domenica 29 novembre 2015

Castagnetti: “Nella linea del governo c’è una sapienza antica”


Francesco Cundari
L'Unità 27 novembre 2015
“La prudenza non è moderatismo, ma intelligenza della realtà e delle situazioni”
«C’è una sapienza antica, un sedimento storico, nell’intelligenza con cui il governo italiano sta affrontando la crisi». Autorevole dirigente del Pd e prima della Democrazia cristiana (fu tra i quattro deputati della Dc che nel 1991 votarono contro la partecipazione dell’Italia alla prima guerra del Golfo, quella di George Bush padre), Pierluigi Castagnetti condivide pienamente la linea adottata dal presidente del Consiglio. Sia la sua prudenza dinanzi ai toni bellicisti di altri paesi, rispetto ai quali ha privilegiato finora il momento politico e diplomatico (la priorità di un allargamento della coalizione anti-Isis, la necessità di pensare anche al “dopo” per evitare una «Libia bis»), sia la scelta, sul piano il ruolo dell’Italia è stato preziossimo ed è stato spesso anche un ruolo attivo, per costruire mediazioni e occasioni di dialogo, e per prevenire scontri. È la storia del nostro paese. Probabilmente Renzi non si pone nemmeno l’esigenza di recuperare questa tradizione: certe cose entrano naturalmente nelle vene della politica. E nelle sue vene, evidentemente, sono entrate bene…». Vogliamo dire che stiamo parlando della tradizione democristiana, da Moro a Andreotti? «Sì, ma attenzione: parliamo di una sapienza che era condivisa anche dalle opposizioni, a cominciare dal Pci, e che ha caratterizzato la politica di tutti i governi italiani per una lunghissima stagione, compreso il governo Craxi». La accuseranno di nostalgia per la Prima Repubblica. «Non sono stati anni infecondi, quelli di cui parliamo. Non tutto quel che appartiene al passato è da buttare. Per evitare l’esplosione di conflitti tremendi c’era bisogno di un impegno di grande respiro. L’Italia ha avuto in questo un ruolo molto attivo e di grande iniziativa. La nostra linea non era un’espressione del classico doroteismo dc, era intelligenza e capacità di mediazione in tutto il bacino del Mediterraneo». Si tratta di una linea che è stata anche molto criticata. Alcuni ritengono che poggiasse su una ambiguità di fondo, per non dire su una sorta di doppio gioco, nei confronti dell’alleanza Atlantica. «Era una linea che poggiava sulla conoscenza del mondo arabo. Perché, vede, prerequisito indispensabile per avere qualche idea su come affrontare una situazione, è averne qualche conoscenza. Ma da quando i due Bush hanno cominciato a interno, di accompagnare agli investimenti in sicurezza investimenti di pari ammontare sulla cultura e l’integrazione.
Probabilmente per Matteo Renzi questa è la prova più difficile da quando è diventato capo del governo. Come la sta affrontando?
«Sicuramente è la prova più difficile e a mio avviso Renzi la sta affrontando benissimo: con intelligenza politica e anche con un disegno strategico. Tanto è vero che nessuno riesce a eccepirgli alcunché».
Non si tratta però di una linea così lontana dalla tradizionale politica estera dell’Italia, o sbaglio?
«Certo che no. È una tradizione antica. In occidente, direi almeno dalla crisi di Suez in poi, c’è stata quasi una sorta di delega all’Italia sulle vicende del Medio Oriente e in particolare del mondo arabo. Per decenni il ruolo dell’Italia è stato preziossimo ed è stato spesso anche un ruolo attivo, per costruire mediazioni e occasioni di dialogo, e per prevenire scontri. È la storia del nostro paese. Probabilmente Renzi non si pone nemmeno l’esigenza di recuperare questa tradizione: certe cose entrano naturalmente nelle vene della politica. E nelle sue vene, evidentemente, sono entrate bene…».
Vogliamo dire che stiamo parlando della tradizione democristiana, da Moro a Andreotti?
«Sì, ma attenzione: parliamo di una sapienza che era condivisa anche dalle opposizioni, a cominciare dal Pci, e che ha caratterizzato la politica di tutti i governi italiani per una lunghissima stagione, compreso il governo Craxi». La accuseranno di nostalgia per la Prima Repubblica. «Non sono stati anni infecondi, quelli di cui parliamo. Non tutto quel che appartiene al passato è da buttare. Per evitare l’esplosione di conflitti tremendi c’era bisogno di un impegno di grande respiro. L’Italia ha avuto in questo un ruolo molto attivo e di grande iniziativa. La nostra linea non era un’espressione del classico doroteismo dc, era intelligenza e capacità di mediazione in tutto il bacino del Mediterraneo».
Si tratta di una linea che è stata anche molto criticata. Alcuni ritengono che poggiasse su una ambiguità di fondo, per non dire su una sorta di doppio gioco, nei confronti dell’alleanza Atlantica.
«Era una linea che poggiava sulla conoscenza del mondo arabo. Perché, vede, prerequisito indispensabile per avere qualche idea su come affrontare una situazione, è averne qualche conoscenza. Ma da quando i due Bush hanno cominciato a lanciare interventi privi di logica e prospettiva, solo reattivi, e spesso ingiustificati anche sotto questo profilo, abbiamo disimparato a capire il mondo arabo, e quello islamico in particolare. Ecco, io credo che Renzi, con la linea che sta tenendo, stia dimostrando di conoscere il mondo arabo».
C’è chi lo accusa di eccessiva prudenza, per non dire di peggio. Non vede il rischio di un’autoemarginazione dell’Italia?
«C’è, anche nel dibattito italiano, chi ritiene che la maturità della politica si identifichi con la capacità di fare la guerra. Io penso che coincida invece con la capacità di evitare la guerra. Mi vengono in mente le parole di San Brunone: “Se sei santo prega per noi, se sei dotto insegnaci quello che sai, se sei prudente governaci”. La prudenza non è moderatismo, ma intelligenza della realtà e delle situazioni».

Da Ingroia a Tsipras fino a Grillo, Flores d’Arcais in marcia verso il nulla


Fabrizio Rondolino
L'Unità 28 novembre 2015
L’endorsement del direttore di Micromega mette in difficoltà perfino Di Battista
C’è qualcosa di commovente in Paolo Flores d’Arcais, il direttore di MicroMega, qualcosa che ispira tenerezza in chi lo ascolta: come l’omino Duracell è sempre in marcia, con la risolutezza un po’ cocciuta di chi pensa soltanto a sé nella convinzione che il mondo prima o poi si adeguerà, e ogni volta che cambia direzione – il che gli accade molto spesso – è il mondo che ha cambiato verso, mentre lui, impettito, riprende la sua marcia lineare verso il nulla.
Ieri, ci riferisce il Fatto, ha invitato Stefano Rodotà e Alessandro Di Battista alla presentazione del nuovo numero di MicroMega, e per l’occasione si è solennemente dichiarato grillino: “A sinistra non ci sono più corpi da rianimare. I Cinque stelle sono l’unico movimento votabile, e lo faccio convintamente da anni”. Naturalmente non è affatto vero: alle ultime europee Flores è stato fra i garanti della Lista Tsipras, alle precedenti politiche dichiarò di aver votato la “Rivoluzione civile” di Ingroia – due successi clamorosi, davvero difficili da dimenticare. Ma Flores sbianchetta il proprio passato, forse per ingraziarsi il suo nuovo eroe, Beppe Grillo, e convintamente spiega che “c’è solo una forza che rappresenta le istanze di rappresentanza e legalità, ed è il M5s”.
Neppure il cronista del Fatto riesce a rimanere serio, e nel riportare le parole di Flores osserva: “Troppa grazia, per Di Battista”, descrivendolo “con postura da studente rispettoso” ma anche un pochino preoccupato: “Incassa, ma deve fugare subito sospetti di deriva sinistroide”, e dunque ribadisce che “il Movimento è oltre le ideologie, sinistra e destra sono corpi morti”. Ma Flores-Duracell è già in cammino e non c’è modo di fermarlo: “Il M5s non deve essere autoreferenziale, deve passare all’offensiva”. Come? “Raccogliendo migliaia di firme sul web”. Questa Di Battista deve averla già sentita: ma è un ragazzo educato, e aspetta educatamente che il dibattito finisca.

Intellettuali....

