attesa occupazione”. Il permesso ha la durata di un anno, è può essere convertito in un permesso di lavoro se intanto l’immigrato trova occupazione.
Il decreto interviene anche nei casi in cui il rapporto di lavoro finisca, con un licenziamento o con le dimissioni, prima che sia completata la procedura di regolarizzazione. Purchè ci sia la prova di presenza in Italia dal 2011, il lavoratore potrà avere un permesso per attesa occupazione o, se c’è la richiesta di assunzione da parte di un nuovo datore, direttamente un permesso per lavoro. Il datore che aveva presentato la domanda di regolarizzazione sarà comunque tenuto a pagare tasse e contributi fino alla data di cessazione del rapporto.
EP

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DECRETO-LEGGE 28 giugno 2013, n. 76 Primi interventi urgenti per la promozione dell'occupazione, in particolare giovanile, della coesione sociale, nonche' in materia di Imposta sul valore aggiunto (IVA) e altre misure finanziarie urgenti.

Governance mondiale

Nel 2012 gli Stati Uniti hanno contribuito al 21,6 per cento del pil mondiale, al 41 per cento delle spese militari mondiali e al 22 per cento dei finanziamenti all’Onu. Ma, come dimostra anche il fallimento degli interventi in Afghanistan e in Iraq, sembra che a questa straordinaria potenza economica e militare, costruita su una rete di alleanze e di basi che gli consente di proiettarsi in qualsiasi angolo del pianeta, non corrisponda più un’adeguata capacità di leadership mondiale.
Tra il 2020 e il 2030 la Cina dovrebbe diventare la prima potenza mondiale in termini di pil. Non si tratta semplicemente di uno spostamento dell’egemonia mondiale verso oriente. Alle vecchie e nuove potenze nazionali si affiancano oggi nuovi attori globali come i grandi organismi internazionali, le grandi imprese transnazionali o le agenzie di rating, che svolgono in molti casi vere e proprie funzioni sovrane.
Il governo del mondo è sempre più il frutto di negoziazioni e conflitti tra questi eterogenei centri di potere.

 
Una sfida al Pd

Prescrizione, corruzione, riciclaggio, auto riciclaggio, falso in bilancio, reati societari e tributari. Sono quattro le proposte di legge del Movimento 5 stelle depositate negli scorsi giorni alla Camera, e si configurano come un vero e proprio ‘pacchetto giustizia’ dei parlamentari stellati. Promotore Andrea Colletti, trentaduenne pescarese, membro della commissione Giustizia e della Giunta per le autorizzazioni di Montecitorio.

Misure presentate negli stessi giorni in cui fioccano le sentenze dei processi nei quali è coinvolto Silvio Berlusconi. Le proposte dei parlamentari stellati piaceranno assai poco al Cavaliere. A partire da quella sui tempi di prescrizione che ha tra gli obiettivi quello di annullare gli effetti della cosidetta ‘ex-Cirielli’, che li accorciava drasticamente. “Una serie di norme per ritornare alla legislazione precedente alle leggi ad personam varate dai governi Berlusconi” spiega Colletti.

I grillini – si legge nel testo – propongono la “reintroduzione del termine di decorrenza della prescrizione del reato continuato fissato nel momento della cessazione della continuazione e non più in quello della consumazione di ciascuno dei singoli reati collegati”, allungando giocoforza i termini reali di caduta in prescrizione.

Ma la misura più forte contenuta nel testo è la richiesta di sospensione della prescrizione stessa “dal momento della richiesta di rinvio a giudizio” di ogni singolo cittadino incriminato. Una norma che, a giudizio dei parlamentari stellati, “porterebbe larga parte degli imputati a preferire il ricorso al rito abbreviato e al patteggiamento, rendendo superflui ulteriori gradi di giudizio con un'evidente riduzione della spesa pubblica e degli sprechi per l'amministrazione della giustizia”. Quel che si vuole evitare, spiegano, è “l'impunità di reati che si estinguono attualmente in meno di 10 anni, ma che sono particolarmente odiosi per la comunità”.

Un provvedimento esplicitamente volto a colpire “una delle norme ad personam” del governo Berlusconi: la ‘ex-Cirielli’, scrivono, “prefigurava infatti una sorta di impunità per tutta una serie di reati con pena massima inferiore a 10 anni”. Per dirla in altri termini, se una legge del genere fosse stata in vigore nel momento dell’inizio di ogni singolo procedimento a carico del leader del Pdl, nessuno di essi sarebbe stato prescritto.

“Non è possibile che si decida di non patteggiare o non chiedere il rito abbreviato – sottolinea Colletti – perché si sa che quando il procedimento finisce in Cassazione probabilmente sarà già prescritto, perdendo il lavoro di dieci anni”. I deputati del Movimento 5 stelle alzano inoltre l’asticella: “Oggi tempi della prescrizione sono pari alla pena massima comminabile, mentre noi vogliamo aumentarli della metà”. Esemplificando, in un processo nel quale la peggior pena possibile per l’imputato è pari a 8 anni, i tempi per la caduta in prescrizione coprono il medesimo arco temporale. Se passasse la proposta grillina aumenterebbero a 12.

“Quella di non patteggiare in attesa di santa prescrizione che assolve dai reati – osserva Colletti – è una pratica in voga dai tempi di Tangentopoli, poi riproposta negli anni berlusconiani. Noi vogliamo che quel tipo di reati sia effettivamente punibile”. Per gli stellati se un processo viene interrotto deve essere interrotto anche il calcolo dei tempi di prescrizione. “Berlusconi non avrebbe più interesse a sollevare questioni come il conflitto di competenza, con il quale ha puntato per anni per rendere inefficaci i processi, perché non rientrerebbero più nel computo della prescrizione”.

Ma nel pacchetto grillino c’è altro. “Vogliamo modificare le pene previste per la corruzione – continua Colletti – aggravando le sanzioni interdittive per questi reati, a cominciare da quelli contro la pubblica amministrazione”. Altra fischiata d’orecchie per il Cavaliere. Ma c’è di più. “I politici che vengono indicati per incarichi di alta dirigenza dovranno aspettare tre anni dalla cessazione del proprio mandato prima di poter ricoprire tali ruoli, e non solo uno come previsto finora”. Mentre i magistrati potranno essere ‘prestati’ all’attività dirigenziale “per un massimo di 5 anni non prorogabili”. “Un modo per scollegarli dalla politica – continua il parlamentare a 5 stelle – e sanare le situazioni di alcuni direttorati generali dei ministeri”.

Il M5s vuole ‘normalizzare’ anche la normativa del falso in bilancio, reato depenalizzato dai governi di centrodestra. “Oggi c’è una soglia di punibilità – spiega Colletti – Ovvero non si ha falso in bilancio se non si raggiunge il 5% del fatturato. Proponiamo di abolire qualunque tipo di soglia, se non per fatti e somme di lieve entità”.

Prevista una stretta anche sull’evasione fiscale e sulle false fatturazioni, mentre, in linea con quanto da tempo sostiene il presidente del Senato Piero Grasso, i deputati M5s propongono anche l’introduzione del reato di auto riciclaggio, che Colletti illustra così: “Se oggi utilizzi i proventi derivanti da un reato in altre attività lecite ciò non costituisce di per sé reato. Ma l’utilizzo di denaro frutto di illecito deve diventare esso stesso un atto punibile”.

Il tema principale rimane tuttavia quello della modifica dei termini di prescrizione: “Oggi come oggi alcuni reati sono impunibili – conclude Colletti – o comunque è molto difficile che non cadano in prescrizione, come la concussione per induzione o il finanziamento pubblico ai partiti. Gli imputati devono difendersi nel processo e non dal processo, come ha fatto per anni Berlusconi. Per questo ci aspettiamo un appoggio del Pd. Ma solo a parole, perché se avessero voluto produrre dei fatti si sarebbero già mossi da tempo”.














In Italia un’ora di lavoro del capo azienda è pagata come dieci giorni di un dipendente   
venerdì, 14 giugno 2013


Un’infografica di The Economist svela che l’Italia è il paese europeo dove gli amministratori delegati guadagnano di più, con una media di 767 euro l’ora. Comparando i dati della paga media dei dipendenti pubblici e privati pubblicati sul sito della Federation of European Employer, un’organizzazione imprenditoriale presente a livello europe, The Economist ha calcolato come per avere la retribuzione di un’ora di lavoro del proprio capo azienda un lavoratore italiano deve  lavorare circa dieci giorni. Uno dei dati più diseguali d’Europa: solo gli ex paesi sovietici, e la Spagna, hanno una sperequazione così elevata nelle retribuzioni aziendali.
I paesi dove invece esiste la minor differenza tra i salari dei dipendenti ed i compensi dei loro amministratori delegati sono invece le nazioni più ricche del Vecchio Continente, ovvero Norvegia e Svizzera, economie dalle alte retribuzioni. Le paghe dei top manager rimangono un primato del nostro paese. In Germania, paese dove il sistema produttivo è sicuramente più in salute del nostro, la retribuzione media di un Ceo è poco più la metà di quelle italiane, 546 dollari l’ora contro 957. La seconda nazione europea dove gli amministratori delegati sono maggiormente retribuiti per ora di lavoro è la Spagna, curiosamente anch’essa paese in eurocrisi da molto tempo. In Francia e Gran Bretagna, come si vede dalla tabella tratta dal sito di The Economist, i vertici aziendali strappano retribuzioni medie migliori rispetto alla Germania, ma non di molto, e piuttosto lontane dalle paghe italiane.

