venerdì 27 giugno 2014

Cooperazione allo sviluppo, Tonini: Una riforma necessaria

Vita, 26 giugno 2014 

di Daniele Biella

Dopo l'ok di ieri al Senato, per cambiare la legge in vigore dal 1987 manca solo il passaggio alla Camera, che avverrà a cavallo dell'estate. "Si riparte con tante, fondamentali, novità", indica il relatore Giorgio Tonini, intervistato da Vita.it

Cooperazione internazionale, questa volta si cambia per davvero. Entro la fine dell'estate la legge 49 datata 1987 andrà in archivio, sostituita da una riforma che il settore attende da almeno un decennio. "E' cambiato il mondo, una nuova legge è più che necessaria", ragiona il deputato del Pd Giorgio Tonini, relatore del nuovo impianto legislativo. Che ieri 25 giugno 2014 il Senato è stato approvato dal Senato, e ora vedrà il alla Camera, dove si prospetta il via libera tra fine luglo e le prime settimane di settembre.
Le forze politiche sono finalmente pronte al cambiamento?
Sì. Il voto in Senato lo dimostra: 201 parlamentari a favore, di Pd, Ncd, centristi e Fi, 15 astenuti, di Lega e Sel, e nessun voto contrario. C'è l'accordo politico sul tema, quindi presumo che alla Camera il testo procederà spedito e senza brutte sorprese.
La convergenza politica è cosa rara, quali sono i pilastri della riforma che hanno portato all'accordo?
Un approccio del tutto diverso al modo stesso di fare cooperazione allo sviluppo. Dalla logica dell'aiuto della legge precedente (ottima, ma riferita a quello specifico periodo storico), si passa a un convinto partenariato con i paesi di riferimento. Il punto di partenza è che non esistono più un Primo o un Terzo mondo, perché ora vi sono parecchi paesi emergenti dove aree economicamente forti si affiancano a territori disperati, come accade in India o in diversi paesi dell'Africa. Il primo pilastro della riforma è l’allargamento di chi è invitato a cooperare: in primo piano rimangono nel ong, organizzazioni non governative, quindi il non profit, ma ora entra in scena il profit.
Le aziende nella cooperazione internazionale?
Sì, perché essa innesta sviluppo, e qui può entrare in scena il mondo aziendale, naturalmente con determinate regole che partono da un comportamento fair, equo e solidale. Quindi si assisterà a un doppio protagonismo, quello classico delle ong e quello del profit.
Quali sono gli altri punti base del nuovo testo?
Il cambio di rotta a livello economico dell’Italia. Abbiamo assistito per anni a una diminuzione dei fondi destinato alla cooperazione allo sviluppo, e mancheremo del tutto l’obiettivo proposto dall’Onu di arrivare allo 0,7 per cento del Pil da destinare alla cooperazione: ora, seppur in risalita dal governo Monti in poi, sfioriamo lo 0,2 per cento. La riforma ci impegna a impostare un piano di rientro certo, che può durare anche un decennio, ma che raggiunga senza indugi il traguardo dello 0,7 per cento.
Cambierà anche l’organizzazione dell’intervento umanitario italiano?
In modo radicale. Destiniamo ‘solo’ lo 0,2 per cento, che comunque ammonta a ben 3 miliardi di euro, e lo destiniamo male, ovvero in maniera frammentaria, tra mille rivoli e progetti diversi che mancano di un coordinamento centrale. Mi spiego meglio: oggi almeno il 60 per cento della quota italiana va per azioni multilaterali, ovvero ad agenzie di Onu, Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, e naturalmente Unione europea. Di questi soldi non seguiamo minimamente il corso, manca un raccordo stabile tra i due ministeri maggiormente coinvolti, il Mae, Ministero affari esteri e il Mef, Ministero dell’Economia e delle finanze. Per quanto riguarda invece la cooperazione bilaterale, alla quale il Mae rivolge solo un decimo dell’ammontare complessivo, la situazione è ancora più confusa: oltre ai progetti di tale ministero ci sono quelli del ministero dell’Ambiente, del Miur, Ministero istruzione università e ricerca, del Beni culturali, della Difesa e persino degli Interni. Tutte azioni lodevoli, sia chiaro, ma autonome e quindi scollegate fra loro.
Cosa propone in questo senso la riforma?
Una cabina di regia centrale. Che manterrà il pluralismo, ma che coordinerà meglio la situazione complessiva. Sarà affidata al Mae, che tra l’altro cambierà dicitura diventando Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, avrà un viceministro ad hoc e preparerà un programma triennale approvato dal Consiglio dei ministri. Si tratta di una vera e propria agenzia pensata come un bracco operativo unitario per la fase attuativa dei progetti, un collettore unico che collaborerà attivamente con tutte le realtà coinvolte: gli enti pubblici, le ong, i privati.

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