Pierluigi Castagnetti
Ho letto oggi il suggerimento di un grande giornalista e intellettuale, al ns capo di governo, di accompagnare la Francia nell'avventura della guerra, sapendo che per vincerla occorrerà poi mettere gli scarponi a terra. Ecco la differenza fra l'intellettuale e il politico. S'io fossi capo del governo di intellettuali attorno a me ne vorrei moltissimi, perché chi governa ha bisogno di tanti suggerimenti, tanta intelligenza, tanta competenza che un uomo solo non può avere. Ma le decisioni non le delegherei mai a un intellettuale cosiddetto puro, per di più privo di senso politico e dell'esperienza della responsabilità.

venerdì 27 novembre 2015

Quella dei jihadisti è una rivolta generazionale e nichilista


Olivier Roy, 
27 novembre 2015 
Le Monde
La Francia è in guerra! Sì, ma contro chi o cosa? Il gruppo Stato islamico (Is) non manda cittadini siriani in Francia per compiere attentati e convincere il governo di Parigi a interrompere i bombardamenti. No, l’Is attinge a un grande bacino di giovani francesi radicalizzati, che a prescindere dalla situazione in Medio Oriente sono già in cerca di una causa, di un’etichetta, di una grande narrazione su cui apporre la firma sanguinaria della loro rivolta personale. Per questo l’eventuale distruzione dell’Is non basterà a fermare la rivolta.
La collaborazione tra questi giovani e l’Is è semplicemente una questione di opportunità. Gli stessi giovani si erano legati ad Al Qaeda e prima ancora al Gia algerino, o avevano seguito un nomadismo jihadista individuale tra Afghanistan, Bosnia e Cecenia. Domani combatteranno per un’altra bandiera, a meno che la morte in battaglia, la vecchiaia o la disillusione non svuotino i loro ranghi, un po’ come è accaduto all’estrema sinistra degli anni settanta.
Il dato fondamentale è che non esiste una terza, quarta o ennesima generazione di jihadisti. Dal 1996 siamo alle prese con la stabile radicalizzazione di due categorie di giovani: i francesi di seconda generazione e i convertiti. Il problema fondamentale per la Francia non è il califfato siriano, che presto o tardi evaporerà come un miraggio, ma la rivolta dei giovani. Per questo dobbiamo capire se questi ragazzi sono l’avanguardia di una guerra imminente o solo le scorie di un borborigmo della storia.
Cos’hanno in comune i ragazzi della seconda generazione e i convertiti? La loro è prima di tutto una rivolta generazionale
Oggi due letture dominano la scena, indirizzando i dibattiti televisivi e le pagine dei giornali: la spiegazione culturalista e quella terzomondista. La prima insiste sulla ricorrente guerra di civiltà: la rivolta dei ragazzi musulmani dimostra che l’islam non può integrarsi, almeno fino a quando una riforma teologica non cancellerà dal Corano l’invito al jihad.
La seconda insiste sulla sofferenza postcoloniale, sull’identificazione dei giovani con la causa palestinese, sul loro rifiuto degli interventi occidentali in Medio Oriente e sulla loro esclusione da una società francese razzista e islamofoba, e da lì il solito ritornello: finché non risolveremo il conflitto israelo-palestiense la rivolta andrà avanti. Ma entrambe le spiegazioni presentano lo stesso problema. Se le cause della radicalizzazione sono strutturali, allora perché il fenomeno colpisce solo una parte minima e molto circoscritta dei musulmani francesi?
Quasi tutti i jihadisti francesi appartengono a due categorie: i francesi di seconda generazione nati in Francia o arrivati quando erano bambini e i convertiti, che già nel 1990 costituivano il 25 per cento degli estremisti e che continuano ad aumentare. Questo significa che tra gli estremisti non esiste una prima generazione, ma soprattutto non esiste una terza generazione. Gli immigrati marocchini degli anni settanta sono già diventati nonni, ma non troviamo i loro nipoti tra i terroristi.
Perché i convertiti, che non sono mai stati vittime del razzismo, vogliono improvvisamente vendicare l’umiliazione subita dai musulmani? Teniamo presente che molti convertiti vengono dalle campagne francesi e hanno pochi motivi per identificarsi con una comunità musulmana che per loro ha un’esistenza quasi esclusivamente virtuale. In altre parole, questa non è la rivolta dell’islam o dei musulmani, ma un problema che riguarda due categorie di giovani. Non è una radicalizzazione dell’islam, ma un’islamizzazione del radicalismo.
Cos’hanno in comune i ragazzi della seconda generazione e i convertiti? La loro è prima di tutto una rivolta generazionale. Entrambe le categorie hanno rotto i ponti con i loro genitori e con tutto ciò che rappresentano in termini di cultura e religione. I francesi di seconda generazione non aderiscono all’islam dei loro genitori. Sono occidentalizzati e parlano francese perfettamente. Hanno condiviso la cultura giovanile della loro generazione, hanno bevuto alcol, fumato hashish, rimorchiato ragazze. Molti di loro sono stati almeno una volta in prigione, e poi un bel mattino si sono (ri)convertiti scegliendo l’islam salafita, ovvero un islam che rifiuta il concetto di cultura, un islam della regola che gli permette di ricostruirsi da sé. Non vogliono la cultura dei genitori e nemmeno una cultura “occidentale”, che ormai è il simbolo del loro odio verso se stessi.
La chiave della rivolta è la mancata trasmissione di una religione culturalmente integrata. Questo problema non riguarda né i francesi di prima generazione, portatori della cultura islamica del paese d’origine ma incapaci di trasmetterla ai figli, né quelli di terza generazione, che parlano francese con i genitori e grazie a loro hanno una grande familiarità con le modalità di espressione dell’islam nella società francese. Se all’interno dei movimenti radicali troviamo meno turchi e più magrebini è perché per i primi la transizione è stata assicurata dallo stato turco, che ha garantito la trasmissione culturale inviando istitutori e imam.
La violenza a cui aderiscono è una violenza moderna. Uccidono come gli autori delle stragi statunitensi e come Anders Breivik, a sangue freddo
I giovani convertiti, per definizione, aderiscono alla religione “pura”. Il compromesso culturale non gli interessa (a differenza delle vecchie generazioni che si convertivano al sufismo) e si uniscono alla seconda generazione nell’adesione a un “islam di rottura”, una rottura generazionale, culturale e politica. Non serve a niente offrirgli un islam moderato, perché è precisamente il radicalismo ad attirarli. Il salafismo non è solo una predicazione finanziata dall’Arabia Saudita, ma il prodotto più adatto a questi ragazzi alla deriva.
Improvvisamente – ed è questa la grande differenza con il caso dei giovani palestinesi che partecipano alle diverse forme di intifada – i genitori musulmani degli estremisti francesi non capiscono più la rivolta dei loro figli. Come i genitori dei convertiti, anche loro cercano sempre più spesso di frenare la radicalizzazione dei figli: chiamano la polizia, vanno in Turchia a recuperarli, temono che i fratelli maggiori possano trascinare i più piccoli. In questo senso, lungi dall’essere il simbolo di una radicalizzazione della popolazione musulmana, i jihadisti creano e alimentano una frattura generazionale, spaccando in due le famiglie.
I jihadisti finiscono così emarginati anche dalle comunità musulmane. È significativo che gli attentatori non abbiamo quasi mai un passato religioso. Gli articoli di giornale che raccontano la loro storia sono tutti incredibilmente simili. I conoscenti dei terroristi si dicono sempre stupiti: “Non capiamo, era una persona gentile (o un piccolo delinquente), non era un musulmano praticante, beveva, fumava spinelli e frequentava le ragazze. Poi è cambiato, si è lasciato crescere la barba e ha cominciato a parlare di religione”.
È inutile parlare della taqiyya (dissimulazione) perché una volta “rinati” questi ragazzi non si nascondono e manifestano le loro nuove convinzioni anche su Facebook. Esibiscono la loro nuova personalità onnipotente, la loro voglia di rivincita, l’esaltazione che deriva dalla volontà di uccidere e la fascinazione per la propria morte. La violenza a cui aderiscono è una violenza moderna. Uccidono come gli autori delle stragi statunitensi e come Anders Breivik, a sangue freddo. In loro il nichilismo e l’orgoglio sono profondamente interconnessi.
Questo individualismo forsennato si ritrova nel loro isolamento rispetto alle comunità musulmane. Pochi frequentano una moschea e i loro imam sono spesso autoproclamati. La loro radicalizzazione si sviluppa attorno a immagini di eroi, alla violenza e alla morte, non alla sharia o all’utopia. In Siria vanno solo per combattere, nessuno di loro si integra o si interessa alla società civile. Sono più nichilisti che utopisti.
Alcuni sono passati dal Tabligh (società di predicazione musulmana fondamentalista), ma nessuno ha mai frequentato i Fratelli musulmani o militato in un movimento politico filopalestinese. Nessuno si è impegnato nella sua comunità consegnando i pasti alla fine del Ramadan o pregando nelle moschee e nelle strade. Nessuno ha condotto studi religiosi approfonditi. Nessuno si interessa di teologia, nemmeno alla natura del jihad o dello Stato islamico.
I terroristi non sono l’espressione di una radicalizzazione della popolazione musulmana, ma il prodotto di una rivolta generazionale
Tutti si radicalizzano insieme a un piccolo gruppo di “compagni” che hanno incontrato in un luogo particolare (quartiere, prigione, società sportiva), con cui ricreano una famiglia e ritrovano un senso di fratellanza. E qui emerge uno schema molto importante che ancora nessuno ha studiato: questa fratellanza è spesso biologica. Tra gli attentatori troviamo regolarmente coppie di fratelli: i fratelli Kouachi e Abdeslam, Abdelhamid Abaaoud che rapisce suo fratello minore, i fratelli Clain che si convertono insieme, i fratelli Tsarnaev che organizzano l’attentato di Boston dell’aprile 2013.
Come se radicalizzare i fratelli (e le sorelle) fosse un modo per sottolineare la dimensione generazionale e la rottura con i genitori. La cellula si sforza di creare legami affettivi tra i suoi componenti, che spesso sposano la sorella di un compagno d’armi. Le cellule jihadiste non somigliano a quelle dei movimenti radicali d’ispirazione marxista o nazionalista (Fln algerino, Ira o Eta): essendo fondate su legami personali, sono più impermeabili all’infiltrazione.
I terroristi non sono l’espressione di una radicalizzazione della popolazione musulmana, ma il prodotto di una rivolta generazionale che coinvolge una categoria precisa di giovani. Ma perché scelgono l’islam? Per i ragazzi della seconda generazione il motivo è evidente: rielaborano un’identità che ai loro occhi è stata compromessa dai genitori e si convincono di essere “più musulmani dei musulmani”, in particolare dei padri. Le energie che dedicano ai vani tentativi di riconvertire i genitori sono eloquenti e al tempo stesso mostrano fino che punto si trovano ormai su un altro pianeta. Quanto ai convertiti, scelgono l’islam perché sul mercato della rivolta radicale non c’è altro. Entrare nell’Is significa avere la certezza di poter seminare il terrore.