Breve guida al commercio di armi

Internazionale 13 giugno 2013
La Francia è il principale esportare europeo di armi, seguita da Svezia e Italia.
Tra i principali destinatari degli equipaggiamenti militari c’è l’Arabia Saudita e si tratta soprattutto di aerei, navi da guerra e ordigni esplosivi.
Un’infografica del Guardian permette di incrociare i dati della Campaign against arms trade.













"E' solo l'inizio delle primavere arabe"

La nuova mezzaluna di Tahar Ben Jelloun

Una platea attenta ha accolto lo scrittore marocchino. Per ascoltarli analizzare la situazione del Medio Oriente oggi, tra rivoluzioni e voci che stanno cambiando. "La filosofia democratica deve essere insegnata dalle basi. Non basta togliere il velo o liberalizzare l'alcol. Questa rivoluzione è lenta perché dev'esserlo"

di MASSIMO VANNI e KATIA RICCARDI



FIRENZE - "Gli islamisti saliti al potere con le primavere arabe hanno dimostrato di non saper governare. Corruzione, sanità e giustizia ha dichiarato dei programmi, ma poi non li ha saputi mantenere, e il popolo si è ribellato. L'Onu però si sta dimostrando incapace di fermare il massacro in Siria". E' lo sguardo sul Medio Oriente di Tahar Ben Jelloun, lo scrittore marocchino di lingua francese e araba. Comunque, "il popolo non è monolitico, i popoli si stanno sollevando, anche in Europa, non si ha più paura del capo, di chi comanda, c'è un'evoluzione in corso". Uno sguardo severo e attento in buona parte condiviso anche da Bernardo Valli, storico inviato di Repubblica, e da Renzo Guolo, docente di sociologia a Padova e attento osservatore di tutto ciò che si muove in Medio Oriente. Tutti e tre protagonisti del primo dibattito della seconda giornata di "Repubblica delle idee", nel salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio.

Una platea attenta li ha accolti alle 10 di questa mattina per assistere alla discussione sul tema della nuova Mezzaluna dopo le primavere arabe. Ma proprio quello che accade in Siria ha richiamato l'attenzione di tutti: "In Siria si gioca lo scontro tra sciiti e sunniti, che sono i due Islam. Ma è uno scontro che richiama un contesto più ampio, perché se gli Usa appoggiano indirettamente i ribelli, la Russia appoggia il regime", dice Valli. Convinto che sia lo stesso equilibrio nato dalla dissoluzione dell'Impero Ottomano a rischiare lo sgretolamento. E la frattura fra sciiti e sunniti nata 1333 anni fa ne è il detonatore: "Le primavere arabe sono riuscite a mandare al potere i sunniti che considerano ancora lo scisma sciita inaccettabile", sostiene il professor Guolo, anche lui collaboratore di Repubblica.
"L'Islam è un fallimento quando governa. L'Islam e gli islamisti sono incapaci di governare in maniera moderna, di governare la modernità che passa, per esempio, anche attraverso l'emancipazione femminile la quale invece sarebbe un elemento di crescita in Medio Oriente. Anzi ritengono di tappare la bocca alle donne per affermare se stessi" interviene lo scrittore Ben Jelloun che ha cercato di analizzare perché le Nazioni Unite non abbiano ancora sentito il bisogno di intervenire in Siria: "La situazione siriana ha dimostrato che le Nazioni Unite sono incapaci di risolvere un conflitto. Sono meno efficaci che in passato. Ma tra i ribelli siriani c'è un po' di tutto, musulmani cristiani, sciiti, sunniti, laici. Tutti quanti contro la dittatura. E c'è chi pensa che non si debba intervenire per non rischiare che alla fine vadano al potere i salafiti, ala estrema dei sunniti. Assad è come il padre, è cresciuto in un contesto di violenza. La situazione siriana è complessa, anche fra i ribelli ci sono mille differenze. Non si può non intervenire per paura che prendano il potere i salafiti", dice l'intellettuale che vive oggi a Parigi, così come Bernardo Valli. Quello che sta accadendo in Siria rischia di portare scossoni in tutta l'area mediorientale.

"Le primavere arabe hanno fatto saltare il tappo dei regimi autoritari che l'Occidente approvava, lo stesso Saddam Hussein divenne un simbolo di laicitá al tempo della guerra tra Iraq e Iran", spiega Valli. È se è vero che i nuovi governi islamisti vivono oggi una fase di stallo incontrando difficoltà a governare, "le primavere arabe rappresentano comunque una evoluzione positiva", continua Ben Jelloun. "Si sono risvegliati non perché volevano il potere ma per cambiare i valori e passare alla democrazia". Ci vorrà forse ancora qualche generazione: "In fondo dalla rivoluzione francese del 1789 si deve aspettare il 1870 per vedere in Francia la democrazia", annota Valli. "Gli islamisti non sanno governare. L'intifada in arabo ha un significato preciso. E' un cavallo che si imbizzarrisce e non vuole fare più niente. la primavera araba voleva cambiare dei valori, passare alla democrazia ma nessuno stato arabo è ancora democratico oggi. La democrazia è una cultura che non è ancora stata insegnata. Gli islamici hanno avuto paura dell'intifada, e sono riusciti a trarne profitto. La filosofia democratica deve essere insegnata dalle basi. Non basta togliere il velo o liberalizzare l'alcol. Questa rivoluzione è lenta perché dev'esserlo" conclude Ben Jalloun. Solo che da tutti questi processi, ricorda il professor Guolo, "l'Europa è completamente assente".















KyengeLa questione cittadinanza e l’inutile battaglia del latinetto

 

L’autore è avvocato, esperto di diritto antidiscriminatorio, presidente della onlus “Avvocati per niente”, e redattore della rivista “Appunti di cultura e di politica”

 Ci sono volute alcune settimane, dopo le prime aperture del Ministro Kyenge sul tema della cittadinanza, per smetterla di usare il latinetto come clava ideologica e cominciare a ragionare su qualche contenuto. Ma il passaggio non è stato affatto semplice se persino una persona avveduta come il presidente del Senato si è fatto trascinare nella bagarre sentendosi in dovere di mettere in guardia contro il rischio che lo ius soli scateni l’arrivo di orde di donne straniere pronte a partorire non appena uscite dall’aeroporto, al solo fine di garantirsi che il primo vagito sia quello di un italiano ad ogni effetto.
Con tutto il rispetto per l’alta carica, simili allarmi sono davvero poco comprensibili, come poco comprensibile è la contrapposizione radicale tra i due criteri di attribuzione della cittadinanza che, enunciati in modo schematico, sono poco o nulla significativi.
Anche i meno esperti della materia sanno infatti che persino nel nostro sgangherato sistema esiste una sorta di ius soli: lo straniero che è nato in Italia e vi ha soggiornato continuativamente acquista la cittadinanza (e trattasi di diritto soggettivo vero e proprio, senza possibilità di valutazione discrezionale da parte della pubblica amministrazione) presentando una domanda entro 12 mesi dal  compimento del diciottesimo anno.
Le controindicazioni di tale sistema – contenuto nella L. 91/92 – sono evidenti a tutti: il termine di decadenza per la domanda è troppo breve e molti stranieri non la presentano, perdendo cosi definitivamente tale opportunità; il periodo di permanenza continuativa richiesto è troppo lungo;  il requisito della “residenza legale senza interruzioni” per 18 anni apre infiniti contenziosi relativi a eventuali brevi allontanamenti o a situazioni temporaneamente irregolari dei genitori (pensiamo alle centinaia di migliaia di stranieri destinatari delle varie sanatorie il cui figlio è nato prima della regolarizzazione).
Dunque un sistema di labilissimo ius soli cervellotico e irrazionale, che infatti non vige in nessun altro  paese europeo.
All’estremo opposto ci sta appunto la “partoriente aeroportuale”, altro sistema che nessun paese europeo (e forse nessun paese al mondo) ha mai adottato e che nessuno in Italia ha mai proposto: quanti paventano le invasioni ne prendano dunque buona nota e la smettano di agitare fantasmi.
Si tratta quindi di deporre le armi nella battaglia del latinetto e di capire quali requisiti possono essere affiancati a quello della nascita in Italia per garantire che l’evento non sia casuale, ma si inserisca almeno tendenzialmente in un progetto di radicamento all’interno della comunità nazionale.
Le alternative sono diverse e – a conferma di quanto sia assurda la contrapposizione delle formule – sono in parte compatibili l’una con l’altra.

  1. Le possibili soluzioni per la cittadinanza delle seconde generazioni
Una prima ipotesi è quella di tenere come riferimento la condizione dell’interessato (cioè del nato in Italia) e di riconoscergli la cittadinanza automaticamente (o mediante semplice dichiarazione)  condizionando l’attribuzione soltanto alla durata della residenza nel paese: ad es. in Francia il nato nel paese acquisisce la cittadinanza automaticamente a 16 o 18 anni alla sola condizione di aver risieduto nel paese per 5 anni, anche discontinui; nel Regno Unito la acquisisce a condizione che vi abbia soggiornato per almeno 10 anni; mentre in Spagna basta un anno di residenza e l’opzione può essere formulata, per conto del minore, dai genitori, a qualunque età.
Una seconda strada è invece quella di spostare il riferimento sulla condizione dei genitori: in questa ipotesi sarebbe cittadino italiano per nascita colui che nasce nel territorio della Repubblica da genitori stranieri dei quali uno sia legalmente soggiornante da un determinato periodo.
Quest’ultima è la scelta fatta dal progetto di legge di iniziativa popolare lanciato dalla campagna “Italia sono anch’io” (che la presidente Boldrini si è recentemente impegnata a far calendarizzare per l’esame parlamentare) che fa riferimento al soggiorno legale dei genitori per almeno un anno.
Naturalmente, di questo termine minimo si potrà discutere. La  Germania, ad esempio, richiede ai genitori 8 anni di residenza legale e il diritto di soggiorno permanente, mentre il Regno Unito richiede un permesso di soggiorno a tempo indeterminato (che in Europa si acquisisce, in forza della direttiva 2003/109,  dopo 5 anni di residenza).
Al requisito della durata di soggiorno dei genitori  - che resta probabilmente quello più opportuno – altri se ne possono e debbono affiancare, sempre con riferimento ai minori. Ragionevole appare ad esempio prevedere una sorta di “ius sanguinis sopravvenuto”,  nel senso che il genitore che diviene cittadino estende automaticamente il proprio status al figlio convivente (come avviene in Francia); e ancora più importante è il canale già presente in altri paesi europei (Olanda, Spagna) e volto a stabilizzare agevolmente e senza requisiti le “terze generazioni”: verrebbe cioè attribuita la cittadinanza per nascita ai figli di stranieri a loro volta nati in Italia anche se non cittadini italiani, indipendentemente da qualsiasi requisito di residenza; e si tratterebbe, in Italia, di una norma di grande importanza viste le difficoltà che abbiamo sin qui frapposto alle seconde generazioni nel percorso verso la cittadinanza.
Vi è poi un secondo fondamentale aspetto che la battaglia dei due “iura” rischia di lasciare in secondo piano ed è quello dei non-nati in Italia, ma qui giunti in tenera età.
Qui il riferimento potrebbe essere la fissazione di una età minima di ingresso che consenta condizioni più agevoli rispetto a chi fa ingresso da adulto, ma il criterio più condiviso e più logico è piuttosto quello della partecipazione a un ciclo scolastico, restando però da decidere a quale ciclo si voglia fare riferimento: la citata proposta di legge di iniziativa popolare consente ipotesi alternative, nel senso che sarebbe sufficiente o la scuola primaria, o la scuola secondaria di primo grado (le medie) o la scuola superiore o quella professionale.
Anche in questo caso, il requisito potrà essere eventualmente di diversa entità e comprendere più cicli, ma certamente non potrebbe coprire l’intero ciclo della scuola dell’obbligo, dai 6 ai 18 anni,  che relegherebbe questo canale di accesso alla cittadinanza in un ambito del tutto marginale.

  1. La questione della cittadinanza per gli adulti
Queste dunque, in sintesi,  le vere questioni che riguardano le cosiddette “seconde generazioni” la cui soluzione dunque esclude, come ben si vede, ogni immediato e semplicistico “effetto di attrazione”: tanto più che i limiti all’ingresso restano pur sempre fissati da altre norme (quelle in materia di immigrazione, che come noto in Italia andrebbero radicalmente riviste) sicchè il discorso sulla cittadinanza non ha alcuna connessione con il discorso sulla “quantità” di ingressi in Italia.
Cionondimeno, non va nascosto che la strada che verrà scelta ha naturalmente un effetto più vasto rispetto a quello sulle seconde generazioni, giacchè una facilitazione nell’accesso alla cittadinanza da parte del minore (sia esso nato o giunto precocemente in Italia) muta radicalmente anche la condizione dei suoi parenti più stretti, svincolandoli dalla loro condizione di precarietà: il genitore di italiano o comunque il parente convivente di italiano entro il secondo grado non può infatti essere espulso (art. 19 TU immigrazione) ed acquisisce quindi, anche se entrato irregolarmente,  il diritto di soggiornare sul territorio nazionale, salvi solo i motivi di ordine pubblico e sicurezza dello Stato.
Ma questo effetto estensivo – lungi dal costituire una anomalia che possa essere agitata dai soliti paventatori di invasioni – attiene all’inevitabile e sacrosanta tutela della unità della famiglia che si costruisce attorno al nuovo cittadino (garantita dall’art. 8 della Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo) e che – come ha ricordato anche la Cassazione in alcune recenti pronunce in tema di ricongiungimento familiare – deve necessariamente prevalere anche sul principio di “invalicabilità” del confine.
Infine, non va dimenticato che, al di fuori delle questioni riguardanti le nuove generazioni, restano una miriade di questioni che prescindono totalmente dalla diatriba ius soli/ius sanguinis, ma che sono di pari importanza, se non altro perché – come dimostra l’esperienza di altri paesi – la soluzione complessiva deve essere frutto di un delicato equilibrio tra i diversi canali di accesso, sicchè nessuno può essere considerato isolatamente.
In tale ambito pare difficile rivedere, se non marginalmente, il periodo minimo necessario alla acquisizione della cittadinanza dopo matrimonio con cittadino italiano, elevato da sei mesi a due anni dal “pacchetto sicurezza” del 2009 (anche gli altri paesi europei, Spagna esclusa,  si attengono a limiti non inferiori ai due anni); ma sarà invece sicuramente necessario mettere mano alla cittadinanza per naturalizzazione,  riducendo i requisiti di legale residenza, che sono attualmente di 10 anni per l’extracomunitario e di cinque anni per il comunitario, l’apolide o il rifugiato politico. La citata proposta di legge indica rispettivamente cinque e due anni; la Francia prevede per la generalità degli extracomunitari cinque anni o due per chi ha compiuto almeno due anni di studi universitari; la Germania otto anni; l’Olanda e il Regno Unito cinque anni; la Spagna dieci anni (ridotti però a due per i paesi del Sud America).
Prima ancora si tratta però di decidere se il percorso verso la naturalizzazione debba muovere da una condizione di mero interesse legittimo (nel senso che l’acquisizione della cittadinanza per naturalizzazione resterebbe – come ora è – una facoltà discrezionale dello Stato che rischia di lasciare lo straniero in balia di decisioni arbitrarie e di procedimenti dalla durata infinita) o trasferire questo canale di accesso nell’ambito dei diritti soggettivi: in altre parole, decorso il periodo di residenza richiesta, lo straniero acquisterebbe il diritto alla cittadinanza, salvo che esistano cause ostative oggettive (commissione di determinati reati ecc.); il tutto con evidenti vantaggi in termini di certezza del diritto, semplificazione delle procedure, sicurezza dei tempi di acquisizione.
Si pone qui, strettamente collegato a quest’ultimo tema delle “cause ostative”, la questione delle “verifiche” inerenti il livello di integrazione: esame di conoscenza della lingua; esame di conoscenza delle norme fondamentali dello Stato, livello di adesione ai valori fondamentali della Repubblica. Il punto è evidentemente delicatissimo perché attiene alla ampiezza del patto sociale, che non deve essere così invasivo da non poter accogliere le differenti identità, ma neppure tale da rendere l’adesione al patto civico un fatto meramente burocratico, specie in un contesto come quello Italiano dove il livello di condivisione di valori comuni appare, anche tra i vecchi cittadini, ampiamente al di sotto della soglia di allarme.