Nichi, il 110 e lode a ventotto anni e i 500 euro ai maggiorenni.


Attilio Caso
27 novenbre 2015 
Ho convocato una riunione urgente per organizzare la resistenza gentile a questo terribile attacco al diritto allo studio e alla meglio gioventù. Ci vedremo tra due ore per indire una raccolta di firme, una manifestazione e un'assemblea permanente. Il nostro intento è fare barriera contro questa deriva moserista e boltista, secondo cui le lauree andrebbero conseguite in corso e il denaro distribuito ai giovani in quanto tali. Noi non ci lasceremo sconfiggere da questa visione obamista e renzista: la durata quinquennale di un corso di studi è solo una convenzione neoliberista e dirigista, ovvero una metafora del depauperamento delle emozioni della società occidentale, già previsto dal maestro Chaplin quando aveva rappresentato mirabilmente con alto sguardo profetico il suo Calvero, superato dalla velocità dei tempi ruggenti, che erano allegoria del turbocapitalismo boschista e polettista, nonché del mariadefilippismo venturo. 
No. Alle elementari devi apprendere le tabelline e i sette re di Roma entro la quinta, alle medie i numeri reali entro la terza, al liceo devi cogliere la sublime bellezza della Commedia nei cinque anni, ma all'università sei nell'eternità. Quella che ti permette urlare contro le multinazionali ai cortei fumando Marlboro, resistendo fino all'età in cui i renzisti vanno in pensione, perché hanno scelto la volgare strada del lavoro. Hanno studiato e si sono laureati in tempo con votazioni misere, sono stati indecentemente assunti in un'impresa privata e lì hanno speso la loro vita, senza lasciarsi abbacinare dalla bellezza di una malattia inanellata il lunedì o al rientro dalle ferie, orientata ad una ripresa dolce e migliore dell'attività.
Ci ribelliamo anche all'idea di distribuire un reddito di gioventù ai diciottenni: e i fuori corso trentacinquenni? E i fuori sede ventottenni come pagheranno le Guinness, simbolo della leggerezza irlandese che si oppone all'imperialismo britannico, pesante e schiavo del serrismo? 
Pippo è sconvolto dall'idea che si debbano fare gli studi nei tempi, ma non verrà nel pomeriggio perché ha lezione di judo.
Ci raggiungerà per cena con Corradino, Lilli, Lucia, Norma, Miguel, Stefano, Alfredo e Luciano: dopo l'assemblea permanente le dottorande, in piena libertà, per scelta volontaria, in coerenza con il loro percorso di crescita culturale condotto sotto la guida di Luciano e per resistere all'idea neoconservatrice dello studio finalizzato ad un risultato, ci prepareranno patate, riso e cozze, che rappresentano la più alta manifestazione del lascito della cultura mediterranea.

giovedì 26 novembre 2015

Perchè ora chiamiamo l'Isis Daesh


Francesco Anfossi
Famiglia Cristiana 25/11/2015  
Come ogni entità terroristica, il Califfato di al-Baghdadiin guerra con l'Occidente muta continuamente sigla: Aqi, Is, isis,Isil e ora Daesh. Ecco come si è evoluto e cosa significano le varie sigle.
I primi nell'Occidente a chiamare il Califfato di al-Baghdadi "Daesh" sono stati gli americani. Barack Obama ha usato lo stesso nome quando ha parlato, al vertice dei leader del G20 in Turchia, di “Daesh, una forza in grado di infliggere un dolore così grande agli abitanti di Parigi, Ankara e del resto del mondo”. Anche John Kerry, il segretario di stato americano, ha chiamato Daesh il gruppo Stato islamico nel corso di un incontro a Vienna. Ma le sigle di questo Stato di terroristi è stato indicato con varie sigle: Isis, Isil, Sic. Uno dei motivi è che il gruppo, nato nel 2003 dalla resistenza di un gruppo di ribelli sunniti alle truppe anglo-americane in Irak, affiliato ad Al Qaeda, si è evoluto. E il bello è che Al Qaeda, responsabile degli attentati alle Torri Gemelle nel 2001, ne ha preso poi le distanze per la particolare efferatezza dei suoi affiliati, il che è tutto dire.
Nel tempo quest'entità del male si è estesa e si è strutturata sempre di più, grazie anche all'infiltrazione di ex ufficiali dell'esercito di Saddam Hussein, Nel 2007 il gruppo, che si faceva chiamare Aqi (Al Qaeda Irak) ha cambiato nome in Isi (acronimo di Islamic State in Irak). Quando ha cominciato a sconfinare in Siria, profittando della guerra civile, installandosi nella parte orientale, ha mutato l’acronimo in Isis (ed è il nome più popolare: Islamic State of Irak and Siria). Gli Stati Uniti preferivano chiamarlo Isil (Stato Islamico in Irak e nel Levante). Qualche anno dopo, quando ha occupato vaste porzioni dei due territori, si è autoproclamato Stato del califfato islamico (Sic). Così facendo al-Baghdadi ha lanciato le sue aspirazioni a esercitare la sua autorità su tutti i musulmani del mondo. E’ a quel punto che alcuni Paesi arabi sunniti, che lo avevano finanziato, si sono resi conto di aver partorito un mostro fuori controllo. Ma ormai era troppo tardi.
E veniamo alla nuova sigla Daesh, che è risuonata soprattutto all’indomani delle stragi di Parigi. E’ l’acronimo dell’equivalente arabo di Isis, vale a dire  "Al dawla al islamiya fi al Iraq wal Sham" (Sham è l'antico titolo della Siria in arabo). E’ la sigla che più si è diffusa nei Paesi arabi, anche se i membri del gruppo lo chiamano semplicemente al dawla, lo Stato. Daesh ha un suono, per gli arabi, simile a quello di parole che significano calpestare, distruggere, sbattere contro qualcosa, e causare tensione. Più che mai azzeccato vista la ferocia dei suoi adepti che si fanno ritratrre sotto le bandiere nere. Ultimamente le potenze occidentali e molti giornali hanno adottato questo termine. Che ha il merito, tra le altre cose, come ha spiegato il ministro degli esteri francese Fabius, di non dare al gruppo la dignità di Stato.

ANCHE I FRANCESCANI!

Sandro Albini
Tra tutte le malefatte ai danni di Vaticano, Ordini e Congregazioni Religiose commesse da fratelli, sorelle, o laici imprudentemente assoldati (in qualche caso assoldati proprio per rubare in combutta con qualche religioso) quella comparsa oggi sui giornali è la più sconvolgente. I francescani, si i francescani si sono fatti infinocchiare per una cifra importante: 40 milioni di Euro. Ma cosa sta succedendo nella Chiesa? Il potere temporale è finito con Porta Pia oppure prosegue sotto forma di patrimoni ingenti sui quali ogni tanto cadono in tentazione economi, consulenti e così via. Ne ha voglia Bergoglio di invocare un cambio di passo. Quei 40 milioni erano destinati ad opere di carità non a impinguare il portafoglio di qualche bellimbusto. Immagino lo sconcerto degli umili frati che credono davvero al Signore e a S. Francesco: con quale coraggio ora possono chiedere fondi per la carità quando hanno visti dissipati quelli in loro possesso? E con quale animo i fedeli possono continuare ad erogare fondi per opere di carità quando se ne fa un uso troppo disinvolto (magari sarebbe il caso di verificare anche nel mondo delle ONLUS se i rivoli vanno tutti a buon fine). I casi ormai non stanno più sulle dita di una mano. Accanto alle ruberie, malagestione, improvvisazione hanno contribuito a mettere in difficoltà Salesiani, Fatebenefratelli, S. Lucia, Monterotondo, Camilliani, per citare i casi più noti. E' vero, c'è la crisi delle vocazioni, forse quelli rimasti dentro i conventi sono smarriti e tendono ormai ad assicurare il loro futuro individuale più di quello della famiglia alla quale appartengono. Il Tempio pare brulicare di mercanti e il Papa non dispone forse di tempo ed energie sufficienti per riuscire a scacciarli tutti.