  1. Bene la cittadinanza, ma non diminuire i diritti degli stranieri
A dispetto della precaria salute di cui gode il governo Letta e del silenzio sul punto nel discorso di insediamento, sembra dunque plausibile o inevitabile – soprattutto in forza del prudente attivismo che anima il ministro Kienge – che nei prossimi mesi la questione cittadinanza giunga finalmente al centro del dibattito politico. Per quanto si vede in queste settimane,  il dibattito, come si è detto, non pare di elevato livello e presenta non pochi rischi.
Tra i molti, un rischio appare spesso sottovalutato: l’apertura di qualche spiraglio in più nell’accesso allo status di cittadino potrebbe relegare in secondo piano il tema della uguaglianza cittadino/straniero e rafforzare la nozione di cittadinanza come spada che divide, anziché come patto che unisce quanti condividono la sorte di una determinata comunità territoriale. In parole povere: socchiudiamo il recinto dei diritti e facciamo entrare qualcuno in più,  ma poi chiudiamo a doppia mandata.
Sarebbe una strada miope e pericolosa.
In una risalente sentenza (172/99), la Corte Costituzionale – chiamata a decidere se anche all’apolide potesse essere imposto l’obbligo di svolgere il servizio militare – aveva parlato di una “comunità di diritti e di doveri, più ampia e comprensiva di quella fondata sul criterio della cittadinanza in senso stretto, (che) accoglie e accomuna tutti coloro che, quasi come in una seconda cittadinanza, ricevono diritti e restituiscono doveri, secondo quanto risulta dall’art. 2 della Costituzione là dove, parlando di diritti inviolabili dell’uomo e richiedendo l’adempimento dei corrispettivi doveri di solidarietà, prescinde del tutto, per l’appunto, dal legame stretto di cittadinanza”: era, ante litteram, la definizione di una “cittadinanza di residenza” che anni dopo ha fatto ingresso nel dibattito di sociologi e giuristi.
Recentemente la Corte d’Appello di Milano, facendo leva proprio su quell’autorevole precedente, ha stabilito che anche i giovani stranieri devono poter accedere al servizio civile nazionale, perché il diritto/dovere di contribuire alla “difesa” della collettività – intesa come contributo di ciascuno alla sua crescita civile – deve far capo a tutti coloro che, risiedendo stabilmente su un territorio, condividano di fatto i destini, gli interessi e i valori di quella collettività, indipendentemente dalla formale attribuzione dello status civitatis.
E’ peraltro l’intero ordinamento nazionale e comunitario che si orienta a delineare una condizione intermedia tra quella di cittadino e quella di straniero, inserendo sempre più spesso norme (tendenzialmente inderogabili) contenenti clausole di parità assoluta tra cittadini e stranieri: cosi beneficiano di clausole di questo genere in primo luogo i comunitari (art. 18 Trattato); poi i lungo soggiornanti (cioè i titolari di permesso di soggiorno a tempo indeterminato, tutelati dalla direttiva 2003/109) e i loro familiari; i rifugiati politici (direttiva 2004/83); i familiari extracomunitari di cittadini italiani o di cittadini comunitari (direttiva 2004/38); i titolari di “carta blu” (cioè i lavoratori stranieri che abbiano un titolo di studio universitario e che svolgano in Italia un lavoro altamente qualificato: direttiva 2009/50); gli stranieri appartenenti a paesi con i quali la UE abbia stipulato accordi contenenti clausole di parità di trattamento (ad es. marocchini, algerini, tunisini, turchi,  per quanto riguarda tutte le prestazioni sociali); e infine i lavoratori in generale – intesi come coloro che hanno fatto ingresso alla ricerca di lavoro – e i loro familiari, anch’essi protetti dal principio di parità contenuto nella convenzione OIL 143/75.
Contestualmente, la nostra Corte Costituzionale ha iniziato un percorso demolitorio delle differenze basate sulla cittadinanza che ha raggiunto il suo apice proprio negli ultimi anni: così la Corte ha  stabilito che nessuna differenza tra cittadini e stranieri è ammissibile per quanto riguarda il nucleo dei diritti essenziali della persona, includendo in tale nucleo anche alcune prestazioni sociali (sent. 187/10); che i diritti personali o sociali collocati al di fuori di tale nucleo possono essere differenziati, ma solo in base a un criterio di ragionevolezza (sent. 432/05) e che il mero criterio della cittadinanza non è mai un criterio di per sé ragionevole, nemmeno se correlato ad una certa durata della residenza, perché se la Pubblica Amministrazione individua un bisogno non può rispondervi limitando i destinatari soltanto a coloro che risiedono da un periodo minimo (sent. 2/2013).
Come ben si vede un’opera demolitoria sulla quale troppo poco si riflette e che ha rapidamente reso gli stranieri assai più uguali (sul piano giuridico) agli italiani di quanto sembra ritenere la coscienza comune.
Ora, se consideriamo che dei poco più di 5 milioni di stranieri presenti in Italia, un milione e mezzo sono comunitari e dei restanti  oltre il 50% sono lungo-soggiornanti, ci rendiamo subito conto che la grande maggioranza dei nostri “ospiti” è in realtà protetta da clausole di parità di trattamento: l’insieme dei diritti che ad essi fa capo è dunque pressoché lo stesso – diritti politici esclusi – di  quello dei cittadini, indipendentemente dalla acquisizione  dello status.
E’ per questo che il dibattito sulla cittadinanza non deve far dimenticare che ogni rigida divisione tra padroni di casa (siano essi di pelle chiara o di pelle scura) e ospiti è insufficiente a comprendere e gestire i problemi che abbiamo di fronte: che sono quelli di ospiti non più precari, ma di soggetti stabilmente parte della nostra comunità, anche se non vorranno o non potranno accedere alla condizione di cittadini.
Si prospetta dunque -  ed è anzi già iniziata, a prescindere dalla pigrizia del mondo politico – una stagione di nuovi patti, quello della cittadinanza e quello, per usare le parole della Corte Costituzionale, della “seconda cittadinanza”: la vera scommessa è che entrambi,  pur assolvendo compiti diversi, siano sufficientemente carichi di contenuto da non dare ulteriore spazio alla frammentazione sociale e a una sorta di “indifferentismo valoriale”,  ma nello stesso tempo non così invasivi da annullare quelle differenti identità che possono convivere e arricchirsi reciprocamente.

Alberto Guariso

Cinquant'anni fa moriva Giovanni XXIII

di Christine Pedotti
in “Témoignage chrétien” - supplément au n° 3542 (traduzione: www.finesettimana.org)

Il 3 giugno 1963, papa Giovanni XXIII si spegneva nella sua camera al terzo piano del palazzo pontificio. Si dirà che è spirato sull'Ite missa est della messa che era celebrata per lui su piazza San Pietro. Siamo alla sera del lunedì di Pentecoste, una coincidenza che colpisce per quel papa che aveva tanto desiderato una nuova Pentecoste per la Chiesa e che aveva visto l'inizio della sua concretizzazione con la riunione della prima sessione del Concilio Vaticano II da lui convocato cinque anni prima. Il decesso di Giovanni XXIII fu un avvenimento mondiale vissuto in diretta. Il domenicano Yves Congar scrisse nel suo diario:
“Tutti hanno avuto la sensazione di perdere, in Giovanni XXIII, un padre, un amico personale, qualcuno che pensava a lui e che lo amava.” Infatti, il mondo intero piangerà quell'uomo di piccola statura, non particolarmente aggraziato ed elegante, che aveva saputo essere pienamente il papa.
Quell'unanimità sbalordiva la Curia romana che non capiva come quell'uomo buono così lontano dagli usi alteri di un sovrano Pontefice e che ammetteva volentieri – forse anche con un po' di civetteria – le sue lacune in teologia, potesse aver conquistato tanti cuori.
Eletto a 77 anni come “papa di transizione”, Giovanni XXIII fu, al di là delle speranze di coloro che lo avevano eletto, l'artefice della transizione. Fece passare il cattolicesimo da una logica di fortezza assediata ad una cultura di dialogo e aperta al mondo. Eppure, nel corso del suo pontificato, gli capitò molte volte di deludere le speranze di coloro che si aspettavano dei cambiamenti. Al punto che alcuni talvolta lo giudicarono duramente. La rilettura storica mostra che Giovanni XXIII, sotto quell'aria da “nonno” era in verità un temibile stratega. Dell'orientamento che voleva far prendere alla Chiesa, non aveva rivelato nulla prima della sua elezione. I francesi che avevano mantenuto il ricordo della stretta obbedienza a Roma nel periodo dell'affaire dei preti operai (1953) non si aspettavano granché da lui. E il suo atteggiamento diplomatico nei confronti della Curia fece spesso
credere che non sapesse assumere decisioni difficili. Ogni somiglianza con la recente e sorprendente elezione di un nuovo pontefice non è totalmente fortuita. Certo, la storia non  si ripete e Jorge Mario Bergoglio non è Angelo Roncalli. Tuttavia, l'affermazione di un nuovo stile papale, un modo di parlare che tutti comprendono e che fa storcere il naso agli appassionati di alti dibattiti teologici, la volontà di non “fare il papa”, ma di restare se
stesso, sono, a cinquant'anni di distanza, caratteristiche molto comuni. Resta da sapere fino a dove andrà papa Francesco. A giudicare da una serie di affermazioni recenti,
e in particolare il suo discorso a San Pietro davanti ai vescovi italiani, sembra che il papa argentino sia molto meno diplomatico di quanto non sia stato Giovanni XXIII. È anche vero che Francesco ha il vantaggio di essere istruito dall'esperienza. Conosce il peso delle
abitudini, in particolare di quelle cattive, e la tendenza della Chiesa cattolica di preoccuparsi prima di tutto di se stessa. Prete ordinato nel periodo delle speranze accese dal concilio, sa che molte di queste speranze sono andate deluse. Sognava una Chiesa a servizio del Vangelo, voleva annunciare Gesù Cristo fino ai confini, alle estremità della terra. Ora che è diventato papa, è sempre avido di far conoscere Gesù. È la priorità che dà alla Chiesa, quasi contro se stessa, cioè contro il suo narcisismo. Se c'è un punto in comune tra Giovanni e Francesco, è che il loro amore per la Chiesa è l'amore di una Chiesa che serve Gesù Cristo servendo l'umanità. Lumen Christi, lumen gentium..., “la luce di Cristo è la luce delle nazioni”. È con queste parole che Giovanni XXIII aveva inaugurato l'importantissimo messaggio radiofonico che aveva pronunciato un mese prima dell'apertura del Concilio per chiedere la preghiera di tutti i cattolici. Lumen Gentium, sono le parole che aprono la grande costituzione conciliare sulla Chiesa. Ma contrariamente a quanto si crede normalmente, il testo rimane fedele al pensiero di Papa Giovanni. La prima frase della Costituzione dice: “Cristo è la luce delle genti”,e aggiunge che è“la luce del Cristo che risplende sul volto della Chiesa”. La sfumatura merita di essere sottolineata. La Chiesa  non si crede la luce, ne è solo lo specchio, ha il dovere di rifletterla. Gesù al centro! Ecco ciò che unisce Giovanni XXIII e Francesco!