Marino dice “Rifletto”, il Fatto titola “Si candida”


Fabrizio Rondolino
L'Unità 25 novembre 2015
Come si forza un titolo, quando serve
Ignazio Marino rompe gli indugi e dalla prima pagina del Fatto annuncia solennemente: “Mi ricandido, dopo di me risorge il partito degli affari”. Perbacco, questa sì che è una notizia: non è mica un’indiscrezione, una voce, una speranza, niente affatto, è proprio una notizia con tanto di virgolettato dell’ex sindaco.
Corriamo a pagina 11 a leggere la storica intervista, e lo storico annuncio si fa già più incerto, più nebuloso, più probabilistico, per lasciare il posto ad un’altra notizia, non meno clamorosa e decisamente più grave. Il titolo interno infatti recita così: “Marino: ‘Pronto a ricandidarmi, ma Renzi vuole rinviare le urne’”.
Dunque, ricapitolando: in prima un titolo del Fatto attribuisce a Marino la decisione di ricandidarsi; a pagina 11, in un altro titolo, Marino si limita a dichiararsi “pronto”; in compenso dichiara che il presidente del Consiglio non intende far votare i romani.
Ma anche questo non è vero: nell’intervista, infatti, l’ex sindaco si limita ad un’affermazione generica che somiglia più ad uno sfogo: “Con la scusa del Giubileo proveranno anche a rinviare il voto di un anno”. Chi, quando, come? “Vedremo…”, si limita a sussurrare Marino.
E la sua candidatura? Anche su questo punto – il cuore dell’intervista, secondo il titolo che il Fatto le dedica in prima pagina – le cose stanno in un altro modo. Non soltanto Marino non dice di volersi candidare: non dice nemmeno di essere “pronto”. “Si ricandida alle primarie?”, gli chiede il giornalista. E Marino, testualmente, risponde: “Rifletto”. L’intervistatore torna all’attacco e Marino, testualmente, ripete: “Me lo può chiedere altre dieci volte ma la risposta sarà sempre la stessa: rifletto”.
E tuttavia, a quanto pare, neppure dieci risposte identiche sono bastate al Fatto per capire la posizione di Marino: nelle interviste al giornale di Travaglio contano le domande, quel che rispondi è un optional.

martedì 24 novembre 2015

Bruxelles, jihad e "teoria del ghetto"


Federico Rampini
La Repubblica 24 novembre 2015
Ci ho vissuto 15 anni – infanzia e adolescenza – in quella Bruxelles che oggi è il covo dei jihadisti d’Europa. Non ho mai smesso di frequentarla visto che ci sono rimasti sempre i miei genitori, ora mia mamma da sola.
A Parigi frequentai, ventenne, i seminari di Raymond Aron; lì cominciai il mestiere di corrispondente estero 30 anni fa; ci tornò mio figlio Jacopo a fare la Sorbona. Per anni la nostra famiglia sparpagliata tra la California e la Cina o tra l’Europa e New York, si riuniva a Parigi per Natale.
Quando conosci così le città, quando sono i luoghi dove vivono i tuoi migliori amici, e pezzi della tua vita sono incollati al paesaggio locale, diventi allergico alle superficialità, agli stereotipi. A tutte le idiozie che vengono dette in queste settimane da chi cerca una spiegazione facile e rassicurante alle tragedie. Per esempio, per non stancare il cervello di fronte a fatti terribili, angosciosi e complessi, molti diventano di colpo marxisti. Nella versione “bignamino” del marxismo, quella per cui ogni cosa deve spiegarsi con la realtà economica sottostante, i rapporti sociali, le classi, lo sfruttamento capitalistico. Ecco che la jihad penetra perché i giovani di origini arabe o nordafricane sarebbero prigionieri di ghetti, marginalizzati, intrappolati in condizioni economiche disagiate.
Ma davvero? I ghetti per immigrati a Bruxelles io li ricordo bene. Ci vivevano gli italiani. Anni Cinquanta, anni Sessanta: allora sì, il Belgio era un paese razzista. I nostri immigrati andavano a morire per estrarre il carbone nelle miniere della Vallonia. I figli non riuscivano a finire la scuola dell’obbligo. Nessuno di loro imbracciò mai un kalashnikov per farsi giustizia contro i belgi. Non c’erano in circolazione fra loro ideologie di vendetta e di morte. Un sacerdote a cui sono rimasto legato, Bruno Ducoli, portava qualche liceale come me a lavorare nelle scuole serali. Si discuteva di politica, con chi ne aveva voglia. I coraggiosi osavano iscriversi alle Acli, cattolicesimo di sinistra; i comunisti, se c’erano, non si dichiaravano facilmente. Quando arrivò in Italia e in Francia il terrorismo rosso, i nostri immigrati diffidarono subito; era roba per giovani borghesi, universitari, figli di papà.
Oggi, la jihad nascerebbe dalle ingiustizie sociali? Non certo quella di Abdelhamid Abaaoud, 28 anni, uno dei capi della strage a Parigi. Cittadino belga, di origine marocchina. Suo padre era benestante, aveva fatto ottimi affari in Belgio come commerciante. Mise il figlio in una delle migliori scuole private di Bruxelles, un liceo per ricchi.
Sfruttamento, emarginazione, disagio sociale? I guru dei talkshow usano queste formulette come dei passe-partout, per pigrizia intellettuale. I jihadisti no. Di quei problemi, loro non parlano mai. Eppure non mancano i loro proclami ideologici, i documenti di propaganda dello Stato Islamico dilagano “virali” nei social media. Mai che trattino della disoccupazione tra giovani immigrati; mai che denuncino qualche problema sociale nelle banlieues. Sono temi completamente estranei al loro orizzonte ideologico. Non gliene può importare di meno. Quel che odiano dell’Occidente non è lo sfruttamento capitalistico né le diseguaglianze sociali; ciò che denunciano è lo Stato laico che mette tutte le religioni sullo stesso piano; la libertà di espressione; la libertà dei costumi; l’emancipazione femminile; il fatto che le donne possano studiare e lavorare, vestirsi come preferiscono, sposare chi vogliono loro.
Se fosse vero che le nostre ingiustizie sociali generano malessere e ribellione violenta, il brigatismo rosso dovrebbe esistere nell’Italia di oggi, dove gli indicatori della disoccupazione giovanile e del precariato sono decisamente peggiori rispetto agli anni Settanta. Le ideologie di terrore, di sopraffazione e di morte, hanno vita autonoma come i virus. E’ sul piano delle idee che vanno analizzate, contrastate e sconfitte. Oltre, ovviamente, al ruolo indispensabile della magistratura e delle forze delle ordine: quelle che in Belgio in queste ore stanno balbettando paurosamente.

Mali, Libano e gli altri: quale politica estera per i paesi al confine


Lia Quartapelle
22 novembre 2015
Sviluppiamo strumenti efficaci di politica estera per evitare che i paesi del Medio Oriente e Nord Africa sprofondino nel caos.
Per capire più a fondo l’origine e i caratteri del terrore che ha colpito il cuore dell’Occidente a Parigi, dobbiamo guardare ai confini di quella porzione di mondo che ci è più familiare. Confini geopolitici che è difficile scorgere se continuiamo a dividere il mondo come si è fatto per anni, evitando pigramente di comprendere il tanto che è mutato; perché, come ha scritto Claudio Magris: “I confini vengono spostati, spariscono e improvvisamente ricompaiono: con essi si trasforma in maniera errabonda il concetto di ciò che chiamiamo Heimat, patria”.
Per comprendere i contorni nuovi dell’Occidente e rispondere con più consapevolezza e determinazione all’attacco subito, dunque, è proprio ai luoghi di margine che dobbiamo volgere il nostro sguardo. Per questo sbaglieremmo a sentire l’attentato che c’è stato in Mali distinto e distante da noi.
Il Mali come il Libano, la Tunisia, il Kenya; ci sono nazioni che vengono colpite perché esse sono in transizione, tra molte contraddizioni, verso sistemi democratici, plurali, in cui possono convivere sciiti e sunniti, cristiani e musulmani, e che possono dimostrare la validità e applicabilità dei concetti di libertà, democrazia, diritti umani, sistemi economici aperti anche fuori dal campo occidentale.
Gli attentati di Bamako e Beirut ci dicono che una delle linee del fronte contro il terrorismo islamista passa da qui; dalla capacità che hanno e sviluppano nazioni più fragili, di compiere fino in fondo la loro transizione. E dalla capacità del mondo libero e democratico di aiutarli, creando un argine al terrorismo, sostenendo proprio gli esperimenti di democrazia e le istituzioni dei paesi più esposti. Consapevoli che la democrazia, come ammoniva Günter Grass, ha il passo della lumaca.
In questi giorni si discute molto dell’opportunità di impiegare o meno lo strumento militare in Siria, contro Daesh. Avere una strategia di politica estera non significa però solo sapere quando impiegare lo strumento militare. La prima sfida in questo senso riguarda la possibilità di ripensare al nesso tra cooperazione internazionale e sicurezza. Tradizionalmente, i programmi di cooperazione allo sviluppo hanno come obiettivo la lotta contro la povertà e il miglioramento delle condizioni di vita dei beneficiari, ed è un tabù pensare di destinare queste risorse per programmi di sicurezza.
Sappiamo però che senza sicurezza non può esserci sviluppo e che solo istituzioni endogene stabili e legittime garantiscono la sicurezza.
Lo vediamo anche in Mali: contro gli attentatori le forze speciali Usa e Francia hanno dato un contributo militare decisivo, ma se si dà l’idea che le istituzioni nazionali siano commissariate nel monopolio della violenza non sarà possibile sconfiggere né il terrorismo islamista né pacificare le ribellioni tuareg che vi hanno fatto da retroterra.
 Non sarà semplice creare programmi di cooperazione nel settore dell’ordine pubblico, perché va sovvertito un forte pregiudizio che vede gli operatori della cooperazione come ortogonali al settore della sicurezza; perché spesso gli aiuti, attraverso la creazione di strutture parallele, indeboliscono le istituzioni formali di un paese (in Mali, ad esempio il 13% del Pil nazionale viene dai donatori internazionali), e perché in questi paesi esperimenti di questo tipo hanno fallito precedentemente (l’impreparazione dell’esercito maliano e poi il colpo di stato del 2012 hanno colto di sorpresa soprattutto gli Stati Uniti che avevano un programma di cooperazione nell’ambito del controterrorismo con il paese dal 2005).
Ma questo terreno è decisivo. In paesi come la Tunisia, il Libano o la Giordania, invece, dove la minaccia terroristica sta colpendo soprattutto le economie (il 7% del Pil tunisino deriva dal turismo; le esportazioni dal Libano alla Siria si sono ridotte di un quarto in questi anni di guerra secondo le stime della Banca mondiale) serve ripensare a strumenti di cooperazione economica e di incentivazione degli investimenti che stiano a metà strada tra i tradizionali aiuti allo sviluppo e le politiche commerciali che dovrebbero aprire ai nostri prodotti i mercati in quella regione.
Si tratta di immaginare da un lato strumenti pubblici che assicurino le imprese dei paesi occidentali contro il rischio instabilità; di pensare a programmi di cancellazione del debito per questi che sono paesi a medio reddito (e quindi non hanno beneficiato delle iniziative di remissione del debito); e infine di sviluppare programmi di graduale ma costante apertura dei nostri mercati, che aiutino a rafforzare quei settori produttivi che creano occupazione.
Infine, serve rivedere il modello di cooperazione politica con i paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Prima delle primavere arabe, pensavamo che le autocrazie garantissero la stabilità. Il crollo di questi regimi ci ha restituito la fragilità della nostra intuizione. Gli esperimenti democratici dopo le primavere arabe dell’Egitto o della Libia, peraltro falliti, non hanno impedito il moltiplicarsi di tensioni e conflitti. Fa eccezione solo la Tunisia.
Occorre quindi trovare capacità di dialogo per influenzare a più livelli (istituzionale, civile, mediatico) le transizioni dei paesi del Mediterraneo verso sistemi democratici. L’attribuzione del premio Nobel per la pace al Quartetto per la Tunisia certifica che le transizioni di successo sono tali solo se coinvolgono la società tutta. Reimpiantare su presupposti diversi il dialogo significa, ad esempio, dissuadere l’Egitto, che è un alleato cruciale, dalle azioni di forte repressione che perpetra, perché rischiano di contribuire alla destabilizzazione interna. Ugualmente, nel dialogo con un’altra potenza regionale come la Turchia, dobbiamo essere in grado di non accettare lo scambio tra il non vedere i gravi episodi di violenza interna durante la campagna elettorale e la disponibilità a gestire due milioni e mezzo di profughi siriani.
Solo se riusciremo a sviluppare strumenti efficaci di politica estera saremo in grado di mantenere questi paesi dentro un argine di ordine internazionale, evitando che sprofondino nel caos e si trasformino in un’altra Libia o in un’altra Somalia.

A Betlemme in arrivo un nuovo muro: a rischio il vigneto più antico


ANTONIO MASCOLO
La Repubblica 24 novembre 2015
Non c'è atmosfera natalizia nel cuore della cristianità, tra la crisi e la paura dell'intifada dei coltelli ed una nuova separazione alta 8 metri:  dividerà dalla Palestina i vigneti del Cremisan definiti i più antichi del mondo e gestiti in un convento di salesiani dal 1885.
E' quasi Natale ma non sembra. I restauratori italiani della Basilica della Natività, lavorano tranquilli. Non ci sono masse di turisti a curiosare tra colonne "ingessate" col legno, tra mosaici che tornano al loro splendore. I restauratori della Piacenti, a un mese dal 25 dicembre, lavorano senza quelle piccole continue interruzioni che dovrebbero essere tipiche dei luoghi turistici di livello mondiale. Qualche luminaria c'è, anche Babbi Natale di plastica, ma i negozi di souvenirs sono atrocemente vuoti.
Anche al Caritas Baby Hospital proprio sotto il muro di Betlemme, l'unico ospedale pediatrico della zona,  ci sono meno bambini e non che le patologie siano diminuite in Palestina. E' l'effetto della paura e della "intifada dei coltelli", delle violenze quotidiane.
Dice suor Donatella Lessio delle elisabettine che da 10 anni tutti i venerdì celebra un rosario sotto il Muro che divide Betlemme da Gerusalemme: "Bisogna aver speranza anche se è sempre più difficile per i ragazzi di qua che ormai ogni pomeriggio disperati, annoiati, vanno con le fionde a lanciare innocui  sassi contro il muro e vengono contrastati con lacrimogeni , gas urticanti, con la forza militare.Eppure per i pellegrini non ci sono pericoli, venite in questa terra martoriata"
Rony Tabash  è un personaggio, ha una  voce straordinaria, ha cantato davanti al Papa e ha un negozio a fianco della Grotta dove è nato Gesù: "Guardiamo al futuro non può essere peggio del presente". Ibrahim Faltas il francescano della Custodia di TerraSanta , venne anche sequestrato anni fa nell'assalto alla Basilica di Betlemme, si limita a dire: "Qui la gente sta veramente male, rischiamo di essere dimenticati dal mondo e da troppi". Già ora tutti guardano all'Is e si scordano questo scontro antico che ormai viaggia verso i 70 anni di battaglie quotidiane.
Come se non bastasse, questo Natale sta portando avanti un altro pezzo di Muro, è il caso di dirlo, nel cuore della cristianità. Il Patriarcato latino di Gerusalemme ha definito il Muro che sta per essere terminato nella valle del Cremisan  "un insulto alla pace". Sono stati sradicati ulivi centenari a Bir Onah, costruite superstrade a tempo di record ancora prima del pronunciamento della Corte suprema che autorizzava in via definitiva i lavori. La casa di un contadino, ad esempio, è stata di fatto "sepolta" e solo dopo le proteste è stato costruito un tunnel che permette agli abitanti di uscire dalla loro abitazione e dalla loro terra ( vedi foto).
La valle del Cremisan è un luogo particolare tra Beit Jala e la biblica Har Gillo. Qui dal 1895 i salesiani producono un vino grazie alle vigne, oggi di una cinquantina di contadini. Un vino non solo da Messa (nome di una bottiglia che va per la maggiore), un vino importante che negli anni ha richiamato l'attenzione anche dell'enologo  Riccardo Cotarella. "Produciamo 150 mila bottiglie l'anno -spiega il direttore della cantina Ziad Giorgio Bitar- abbiamo ridotto  il numero per premiare la qualità e puntare anche alla esportazione". Questo del Cremisan da molti viene chiamato il vigneto più antico del mondo. Per questo fazzoletto di terra ci sono state decine di manifestazioni, il Vaticano per anni ha  impiegato i migliori avvocati italiani e non solo.Gli appezzammenti da palestinesi diventeranno israeliani.
Di fatto da agosto c'è il via libera  dell'Alta corte israeliana per la costruzione del Muro  sulle vigne del Cremisan. Una struttura alta 8 metri più filo spinato, torrette, luci, telecamere check-point. Per il vescovo William Shomali , vicario del Patriarcato latino di Gerusalemme: "L'impressione - ha dichiarato alla agenzia Fides- che non si sia mai rinunciato ad appropriarsi di quei terreni del Cremisan, per avere un'area in cui potere allargare gli insediamenti israeliani di Gillo e Har Gillo costruiti anch'essi su terre sottratte alla città palestinese di Beit Jala, Questa era  l'intenzione fin dall'inizio, l'obiettivo cui si mirava anche prima dei pronunciamenti della Corte e a questo si è arrivati ad ogni costo" .
Non c'è pace tra le vigne e gli ulivi della Palestina. In quella che viene chiamata "Terra santa" se le danno di.. santa ragione anche nelle aule dei tribunali. Da un parte le ragioni di sicurezza , dall'altra la sopravvivenza e l'essere invasi.
Arriva il Natale e nemmeno il vino della messa è fuori dalla guerra tra due popoli
 