Disoccupazione ai massimi dal 1977: 12%. Record del tasso giovanile, oltre il 40%

Ad aprile oltre 3 milioni di italiani senza impiego: sono aumentati del 13,8% in un anno. Senza occupazione il 41,9% i ragazzi tra i 15 e i 24 anni "attivi" (cioè che cercano lavoro). Visco: "Bruciato mezzo milione di posti di lavoro in un anno"

Disoccupazione ai massimi dal 1977: 12%. Record del tasso giovanile, oltre il 40%
Tasso di disoccupazione al top dal 1977, massimo storico per i giovani (tasso oltre il 40%). I dati dell’Istat sono la fotografia di un Paese in apnea. Nel primo trimestre del 2013 il tasso di disoccupazione è balzato al 12,8%. Considerando i confronti tendenziali è il livello più alto dal primo trimestre del 1977. Quando si parla di “tasso” si intende, come spesso bisogna ribadire in questi casi, della percentuale calcolata sulla popolazione “attiva”, cioè tra coloro che lavorano, hanno lavorato o comunque cercano lavoro. La disoccupazione ad aprile si è attestata al 12% (più 1,5% in un anno): si tratta di un massimo storico, il livello più alto sia dalle serie mensili (gennaio 2004) che da quelle trimestrali, avviate nel primo trimestre 1977, ben 36 anni fa. “Il tasso di disoccupazione, pressoché raddoppiato rispetto al 2007 e pari all’11,5% lo scorso marzo – dice il presidente della Banca d’Italia Ignazio Visco – si è avvicinato al 40% tra i più giovani, ha superato questa percentuale nel Mezzogiorno”. Visco ha ricordato che “la riduzione del numero di persone occupate è superiore al mezzo milione”.
Ad aprile il numero assoluto dei disoccupati è stato pari a 3 milioni 83mila e è aumentato dello 0,7% rispetto a marzo (+23mila unità). Su base annua si registra una crescita del 13,8% (+373mila unità). La crescita della disoccupazione riguarda sia la componente maschile sia quella femminile. 
Ancora più allarmanti i numeri sul tasso dei senza lavoro tra i 15-24enni “attivi” (cioè coloro che cercano o che hanno lavoro) che si attesta al 41,9% nel primo trimestre del 2012 raggiungendo, in base a confronti tendenziali, il massimo storico assoluto, ovvero il livello più alto dal primo trimestre del 1977. Nella fascia dei lavoratori più giovani le persone in cerca di lavoro sono 656mila e rappresentano il 10,9% della popolazione in questa forbice. Se nel primo trimestre del 2013 il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) è salito di 1,8 punti percentuali in più nel raffronto tendenziale. Nel Mezzogiorno oltre la metà della forza lavoro femminile tra 15-24anni è in cerca di lavoro (52,8%).
Il tasso di disoccupazione giovanile tra i giovani dai 15 ai 24 anni sale al 40,5% ad aprile. Si tratta del livello più alto dall’inizio delle serie mensili (gennaio 2004) e trimestrali (primo trimestre 1977). In cerca di lavoro sono 656mila ragazzi.
Ma a calare sono anche i precari: nel primo trimestre 2013 si sono registrati oltre 100mila precari in meno. Emerge dai dati (non destagionalizzati) dell’Istat, che spiega: “si interrompe la dinamica positiva dei dipendenti a termine”, -69.000 (-3,1%), flessione che interessa “esclusivamente i giovani fino a 34 anni”. Ritmi più sostenuti per il calo dei collaboratori (-10,4%), 45.000 in meno sull’anno.
Sconfortato il commento sui dati diffusi dall’Istat di Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria: “Sono più che preoccupanti, dire tragici“. 
Trend negativo anche nel resto d’Europa
Il trend è negativo anche nel resto d’Europa. La disoccupazione nell’Eurozona ha toccato ad aprile il livello più alto mai raggiunto dal 1995: il 12,2% contro l’11,2 dell’aprile 2012. Stessa cosa per quella giovanile, arrivata a quota 24,4%. L’Italia, con il suo 40,5% di giovani disoccupati, è al quarto posto dopo Grecia, Spagna e Portogallo. Nell’Ue a 27 il tasso di disoccupazione si è attestato ad aprile all’11% (lo stesso livello di marzo) contro il 10,3% di aprile 2012. Nell’Eurozona invece il nuovo record è stato determinato dall’incremento segnato rispetto al dato di marzo 2013, quando i senza lavoro sono risultati pari al 12,1%.
In termini assoluti “l’esercito” dei disoccupati dell’Eurozona è arrivato a contare lo scorso mese 19,3 milioni di persone (26,5 nell’insieme del’Ue), 95mila in più rispetto a marzo e 1,6 milioni in più rispetto a dodici mesi or sono. I Paesi con i tassi più bassi sono Austria (4,9%), Germania (5,4) e Lussemburgo (5,6). Quelli in cima alla classifica dei disoccupati sono Grecia (27%), Spagna (26,8) e Portogallo (17,8). Nel complesso dell’Ue e rispetto a un anno fa, sono 18 i Paesi che hanno registrato una crescita dei senza lavoro, mentre in 9 c’è stata una flessione.
Eurostat segnala poi che anche sul fronte della disoccupazione giovanile, ovvero degli under 25, ad aprile nell’Eurozona (ma anche nell’Ue, dove il tasso è arrivato al 23,5%) sono stati registrati nuovi record. Livelli così alti non erano mai stati toccati dal 1995, cioè da quando è stato avviato il monitoraggio Eurostat comparabile. Nel complesso, i giovani disoccupati nei 17 Paesi euro sono arrivati ad essere 3,6 milioni (5,6 nell’Ue), 188 mila in più rispetto a un anno prima quando il tasso di disoccupazione giovanile era del 22,6%. Germania, Austria e Olanda sono i Paesi con meno ragazzi senza lavoro, con percentuali comprese tra il 7,5 e il 10,6%. Prima dell’Italia, tra i Paesi con i tassi più alti, si collocano invece Grecia (62,5), Spagna (56,4) e Portogallo (42,5).
Andor (Ue): “Pronte iniziative per fronteggiare l’emergenza”
Sul Messaggero oggi stesso il commissario europeo agli Affari sociali Laszlo Andor aveva parlato di “nuove iniziative europee per fronteggiare l’emergenza della disoccupazione giovanile”. “Ora c’è un nuovo slancio a livello europeo – continua – per implementare le politiche che sono state preparate dalle istituzioni Ue. Su questo punto la Commissione ha già fatto proposte a dicembre: la Garanzia Giovani, l’Alleanza europea per l’apprendistato, l’aumento della mobilità nel mercato del lavoro”, rileva Andor, secondo cui adesso c’è “più sensibilità” anche da parte della Germania. “I 6 miliardi saranno usati interamente per la Garanzia Giovani nelle regioni in cui la situazione è peggiore, come quelle del Sud Italia. Inoltre, saranno un’aggiunta alle risorse molto più ampie del Fondo Sociale Europeo. Il costo – tra i 1.000 e i 2.000 euro a persona – non è una somma enorme”, spiega Andor. “Il problema è che alcune regioni italiane non riescono a implementare i programmi, perchè hanno difficoltà a trovare idee o a sviluppare i progetti giusti”.
































 

DON MILANI OGGI AVREBBE 90 ANNI

Alcuni anni fa, David Sassoli con il professor Alberto Melloni e il direttore del Tg1 Gianni Riotta, realizzarono  uno speciale su don Lorenzo Milani, un prete morto giovane che ha lasciato una grande eredità di impegno civile e di carica spirituale. Oggi don Lorenzo, parroco di Barbiana, avrebbe compiuto 90 anni e per ricordarlo vi segnalo il link dove potete guardare quel documentario che conserva la sua attualità . Se lo ritenete utile potete anche condividerlo con i vostri amici per non disperdere l'avventura di un maestro ancora utile alla nostra epoca.

 

Mi piacerebbe che i partiti… E voi che dite?

 