lunedì 23 novembre 2015

La prima neve in Appennino ha ispirato una lettera aperta al Segretario del Pd Matteo Renzi.


23 novembre 2015
Matteo Richetti
Caro Matteo,
io credo che non ci siano mai tempi e modi sbagliati per l’amicizia. Anche l’amicizia politica. Mi hanno rinfacciato l’errore di tempi e modi sbagliati circa le mie recenti riflessioni sul partito. E allora prendo carta e penna e provo, senza giornali e tv, a chiarire le preoccupazioni che animano questo tempo e il mio impegno, direttamente, ma anche apertamente, a te.
Così sgombriamo il campo dalle ridicole (o misere) ricostruzioni retroscenistiche che proprio non riusciamo ad evitare: “Richetti contro Renzi”, “Richetti varca il Rubicone”, “i cattodem, cattorenziani, diversamente renziani” e tutte le baggianate scritte e inventate.
Abbiamo fatto insieme il pezzo di strada più entusiasmante del mio impegno politico e di questo non posso che essertene grato. Ancora oggi sono profondamente convinto del sostegno e del contributo all’azione di Governo che stai guidando. Puoi immaginare la soddisfazione di vedere prendere forma alle cose che spesso, anche la domenica pomeriggio o nei giorni di riposo, abbiamo tratteggiato tra Palazzo Vecchio e qualche sede di fortuna trovata qua e là in giro per l’Italia.
Io, poi, ho avuto la fortuna di vedere sgorgare tutto questo dalla sorgente. Ho avuto la fortuna di sentire da vicino la passione e l'incredibile determinazione che ti hanno sempre mosso. Nessuno come me sa che non c’è finzione e improvvisazione nel tuo modo di essere. Qualcuno può pensare che Renzi che parla di bellezza sia un attore che "liscia il pelo" al Paese: io so che chiunque abbia varcato il portone di Palazzo Vecchio, prima del motivo dell’incontro si è beccato il Sindaco che, volere o volare, non conteneva il suo amore per il Vasari, la Battaglia di Anghiari o quel dipinto che stava alle spalle della tua scrivania e i cui dettagli non mancavi di spiegarmi ogni volta. Nessuno come me sa che Renzi che ragiona su democrazia, istituzioni e Costituzione non lo fa con leggerezza e disinvoltura: tante volte ti sei perso nel raccontare l’onere non cronologico del succedere a sindaci come Giorgio La Pira e come di questa considerazione fosse intriso il tuo impegno.
Ho conosciuto il Matteo Renzi che non sopportava tattica e furbizia, doppiezza e falsità. Per questo mi ostino a non usarne con te.
Hai portato il Partito Democratico ad un consenso insperato e inaspettato. Si può arretrare solo se adesso non siamo all’altezza delle aspettative. I nostri elettori, le persone che spendono energie e passione nel partito, i tanti bravi amministratori locali sono pronti a fare la propria parte nella costruzione del nuovo: nuova classe dirigente, nuovo orizzonte, nuovo linguaggio, nuova idea di politica e servizio. Non basta gettare tutto in pasto alle primarie, che non hanno poteri taumaturgici in sé. Noi abbiamo l’onere di sostenere il cambiamento. Farlo sedimentare. Renderlo forte e duraturo. In politica non sempre vincere significa avere ragione. E tu lo sai meglio di chiunque altro.
Se ad un appuntamento elettorale si presenta un giovane, capace e preparato sindaco di provincia contro un discusso dirigente dell’apparato al quinto incarico politico, io non credo che uno valga l’altro. E se è legittimo affermare che il candidato è chi vince, noi abbiamo l’onere di sostenere ciò che fa bene al Pd e al Paese. Non stare a guardare. Perché vedi Matteo, abbiamo sottovalutato la capacità di resistenza delle dirigenze locali al cambiamento. Che certo deve avvenire con processi democratici e partecipati ma che noi dobbiamo supportare. Quante persone che ci hanno accompagnato e sostenuto sono state lasciate sulla porta o addirittura fuori dal Pd? Quanta Leopolda è stata costretta ad una civica nel proprio paese perché il Pd si è chiuso a riccio dalla paura? E ti chiedo, non è anche un nostro problema?
Ci sono ancora troppi potentati locali che resistono. Sia chiaro, le cose si conquistano, ma le contraddizioni sui territori hanno un peso anche sulla credibilità complessiva del Pd.
Sarebbe sciocco pensare che il Segretario da solo, peraltro Presidente del Consiglio, possa seguire da solo il partito. Hai una responsabilità immensa, in un momento tra i più drammatici della storia italiana, europea e mondiale. Per questo serve una squadra forte, con un mandato pieno e riconosciuto e che possa accompagnare processi virtuosi sui territori. Tranquillo, non mi candido e penso che ci siano tante persone autorevoli che possono aiutarti in questo lavoro, in parte anche già presenti nella segreteria nazionale. Ma serve un rilancio profondo che soprattutto non si limiti a tenere l’esistente, ma riesca a tornare ad entusiasmare quella larga parte di società che è stata determinante per iniziare questo percorso.
E poiché questo percorso deve continuare, io farò quello che è nelle mie responsabilità: durante la settimana a Roma a sostenere l’impegno parlamentare e di governo e nei week end a portare gallette e rifornimenti alle truppe nella periferia del Pd. Cioè dialogo e incontro a chi chiede solo di essere ascoltato e coinvolto, ma che fa paura a chi lo vede come una minaccia se tutto è pensato in funzione di qualche carriera personale.
Nessuna corrente (di correnti che ti sostengono ne hai pure troppe), nessun Rubicone (quello lo varco solo per un bicchiere di Sangiovese), nessun tour di Richetti (di colleghi che fanno iniziative sui territori per fortuna è pieno il Pd). E soprattuto nessun percorso personale. Io un candidato alla segreteria nazionale del Pd ce l’ho già e si chiama Matteo Renzi.
Buon lavoro, ché gli italiani ci aspettano.
Ci vediamo alla Leopolda, con stima, Matteo.

“Rottamazione fallita, il Pd è senza identità. Renzi deve ascoltarci”


francesca schianchi
La Stampa 21 novembre 2015
Richetti chiede un cambio di passo nella gestione del partito.
«Mi faccia dire chiaramente una cosa: non ho nessuna intenzione di attaccare Renzi, né di cambiare idea sul percorso fatto insieme», è la premessa del deputato dem Matteo Richetti, renziano della prima ora. Detto questo, però, «non credo sia onesto, nemmeno nei confronti di Renzi, nascondere problemi che sono evidenti anche all’ultimo degli iscritti al Pd». 
Quali problemi?  
«Mentre sull’azione di governo c’è la percezione che, dopo anni, finalmente qualcosa si stia muovendo nel verso giusto, nel partito il momento di suo massimo consenso coincide con il momento di massimo smarrimento». 
Cosa intende dire?  
«Il Pd non è più di nessuno: non di chi ha sostenuto Renzi, che vede candidati e dirigenti in totale continuità col passato, con la “ditta” tanto criticata, e non di chi ha contrastato Renzi e ritiene che la sua gestione del partito non abbia niente a che fare con la sinistra. L’identità del Pd è fortemente minata». 
Addirittura?  
«Le candidature messe in campo dal Pd sotto la nostra gestione – dalla Calabria alla Puglia alla Toscana – non hanno risentito dell’innovazione che ci si aspettava: si sarebbe dovuto valorizzare qualche bravo sindaco in più e qualche dirigente in meno». 
Insomma, la rottamazione nei territori è fallita.  
«Rottamazione è un termine che non mi è mai piaciuto molto. Diciamo che sta riuscendo la rottamazione delle prassi sbagliate, come la “supplentite” nella scuola, mentre sulla classe dirigente abbiamo l’onere di offrirne una al Paese che ancora non si vede prendere forma». 
Di chi è la responsabilità se non del segretario Renzi?  
«Se c’è una responsabilità sua è che il governo del partito dev’essere più condiviso. Guerini e la Serracchiani (i vicesegretari, ndr.) stanno facendo un lavoro straordinario, ma la forza di Renzi spesso si traduce nell’attesa che l’oracolo si esprima. È ora di dirigenti nuovi che governino i processi, di una segreteria che sia un costante riferimento per i territori e intervenga sulle questioni con criteri chiari e senza ambiguità». 
È fiducioso che avvenga?  
«Non credo che la forza propulsiva di Renzi sia esaurita: certo, se a Napoli il candidato sarà Bassolino, sarà il funerale della rottamazione». 
A proposito di Napoli: secondo lei, che si ritirò dalle primarie per un’indagine (finita poi con un’assoluzione), De Luca si dovrebbe dimettere?  
«Fossi in lui non mi sarei mai candidato, ma discutere oggi di dimissioni mi fa sorridere, la situazione non mi sembra molto diversa da quando si è candidato. Con De Luca abbiamo vinto in Campania, ma quella vicenda rischia di essere perdente nelle altre 19 regioni, dove quest’ambiguità non è compresa». 
Ma qual è il criterio nel Pd quando si è sotto indagine? Si deve fare un passo indietro o no?  
«Il punto fermo è la Costituzione: si può impedire a qualcuno di candidarsi dinanzi a una condanna definitiva. Il resto attiene a una sensibilità personale, che il Pd deve avere però come patrimonio condiviso: non si mette in difficoltà il partito. Il Pd sarà maturo quando non si affiderà alla sensibilità dei singoli, ma a una regola non scritta per cui le istituzioni vengono prima dei percorsi personali». 
Lei ha chiesto in passato a Renzi anche di fare chiarezza sul ruolo di Verdini al fianco del Pd...  
«Chiedo ci sia una distinzione chiara tra le esigenze della legislatura e delle riforme, e quelle del progetto politico, che non può essere snaturato da tracce di berlusconismo». 
C’è stata questa parola di chiarezza?  
«Io non ho sentito nulla, se non il fastidio per le mie parole: e questo, da chi stimo e apprezzo come Renzi, mi dispiace». 
Scusi, ma lei è ancora renziano?  
«Più di prima: l’ultima proposta di legge che ho presentato, per abolire i vitalizi dei parlamentari e passare al ricalcolo contributivo per tutti, è quanto di più renziano si possa produrre». 
Andrà alla Leopolda anche quest’anno?  
«Ci rifletterò, lì sono sempre a casa». 

giovedì 19 novembre 2015

Parigi

Riccardo Imberti
In questi giorni, con gli accadimenti di Parigi, i fatti di casa nostra passano in secondo piano. La Francia, ma più in generale tutta l'Europa, è attraversata da un sentimento di paura senza precedenti. I fatti accaduti a Parigi ci dicono che la minaccia del terrorismo è palpabile e che ogni Paese Europeo può essere preso di mira. Il terrorismo può colpire nei luoghi più svariati e quindi difficili da tutelare. 
La reazione del mondo non si è fatta attendere e, a partire dal G20 in Turchia, pare che si stiano riallacciando i rapporti fra Usa e Russia e questo può essere un processo utile a sconfiggere la grave minaccia dell'Isis.
Ragionando a voce alta e a caldo credo che la reazione della Francia sia comprensibile, ma occorra di più e altro rispetto all'uso della forza. Basta guardare indietro per capirlo. In questi difficili anni l'Iraq, l'Afganistan, la Libia, per citare i casi più conosciuti, dopo i bombardamenti che hanno scalzato e ucciso i dittatori, sono diventati una polveriera. Ciò che emerge con tutta evidenza è che la cacciata del despota non basta. Quei fatti ci suggeriscono di non commettere gli stessi errori, di comprendere che la situazione è molto complessa e proprio per questo esige una riflessione approfondita su quale possa essere la strada più efficace per far fronte a questa terribile ondata di terrore.
La prima questione riguarda ciò che è avvenuto in questi anni con le esportazioni di armi convenzionali da parte dell'occidente, Francia e Italia compresi, verso gli Emirati Arabi Uniti. In soli dieci anni sono passati da irrilevanti a quasi cinque miliardi di dollari. Tagliare al più presto questo commercio può essere una questione dirimente per contenere i conflitti in Siria e in Iraq. In secondo luogo si devono trovare le alleanze politiche in grado di  costruire percorsi positivi sui processi di governance nei singoli paesi. In terzo luogo vanno richiamate le comunità arabe presenti in tutti i paesi europei perché escano dall'ambiguità dei loro comportamenti. La formula della condanna attraverso i comunicati stampa non basta. Devono essere richiamati a una responsabilità maggiore per denunciare ciò che accade dentro le loro comunità. La loro predicazione, dentro e fuori i luoghi di culto, non deve prestarsi ad ambiguità.
Sono riflessioni di buonsenso e bisogna credere possibile una alternativa all'uso spropositato delle armi che negli anni recenti hanno prodotto solo mostri. In questo senso l'atteggiamento del nostro Governo e di Matteo Renzi mi paiono assolutamente condivisibili sperando che, come in occasione del fenomeno migratorio, sappiano permeare anche il resto dell'Europa.

mercoledì 18 novembre 2015

Il flusso di armi da fermare subito

Raul Caruso
L'Avvenire 18 novembre 2015
All’indomani degli attacchi di Parigi, tra le opinioni e le analisi si fa finalmente spazio anche la critica delle spregiudicate politiche di esportazione di armamenti di molti Paesi occidentali. In breve, nei Paesi che ora temono un’ulteriore espansione dell’Is, con conseguente escalation della violenza terroristica, ci si rende conto di essere stati in prima linea nella fornitura di armi a governi nella regione mediorientale rendendo più facile la recrudescenza dei conflitti in corso e del loro contagio.
Per la verità, a questo proposito lo scenario è complesso ed è difficile da decifrare appieno. Come è noto, i dati ufficiali, offrono solamente un quadro parziale. Le fonti delle armi a disposizione dell’Is non sono esattamente note sebbene esistano fondati ipotesi in merito al sostegno che questo riceve da alcuni Paesi dell’area. Secondo, ad esempio, l’organizzazione non governativa Small Arms Survey, l’Is ha avuto la disponibilità di armi provenienti dall’Arabia Saudita, e la stessa accusa grava anche sul Qatar. Nei fatti, una volta che le armi sono disponibili nei mercati ufficiali, vengono poi esportate di nuovo e introdotte in Paesi e in aree in cui l’esportazione diretta non sarebbe consentita dalla regolamentazione dei Paesi produttori e dagli accordi internazionali. Questo vale in particolare per le armi leggere in quanto facilmente occultabili e trasportabili. Sui campi di battaglia della Siria settentrionale, ad esempio, sono spesso ritrovate armi di produzione russa, americana, cinese e di vari Paesi europei.
In ogni caso, se dubbi esistono in merito ai canali precisi di fornitura di armi a favore dell’Is, non ve ne sono in merito alle forniture legittime ai Paesi dell’area. Negli ultimi anni, infatti, molti Stati mediorientali hanno aumentato in maniera significativa le proprie spese militari. Nello specifico, la regione nel suo complesso ha aumentato le spese militari del 68% in termini reali tra il 2004 e il 2014. In particolare, l’Arabia Saudita ha aumentato la propria spesa militare del 156%, gli Emirati Arabi Uniti del 114%, l’Iraq del 344%, il Qatar del 64% e la Turchia del 9%. In Siria tra il 2004 e il 2011 essa era aumentata del 7%.
Tale tendenza ha generato commesse militari di cui hanno beneficiato molti Paesi europei. L’Istituto di Stoccolma di ricerca sulla pace (Sipri), fornisce i dati del commercio di armi convenzionali, utilizzando una misura in dollari per cui è possibile operare una stima dei volumi di armi consegnati sebbene questa non corrisponda esattamente ai prezzi di vendita reali.
A partire dal 2007 la Francia ha consegnato armi per un valore equivalente a cinquecento milioni di dollari all’Arabia Saudita, al Qatar per un valore di poco superiore ai centodieci milioni, e per il periodo 2000-2014 agli Emirati Arabi Uniti per quasi quattro miliardi e settecento milioni di dollari. La Germania fino al 2007 esportava una quantità trascurabile di armi convenzionali all’Arabia Saudita, ma tra il 2008 e il 2014 le esportazioni tedesche hanno raggiunto il valore di trecento milioni di dollari. Analogamente, tra il 2005 e il 2014 le consegne di armi tedesche verso Turchia ed Emirati Arabi Uniti sono state rispettivamente pari a due miliardi e a centottanta milioni di dollari. Anche le imprese italiane hanno aumentato in maniera significativa le esportazioni verso i Paesi del medio-oriente.
Le esportazioni di armi convenzionali verso gli Emirati Arabi Uniti ad esempio, erano pari a zero solo una decina di anni fa, mentre nel solo 2013 sono arrivate a più di trecento milioni di dollari. Nel periodo 2009-2013 armi per un valore equivalente a quasi cento milioni di dollari sono state consegnate al Qatar e alla Turchia per circa 350 milioni. Se guardiamo alle armi leggere, secondo l’Istituto di ricerca sulla Pace di Oslo (Prio), nel solo periodo 2010-2013 verso l’Arabia Saudita ne sono state esportate dall’Italia per un valore effettivo di più di quattordici milioni di dollari.
Questo breve quadro contribuisce a chiarire come la quantità di armi è aumentata in maniera sostanziale in pochi anni. Come stupirsi, quindi, della recrudescenza dei conflitti in Siria, in Iraq e in altre parti dell’area. È chiaro che una più severa regolamentazione del commercio di armi a livello globale è quindi il primo indispensabile passo per mitigare i conflitti in corso. Inoltre, i Paesi dell’Unione Europea che in queste ore cercano di coordinarsi su un’azione militare comune dovrebbero prima di tutto confrontarsi sul fatto che molte imprese produttrici di armi sono di proprietà pubblica. Nel momento in cui le nostre democrazie si sentono minacciate, è ora di abbandonare la via di questi affari insensati, disinvestendo dalle industrie militari per contribuire a disinnescare gli incentivi alle guerre in regioni a noi pericolosamente vicine.