Anche sul sito www.eptaforum.it (autorevole cenacolo di giuristi e intellettuali di area cattolica e democratica), da tempo si agitano i temi della riforma delle istituzioni e della politica italiana. Francesco Paolo Casavola è stato chiarissimo: “lo Stato dei partiti ha ucciso la democrazia”. Ugo De Siervo ribadisce: “è necessario un profondo rinnovamento dei partiti”.  E Pier Alberto Capotosti:  “servono partiti nuovi, non nuovi partiti”. Dal canto suo, Marco Revelli, nel gennaio di quest’anno, ha dato alle stampe un piccolo e bel libro, Finale di partito (ed. Einaudi, 2013) in cui spiega: “è in atto una mutazione del tradizionale protagonista della nostra democrazia: il partito politico. Come l’impresa ha trasformato la sua struttura dopo la crisi del fordismo, così i partiti stanno cambiando natura dentro una clamorosa crisi di fiducia. E talvolta finiscono”. 
Del resto già nel 2011 un sondaggio di Renato Mannheimer  rivelava che l’operato del governo era valutato positivamente solo dal 18 per cento degli intervistati; e l’operato dei partiti di opposizione era positivo solo per il 13 per cento. La distanza critica tra l’ “animo” dei cittadini e l’ “immagine” concreta della politica è dunque elevatissima e tocca direttamente i partiti, la classe e l’azione politica che esprimono.
Per porre riparo a un tale disastro si avanzano molte e diverse proposte in tema di istituzioni, sistema politico e parlamentare, leggi elettorali… In ogni caso, il punto da cui partire è l’art. 49 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Una delle cose più scandalose  in tema di “Costituzione  inattuata”  è  l’ evidente, clamorosa  mancanza di una legge applicativa di questa norma costituzionale. I partiti vivono in una situazione di carenza normativa che ha favorito il loro deterioramento civile e culturale fino ai confini della illegalità. Certo, per molti anni c’era stata  (forse!) una generale convergenza di fatto intorno al significato concreto del “concorrere con metodo democratico”, cioè della democrazia all’interno dei partiti e dell’azione dei partiti nella società. Ma oggi evidentemente non è più così.
Dunque,  per restituire trasparenza ed efficacia alla nostra democrazia servirà  riflettere su alcuni possibili mutamenti  istituzionali (bicameralismo, semipresidenzialismo, criterio di ripartizione dei seggi maggioritario, proporzionale…). Ma sembra evidente che la prima e più urgente riforma dovrebbe essere una  normativa (seguita da una prassi coerente) circa la vita, l’azione e il ruolo concreto dei partiti.
E non si tratta di un problema da poco o meramente tecnico. Si tratta di affrontare davvero il ruolo dei partiti nel nostro sistema politico. Credo che dovrebbe aprirsi una riflessione seria, approfondita: non frettolosa o polemica. E poi Sarà necessario intessere un dialogo, tra soggetti politici ma soprattutto tra cittadini , per arrivare ad un orientamento coerente e praticabile, capace e meritevole di diventare patrimonio comune e infine comune esercizio del diritto di cittadinanza da parte dei cittadini e del dovere di coerente azione politica da parte dei politici. Gli uni e gli altri, legati da una reciproca amicizia civile e riconoscimento delle competenze e della onestà.
Mi piacerebbe che i partiti fossero delle realtà trasparenti, con uno statuto democratico, una composizione, uno statuto e un’ azione pubblica conosciuta. Che possa esserci un controllo sulla loro vita democratica interna;  sul  loro finanziamento  (un due per mille? un contributo pubblico proporzionato a quello – trasparente – dei privati ? una detraibilità?); sulla trasparenza e sobrietà della loro leadership (a cominciare dagli aspetti culturali, etici, per finire a quelli patrimoniali); sulla serietà e incisività della loro azione di approfondimento e divulgazione culturale.  Immagino che potrebbe esserci (ed essere pubblico) l’elenco dei dirigenti, dei militanti… Che l’articolazione della loro presenza nella società (sezioni, club, giornali, internet, convegni, manifesti) sia nota e normalmente aperta a chi vuole partecipare; che riesca ad essere di buon livello, onestamente impegnata a diffondere e a verificare le proprie idee e proposte. Che ci siano delle regole di comportamento pubblico – e anche privato – sui temi che possono interessare tutti  i cittadini,  perché far politica, anche di base, è comunque una funzione  pubblica; e ciascuno che vi si dedica deve anzitutto garantire la massima trasparenza.  Il diritto-dovere di giudicare e se del caso punire chi nella vita politica ha una condotta equivoca e disonesta, non è solo competenza dei magistrati,  ma è diritto dovere degli aderenti e dei simpatizzanti dei partiti e di tutti i cittadini.
Immagino un partito… – anzi no: un sistema di partiti, perché il sistema politico chiede dei soggetti omogenei; e poi: se ci fossero cinque partiti, e solo quattro fossero virtuosi (nel senso fin qui indicato), non è escluso che il quinto, magari più spregiudicato e meno limpido, indurrebbe gli altri a corrompersi – …immagino dunque dei partiti che (come in parte sapevano fare nel dopoguerra e nei primi decenni di vita democratica)  siano una scuola di vita civile; dialoghino continuamente con la varie istanze della società civile e con  i cittadini (singoli e organizzati in forme associative); che sappiano educare i giovani, valorizzare le persone mature (anche al di fuori di ruoli e compiti pubblici istituzionali). Che non facciano solo comizi e propaganda, ma sappiano dialogare, alla base e al vertice, e imparino così a leggere i segni dei tempi. E poiché i segni dei tempi sono tanti, piccoli e grandi, locali e cosmici, servono vari partiti e molte persone e molta analisi e molto dialogo…
E così, alla fine, avremmo un dialogo tra la società e la politica fatto di idee e non di sotterfugi, di speranze costruite insieme e condivise; avremmo una  classe dirigente cresciuta in questa corresponsabilità che si vergognerebbe di comportarsi come si comporta una parte significativa dell’attuale…  Del resto negli anni ’50 e anche dopo, in parte, i politici provenienti dal mondo associativo, culturale, sindacale, erano ispirati da idee, progetti, speranze ben diversi da quelli di cui leggiamo oggi la cronaca sui giornali.
Per comodità del lettore, e per provocare qualche intervento, provo a riassumere alcuni obbiettivi sui quali mi sembra che si potrebbe riflettere insieme per disegnare una forma-partito migliore di quella che attualmente prevale (se si può parlare di “forma” per i nostri attuali partiti…): quale tipo di soggettività andrà riconosciuta ai partiti; a quali condizioni; quali regole per iscriversi, regole per diventare dirigenti; quale trasparenza economica e quali fonti di finanziamento; quali regole di democrazia interna; quali caratteri minimi del ruolo culturale, e altri caratteri  possibili riguardo cultura e informazione e a quali condizioni; a quali condizioni si acquista e si perde la soggettività per proporsi all’elettorato; come  selezionare la classe dirigente, come cambiarla; come i partiti potranno trasformarsi e cambiare secondo le novità dello scenario politico e sociale (e tecnologico).
 Naturalmente non tutto può e deve essere definito per legge. Ma può essere utile immaginare scenari complessivi per definire  le strutture portanti del sistema dei partiti per una democrazia sempre più “sostanziale”,  nella quale la dimensione della “partecipazione” si equilibri, ed anzi sia sinergica, con le dimensioni della rappresentanza, della delega e del controllo.
Tra le molte possibili mi permetto di segnalare qui alcuni testi apparsi di recente e che costituiscono a mio avviso un patrimonio importante che il mondo cattolico democratico offre oggi alla riflessione su questi temi. I primi due sono piccoli libri ma lucidissimi e concreti, proposti dall’editrice In dialogo, espressione del movimento Città dell’uomo  fondato da Lazzati . Uno è Democrazia nei partiti, con testi di Luciano Caimi, Emanuele Rossi, Enzo Balboni, Angelo Mattioni, Valerio Onida e Filippo Pizzolato.((In dialogo ed, 2010). In particolare segnalo l’intervento di Rossi : “Per una disciplina legislativa dei partiti politici”. Il secondo libro è Etica e verità in democrazia, curato da Luciano Caimi, con testi di Guido Formigoni, Michele Nicoletti, Luigi Franco Pizzolato e Giuseppe Lazzati (In dialogo ed, 2011). Un terzo libro è di Lorenzo Caselli, già presidente del Meic e docente di etica economica: La vita buona nell’economia e nella società (ed Lavoro, 2012). Da queste e analoghe sorgenti culturali e morali potrebbero venire idee e forze adeguate a proporre e realizzare un autentico, necessario rinnovamento della politica e, in particolare, della forma e dell’anima dei partiti…
Angelo Bertani


La cultura politica di Moro fra utopia e realismo

Pubblichiamo l’ultima pagina di un’ampia relazione che l’autrice ha tenuto il 10 maggio nell’ambito del convegno di studi “Studiare Aldo Moro per capire l’Italia” promosso dall’Accademia di studi storici Aldo Moro in occasione del XXXV anniversario della sua morte (Roma, 9-11 maggio 2013).