lunedì 16 novembre 2015

"Ecco chi finanzia il Califfato"


Franco Cardini intervistato da Luca Steinmann
L'Espresso 16 novembre 2015
In questo momento così delicato per gli equilibri del Mediterraneo abbiamo intervistato una delle voci più auterevoli. Franco Cardini è il Direttore del Centro di Studi sulle Arti e le Culture dell’Oriente dell’Università Internazionale dell’Arte di Firenze e storico di fama mondiale.
Dalla strage di Charlie Hebdo all'attentato di Sousse è evidente che l'Europa ha la guerra dell’Is in casa. Quali sono le responsabilità dell’Occidente in tutto ciò?
Sia i governi europei che quello americano hanno delle responsabilità non solo recenti, ma che iniziano nel periodo post-coloniale del Medio Oriente. Il peccato originale fu quello di voler fare delle vecchie colonie dei nuovi protettorati economico-finanziari. Gli inglesi soprattutto tentarono di mantenere de facto il controllo di quelle zone, negando l’anima islamica di quel mondo e a seguito di ciò nacquero i primi movimenti islamisti, come i Fratelli musulmani in Egitto. Da allora fino ai nostri giorni le forze occidentali hanno trattato strumentalmente il mondo islamico, facendo i propri interessi. Ancora oggi si pensa che il fondamentalismo sia strumentalizzabile. Gli Stati Uniti, per esempio, favorirono lo stabilirsi degli jihadisti provenienti dallo Yemen e dall’Arabia Saudita in Afghanistan durante la guerra contro l’Unione sovietica, per trasformarla in una guerra santa anti-russa. Essa fu vinta, ma gli jihadisti rimasero e formarono il movimento dei talebani che fino a metà degli anni Novanta fu appoggiato da Washington. Poi i talebani si svincolarono avvicinandosi alla Cina, cosa che ha portato all’11 settembre e a tutte le conseguenze che oggi abbiamo sotto gli occhi.
Cos’è mancato invece all’Europa nella comprensione del mondo arabo e dei paesi che si affacciano sul Mar Mediterraneo?
L’Europa non ha capito cosa realmente stia succedendo. In molti pensano che l’unico nemico del Califfato sia l’Occidente. Ciò è errato e i fatti di questi giorni lo mostrano chiaramente. La maggior parte delle vittime sono infatti di religione musulmana. Gli attentati in Kuwait e Somalia mostrano una forte lotta che è in corso tra sciiti e sunniti, oltre che tra jihadisti e moderati. C’è in atto una guerra civile all’interno del mondo islamico che spinge migliaia di persone in bocca ai fondamentalisti, molti dei quali offrono un programma sociale ed economico fondato sul prestito senza interessi delle banche islamiche che attrae tantissimi giovani. Quello che l’Europa non ha capito è che non c’è solo fanatismo violento, ma anche proposte di alternativa al mondo occidentale. 
Esistono invece proposte di alternativa al mondo occidentale anche tra i cosiddetti islamici moderati?
Esistono, per esempio nel socialismo arabo che si ispira a Nasser che oggi è ripreso dal presidente della Siria Assad e che era stato fatto proprio da Saddam Hussein e Gheddafi. Certo Saddam e Gheddafi  erano  dittatori sanguinari, ma mettevano in prima istanza l’appartenenza nazionale e non la religione e mantenevano uno stato sociale fatto di scuole, università, assistenza e comunicazione che strappava i giovani dall’estremismo ed erano per questo un argine contro il Califfo. Di fatto erano in grado dimantenere la pace. Oggi Assad, che è l’unico ancora in vita, è inviso dall’Occidente perché amico dell’Iran e nemico della Turchia che è membro della Nato. E’ qui il grande problema: paesi come Turchia e Arabia Saudita sono alleati dell’Occidente che però combattono Assad e di conseguenza favoriscono l’Is.
Chi sono dunque i veri alleati dell’Is? E da dove prende i soldi?
Esistono delle complicità finanziarie e economiche tra il Califfato e alcuni stati alleati dell’Occidente, tra cui Turchia, Arabia Saudita e Qatar. Quello che l’Is sta facendo al livello geografico è di ridisegnare il territorio di Iraq e Siria a favore dei paesi citati e a discapito di Assad. Il Califfo però è sempre più forte, tanto da poter porre le condizioni ai propri alleati. Vuole essere l’unico rappresentante dell’Islam radicale e sta tentando di egemonizzare il mondo islamico sotto la sua guida. Nel Medio Oriente sta incontrando difficoltà grazie alle resistenze di Assad e dei curdi, ma sta ottenendo grandi consensi in Africa, dove gli stati sociali sono meno sviluppati se non inesistenti, come in Somalia. Non è un caso che sia in quelle regioni che abbiano origine i flussi migratori che sbarcano sulle nostre coste.
Immigrazione e diffusione del Califfato sono dunque collegate. Quali sono le contromosse con cui bisognerebbe rispondere?
La guerra si vince con l’intelligence e non con i bombardamenti a tappeto. E’ una guerra prima di tutto ideologica da vincere con il soft power e non con le dimostrazioni di forza. Chiudere 80 moschee in Tunisia, come è avvenuto, fa il gioco del Califfo, al quale si regalano simpatie. Fare lo stesso in Italia, come ha suggerito una certa stampa di destra, vorrebbe dire aumentare il rischio. Il Califfo sta alzando il tiro perché vuole che i governi occidentali rispondano con misure dure e indiscriminate come queste che gli porteranno consensi. Più la tensione si alza, più porterà avanti politiche di crudeltà per indurre a reazioni sbagliate. Dicono bene Obama e Papa Francesco quando invitano al dialogo con l’Islam moderato.
Alcuni politici invitano a una nuova crociata contro l’Islam. 
Le conseguenze di ciò le abbiamo già sperimentate con la dottrina Bush, che prevedeva l’identificazione di un grande nemico per giustificare il proprio espansionismo geopolitico. Quando ha identificato il nemico nell’Islam ha invocato a una nuova guerra santa, esattamente come fa oggi il l’Is. Parlare di guerre sante e di soluzioni indiscriminate è sbagliato dall’una come dall’altra parte. Bush attaccando il mondo islamico ha fatto il gioco del Califfo, che tagliando gole fa il gioco della dottrina Bush. Leggo con preoccupazione che essa sta tornando ad essere maggioritaria all’interno del Congresso americano. L’Is va combattuta militarmente, ma agli islamici moderati va aperto il dialogo, altrimenti ci troveremo sempre più jihadisti in Europa.
In Europa la politica di destra ritiene sia possibile che gli jihadisti si mimetizzino ai migranti sui barconi. E’ possibile?
E’  possibile, ma non dobbiamo dimenticare che le cellule jihadiste in Europa ce le abbiamo già. Purtroppo la destra europea pensa a creare consenso e non a risolvere la situazione. Una soluzione che dovrebbero proporre se volessero tentare di risolvere gli eccessi dei flussi migratori è di individuare i veri motivi per cui queste genti scappano e attaccare i veri responsabili. Uno di questi è certamente il Califfo, ma che riesce a radicarsi in un’Africa resa allo stremo dagli interessi di multinazionali che ne hanno sfruttato le risorse e costretto le popolazioni alla fame.