 Fra il 1975 e il 1978 si consuma  l‘ultima fatica di Moro.  L’elezione di Zaccagnini a segretario della DC, è certamente una vittoria della sua linea e anche della prudenza tattica per cui evita di dare la sfiducia a Fanfani che non è l’unico responsabile degli errori compiuti. Quella elezione sarà anche un segnale importante per il paese, per le giovani generazioni, per consolidare, malgrado tutto,  nella storia italiana, la valenza etica e culturale della componente cattolico-democratica della DC.  Ma non riuscirà, nemmeno con l’elezione diretta al Congresso del 1976, a sciogliere i nodi del partito. 
Il voto elettorale del 1976, con i due vincitori, porrà il nodo del governo in termini drammatici, che Moro esprimerà senza reticenze e come sfida aperta, dagli esiti imprevedibili,  nel suo ultimo discorso ai gruppi parlamentari.  Al centro di quella proposta c’è però sempre il suo stile, la strategia dell’attenzione verso tutti, la ricerca anche complessa e articolata delle convergenze possibili, la consapevolezza esplicita dei rischi delle contrapposizioni, che è quello che resta dell’utopia, della speranza, della fiducia nell’altro. Sono personalmente convinta che, malgrado il perdurare di importanti distanze, Moro avesse più fiducia nella convergenza col PCI di quanto avesse sperimentato con i socialisti. Fiducia, ma anche realismo: “Ma immaginate amici che cosa accadrebbe, in questo momento in Italia se fosse adottata fino in fondo la logica dell’opposizione?”. L’ostacolo realistico oggettivo che non può essere ignorato è altro: “Sappiamo che vi è un problema di politica estera delicatissimo, sappiamo che vi è diffidenza in Europa”. E’ sostanzialmente per questo che “vi è un’emergenza politica”.
 Una delle domande di fondo  di fronte  a questa linea politica,   proprio in termini di conferma dell’estremo realismo di Moro, è sull’affidamento di essa ad Andreotti, che del resto la caratterizzerà subito con la scelta disastrosa, fino ad essere provocatoria, dei ministri. 
Io credo che una risposta venga da quanto ci ha riferito Galloni riportando la sua ultima conversazione con Moro:  secondo Galloni le ipotesi che coltivava Moro erano un governo fino al 1981, in cui il PCI avrebbe da una parte “compiuto i passi decisivi per confermare la sua autonomia da Mosca,  e noi dall’altra i passi decisivi  iniziati con la segreteria Zaccagnini per trasformare il partito in un partito popolare”. A quel punto il passaggio a una vera democrazia dell’alternanza, senza rischi, avrebbe potuto finalmente davvero fare uscire l’Italia dalle sue difficoltà:  “Avremmo finalmente raggiunto in Italia la democrazia compiuta”.
Ecco, l’utopia di Moro non puntava sul governo né come strumento di innovazione, né come compromesso. L’utopia morotea puntava realisticamente sul mutamento del sistema dei partiti che bloccavano ogni ipotesi di autentica innovazione. Scoppola e Franco De Felice hanno sottolineato di Moro l’acuta consapevolezza che la nostra era stata ed era ancora una democrazia difficile: tanto difficile che la mediazione fra utopia e realismo resta carica di  problemi e interrogativi irrisolti.
 Il nodo per Moro era sul partito, che gli ha interessato forse sempre più del governo, il partito come strumento di stimolo al rinnovarsi sia del clima civile, sia delle istituzioni.
 Lo aveva detto già con molta chiarezza ancora al Consiglio Nazionale del luglio 1975, quello che registrò la doppia sconfitta, amministrativa e referendaria, e elesse Zaccagnini. 
 Il problema è “impedire, soprattutto in un partito come il nostro, che si perpetui senza alcuna mediazione il dualismo tra società civile e società politica”. “È in atto un processo di liberazione che ha nella condizione giovanile e della donna, nella nuova realtà del mondo del lavoro, nella ricchezza della società civile, le manifestazioni più rilevanti ed emblematiche. In qualche misura questo è un moto indipendente dal modo di essere delle forze politiche, alle quali tutte, comprese quelle di sinistra, esso pone dei problemi non facili da risolvere. Questo è un moto che logora e spazza via molte cose e tra esse la «diversità» del Partito comunista. Esso anima la lotta per i diritti civili e postula una partecipazione veramente nuova alla vita sociale e politica. È un fenomeno che può essere anche, per certi aspetti, allarmante ma è senza dubbio vitale ed ha per sé, in una qualche forma di autocontrollo e di temperamento secondo l’esperienza, l’avvenire. Io non dico, certo, che al nostro Partito, partito popolare, sia stata o sia estranea la sensibilità per queste cose: ma è certo che nell’incanalare questo movimento siano stati più pronti i partiti di sinistra, ed in particolare quello comunista, che non il nostro”. “È qui il problema che ci portiamo, insoluto da un Congresso all’altro, da un Consiglio nazionale all’altro. Alla domanda, se io abbia risolto questo problema, risponderò di no”.
 Ancora insomma, sulla base delle parole scambiate con Galloni, Moro puntava, per uscire dalla democrazia difficile per una nuova democrazia basata sull’alternanza, su “una DC ricostituita, mi auguro libera dall’arroganza del potere”.
 Purtroppo anche in questo investimento sul partito c’era forse più utopia che realismo: e tuttavia bisognerà pure riscoprire  che quel segno d’utopia ha ispirato ancora vite e tentativi, resistenze e dedizioni, intelligenza e coerenze, e ha lasciato tracce che vanno riscoperte e rinnovate,  perché questa utopia è anche una realtà  della storia  del nostro paese  che bisogna decidersi ad assumere.   



Mercoledì 15 Maggio 2013 La Repubblica

15 maggio 1948: la Nakba

da uno scritto di Ilan Pappe:
“ (...)Tra febbraio e dicembre del 1948 l’esercito israeliano ha occupato sistematicamente i villaggi e le città palestinesi, facendo fuggire con la forza la popolazione e nella maggior parte dei ca-si anche distruggendo le case, devastando le proprietà e portando via loro averi e i loro ricordi.
Una vera e propria pulizia etnica.
Durante questa pulizia etnica ogni volta che vi è stata resistenza da parte della popolazione questa è stata sempre massacrata (...)”.

La comunità internazionale era al corrente di questa pulizia etnica, ma decise, soprattutto in occidente, di non scontrarsi con la comunità ebraica in Palestina dopo l’Olocausto.
Le operazioni di pulizia etnica non consistono solo nell’annientare una popolazione e cacciarla dalla terra. Perché la pulizia etnica sia efficace è necessario cancellare quel popolo dalla storia, dalla memoria.
Gli Israeliani sono molto bravi a fare ciò e lo realizzano in due modi. Sulle rovine dei villaggi palestinesi costruiscono insediamenti per i coloni chiamandoli con nomi che richiamano quello precedente. Un monito ai palestinesi: ora il territorio è nelle nostre mani e non c’è possibilità di far tornare indietro l’orologio.
Oppure costruiscono spazi ricreativi che sono l’opposto della commemorazione: vivere la vita, goderla nel divertimento e nel piacere.
E’ un strumento formidabile per un atto di “memoricidio".

Ogni 15 maggio il popolo palestinese e tutti i suoi sostenitori nel mondo commemorano la Nakba, la catastrofe. Questo termine è l’appellativo che i palestinesi danno al 15 maggio del 1948, data in cui l’esercito sionista ha invaso i territori palestinesi, impossessandosi delle terre, delle case e del futuro del popolo palestinese.

Al Nakba è stato il giorno in cui il popolo palestinese si è trasformato in una nazione di rifugiati, in cui almeno  750.000 persone sono state espulse dalle loro case e costrette a vivere nei campi profughi. Molti di quelli che non sono riusciti a scappare o si sono ribellati o in qualche modo rappresentavano una minaccia per il progetto sionista sono stati uccisi.

Si conoscono più di 530 villaggi palestinesi che sono stati evacuati  e distrutti completamente, con annesso il tentativo di cancellare addirittura l’esistenza di quegli agglomerati, eliminando foto dell’epoca, documenti e testimonianze di vita e cultura palestinese.
Israele oggi continua ad impedire il ritorno a casa di circa sei milioni di rifugiati e ancora oggi a cerca di espellere i palestinesi dalla loro terra, attraverso politiche razziste degne della peggiore apartheid.

Queste operazioni assumono di volta in volta forme e nomi diversi, attualmente vengono chiamati “trasferimenti”. I rifugiati palestinesi sono fuggiti in diversi posti e la maggior parte di questi vive nel raggio di 100 miglia dai confini d’Israele, ospite negli stati arabi confinanti; alcuni sono fuggiti nei paesi limitrofi intorno alla Palestina, altri sono fuggiti all'interno della Palestina ed hanno vissuto nei campi profughi, costruiti appositamente per loro dalle agenzie ONU, e altri si sono dispersi in vari paesi del mondo.
Tutti questi rifugiati hanno un sogno in comune: ritornare nelle loro case di origine, e questo sogno è rinnovato ogni anno attraverso la commemorazione della Nakba.
 




Il Cavaliere e la favola dei 106 processi
di GIUSEPPE D'AVANZO
La Repubblica 10/05/2013

SI dice: il processo sia "breve" e se questa rapidità cancella i processi di Silvio Berlusconi sia benvenuta perché contro quel poveruomo, dopo che ha scelto la politica (1994), si è scatenato un "accanimento giudiziario" con centinaia di processi.

Al fondo della diciottesima legge ad personam, favorevole al capo del governo c'è soltanto uno schema comunicativo, fantasioso, perché privo di ogni connessione con la realtà. È indiscutibile che un giudizio debba avere una ragionevole durata per non diventare giustizia negata (per l'imputato innocente, per la vittima del reato). "Processo breve", però, è soltanto un'efficace formula di marketing politico-commerciale. Nulla di più. Per credere che dia davvero dinamismo ai dibattimenti, bisogna dimenticare che le nuove regole (durata di sei anni o morte del processo) sono un imbroglio, se non si migliorano prima codice, procedura, organizzazione giudiziaria. Sono una rovina per la credibilità del "sistema Italia", se definiscono "non gravi" i reati economici come la corruzione. Con il tempo, la ragione privatissima del disegno di legge è diventata limpida anche per i creduloni, e i corifei del sovrano ora ammettono in pubblico che la catastrofica riforma è stata pensata unicamente per liberare Berlusconi dai suoi personali grattacapi giudiziari. L'effrazione di ogni condizione generale e astratta della legge deve essere sostenuta - per conformare la mente del "pubblico" - da un secondo soundbite, quella formuletta breve e convincente che, come una filastrocca, deve essere recitata in tv, secondo gli esperti, al ritmo di 6,5 sillabe al secondo, in non più di 12/15 secondi. Diffusa, ripetuta e disseminata dai guardiani vespi e minzolini dei flussi di comunicazione, suona così: Silvio Berlusconi ha il diritto di proteggersi - sì, anche con una legge ad personam - perché ha dovuto subire centinaia di processi dopo la sua "discesa in campo", spia di un protagonismo abusivo e tutto politico della magistratura che indebolisce la democrazia italiana.

Bene, ma è vero che Berlusconi è stato "aggredito" dalle toghe soltanto dopo aver scelto la politica? E quanto è stato "aggredito"? Davvero lo è stato con "centinaia di processi" tutti conclusi con un nulla di fatto? Domande che meritano parole factual, se si vuole avere un'opinione corretta anche di questo argomento sbandierato da tempo e accettato senza riserve anche dalle menti più ammobiliate.

Il numero dei processi di Berlusconi è un mistero misericordioso se si ascolta il presidente del consiglio. Dice il Cavaliere: "In assoluto [sono] il maggior perseguitato dalla magistratura in tutte le epoche, in tutta la storia degli uomini in tutto il mondo. [Sono stato] sottoposto a 106 processi, tutti finiti con assoluzioni e due prescrizioni" (10 ottobre 2009). Nello stesso giorno, Marina Berlusconi ridimensiona l'iperbole paterna: "Mio padre tra processi e indagini è stato chiamato in causa 26 volte. Ma a suo carico non c'è una sola, dico una sola, condanna. E se, come si dice, bastano tre indizi per fare una prova, non le sembra che 26 accuse cadute nel nulla siano la prova provata di una persecuzione?" (Corriere, 10 ottobre). Qualche giorno dopo, Paolo Bonaiuti, portavoce del premier, pompa il computo ancora più verso l'alto: "I processi contro Berlusconi sono 109" (Porta a porta, 15 ottobre). Lo rintuzza addirittura Bruno Vespa che avalla i numeri di Marina: "Non esageriamo, i processi sono 26".

Ventisei, centosei o centonove, e quante assoluzioni? In realtà, i processi affrontati dal Cavaliere come imputato sono sedici. Quattro sono ancora in corso: corruzione in atti giudiziari per l'affare Mills; istigazione alla corruzione di un paio di senatori (la procura di Roma ha chiesto l'archiviazione); fondi neri per i diritti tv Mediaset (in dibattimento a Milano); appropriazione indebita nell'affare Mediatrade (il pm si prepara a chiudere le indagini).

Nei dodici processi già conclusi, in soltanto tre casi le sentenze sono state di assoluzione. In un'occasione con formula piena per l'affare "Sme-Ariosto/1" (la corruzione dei giudici di Roma). Due volte con la formula dubitativa del comma 2 dell'art. 530 del Codice di procedura penale che assorbe la vecchia insufficienza di prove: i fondi neri "Medusa" e le tangenti alla Guardia di Finanza, dove il Cavaliere è stato condannato in primo grado per corruzione; dichiarato colpevole ma prescritto in appello grazie alle attenuanti generiche; assolto in Cassazione per "insufficienza probatoria". Riformato e depenalizzato il falso in bilancio dal governo Berlusconi, l'imputato Berlusconi viene assolto in due processi (All Iberian/2 e Sme-Ariosto/2) perché "il fatto non è più previsto dalla legge come reato". Due amnistie estinguono il reato e cancellano la condanna inflittagli per falsa testimonianza (aveva truccato le date della sua iscrizione alla P2) e per falso in bilancio (i terreni di Macherio). Per cinque volte è salvo con le "attenuanti generiche" che (attenzione) si assegnano a chi è ritenuto responsabile del reato. Per di più le "attenuanti generiche" gli consentono di beneficiare, in tre casi, della prescrizione dimezzata che si era fabbricato come capo del governo: "All Iberian/1" (finanziamento illecito a Craxi); "caso Lentini"; "bilanci Fininvest 1988-'92"; "fondi neri nel consolidato Fininvest" (1500 miliardi); Mondadori (l'avvocato di Berlusconi, Cesare Previti, "compra" il giudice Metta, entrambi sono condannati).

È vero, l'inventario annoia ma qualcosa ci racconta. Ci spiega che senza amnistie, riforme del codice (falso in bilancio) e della procedura (prescrizione) affatturate dal suo governo, Berlusconi sarebbe considerato un "delinquente abituale". Anche perché, se non avesse corrotto un testimone (David Mills, già condannato in appello, lo protegge dalla condanna in due processi), non avrebbe potuto godere delle "attenuanti generiche" che lo hanno reso "meritevole" della prescrizione che egli stesso, da presidente del consiglio, s'è riscritto e accorciato.

L'imbarazzante bilancio giudiziario non liquida un lamento che nella "narrativa" di Berlusconi è vitale: fino a quando nel 1994 non mi sono candidato al governo del Paese, la magistratura non mi ha indagato. Se non si lasciano deperire i fatti, anche questo ossessivo soundbite non è altro che l'alchimia di un mago, pubblicità. Berlusconi viene indagato per traffico di stupefacenti, undici anni prima della nascita di Forza Italia. Nel 1983 (l'accusa è archiviata). È condannato in appello (e amnistiato) per falsa testimonianza nel 1989, venti anni fa. Nel 1993 - un anno prima della sua prima candidatura al governo - la procura di Torino già indaga sul Milan e i pubblici ministeri di Milano sui bilanci di Publitalia. Al di là di queste date, è documentato dagli atti giudiziari che Silvio Berlusconi e il gruppo Fininvest finiscono nei guai non per un assillo "politico" dei pubblici ministeri, ma per le confessioni di un ufficiale corrotto del Nucleo regionale di polizia tributaria di Milano. Ammette che le "fiamme gialle" hanno intascato 230 milioni di lire per chiudere gli occhi nelle verifiche fiscali di Videotime (nel 1985), Mondadori (nel 1991), Mediolanum Vita (nel 1992), tutti controlli che precedono l'avventura politica dell'Egoarca. Accidentale è anche la scoperta dei fondi esteri della Fininvest. Vale la pena di ricordarlo. Uno dei prestanomi di Bettino Craxi, Giorgio Tradati, consegna a Di Pietro i tabulati del conto "Northern Holding". Li gestisce per conto di Craxi. Sul conto affluisce, senza alcun precauzione, il denaro che il gotha dell'imprenditoria nazionale versa al leader socialista.

C'è una sola eccezione. Un triplice versamento non ha nome e firma. Sono tre tranche da cinque miliardi di lire che un mittente, generoso e sconosciuto, invia nell'ottobre 1991 a Craxi. "Fu Bettino a annunciarmi l'arrivo di quel versamento", ricorda Tradati. Le rogatorie permettono di accertare che i miliardi, "appoggiati" su "Northern Holding", vengono dal conto "All Iberian" della Sbs di Lugano. Di chi è "All Iberian"? Per mesi, i pubblici ministeri pestano acqua nel mortaio fino a quando un giovane praticante dello studio Carnelutti, un prestigioso studio legale milanese, confessa al pool di avere fatto per anni da prestanome per conto della Fininvest in società create dall'avvocato londinese David Mackenzie Mills.
Così hanno inizio le rogne che ancora oggi Berlusconi deve grattarsi. Il caso, la fortuna, la sfortuna, fate voi. Tirando quell'esile filo, saltano fuori 64 società off-shore del "gruppo B di Fininvest very secret", create venti anni fa e alimentate prevalentemente con fondi provenienti dalla "Silvio Berlusconi Finanziaria". È in quell'arcipelago che si muovono le transazioni strategiche della Fininvest che, come documenterà la Kpmg, consentono a Berlusconi e al suo gruppo di "alterare le rappresentazioni di bilancio"; "esercitare un controllo con fiduciari in emittenti tv che le normative italiane estere non avrebbero permesso"; "detenere quote di partecipazione in società quotate senza informare la Consob e in società non quotate per interposta persona"; "erogare finanziamenti"; "effettuare pagamenti"; "intermediare tra società del gruppo l'acquisizione dei diritti televisivi"; "ricevere fondi da terzi per finanziare operazioni di Fininvest effettuate per conto di terzi". È il disvelamento non di un episodio illegale, ma di un metodo illegale di lavoro, dello schema imprenditoriale illecito che è a fondamento delle fortune di Silvio Berlusconi. Per dirla tutta, e con il senno di poi, sedici processi per venire a capo di quel grumo di illegalità oggi appaiono addirittura un numero modesto. Nel "group B very discreet della Fininvest" infatti si costituiscono fondi neri (quasi mille miliardi di lire). Transitano i 21 miliardi che rimunerano Bettino Craxi per l'approvazione della legge Mammì; i 91 miliardi in Cct destinati alla corruzione del Parlamento che approva quella legge; la proprietà abusiva di Tele+ (viola le norme antitrust italiane, per nasconderla furono corrotte le "fiamme gialle"); il controllo illegale dell'86 per cento di Telecinco (in disprezzo delle leggi spagnole); l'acquisto fittizio di azioni per conto del tycoon Leo Kirch contrario alle leggi antitrust tedesche; le risorse destinate poi da Cesare Previti alla corruzione dei giudici di Roma (gli consegnano la Mondadori); gli acquisti di pacchetti azionari che, in violazione delle regole di mercato, favorirono le scalate a Standa, Mondadori, Rinascente. E c'è altro che ancora non sappiamo e non sapremo?

Tutti i processi che Berlusconi ha affrontato e deve ancora affrontare nascono per caso non per un deliberato proposito. Un finanziere che confessa, un giovane avvocato che si libera del peso che incupisce i suoi giorni consentono di mettere insieme indagine dopo indagine, ineluttabili per l'obbligatorietà dell'azione penale, una verità che il capo del governo non potrà mai ammettere: il suo successo è stato costruito con l'evasione fiscale, i bilanci truccati, la corruzione della politica, della Guardia di Finanza, di giudici e testimoni; la manipolazione delle leggi che regolano il mercato e il risparmio in Italia e in Europa. Per Berlusconi, la banalizzazione della sua storia giudiziaria, che egli traduce e confonde in guerra alla (o della) magistratura, non è il conflitto della politica contro l'esercizio abusivo del potere giudiziario, ma il disperato e personale tentativo di cancellare per sempre le tracce del passato e di un metodo inconfessabile. Con quali tecniche Berlusconi ha combattuto, e ancora affronterà, questa contesa è un'altra storia.
".

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